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Appunti sui Procedimenti Esecutivi delle tecniche artistiche, Appunti di Tecniche Artistiche

Appunti completi e schemi del corso "Procedimenti esecutivi" .

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 07/02/2022

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Scarica Appunti sui Procedimenti Esecutivi delle tecniche artistiche e più Appunti in PDF di Tecniche Artistiche solo su Docsity! PROCEDIMENTI ESECUTIVI Appunti e schemi 1 03 marzo 2020 Procedimenti esecutivi e documentazione delle tecniche artistiche Storia tecnica dell’arte: Si studiano le tecniche utilizzate e come sono state applicate e progettate, inoltre si studia la materia dell’opera per comprendere l’opera d’arte stessa. Lo studio della tecnica e della materia concede di identificare cosa è autentico e cosa non lo è. Tale disciplina integra lo studio di: • Fonti; • Materiali. Trasposizione dell’immagine: avviene in seguito ad una fase di processo creativo dell’artista -> fase di progettazione -> trasposizione sulla materia. L’opera viene analizzata in base a: • Fonti; • Diagnostica; • Storia dell’arte; • Artista; • Produzioni dell’artista; • Committenza; • Storia conservativa; • Luogo di appartenenza. Caravaggio: “Martirio di S. Orsola” - primo restauro: 1600; - secondo restauro: 1973 (Antonio De Mata); - terzo restauro: 2004, quest’ultimo fu più che altro di tipo scientifico in cui si cercò di capire, selettivamente, cosa Mata avesse coperto e perché. Il volto femminile era stato velato (prima era bianco), una mano cancellata, il copricapo dell’omicida era stato coperto così come i fiotti di sangue della santa. Tutti gli interventi di velatura e cancella tura sono stati effettuati perché non compresi; infatti la reale rappresentazione dell’opera vedeva l’intenzione originale dell’autore di voler esprimere phatos ed enfasi. La lupa, grazie all’intervento del 2004, in cui si è intervenuto con micro tasselli e micro fori ove è stata fatta passare una sonda e, studiandone la tecnica esecutiva, è stata smentita l’appartenenza all’epoca etrusca, bensì di attribuzione medievale. Ciò è stato possibile affermarlo perché grazie alla sonda si è visto che l’opera è stata realizzata con la tecnica compositiva della “fusione a cera persa”, tipica del Medioevo e non dell’età etrusca. Un’ulteriore analisi, ha avanzato anche la proposta di attribuzione al XII secolo. La diagnostica è un settore estremamente importante per un’analisi dettagliata dell’opera, non invasiva. Un esempio è la Cappella Peruzzi, a Firenze. Invece, in una delle scene della Basilica di S. Francesco ad Assisi, si nota la figura seduta a dx in primo piano presenta un manto molto diverso da quello degli altri personaggi. Si tratta di un accuratissimo disegno preparatorio dove il colore originale sovrapposto e cioè azzurrite, è andato perduto ed è rimasto dunque solo il disegno. 4 Inoltre, utilizza sempre di più stesure a secco; tuttavia questo, addizionato al passare del tempo, provoca un degrado della superficie pittorica. Ciò significa che quello che noi vediamo oggi è piuttosto consunto, si notano frammenti di pellicola pittorica che non sono più originali, che non riportano più né la cromia né la densità del rapporto volumetrico (luci/ombre) che invece possono essere ancora osservati in altri contesti pittorici. E’ la tecnologia che ci aiuta a rileggere e comprendere le opere offrendo immagini sempre più nitide che mettono in risalto le qualità figurative dell’artista. Attraverso questo sistema, ossia l’indagine diagnostica collegato ad una conoscenza tecnica (come si realizza un dipinto murale, come si procede nella sua esecuzione) e alla comprensione del metodo di lavoro adottato da Giotto, si acquisiscono delle informazioni importanti. Basilica Superiore di S. Francesco d’Assisi -> le indagini diagnostiche sono servite per l’attribuzione delle opere a determinati artisti. Il Maestro d’Isacco, dipinge alcune delle scene situate nel registro mediano della parete destra della Basilica si S. Francesco. Nelle maglie della ricerca di una attribuzione sempre più precisa e una ricostruzione cronologica del cantiere, entra in gioco il problema della tecnica d’esecuzione utilizzato dagli storici dell’arte per sostenere le proprie teorie. Tra questi, uno dei più importanti è sicuramente Bruno Zanardi, citato soprattutto per il lavoro straordinario compiuto sul ciclo pittorico giottesco ricostruendo il metodo di lavoro (che va dalla stesura degli intonaci fino alle ultime pennellate). Le modalità esecutive, ossia il modo in cui Giotto e i suoi collaboratori hanno costruito volti, panneggi, disteso il colore. Propone così di non attribuire a Giotto le scene del cosiddetto maestro d’Isacco trovando una maggiore sinergia invece con le modalità esecutive di Cavallini. Bisogna sempre guardare un’opera non soltanto nella sua forma di immagine, ma anche entrando sempre di più nella dimensione della matericità dell’opera. Tale materia viene utilizzata dall’artista e trasformata in immagine; spesso infatti la sigla stilistica di un determinato autore sia in realtà un elemento che appartiene alla tecnica esecutiva e al modo con cui utilizza i materiali per realizzare un’opera. PANNEGGIO -> Figura a dx nella scena tratta dal ciclo francescano della basilica superiore di Assisi. -> La figura, che appare ben costruita e morbida nell’uso del panneggio è in realtà una figura priva degli strati finali della pellicola pittorica, dunque solo un disegno preparatorio molto dettagliato sul quale era stato steso uno strato di azzurrite a secco. L’azzurrite è un pigmento che si stende esclusivamente a secco perché tende a diventare verde quando entra a contatto con l’umidità e soprattutto con la basicità della calce, materiale principale che compone gli intonaci dell’affresco. Significato dello studio della tecnica artistica: Sappiamo che si dipinge dall’alto verso il basso e da dx verso sx ma in realtà, le analisi delle giornate o delle stesure delle puntate o ancora la stesura degli intonaci preparatori per i dipinti murali, hanno mostrato nel corso del tempo che ci sono moltissime eccezioni. Per esempio vi sono cicli pittorici in cui si inizia dal centro e poco per volta ci si allontana verso dx o sx dispiegando l’andamento delle giornate. In cantieri particolarmente grandi e articolati ci possono essere quelle che vengono definite come giornate contestuali, ossia delle squadre di artisti che stendono l’intonaco sulla stessa parete ma in punti diversi nello stesso momento, lo stesso giorno, quindi all’interno della stessa giornata lavorativa. Esistono dei punti di riferimento nella storia delle tecniche artistiche ma non è possibile prendere tutte le informazioni come dei postulati; bisogna infatti sempre passare dall’informazione che noi conosciamo all’osservazione dell’opera che abbiamo davanti. 5 L’attenzione verso il materiale nasce soprattutto in ambito inglese a metà dell’800 perché a seguito di un incendio che ha colpito Westminster si deve ridipingere e si cerca di capire quale fosse la tecnica murale utilizzate per ripristinare i dipinti anche con la stessa tecnica d’esecuzione originale. L’attenzione è posta soprattutto sull’uso dell’olio sui dipinti murali e per approfondire questi aspetti e comprendere come sia stato realizzato il dipinto e da dove provenisse la tecnica della pittura ad olio. Si iniziarono a studiare le fonti già note nelle edizioni settecentesche, come: 1 → Il Manoscritto di Lucca, edito da Muratori nel 1738; 2 → Il Testo d’Eraclio scoperto nel 1781; 3→ Teofilo, per il quale era stata data una parziale presentazione nel 1774. 1 → Ricettario scritto in latino, che in realtà è il risultato di una collazione di diverse opere; 2 → Ricettario collegato a diverse forme artistiche; 3 → Trattato in cui oltre a parlare dei materiali, descrive anche il procedimento esecutivo, dunque “accompagna” un ipotetico allievo nella realizzazione di opere d’arte. L’esame di queste fonti porta Eastlake e poi la Merrifield a lavorare soprattutto attorno al problema della pittura ad olio. Ad entrambi, va il merito di aver affrontato il tema osservando delle opere e ritrascrivendo le fonti cercando di coniugare i due aspetti cioè quello della lettura materiale dell’opera e quello che trasmettono le fonti. Quest’ultime sono un punto di riferimento indispensabile. Tuttavia, anche nelle fonti possono esserci delle situazioni poco chiare. Una fonte viene compilata da persone abili nella scrittura che però non conoscono ciò che stanno scrivendo, dunque copiano da altre opere mettendo insieme precetti che vengono da fonti diverse in una sequenza che spesso potrebbe essere errata. Lo studio degli storici delle fonti di quella che poi diventerà anche letteratura artistica hanno, già nell’800 il merito di rileggere le fonti cercando di capire quanto fossero realistiche rispetto alle opere d’arte potendo contare anche sulle prime indagini scientifiche che venivano condotte in questo campo. Lo studio delle fonti ha aspetti importanti perché arrivano in un momento storico culturale importante, cioè una sorta di riconsiderazione della pittura a tempera avviato in Germania e Inghilterra da parte dei pittori nazareni dai pre-raffaelliti. Questi pittori fanno riferimento, come fonte, al Libro dell’arte che è la fonte principale di spiegazione per moltissimi artisti. Per gli studiosi odierni, il libro dell’arte costituisce il punto di riferimento fondamentale utile a comprendere la tecnica dei pittori medievali e in particolare Giotto. Questo libro presentava già numerose edizioni, la più importante per noi è quella di milanesi del 1859 perché è una trascrizione molto fedele, tradotto in moltissime lingue. La lettura delle fonti si affianca ad una sperimentazione nei confronti del fare pittorico, la riscoperta dei materiali che tra gli anni venti, trenta consiste nella riscoperta delle tecniche antiche trova degli spazi di lavoro molto interessanti all’interno delle accademie. L’accademia di belle arti di Monaco è uno dei centri dove non solo si studiano le fonti, si realizzano opere con le tecniche dell’antichità, ma si studiano anche i materiali pittorici. Max Doerner → docente che si occupa di proporre dei corsi sui metodi pittorici e possiamo definirlo come il pioniere dell’insegnamento delle tecniche artistiche infatti è a lui che si deve l’impulso che viene dato alle ricerche sulle tecniche, ed è sempre a lui che si deve l’edizione del volume (scritto in tedesco e tradotto in inglese) sui materiali degli artisti e il loro uso in pittura con delle note tecniche sugli antichi maestri. Questo diventa un testo di riferimento per molti artisti tra i quali Giorgio De Chirico che ha frequentato in prima persona il dibattito all’accademia di belle arti di Monaco. 6 In Europa dunque, Monaco fa da centro precursore per trasmettere il sapere che Merrifield e Eastlake avevano iniziato a proporre attraverso la rilettura delle fonti collegata alla lettura delle opere d’arte. Gli artisti dell’accademia, insieme a Doerner trasformano questo sapere in un’azione per la creazione dell’opera d’arte. Altro centro essenziale in quest’ambito si trova invece oltre oceano, nel cosiddetto “gruppo di Harvard” un momento estremamente prolifico di attività intrecciate in uno dei centri di ricerca più importanti ancora oggi. Lavorano insieme storici dell’arte (Forbes, Sachs, Burroughs), tecnici (il chimic Gettens) e conservatori (Stout) in un centro di ricerca che collega il Fogg Museum con l’Università di Harvard (anni 20 del ‘900). Insieme mettono a punto un metodo che coniuga gli aspetti di carattere tecnico-scientifico con quelli di carattere umanistico lavorando insieme sulle opere. A Gettens si deve, per esempio, una pubblicazione sulle radiografie dei dipinti (1938), in anni in cui la tecnologia applicata all’indagine diagnostica è in fase di avvio. Le radiografie, furono effettuate “a tappeto” su più dipinti come strumento di conoscenza, per vedere quello che si poteva leggere oltre la pellicola pittorica; acquisendo così informazioni importanti sulle opere. La storia dell’arte non si insegnava soltanto guardando le fotografie (anche perché era raro trovare classi che avessero a disposizione un elevato numero di foto, nonostante Harvard fosse tra le più fornite). Fino agli anni settanta, ottanta del ‘900, anche in università si studiava sulle raccolte fotografiche andando in fototeca, che venivano organizzate per autori. Solo dagli anni novanta si inizia a studiare direttamente all’interno dei musei a stretto contatto con l’opera d’arte. In America tutto ciò iniziò molto prima grazie all’attualità di Forbes che insegnava “metodi e processi della pittura italiana”, questo corso veniva chiamato, in modo più ironico “Egg and plaster course” (ossia corso in cui si lavora con intonaci e uova) perché era un corso in cui si imparava la tecnica di esecuzione, cioè per capire come avevano dipinto gli antichi maestri italiani, seguendo il testo di Cennino Cennini e provando a realizzare ciò che Cennini descriveva. Forbes era talmente interessato ai materiali e al loro uso che era considerato anche un collezionista, infatti collezionò moltissimi pigmenti giunti da ogni parte del mondo che ancora oggi costituiscono la collezione di pigmenti dell’università di Harvard. Alla stessa scuola, in particolare allievo del fondatore del plaster corses vi era Daniel Valery Thompson Jr, al quale si deve la pubblicazione di una serie di opere, tra queste un volume sulla tecnica e i materiali della pittura medievale con una prefazione di Bernard Berenson e anche un’edizione importante del libro dell’arte. (ddu stortu i Cennino). Il lavoro di Thompson segue sicuramente il lavoro del “maestro”, egli insegna a Yale dal 1926 e anche nel suo caso il corso che tiene sulla pittura italiana viene definito “The Cookery of art” per l’uso e la sperimentazione dei materiali durante i suoi corsi. Il volume è importante soprattutto per la prefazione di Berenson perché sdogana l’importanza della tecnica intesa come momento creativo che passa attraverso il procedimento esecutivo. Fino a questo momento, tutto ciò che era tecnico o materico apparteneva al mondo scientifico, invece si inizia ad accogliere anche negli ambienti più titolati il fatto tecnico come un fatto collegato. 9 (1935) ritroviamo una serie di elementi compositivi che provengono dai mosaici si S. Maria Maggiore, S. Vitale e altri mosaici ravennati. Severini → Anche lui guarda ai mosaici antichi, soprattutto quello di S. Maria Maggiore, al quale si ispira per realizzare l’opera del 1958. 11 marzo 2020 Gli esordi, la stagione sperimentale degli anni trenta Altro aspetto importante: il pensiero intorno al gesto artistico passa attraverso l’immagine. Quest’ultima considera soprattutto la filmografia. Il rapporto tra immagine e materia si salda con la nascita del documentario d’arte e del film d’arte. Ancora una volta ci troviamo negli anni trenta e cioè gli anni sperimentali della saldatura tra ricerche, indagini degli storici dell’arte, gli artisti, i restauratori e di chi si occupa di indagini scientifiche. Il film sperimentale degli anni trenta si rivolge alle opere d’arte in una chiave che vuole soprattutto ridefinire l’identità culturale ai fini propagandistici del paese Italia. Tra questi ci sono i film di Alessandro Blasetti (“Assisi” 1932) o di Mario Costa (“Le fontane di Roma”). Questi film rappresentano i primi sguardi nei confronti di un’Italia che riscopre sé stessa attraverso i monumenti, la cultura facendone una “barriera politica”. Accanto a queste esperienze vi sono esperienze che si connettono meglio con l’opera d’arte sviluppando capacità narrative partendo dall’immagine. Alcuni esempi sono: - “Agnello mistico” 1938 di Cauvin → una delle prime opere che sostiene con grande importanza l’attenzione verso il dettaglio pittorico. - Luciano Emmer → produce una serie di racconti filmici partendo dalle opere d’arte. Uno di questi si chiama proprio “Racconto da un affresco”. “Giotto – Il dramma di Cristo”, Luciano Emmer → si nota che questa storia, che parte da un affresco sia raccontata attraverso le immagini del ciclo pittorico di Giotto a Padova. Luciano Emmer dunque costruisce una storia lavorando sull’immagine; il suo racconto che è appunto un racconto da un affresco, è un documentario che costruisce la narrazione intorno ai dettagli delle immagini. Il percorso narrativo viene costruito tagliando dei dettagli dalle immagini su cui ferma la telecamera mettendo su un’abile sequenza di immagini narrate e sottolineate dalla musica di Roman Blad. Questa capacità narrativa che caratterizza l’opera di Emmer è particolarmente apprezzata da Lionello Venturi (storico dell’arte che rimane per moltissimi anni in esilio in America durante la seconda guerra mondiale e sviluppa un’attenzione verso la matericità dell’opera d’arte, verso la diagnostica, grazie al contatto con la scuola di Harvard), che sosteneva l’autonomia artistica di questo genere filmico (documentario d’arte) e ne vede una straordinaria potenzialità proprio per creare una nuova via di accesso alla disciplina storico-artistica, dunque un nuovo modo di saper vedere attraverso l’immagine che passa nel documentario d’arte. Il rapporto tra Emmer e Venturi non è diretto, bensì il contrario, attraverso la lettura delle opere di Venturi, dal momento che quest’ultimo aveva scritto nel 1926 “Il gusto dei primitivi”, volume importantissimo che ancora oggi segna la riscoperta del medioevo e che contribuì a rendere Giotto un caposaldo della pittura italiana e a sottolineare come l’arte sia espressione diretta del sentimento. E’ proprio da questo spunto che Emmer parte per la costruzione del “Dramma di Cristo”. Emmer lavorerà ancora intorno a Giotto, con un documentario che tratta di Cennino Cennini e del procedimento esecutivo medievale dei dipinti murali e su tavola. Emmer sostiene che non si tratta solo di girare un cortometraggio con fotografie di un dipinto, ma vi è anche un contenuto umano, un dramma 10 lineare che avrebbe potuto rivivere nel film. La filmografia di Emmer è particolarmente ampia, poiché realizza altri film d’arte come: - “Guerrieri”, 1943 → si basa sull’utilizzo di immagini di Paolo Uccello, Beato Angelico e altri pittori per costruire una storia legata al gusto della storia dell’arte Venturiana. - “Cantico delle creature” Emmer produce una decina di documentari fino a Leonardo da Vinci nel 1952 in cui emerge un alto grado di sperimentazione pur girando su immagini e fotografie in bianco e nero e raramente su opere d’arte originali. Nel secondo film, partendo dalla vita di S. Francesco d’Assisi fornisce una lettura in chiave diversa del cantico delle creature. Lo stesso carattere estremamente drammaturgico appartiene anche agli artisti francesi come Alain Resnais che nel secondo dopoguerra realizzò: Van Gogh, Gaugin e poi Guernica in omaggio a Luciano Emmer. Egli sperimentò un testo tratto da letterati e interpretato da attori utilizzando le immagini con la tecnica cinematografica proprio per agire in modo più efficace nel racconto della storia dell’arte. Critici e storici dell’arte dunque, si affiancheranno al film d’arte per proporre una lettura della storia dell’arte che utilizza le immagini del film per la sua diffusione con tecniche che saranno diverse. Tutto ciò ha inizio negli anni quaranta e prosegue fino agli anni cinquanta quando molti intellettuali si riuniranno in un progetto internazionale che sancisce l’epoca d’oro del film d’arte. Uno dei prodotti più significative scaturisce da questo interesse è il repertorio dei film d’arte del 1953 che è un catalogo con oltre 1109 titoli raccolti in una mappa che coinvolge trenta paesi tra i quali si trova anche l’Italia come il paese più produttivo. Anche alla mostra di Venezia del 1940 parteciparono anche artisti italiani con dei critofilm o con documentari d’arte. Gli storici dell’arte si cimentano e si confrontano con questo strumento trasformando le lezioni di storia dell’arte in un piccolo documentario. Carlo Ludovico Ragghianti → Storico dell’arte che ha segnato la storia della critica d’arte italiana e che si confronta con il documentario realizzando quelli che definisce come critofilm (ne realizza circa 20), cioè realizzazioni filmiche in cui l’interpretazione dell’opera d’arte è posta attraverso il movimento della macchina da presa, le luci, il montaggio, così da fornire un vero e proprio testo critico realizzato secondo le logiche del linguaggio cinematografico. In questo caso, vi sono dei cambiamenti rispetto al lavoro di Emmer o Resnais, poiché cambia il messaggio che si ha intenzione di comunicare. Si lavora dunque sull’opera d’arte; uno dei primi critofilm realizzati da Ragghianti è la deposizione di Cristo di Raffaello. Lo storico dell’arte racconta la propria esperienza attraverso l’uso della cinepresa che passa sull’opera per spiegarla e renderla fruibile anche a un pubblico più grande. Storici dell’arte come Ragghianti e poi Longhi capiscono che la produzione dei film sia importante per la divulgazione della storia dell’arte. Anche Longhi compie esperienze molto simili a quelle di Ragghianti dal punto di vista produttivo anche se “evoca” immagini diverse. Le lezioni di Longhi sono delle vere e proprie lezioni di storia dell’arte che si trovano all’interno del film. “Il carpaccio” scritto e realizzato da Longhi evoca da un punto di vista stilistico la struttura delle lezioni universitarie, in cui le opere vengono usate come diapositive. Dunque, mentre Ragghianti compie un viaggio all’interno dell’opera utilizzandola dal generale al particolare cercando di parlare a un pubblico più ampio, Longhi utilizza lo strumento cinematografico disponendo le immagini una accanto all’altra e creando strutture più paratattiche. Longhi “aveva una smania per il particolare, ritagliato e decontestualizzato senza alcun nesso critico, frutto di un formalismo banalizzato”. Questa forma di proporre l’opera d’arte trova uno spazio più limitato rispetto al critofilm di Ragghianti che ha invece un’impostazione più divulgativa e alla portata cinematografica. Dalla narrazione al processo esecutivo 11 Lavorare sul documentario d’arte porta a confrontarsi con il gesto dell’artista, dunque avere accanto al film più scolastici o accademici, si sente l’esigenza di compiere un passo in avanti entrando nel processo creativo dell’opera. Iniziano dunque una serie di documentari estremamente interessanti, che fanno parte di una categoria di film che in Francia prende il nome di film processuali, ossia i film che sono concentrati sul momento della realizzazione dell’opera. Lo studioso Mechoè, nel 1997 utilizza questa espressione: film processuelle proprio per le pellicole dedicate al work in progress dell’opera d’arte. Il primo esempio di film di questo tipo sono quelli di Sasha Guitry che riprende Renoir mentre dipinge. In queste riprese si vede l’artista in un momento privato, con le mani completamente deformate e si fa aiutare da qualcuno per dipingere mentre fuma. Di questa scena, si coglie il gesto molto intimo che non era mai arrivato al cinema prima d’ora. Al giorno d’oggi vedere immagini simili risulterebbe molto più naturale soprattutto se viste sottoforma di performance artistica, cioè l’artista che pone il gesto creativo come opera d’arte. Negli anni cinquanta si inizia a mostrare anche questo lato degli artisti. Andrè Campaux → “Matisse” 1956. Per cogliere il gesto sicuro dell’artista sulla tela utilizza la tecnica del rallenty. La stessa attenzione al dispositivo cinematografico, si trova anche in altri film come “Visita a Picasso” di Haesaerts che scelse di far dipingere Picasso di fronte alla macchina da presa su una lastra di vetro evitando così le riprese di spalle. Questi film risultano essere particolarmente intensi nel rappresentare il gesto della creazione. Il vertice di questo tipo di espressione arriva nel 1951 con Pollock di H. Namuth. Il film, intitolato appunto “Jackson Pollock” è da considerarsi come l’emblema del film processuale. Si tratta di cortometraggi girati tra il 1950-51 sull’artista, padre dell’action painting. Namuth, in questi documentari vuole esaltare il gesto esplicativo della poetica dell’artista. Mentre la critica d’arte considerava Pollock un successore del surrealismo europeo, Namuth fu il primo a rendere il “dripping” (colare, sgocciolare – tecnica pittorica che consiste nel versare o “gocciolare” i colori direttamente dal tubo o dal barattolo su una tela disposta a terra) come un atto creativo che diventa esso stesso un’opera d’arte. Nel film è possibile notare l’artista nell’intento di salire sulla tela, ripreso in un atteggiamento molto umanizzato, l’artista lavora concentrato sull’opera, in un momento di grande creatività e dimostrazione del fare artistico. All’interno di questo filone si collocano anche una serie di film di Luciano Emmer. Il gesto dell’artista, che negli anni trenta non interessava (poiché era più importante l’immagine pittorica come immagine narrante e drammatica) diventa, anche per Emmer negli anni cinquanta motivo di attenzione. Ciò è possibile trovarlo nei documentari di Leonardo da Vinci del ’52 e di Picasso, nel ’54. Mentre “Leonardo da Vinci” si basa necessariamente sulle opere grafiche di Leonardo, Picasso viene ripreso mentre dipinge a torso nudo, nel proprio studio, dunque in un ambiente familiare in cui l’artista è a proprio agio come se stesse compiendo il gesto più naturale. Il film su Picasso viene girato in occasione di una mostra antologica realizzata a Roma e Milano in suo onore e dura cinquanta minuti, diviso in sei parti con commenti di personaggi come Guttuso, Antonio del Guercio, che enfatizzano la voce narrante dei documentari negli anni delle grandi mostre che comprendono anche l’esposizione di Guernica a Milano. Emmer non si limita a filmare le opere in mostra, ma vuole filmare l’artista andando nel suo laboratorio ed esegue un’operazione che fornisce una forma di fruizione dell’operazione creativa senza aggiungere nulla, infatti ciò che si vede è Picasso nell’intento di realizzare le proprie opere. La lezione è limitata alle opere che sono in mostra. Nel momento in cui Picasso dipinge, il tempo della narrazione si ferma ed è l’artista stesso che diviene protagonista in un’atmosfera del tutto informale. Rimanendo intorno ad Emmer, un filmato importante è quello che s’intitola “Libro dell’arte” realizzato nel 1968. E’ un filmato che va visto integralmente a più riprese, perché in questo caso Emmer ha avuto la capacità di raccontare il libro dell’arte all’interno di una bottega medievale ricostruita e, grazie al supporto di uno storico dell’arte e di un’equipe ha raccontato il procedimento esecutivo di dipinti murali e su tavola partendo da una fonte ossia il libro dell’arte. I primi film di Emmer erano caratterizzati da un forte impatto drammatico calibrati su rapporto tra immagine e musica, ciò è visibile particolarmente nel cantico dei cantici. Nel libro dell’arte invece, il tono 14 dell’affresco, ossia si cerca di progettare la realizzazione degli affreschi affidando a pittori sia la progettazione che la realizzazione con, tuttavia, pessimi risultati. Il primo pittore fu Peter Cornelius, pittore tedesco del gruppo dei Nazareni il quale, lavorando a Roma conosce la tecnica dell’affresco, anche se le sue sperimentazioni non vengono accolte soprattutto per ragioni politiche, poiché l’idea che fosse un pittore tedesco a realizzare gli affreschi che servivano a celebrare la storia inglese non era vista di buon grado né dal Parlamento ne dalla Corona stessa. La commissione decise dunque di inviare in Italia Charles Wilson, un architetto e artista con la “missione” di indagare sulle tecniche della pittura ad affresco. Il suo resoconto fu pubblicato in uno di questi reports che rappresentano dei documenti molto importanti per ricostruire non solo le tappe del viaggio ma anche per capire quale sia l’approccio di Wilson nei confronti della tecnica artistica, la sua relazione si muove infatti soprattutto su un piano descrittivo piuttosto che tecnico, per questo il lavoro da egli svolto in Italia rimane limitato e non risconta un particolare successo. E’ proprio in questo clima che viene coinvolta Mary Philadelphia Merrifield, alla fine del 1844 quando era ancora solo una studiosa, fondamentalmente sconosciuta di Brighton che in quell’anno pubblicò la traduzione in inglese del libro dell’arte di Cennino Cennini. Quest’ultimo è un caposaldo della letteratura artistica sulle tecniche d’esecuzione, infatti la sua importanza viene riconosciuta a livello internazionale da cui si hanno una serie di traduzioni importanti che consentono la diffusione del trattato in tantissimi paesi, a partire dalla Germania, Francia, Inghilterra e anche America. La cosa importante da comprendere è che, appunto, alla Merrifield vengono riconosciute le sue competenze e l’autorevolezza nella conoscenza della tecnica e del procedimento esecutivo utili a realizzare l’affresco; ciò emerge soprattutto dall’attività della studiosa negli anni 40 del ‘900 che porta alla produzione di tre volumi importanti: - La traduzione del libro dell’arte, 1844; - Antologia sulla pittura a fresco, 1846; - Silloge di trattati (Viaggio in Italia 1845 – 1846 e in Francia 1844 e 1845) 1849. Eastlake e il rapporto con la pittura murale In realtà, accanto al lavoro della Merrifield, non solo sulla pittura ad affresco ma anche su un’ampia casistica di tecniche d’esecuzione attraverso lo studio sistematico e filologico delle fonti, Eastlake sposta la sua attenzione e quella della commissione sulla pittura ad olio pubblicando, nel 1847 la storia della pittura ad olio. La pittura ad olio su muro appare come un’alternativa possibile per la decorazione del palazzo di Westminster, ma soprattutto le ricerche s’inseriscono all’interno di un filone di studi che cercano nelle fonti la descrizione della pittura ad olio per rivendicare l’invenzione di questa tecnica al medioevo nord europeo piuttosto che alla pittura italiana cinquecentesca, proprio in polemica con la tesi vasariana della nascita della pittura ad olio nelle mani di Antonello da Messina. Dunque, è proprio in questo momento che il riconoscimento del ruolo della storia delle tecniche artistiche diventa sostanziale per la storia dell’arte, con la volontà di riscoprire la provenienza delle tecniche cercando di piegare la tecnica d’esecuzione ad una forma di politica. Le ricerche sull’olio si avvalgono dei testi già tradotti nel ‘700, in particolare con la presentazione parziale del trattato di Teofilo. Il volume, parzialmente pubblicato da Lessing nel 1774 contiene soprattutto le parti relative alla tecnica dell’olio proprio per rivendicare l’invenzione di tale tecnica al medioevo germanico, infatti, il testo di Teofilo è strettamente connesso e collegato alla Germania. Alle ricerche sull’olio si deve anche l’edizione in inglese dei trattati di Teofilo ed Eraclio realizzati dal Rasp nel 1781. Verso la metà del ‘700 inizia quindi una stagione di studi molto fervida che troverà un riscontro verso la metà dell’‘800 quando si assisterà ad una sorta di revival delle tecniche di esecuzione nell’ambito della pittura neo medievalista. 15 Mary Merrifield è ancora oggi un punto di riferimento importante sia per i testi che ha lasciato sia perché adotta un approccio nuovo nello studiare le tecniche d’esecuzione. Negli anni Cinquanta si dedica alla didattica, ossia all’insegnamento delle tecniche del disegno, dell’acquerello e anche a scritti volti ad educare il popolo e a far comprendere sia l’importanza delle tecniche che del colore del quale la merfield è profondamente appassionata, la sua attenzione emerge nei trattati da lei scritti con particolare attenzione ai pigmenti e alle teorie scientifiche legate alla visione del colore. La sua attività si conclude negli anni Cinquanta senza tuttavia scomparire dalla scena, infatti negli anni Sessanta dell’800 vestirà ancora i panni da studiosa dedicandosi esclusivamente alle alghe e ad altri materiali della scienza. Nel 2018 Giovanni Mazzaferro pubblica un testo intitolato “La donna che amava i colori”, egli è il primo a tentare di ricostruire una biografia della Merrifield. All’interno dei volumi della Merrifield si ritrovano spesso dei riferimenti specifici alle tecniche e alle indagini diagnostiche; talvolta è proprio la Merrifield stessa che comunica di aver eseguito personalmente alcuni esperimenti, soprattutto per ciò che attiene l’uso dei pigmenti con la tecnica ad affresco; questi sono aspetti molto importanti essendo la prima volta in cui ci si trova di fronte ad una vera e propria integrazione tra la fonte, l’osservazione dell’opera e la sperimentazione scientifica. Tutto ciò avviene grazie ai viaggi compiuti dalla studiosa prima in Italia tra il 1845 e il 1846 e poi in Francia tra la fine del ’44 e l’inizio del ’45; ma è soprattutto durante il viaggio in Italia che riesce a raccogliere una grandissima quantità di documenti e testi offerti, al suo ritorno, al parlamento inglese il quale decide a sua volta di consentirne la pubblicazione nel volume edito poi nel ’49, insieme a delle specifiche annotazioni derivate dall’esperienza diretta dello studio dei pigmenti e delle loro proprietà chimiche nonché da riferimenti specifici nei confronti di opere con cui si è potuta confrontare durante il viaggio italiano. Dunque, è la prima volta in cui si integrano in maniera sapiente i dati di carattere storico-artistico con le fonti relative alle tecniche d’esecuzione e ai materiali costitutivi. La silloge dei trattati è particolarmente importante perché la Merrifield raccoglie negli “original treitis” un campionario di documenti e di ricette che fino ad allora risultavano inedite e che ancora oggi sono di grande importanza per lo studio delle tecniche artistiche. Le ricerche di Mary Merrifield in Italia non si sono concentrate solo sui ricettari o sui trattati ma ha visionato anche una grande quantità di documenti che è una terza categoria di fonti, importante per comprendere il procedimento esecutivo, le tecniche utilizzate e i materiali costitutivi. Si tratta di documenti appartenenti al cantiere e alla bottega che comprendono fogli contabili come per esempio i pagamenti dei materiali o delle giornate di lavoro fino a indicazioni relative alla committenza, alla scelta dell’artista o della bottega a cui affidare l’opera. Per il contesto italiano, vi è invece Gaetano Milanesi che, nella seconda metà dell’800 propone sia un’edizione del libro dell’arte di Cennini (1859) sia una relativa alle Vite di Vasari (1878-1885). Il Milanesi esplora in modo sistematico le tecniche artistiche, dunque rivolge i propri studi soprattutto ai pittori romantici tedeschi e italiani che si trovano a Roma all’inizio del IX secolo e che imitano lo stile della pittura quattrocentesca italiana e che concentrano la propria attenzione soprattutto sulla tecnica della tempera, seguendo le indicazioni contenute nel libro dell’arte. L’edizione del 1859 di Milanesi è una delle edizioni di quegli anni, preceduta, nel 1858 da un’edizione francese e a cui seguirà, nel 1916 quella tedesca. Sempre negli anni quaranta dell’Ottocento, vi sono le edizioni inglesi della Merrifield (1844-1899). L’edizione francese di Mothès(?) del 1858 ha una seconda edizione nel 1911 con un’introduzione di Renoir, ciò è utile a comprendere come il libro dell’arte fosse uno strumento a portata degli artisti. Questo è un dato molto significativo che verrà successivamente riscoperto anche in tutto ciò che avviene nella pittura a tempera con il ritorno all’ordine e il volume sulla pittura di Giorgio De Chirico pubblicato nel 1928. Un grande impulso per le ricerche sulle fonti a livello europeo è dato anche da un incremento delle edizioni dei cataloghi dei manoscritti custoditi all’interno delle grandi biblioteche; è grazie a questo 16 straordinario lavoro di censimento dei manoscritti delle biblioteche che aiuta le pubblicazioni delle edizioni di Cennino Cennini e di molti altri trattati. Ciò perché tutti questi importati trattati non esistono sottoforma di un’edizione unica custodita in una sola biblioteca, bensì esistono in tanti esemplari disseminati in tutto il territorio europeo. Dunque la ricerca delle fonti non è univoca e monografica ma è piuttosto una ricerca filologica, ossia mantenendo uno sguardo molto ampio e conoscendo gli esemplari di una determinata fonte conservati in tutte le biblioteche per cercare di capire in che modo è avvenuto il processo di trascrizione e di spostamento della fonte in vari paesi, ossia ricostruire l’archetipo e sapere quale sia la fonte principale da cui sono tratte le trascrizioni che si trovano nelle biblioteche. Con la consapevolezza che lo studio delle tecniche trova applicazione anche nel campo della conservazione di dipinti, tra gli sbocchi più fruttuosi in questa direzione, cominciano a manifestarsi delle tangenze con il mondo del restauro. Nel 1866 infatti, esce la prima edizione del “Manuale ragionato per la parte meccanica dell’arte del restauratore dei dipinti” edito per la prima volta da Hoepli nel 189. Si tratta, storicamente, del più importante volume apparso in Italia sul restauro, un’opera che ha dato uno statuto scientifico a una nuova disciplina e sul quale si sono formati generazioni di restauratori e collezionisti. Il testo è stato successivamente aggiornato fino ad una quarta edizione pubblicata nel 1927 sotto il nome di “Il restauratore dei dipinti” in cui l’autore (Giovanni Secco Suardo) tratta il restauro di ogni genere di dipinto: dall’affresco alla tavola soffermandosi sulle principali tecniche pittoriche e i relativi materiali di utilizzo. L’aspetto senz’altro più importante è la descrizione dello “strappo” degli affreschi, una tecnica ancora oggi applicata al trasporto dei dipinti murali, sia pure con evoluzioni tecnologiche. Questa edizione contiene un’introduzione allo studio del restauro di Gaetano Previati. In particolare, nel volume del 1866, sono messe a punto le lezioni tenute da Secco Suardo e rivolte prevalentemente ai restauratori, con il finanziamento del Ministero dell’istruzione a Firenze. Secco Suardo vuole rendere alla portata di tutti ciò che fino ad allora era stato legato ai segreti di bottega, dunque viene visto come un divulgatore della scienza del restauro. Nelle pagine del suo volume appare con grande evidenza che Secco Suardo aveva letto Teofilo e Cennini e che aveva contribuito al dibattito internazionale sulle origini della pittura ad olio pubblicando delle discussioni tratte dalle edizioni straniere dei testi e confrontandosi con i trattati all’epoca più noti. Nell’introduzione all’edizione del 1918 e poi del 1927, Gaetano Previati enfatizza l’importanza della conoscenza delle tecniche artistiche da parte di chi si occupa di restauro così come aveva già sottolineato Secco Suardo nel testo del manuale, Previati dunque doveva conoscere il libro dell’arte di Cennini ed è a lui che si deve un volume ancora caposaldo della letteratura critica sull’arte dei primitivi, ciò fa notare come ci sia una chiara conoscenza del medioevo che passa anche dallo studio delle tecniche e dei procedimenti esecutivi attraverso la lettura del libro dell’arte (che ce l’ha fatta a pignolata), infatti nell’introduzione a Secco Surdo specifica che gli strumenti dell’artista sono: l’occhio, la mano e la macchina. Questo ricorda un pezzo del libro dell’arte. Info bibliografiche: - “La letteratura artistica” di Schlosser Mannino (?), volume realizzato nel 1924 e tradotto in italiano nel 1964. Si tratta di un volume di letteratura artistica che pone attenzione ai trattati e agli scritti in generale sulle tecniche artistiche che vengono definiti la parte più originale di ciò che si può chiamare letteratura artistica del medioevo. Il volume inoltre, raccoglie le fonti dall’antichità fino all’epoca moderna e nell’edizione italiana pubblicato da “la nuova Italia” nel 1997 vi è anche un aggiornamento bibliografico. Il testo di Schlosser è importante perché è un volume di riferimento per la teoria artistica italiana con una disamina di letteratura storica e scritti raccolti in ordine cronologico. Per Schlosser la trattatistica tecnica inizia dal Medioevo, anche se in realtà vi sono dei precedenti come Plinio, Vitruvio e altri materiali di grande interesse che sono soprattutto dei ricettari. 19 Lo studio delle fonti è fondamentale perché, quando si studia la tecnica d’esecuzione di un’opera d’arte bisogna chiedersi in che modo quest’ultima sia stata creata studiare i materiali e capire come siano stati utilizzati dall’artista. Uno degli aspetti importanti, è capire se tali materiali risultano essere una novità per l’epoca, oppure provengono da esperienze del passato o se la novità sta nella maniera in cui questi materiali vengono utilizzati dall’artista tenendo presente che lo studio delle fonti deve essere principalmente di tipo filologico quindi anche l’edizione che viene consultata deve essere valida. Mappae Clavicula Si tratta di una compilazione, ossia di ricette che sono state estrapolate da una serie di manoscritti più antichi e sono stati assemblati in ciò che oggi è un ricettario punto di riferimento per tutto ciò che ha a che fare con la metallurgia e non solo, a partire dall’alto medioevo. Nel 1847 Thomas Philipps pubblica la trascrizione integrale di un esemplare in suo possesso che oggi è conservato al Museo del Vetro di Corning a New York sotto il nome di “Philipps 3715 Corning” ed è il manoscritto da cui partì la ricerca del Mappae Clavicula pur essendo una trasposizione del XII secolo. Venticinque esemplari oggi sono stati riconosciuti come testimoni della tradizione di Mappae Clavicula. Ad oggi esiste un’edizione estremamente aggiornata de Mappae Clavicula, realizzata dal gruppo di ricerca del Politecnico di Milano (2010) guidato da Sandro Baroni, la quale viene considerata, dal punto di vista filologica più attendibile e corretta. Quando bisogna leggere una fonte è opportuno studiarne le origini, in quale ambiente culturale si sviluppa e quali sono gli elementi che provengono da una tradizione più antica. Il Mappae Clavicula è, sostanzialmente, un ricettario artistico medievale, ossia una raccolta di precetti dedicati quasi esclusivamente alla lavorazione dei metalli. Anche il terzo libro di Teofilo presenta ricette e procedimenti legati alla metallurgia, tuttavia il Mappae Clavicula si differenzia da altri testi perché affonda le sue origini negli scritti dell’alchimia storica del III e del IV secolo d.C. che fanno capo alla figura di Zosimo di Panopolis, alchimista di origine greca. Interpretare il contenuto del Mappae Clavicula è molto difficoltoso soprattutto perché si hanno a disposizione venticinque esemplari e si tratta di manoscritti di epoche diverse sempre successivi a quello che viene riconosciuto come manoscritto archetipo e che appartiene alla riforma Carolingia. Questi venticinque manoscritti sono conosciuti perché sono stati studiati e pubblicati a più riprese. Basandosi sull’esemplare di Philipps e un secondo esemplare rinvenuto nel 1878, due studiosi producono la prima traduzione integrale del testo nel 1974 fornendo anche la riproduzione anastatica* di entrambi i codici. Quando viene studiata una fonte, occorre ricordare che è stata già trascritta da qualcuno, dunque è come se anche gli studiosi fossero dei copisti poiché trascrivono a loro volta la fonte copiando dal manoscritto originale. Nella trascrizione è possibile interpretare dei termini copiandoli in modo errato, quindi proporre una trascrizione imprecisa. Nel caso del 1974, l’obiettivo fu quello di offrire un testo a partire dalla collazione di dodici esemplari dei venticinque oggi riconosciuti come testimoni del Mappae Clavicula. Proprio grazie al testo elaborato nel 1974, è stato possibile, ad oggi, offrire una traduzione in lingua italiana (quella di Baroni). Il Mappae Clavicula riporta anche diverse pratiche alchemiche effettuate in Oriente tra il III e il IV secolo d.C., aspetto che tuttavia, è sempre stato dato per scontato sin dai primi studiosi dell’Ottocento; in realtà questo è il punto di chiave su cui si sviluppa l’edizione italiana. L’alchimia storica a cui fanno riferimento gli studiosi inglesi ha un significato anche di carattere filosofico che si esprime attraverso discipline come chimica, metallurgia e astrologia; d’altra parte si è visto come nel corso della storia abbia avuto un ruolo importante legato alle scienze in generale e soprattutto alla scienza della terra. Ciò che appare come alchemico, infatti, ha sempre una base scientifica ben salda che in questo caso riguarda la purificazione dei metalli che avveniva negli ambienti alchemici greco-ellenistici e trova il suo corrispettivo nella purificazione dello spirito (ecco perché il legame filosofico). La fonte racchiude l’esperienza tecnologica e quindi alchemica che viene da Oriente, Occidente e si spinge fino al III secolo tornando indietro di quattro secoli rispetto alla datazione dell’archetipo che invece si data all’epoca Carolingia. Secondo 20 Baroni, quando l’Impero Romano si dissolve, gli aspetti legati alle lavorazioni alchemiche raggiungono l’Europa Occidentale attraverso dei testi tradotti dal greco in latino. Ad oggi non si sa come avvenne tutto ciò, tuttavia è evidente che subito dopo la riforma Carolingia, riemergono nelle biblioteche degli scritti simili al Mappae Clavicula che riproducono testualmente documenti e prescrizioni appartenenti all’antica tradizione alchemica; ciò significa che i testi giravano insieme al commercio e agli spostamenti e si muovevano insieme al grande movimento che ruotava intorno al Mediterraneo, i testi greci venivano tradotti in latino e conservati all’interno delle biblioteche. Nel momento in cui riappare l’attenzione verso i procedimenti metallurgici precedenti e antichi, questi riappaiono, esattamente dopo la riforma carolingia, quando si acquisisce un’attenzione particolare nei confronti del recupero del procedimento esecutivo antico. Si assiste sostanzialmente, ad una traslazione, ossia ad un passaggio dalla tradizione orientale all’occidente per quanto riguarda proprio gli aspetti pratici e tecnologici. In un secondo momento, verso la fine del XII secolo attraverso i testi siriaci e arabi si assisterà ad una traslitterazione delle prassi operative riguardanti la lavorazione di molti materiali che non avevano mai smesso di essere praticati e tramandati ma che si ricongiungono solo dopo il XII secolo all’interno di un numero di scritti legati al mondo arabo. Il ruolo di Zosimo di Panopolis all’interno della fonte: Zosimo è una figura cardine dell’alchimia storica che visse tra il III e il IV secolo d.C. e fu autore di un’opera che s’intitola: “Cose fatte con le mani” scritta in greco la quale aveva una natura alchemica, organizzata in ordine alfabetico. La struttura del testo era piuttosto particolare ed appartiene a moltissimi altri testi alchemici, ciò significa che la fonte del testo era composto in due parti: una descrittiva e una che prendeva il nome di “Clavicula”, cioè “chiave”, questo termine fu molto discusso dagli studiosi perché capire cosa significasse clavicula non era assolutamente immediato, si è pensato che significasse “disegno” forzando un po’ la traduzione, ma chiaramente di fronte a un testo di metallurgia questo termine non poteva funzionare, allora si è proposto che la “mappae” fosse un panno, intendendolo come panno che nasconde l’enigma e rifacendosi alle origini alchemiche del manoscritto. Solo nel 1987 due studiosi tedeschi hanno fatto notare che il termine “panno” è reso indifferentemente da due termini greci, dunque sono state confrontate le ricette del Mappae Clavicula con l’opera di Zosimo e la coincidenza in molti punti è estremamente letterale e vi è quindi, un problema di traduzione dal greco che fa cambiare il nome del Mappae Clavicula che in realtà poteva essere lo stesso nome dell’opera di Zosimo (Cose fatte con le mani). La traslitterazione del titolo viene proposta come errata dal greco. Baroni e i collaboratori che propongono l’edizione italiana, convengono sull’errore, dunque il testo originale che ha molte coincidenze con i frammenti dell’opera di Zosimo che sono giunti a noi, poteva avere un titolo uguale a “Cose fatte con le mani”, il cui intento appare chiaro nel prologo, e ad oggi, si potrebbe definire di tipo didattico poiché si spiega punto per punto questa dottrina. La seconda parte del prologo spiega che il titolo è “Cose fatte con le mani”, ma per riuscire a realizzare quanto viene spiegato, si ha bisogno di una chiave. In questo punto del prologo, si trova un elemento fondamentale poiché il testo alchemico si può interpretare e capire solo se si possiede la “chiave” come se si dovesse aprire una porta; in caso contrario si vedrebbe solo la porta con le sue caratteristiche, ma non si potrebbe aprire e scoprire il modo di ottenere ciò che è descritto nella ricetta. Ciò significa quindi che i testi alchemici, e i ricettari hanno bisogno di una chiave d’interpretazione, che normalmente è un secondo testo contenente gli elementi che permettono la realizzazione della ricetta. Lo scopo di tutto questo era riuscire a custodirne il segreto, infatti il prologo dice che “la chiave non doveva essere consegnata a nessuno, se non al proprio figlio per mantenere e custodire la sapienza e l’esclusiva sulla realizzazione di determinati materiali”. Quando ci si trova di fronte a un ricettario, bisogna leggere esattamente la storia di quest’ultimo per capire se ci si trova di fronte ad un ricettario completo o privo della chiave, ossia privo di quegli elementi che consentono di rendere le ricette applicabili. 21 L’edizione italiana del Mappae Clavicula, parte da un’analisi dei manoscritti del Mappae Clavicula stesso. Il manoscritto di Sélestat è più antico rispetto a quello di Phillips e contiene anche un indice che viene considerato come l’indice originario del testo e si sviluppa in 197 titoli. A un certo punto, lo scriba interrompe la sua copiatura dopo 39 ricette, dunque si hanno nell’indice 197 titoli ma solo 39 ricette trascritte (ciò avvenne anche perché non tutte le 197 ricette erano di tipo alchemico, dunque non vennero trascritte). L’indice ha una divisione degli argomenti in due sezioni che sono intitolate in modo diverso e vi è “una preghiera da dire ogni volta che fai le preparazioni suddette” e una seconda parte che è “interpretazione dei discorsi e delle immagini”. Queste due sezioni sono andate, tuttavia, definitivamente perdute, ossia, non sono state rinvenute in nessuno dei venticinque esemplari e ciò rappresenta un altro problema per quanto riguarda l’interpretazione della fonte. E’ evidente, nel caso del Mappae Clavicula, che a partire dal manoscritto archetipo, le prescrizioni vengono integrate con altre, che a loro volta sono frammentarie e inserite in altre famiglie di manoscritti che testimoniano tradizioni differenti, E’ per questo motivo che si definisce una compilazione, dunque l’analisi dei venticinque manoscritti consente di capire, quanto è diramata geograficamente e nel tempo la compilazione delle ricette che vengono da manoscritti di tradizioni differenti. Il caso più esemplare, è la cosiddetta “Compositiones ad tingenda musiva” della biblioteca capitolare di Lucca che riporta quattro ricette del Mappae Clavivula relative alle tecniche di doratura, in particolare della crisografia, ossia la modalità con cui è possibile scrivere in oro. Chi ha compilato il Manoscritto di Lucca, ha tratto alcune ricette dal Mappae Clavicula, quindi che affronta le analisi delle fonti, è chiamato ad un lavoro di analisi di inclusione ed esclusione delle ricette che vengono da manoscritti diversi che trova poi spazio in una nuova edizione, ovvero l’edizione italiana del Mappae Clavicula in cui vi è una rappresentazione in italiano, filologicamente aggiornata, che si basa sull’analisi dei venticinque manoscritti e della provenienza di tutte le ricette in cui si trovano 180 ricette; dunque non solo le 39 ricette di Sélestat, ma anche quelle contenuti negli altri manoscritti che riguardano la lavorazione di oro, argento, rame, ferro, piombo, stagno e anche del vetro poiché viene usato in ambito metallurgico per imitare le pietre preziose. (vedi link in slide). Vi sono inoltre delle ricette in rapporto con il Compositiones ad tingenda musiva, si tratta di ricette molto brevi che trovano una similitudine con il Mappae Clavicula per quanto riguarda la produzione di tessere musive e che hanno una corrispondenza quasi precisa. In entrambi i casi, le ricette mancano della chiave d’interpretazione e che sono composte da una struttura agile che offre in modo didascalico le metodologie di realizzazione di un determinato procedimento o materiale costitutivo. Le “Compositiones ad tigenda musiva” offrono uno spaccato più ampio, perché pur avendo una stretta connessione con il testo del Mappae Clavicula hanno una propria autonomia, nel senso che si rifanno a testi che trattano altre tecniche oltre alla metallurgia. Sono composte da 157 ricette che si riferiscono alla miniatura con un’attenzione particolare alla preparazione dei materiali (pergamena, colori, dorature.), alla lavorazione del vetro, colorazione delle pietre artificiali per i mosaici, tintura di pelli e stoffe, metallurgia e farmacologia. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, nonostante possa sembrare strano ritrovare la farmacologia all’interno di una fonte che contiene le tecniche artistiche, in realtà trattandosi di una collazione di ricette anche i testi farmacologici occupano degli spazi importanti all’interno del manoscritto. TRATTATI La struttura dei trattati è diversa da quella dei ricettari perché si parte da presupposti diversi. L’intento dei trattati è prevalentemente di tipo didattico, infatti oltre a contenere la tecnologia di produzione del materiale, accompagnano “per mano” il lettore a cui è destinata l’opera per metterlo nelle condizioni di applicare una tecnica al fine di procedere con la realizzazione di un’opera. Spesso i trattati si aprono con un proemio ricercato dal committente, ed è all’interno del proemio che si sottolinea come sia inconsueto che opere di questo tipo si realizzino senza un preciso intendimento. Sicuramente, l’assemblatore e il committente, rimaneggiano le opere che vengono trascritte dal copista. La scelta è quella di controllare 24 di vista della letteratura tecnica fornendo delle informazioni molto precise e preziose attraverso un’esposizione scritta. Fino ad allora e anche nei secoli successivi, le tecniche tradizionali venivano trasmesse attraverso schizzi o bozzetti, invece il testo di Vitruvio rompe questa tradizione lasciando al testo scritto e alla descrizione il compito di trasmettere il sapere tecnologico, un sapere che nel caso di Vitruvio, si basa su esperienze e conoscenze teoriche, non si sa se effettivamente il testo sia frutto di esperienze pratiche. Resta però un punto di riferimento e un manuale per addentrarsi nelle tecniche edilizie e anche nelle tecniche pittoriche. La fonte va letta sempre in rapporto alle opere coeve realizzate in questi anni o immediatamente successivi di epoca romana, proprio per capire quanto il testo di Vitruvio sia allineato rispetto alla prassi operativa di chi realmente dipingeva nei grandi contesti di epoca romana. LETTURA TESTO DI VITRUVIO → La traduzione ben fatta e di seguito riportata, è realizzata da due importanti storici e restauratori italiani che hanno lavorato su dipinti murali e sono gli autori di un importante volume sulla conservazione delle pitture murali che inizia la trattazione dei temi di conservazione e restauro partendo dalla storia della pittura murale. Sono restauratori che hanno una conoscenza del cantiere pittorico antico medievale e moderno che consente loro di analizzare la fonte e proporne anche una rivisitazione rispetto alle problematiche più specificatamente tecniche. E’ ovvio che ognuno di noi si approccia ad un testo antico con modalità diverse, per esempio un filologo classico, nel proporre una lettura del testo di Vitruvio andrà a cercare elementi che riguardano la cultura del tempo o altri aspetti ma, probabilmente, non riuscirà ad addentrarsi negli aspetti più tecnici. Vitruvio inizia a parlare della tecnica della pittura murale, nel libro settimo, quando parla della tecnica di imitazione dei marmi con l’intonaco, e a questo punto inizia un racconto che ha come punto centrale quello della rifinitura della superficie degli intonaci, elemento cardine nello studio dei dipinti murali di epoca romana e di grande importanza perché vi è questo termine “Politiones” che sarà ripetuto più volte e che è difficilmente traducibile per il quale si possono formulare delle ipotesi che riguardano appunto l’uso di materiali o strumenti che consentono di lucidare la superficie degli intonaci (?). 7. “Assicurata la loro solidità con l’azione degli attrezzi e levigate col solido candore del marmo, applicati i colori con le politiones, esse manderanno nitidi splendori. In quanto ai colori, se applicati diligentemente sull’intonaco umido, non solo non smontano, (termine tradotto in un italiano legato alla tecnica esecutiva e alla conoscenza, poiché il colore che “non smonta” è un termine tecnico che appartiene al cantiere di restauro contemporaneo) ma sono durevoli per sempre.” Questo è un punto fondamentale che consente di capire qual è l’obiettivo, ossia quello di parlare della tecnica dell’imitazione dei marmi utilizzando l’intonaco. Caratteristiche marmo → lucido, riflettente, ha una matericità che può essere imitata anche con la tecnica del dipinto murale. A questo punto bisogna fare un passo indietro ripercorrendo quello che viene prima della stesura dell’applicazione del colore con le politiones, perché Vitruvio ci dice in modo molto specifico anche quali sono gli strati di intonaco he devono essere applicati, ne descrive le caratteristiche, gli spessori, e il numero di strati che servono per rendere il dipinto murale stabile nel tempo e , soprattutto per accogliere questa levigatura fino a far sembrare l’intonaco lucente. 8. “Perciò gli intonaci ben fatti, non solo non si irruvidiscono ma, se lavati, non perdono colore, a meno che non siano stati applicati con poca diligenza e sul secco. Fatti dunque sulle pareti gl’intonaci come sopra descritto essi avranno splendore e permanente resistenza fino alla vecchiaia. Ma se si sarà applicato un solo strato di malta di sabbia e uno di marmo minuto questa sottigliezza di spessore indebolirà l’intonaco che si fenderà facilmente e non conferirà lucentezza alle politiones”. Descrizione della stesura degli intonaci 25 “Una volta terminate le modanature (cioè le cornici), livellate energicamente le pareti con un primo strato di malta; quando questo comincia ad asciugare vi si applichino gli strati di malta a base di sabbia livellati in lunghezza co la cordicella, in altezza con il filo a piombo, e negli angoli con la squadra; così rettificato, l’intonaco sarà pronto per la pittura: quando comincerà ad asciugare applicatene un secondo, poi un terzo strato; più questa malta di sabbia sarà solida meglio l’intonaco resisterà nel tempo.” Si vede come vi sia una descrizione che ha una struttura di trattato quasi didattica. Ogni strato o stesura devono essere rettificati, ossia devono essere complanari alla parete, avere uno spessore omogeneo e uniforme su tutta la superficie muraria. Gli strumenti utilizzati sono: - il filo a piombo → serve a tendere le righe in verticale e per verificare se la stesura d’intonaco è complanare e ha lo stesso spessore; - la corda → per verificare in orizzontale se ci sono punti più alti o più bassi (dunque vedere se la stesura è omogenea); - la squadra → utile a rettificare gli angoli, dunque realizzare degli angoli a 90o. Una volta applicati questi strati si continua una successione fino a tre strati con questa malta di sabbia. L’intonaco deve essere solido e durare nel tempo, dunque il numero degli strati, descritti da Vitruvio serve proprio per conferire stabilità e durezza al dipinto murale. “Dopo aver applicato almeno tre strati di malta di sabbia, bisogna stendere gli strati di malta di polvere di marmo, con i materiali mescolati in modo tale che la malta non si attacchi alla cazzuola e che il ferro esca libero e pulito dalla vasca della malta. Quando la malta di polvere di marmo comincia a seccare, se ne applichi un secondo strato più sottile. Quando questo sarà stato applicato e ben livellato applicate uno strato più sottile.” E’ una struttura complessa e organizzata attraverso una stratigrafia che procede con stesure di strati preparatori a calce e sabbia e poi calce e polvere di marmo con spessori diversi; quelli più ampi si trovano vicino al supporto (in questo caso nella pittura murale romana il supporto è la muratura) e poi mano a mano che ci si avvicina alla superficie da dipingere gli strati diventano sempre più sottili. La tipologia dei materiali, la differenza di spessore e la tecnica di applicazione degli strati consentono di realizzare una struttura preparatoria molto compatta, solida e difficilmente degradabile, ossia difficilmente si possono creare delle fratture o degli altri elementi che disturberebbero la stesura della pellicola pittorica. Tutta questa preparazione, è funzionale in modo stringente, proprio alla stesura della pellicola pittorica che è il momento fondante della pittura romana proprio per gli aspetti che questa deve avere dal punto di vista, non soltanto tecnico esecutivo, ma soprattutto estetico e stilistico. “Quando le pareti saranno state solidamente coperte con tre strati di sabbia e altrettanti di marmo (complessivamente sei strati preparatori) non potranno formarsi né crepe né altri difetti; ma, essendo la loro solidità assicurata dall’azione dei <<liacula>> (potrebbe essere uno strumento che serve a dare solidità agli strati) e la loro levigatura dalla bianchezza ferma del marmo, quando i colori saranno stati applicati con le politiones le pareti spargeranno una luce brillante.” Ecco perché gli strati preparatori sono fondamentali per realizzare un buon dipinto murale. La presenza di un numero così elevato e corposo di strati preparatori, non appartiene a tutti i cicli pittorici di epoca romana. E’ interessante notare subito come tra la lettura della fonte e i casi studio analizzati in questo secolo, (a partire dalla scoperta di Pompei ed Ercolano fino ad oggi) in realtà abbiano dimostrato come non tutti i dipinti romani presentino la stratigrafia descritta da Vitruvio. Ciò significa che, nel momento in cui si legge una fonte in rapporto ad un’opera che si sta analizzando si deve essere pronti ad affrontare anche le eccezioni. In molte pitture sono stati trovati i principi costruttivi enunciati da Vitruvio, ad esempio, nei dipinti murali della Casa di Livia sul Palatino (Museo Nazionale Romano), in cui, durante le operazioni di restauro, è stato possibile constatare la presenza di sei strati: i primi tre composti da sabbia, pozzolana e calce, gli ultimi tre da sabbia, polvere di marmo e calce. La successione degli strati presentava anche degli spessori diversi: dal quarto al sesto strato andavano diminuendo gli spessori, fino all’ultimo strato (il sesto) che aveva uno 26 spessore sottilissimo, e quindi vi è una corrispondenza interessante e precisa rispetto al testo di Vitruvio sia per le caratteristiche morfologiche degli strati, il numero di spessori, la struttura compositiva ma anche per i materiali utilizzati; ad eccezione di una novità che si trova rispetto alla fonte di Vitruvio, negli strati preparatori della Casa di Livia, dove insieme alla polvere di marmo si trova anche polvere di alabastro. Questo è sicuramente un elemento interessante che sottolinea come fosse stata inserita proprio per ottenere un fondo ancora più lucido e brillante; connotazione che viene conferita dagli impasti con polvere di marmo e alabastro. L’altro elemento estremamente importante su cui ancora bisogna riflettere molto, è che l’impasto dell’ultimo strato di intonaco era colorato, cioè il colore era mischiato a quest’ultimo sesto strato composto da polvere di alabastro. In questo modo, il colore veniva lucidato insieme alla stesura dell’intonaco, ossia veniva schiacciato e lucidato contestualmente con la cazzuola offrendo un fondo colorato per i dipinti dei giardini della Casa di Livia. Stesura dei colori “Quanto ai colori applicati con cura sull’intonaco umido, non si distaccano più, ma sono fissati per sempre, poiché la calce, privata dell’acqua nei forni, diventa vuota per porosità, come costretta da un bisogno di nutrirsi, assorbe tutto ciò che per caso si trova in suo contatto e per mescolanza, prendendo in prestito germi e principi da altri elementi, si solidifica grazie a questo in tutte le sue parti.” Qui viene dunque descritto quello che è il processo di carbonatazione, ossia la calce riesce, a mano a mano che si asciuga, ad inglobare il colore in una struttura solida che dura nel tempo. “Non appena è seccata, si ricostituisce al punto che sembra avere le qualità proprie della sua materia. Per questo i rivestimenti per le pitture ben eseguiti non diventano rugosi e, allorquando li si pulisce, non lasciano distaccarsi i colori, a meno che questi non siano stati applicati poco accuratamente e sulla superficie già asciutta.” E’ chiaro che descrive la tecnica dell’affresco, dicendo anche di stare attenti ad utilizzare la tecnica a secco perché potrebbe far distaccare i colori. “Quindi, quando gli intonaci per la per la pittura saranno stati eseguiti come è stato descritto sopra, potranno avere fermezza, lucentezza e vigore persistenti fino alla vetustà. Ma se si sarà applicato solo uno strato di malta di sabbia e uno di polvere di marmo, questa sottigliezza renderà debole l’intonaco che si creperà facilmente e non conferirà alle politiones la loro propria lucentezza.” Vitruvio mette il destinatario in guardia da questi aspetti ma, va anche notato come, proprio a Pompei e ad Ercolano siano presenti un minor numero di strati preparatori di intonaco e talvolta troviamo solo l’arriccio più uno strato di intonaco che accoglie la pellicola pittorica. E’ vero che dal punto di vista teorico la struttura proposta da Vitruvio è sicuramente una struttura funzionante ma, l’operatività del cantiere pittorico portava anche ad ingegnarsi e trovare soluzioni diverse per le più svariate motivazioni (di carattere economico, organizzativo del cantiere pittorico o per delle scadenze imminenti che richiedevano una certa velocità). La pittura romana è piuttosto complessa e composta da una stratigrafia che può arrivare fino a sei strati preparatori più la pellicola pittorica. Inoltre Vitruvio descrive la tecnica dell’affresco; gli intonaci dipinti ad affresco devono essere ben levigati perché questa caratteristica può essere considerata come un apporto specifico della pittura romana legato soprattutto a delle esigenze che sono di carattere stilistico connesse all’elaborazione del cosiddetto secondo stile, cioè che sviluppa un senso illusionistico della parete creando degli spazi che sono immaginari ed escono dalla parete stessa, dunque questa illusione spaziale viene suggerita ed enfatizzata anche da elementi che appartengono alla tecnica esecutiva, in particolare alla levigatura della pittura. Questo elemento che appartiene unicamente alla tecnica della pittura romana nasce come una necessità di tipo estetico. Serviva dunque un effetto nuovo che aiutasse la pittura a fresco attraverso l’uso di materiali che permettessero, mediante la loro applicazione, di lucidare la superficie dei dipinti. Nel testo di Vitruvio, viene dato uno spazio importante alle “politiones”, ossia agli intonaci levigati e decorati dei muri. Il termine, non indica un intonaco qualsiasi utilizzato come strato preparatorio, bensì indica 29 dunque anche come legante, a testimonianza del fatto che, sicuramente si dipingeva ad affresco, ma si dipingeva anche a calce. Nell’ambiente (il grande salone) vi era una doppia serie di colori, ciò vuol dire che erano attivi almeno due pittori, che erano organizzati su ponteggi diversi, ognuno con i propri materiali. Tali elementi che derivano dall’analisi dei materiali di scavo e poi di studio di questo cantiere pittorico in corso durante l’eruzione del Vesuvio, sono molto importanti per comprendere non solo quali fossero i materiali e il procedimento ma anche come funzionava il cantiere pittorico. 24 marzo 2020 Grassello di calce o latte di calce per creare reazione chimica. Mara Nimmo, definizione di AFFRESCO: tecnica pittorica che fa uso della calce spenta come legante Dipinti disciolti unicamente nell’acqua e fissati per carbonatazione. 2 sezioni stratigrafiche in cui si possono distinguere i livelli pittorici e uno strato superficiale di scialbatura. La calce è un elemento legante fondamentale, gli aggregati composta da materiali organici e inorganici. I pigmenti sono sciolti in acquea e poi stesi a pennello, le ciotole ritrovate a Pompei con all’interno pigmenti (sostanze solide). La calce è un legante inorganico, sostanze che formano legame permanente tra particelle del pigmento e strato preparatorio. Immagini a luce radente, segni delle pennellate, lasciati dall’utilizzo della calce come legante (cappella sancta sanctorum 1280 committente Niccolò III) realizzati ad affresco ma sulle stesure delle pontate si utilizza la calce come legante, si utilizza latte di calce per stemperare i colori e per dipingere un intonaco probabilmente stanco, le pennellate corpose denotano l’utilizzo di un legante che non è l’acqua e che distinguere la pittura dalla pittura ad affresco, in questo caso calce che da corposità alla pennellata. Seguendo il DUCTUS della pennellata cioè l’andamento della pennellata, da cui si può capire come si impostava il lavoro, le pennellate dei petali da quella centrale, sono eseguite per prime, a destra il volto ci fa capire che è stato costruito su un’ombreggiatura verdastra che segue le cavità degli occhi, mento, fronte e poi si è proceduto in 2 colori di incarnati, una più chiara e una più scura. Siamo in un momento di passaggio dall’alto medioevo che giustappone le tonalità fino ad arrivare a >Cavallini che utilizza il pennello con grande capacità espressiva. La calce può essere utilizzata anche per dipingere a secco, come legante sottoforma di grassello, latte di calce o acqua di calce. La tecnica della pittura a calce sarà la tecnica descritta in particolare da Teofilo. È un aspetto che va tenuto in considerazione soprattutto sulla pittura antica medievale. Alcuni dipinti vengono rifiniti con dorature a secco. Il dipinto murale non può essere catalogato ad affresco e basta perché possono coesistere su una stessa pittura varie stesure. Ciclo pittorico di Giotto, azzurrite stesa a secco, aureole e rifiniture sulle vesti. Si parla di FINITURA A SECCO, l’affresco può avere delle finiture a secco. Ma si tratta di qualcosa di più di una finitura a secco, negli ultimi anni si ritiene una tecnica complessa che prevedeva nella sua progettazione fin dall’inizio l’uso di leganti diversi e di stesura ad affresco e a secco. Stesura del colore realizzata nella fase finale, quando i pigmenti sono applicati con un legante organico. Sull’intonaco completamente asciutto o parzialmente asciutto si può dipingere con leganti organici. Diversamente i dipinti realizzati completamente a secco non prevedono alcun tipo di stesure ad affresco. Ci sono rimasti pochi dipinti a secco, come quello nella chiesa di Pocharè a Korene in Cappadocia alla metà del X secolo. La superficie pittorica mostra una morfologia molto diversa dagli affreschi o dalla pittura a calce. La superficie è crepata similmente alla pittura su tavola, presenta fori ovali, bolle d’aria, a causa del legante per stendere i colori, ci si trova di fronte ad una pittura che può non essere ad affresco (crettatura e presenza delle bolle fanno pensare a stesura a secco). Sopra all’intonaco steso sul supporto di si trova un ulteriore strato bianco, isolamento tra l’intonaco e la pellicola pittorica, come una imprimitura, uno strato che serve per separare l’umidità della malta rispetto allo strato pittorico, è uno strato isolante, il legante sembra caseina e colla perché o fori circolari sembrano essere lasciati da bollicine d’aria che fanno pensare alla presenza di colla che poi si sono fissate. DIPINTO MURALE REALIZZARTO COMPLETAMENTE A SECCO sull’intonaco completamente asciutto con uno strato isolante che serve ad isolare la pellicola pittorica agli strati preparatori più umidi. DIPINTI STACCATI DI GROTTAFERRATA (II metà del XII sec.) caso interessante di studio perché sul ciclo 30 pittorico + antico dipinto ad affresco con finiture a secco è stati dipinto un secondo dipinto tutto a secco. Il legante è la calce con le sostanze organiche di cui si riconosce la presenza. Nella parte orientale dell’impero bizantino e in occidente, come strati pittorici sovrammessi a pitture preesistenti. Pittura a secco su muro può essere a TEMPERA (Cappadocia, Turchia) o ad OLIO, i casi di pittura ad olio sono numerosi e l’olio siccativo su muro è descritto in numerose fonti Eraclio, Teofilo, Cennino Cennini. A Santa Maria antiqua ci sono 9 strati pittorici. LEGANTIE ORGANICO, sostanza che consente di creare un legame tra le particelle di pigmento e la superficie, sono sostanze filmogene, si riconosce uno spessore della pennellata e si forma un film pittorico, si riconosce sempre, si può riconoscere anche a luce ultravioletta perché si vedono le sostanze organiche. Il legante inorganico dà alla luce della lampada un colore blu. I leganti organici invece rimangono con una colorazione più aranciata/rossastra. STRATI PREPARATORI • Arriccio • Intonaco • Intonachino La stratigrafia descritta da cennino non si trova ad assisi e nella cappella degli Scrovegni. ARRICCIO calce e sabbia, è un primo strato preparatorio e ha delle regole canonizzate dalle fonti, 3 parti di carica e una parte di calce spenta + acqua. La carica è composta dalla sabbia (sedimentaria, vulcanica o artificiale). L’arriccio presenta una superficie lavorata, con le mani, segni con strumenti di varia natura. Si lavorava l’arriccio in superficie perché la lavorazione in superficie consentiva una migliore adesione dello strato successivo INTONACO E INOTONACHINO calce + legante oppure polvere sottile o polvere di marmo. Il rapporto con la cale può essere 3/1 o 2/1 e sono più sottili dell’arriccio perchè creano una struttura stabile e solida e consentono un’asciugatura più graduale e più lenta. Gli strati interni ci metto o settimane o mesi ad asciugare. Spezzando gli spessori si velocizza il processo di asciugatura. Altro elemento importante è la finitura dell’intonaco. La superficie pittorica va osservata sempre a luce radente, che consiste a sistemare una lampada per rintracciare le tracce o i segni di lavorazione (giornate, segni di trasposizione dell’immagine, incisioni, battiture di corda, finiture che caratterizzano l’estetica del dipinto). Gli intonaci avevano un aspetto + ruvido, granuloso, per dare la caratteristica materica vibrante nel medioevo la finitura dell’intonaco non è realizzata con grande attenzione così anche in epoca moderna nei grandi cicli pittorici. La PONTATA consiste nella stesura dell’intonaco sopra all’arriccio di una porzione molto ampia che corrisponde solitamente alla grandezza del ponteggio. Le pontate si dispongono dall’alto al basso quando si prosegue nella realizzazione del dipinto. GIORNATA stesura di una porzione di intonaco + piccola, figura, parte di una figura + piccola. Lo studio delle giornate e delle pontate è estremamente importante per studiare il cantiere pittorico. GIUNTO l’intonaco della pontata superiore su cui si accosta e si sovrappone l’intonaco della pontata inferiore, la freccia verso l’alto è il simbolo con la quale si documenta, questo anche quando vi è una testa o una mano dipinte singolarmente. La stesura della giornata di riconosce attraverso i giunti, oppure si riconoscono per una conservazione diversa della pellicola pittorica. Il cantiere pittorico di assisi, l’intonaco non è liscio e non è voluto, è steso frettolosamente, stesura grossolana e poco raffinata per velocizzare il cantiere. 25 marzo 2020 31 PER ESAME! -Approfondimento su una fonte: autore, libri, edizioni, motivo per cui l’ha scritto, contesto culturale in cui scrive, come è strutturata la fonte e scegliere un argomento… -Approfondimento su una tecnica: doratura, pittura a calce, pittura su tavola… -Scheda con l’analisi della tecnica di esecuzione di un’opera a nostra scelta PITTURA A CALCE, L’UTILIZZO DELLA CALCE COME LEGANTE THEOPHILUS PRESBYTER DE DIVERSIS ARTIBUS cerca di stabilire un confine tra l’uso della calce come legante e come pigmento. È un testo molto importante trasmesso attraverso gli studi del monaco Teofilo. Teofilo è uno pseudonimo, il trattato è un punto di riferimento importante per la tradizione artistica medievale, datazione proposta tra XI e XII sec. Il trattato di Teofilo è noto dal 1781, quando venne data a stampa la prima edizione del manoscritto pubblicata postuma da Lessing, nel contesto nel quale si voleva smentire l’idea della nascita della pittura ad olio ad opera dei fratelli Van Eyeck. Edizioni: 9 esempi principali, tradizioni italiane Adriano Caffaro un primo testo, seconda edizione italiana nel 2005. La traduzione italiana non sempre è di buona fattura. Teofilo compone questo testo nella regione di Colonia (?), in parte basato sulla tradizione bizantina, si occupa di pittura scultura, vetro e ceramica, è anche una guida stilistica oltre ad un trattato di tecnica. Molti studi a partire da quelli di Thompson hanno cercato di definire quale fosse la provenienza del tema, le rispondenze portano verso l’Italia e verso quella Longobardia minor che ruota intorno a Montecassino da dove provengono le fonti bizantine arabe con cui l’artista è certamente venuto in contatto. Il testo non è scritto in copia unica, ne abbiamo 25 testimoni: 9 esemplari principali e 16 testi parziali uniti ad altri gruppi di ricette di varia natura. È probabile che alcune parti provengono da una compilazione che l’autore fa seguendo fonti precedenti, altri sull’esperienza dell’autore Chi è l’autore? Leggendo il manoscritto osservato alla biblioteca nazionale di Vienna XII sec metà, sui trova nel prologo un’indicazione importante “Teophilus qui et Rugerus”, una proposta è l’identificazione con l’orafo Benedettino Ruggero di Helmarshause (orafo attivo nella metà del XII sec), tornano i temi trattati oreficeria e lavorazione dei metalli, ritorna il contesto geografico area sassanide e ritorna la datazione. Seguendo le citazioni delle ricette, il cammino L’abate Dibaldo che è molto probabilmente l’ispiratore dei prologhi, svolge la carriera a Montecassino nel 1137, svolte 2 viaggi a Bisanzio, tra 1155 e 1156, nell’abbazia di Montecassino lavoravano maestranze bizantine per decorare la basilica di Montecassino. Il fervore culturale era molto vivace ed era anche un punto di riferimento per la Longobardia minore. nel 1137 Dibaldo è entrato in contatto con gli artisti bizantini, con le ricette alchemiche di alcuni metalli ed è andato almeno 2 volte a Bisanzio e ha portato queste informazioni in area sassanide, oppure Ruggero ha accompagnato Dibaldo a Montecassino. Il testo di Teofilo è sempre stato ritenuto un testo vicino all’area meridionale d’Italia. La diffusione dei testimoni dimostra come la fonte avesse un ampio raggio d’azione. Appartenenza di questa fonte legata a Montecassino e ai rapporti con la cultura bizantina. Contesto di produzione: Ruggero era un monaco benedettino. Nella regola benedettina si inserisce anche la regola artistica, può essere uno dei motivi per cui il trattato ha avuto origine, la presenza del nome di Ruggero è comportata dall’origine di 3 dei codici più antichi, l’abate Dibaldo soggiorna a Montecassino in una stagione di grande splendore ma la minaccia lombarda incombe su Montecassino Per questa via giunge a Ruggero il trattato lombardicus che si trova in apertura del volume. È probabile che l’idea di trovare una guida si concretizzi proprio a Montecassino, dove l’ambiente di Montecassino ha avuto un’azione stimolante, lo splendore dei dipinti perduti, dei manoscritti miniati e degli arredi che sopravvivono 34 osservano LE FINITURE A CALCE. Noi sappiamo che ad affresco la calce non è presente nel pigmento miscelato ma solo nell’ultimo strato preparatorio (legame coesivo), mentre quando la calce viene utilizzata come legante avviene un legame adesivo, quest’ultimo sembra proprio emergere sulle pitture del sancta sanctorum. Bisogna stabilire se esiste un confine tra l’uso della calce come pigmento e come legante, quale è il confine? Tra momenti: 1si dipinge sull’intonaco fresco, 2 si dipinge sull’intonaco stanco, 3 si dipinge sull’intonaco essiccato da molto tempo 1 si realizza una pittura ad affresco con il pigmento a base di calce solo per il pigmento bianco. La funzione del legante è svolta dalla calce contenuta nell’intonaco. Quindi i dipinti murali dovevano essere realizzati velocemente, nel tempo dell’asciugatura della calce anche su ampie pezzature di intonaco. 2. la calce funziona sia come pigmento sia come legante per assicurare una migliore adesione del colore all’intonaco. È improprio parlare di pittura a fresco, che si riferisce invece ad una pittura che non prevede l’aggiunta di calce ai colori per lavorare con maggiore sicurezza. Si eseguiva una prima stesura ad affresco che veniva completata con colori stemperati nella calce. 3. la calce funziona da pigmento bianco, ma soprattutto da legante. Pittura a secco su muro. Il secondo caso è quello che troviamo maggiormente nella pittura medievale. L’intonaco è in fase di asciugatura, è anche già disposto di disegno preparatorio e forse anche con qualche campitura di colore, la calce quindi funziona come pigmento, ma la calce ha soprattutto la funzione di legante perché per assicurare una migliore adesione all’intonaco. Nella versione di Teofilo l’intonaco stanco viene bagnato, viene stimolato, fra lo strato preparatorio bagnato e la pellicola pittorica stesa con la calce si crea carbonatazione fra calce nella pellicola pittorica e calce nell’intonaco, si cerca di ricreare quel legame adesivo. Dal punto di vista chimico è molto difficile analizzare il processo di carbonatazione. Secondo Zanardi è improprio parlare di pittura a secco. Possiamo definire questi dipinti come dipinti murali, non c’è ancora una definizione precisa, il testo di Teofilo chiarisce il procedimento. Zanardi ci dice che l’aggiunta di calce poteva essere determinata dall’incertezza di sapere quando l’intonaco avrebbe tirato cessando di poter accogliere una pittura a fresco, tenendo conto che si trattava di ampie pezzature di intonaco spesso molto sottile. Da qui l’idea che in realtà sia impropria la distinzione tra la pittura a calce e la pittura a fresco ad eccezione dei casi in cui la stesura a calce stata certamente realizzata quando l’intonaco era completamente asciutto. Perché laddove l’intonaco è steso per giornate anche piccole sono presenti finiture a secco realizzate con pigmenti stemperati a calce. 31 marzo 2020 Caso studio collegato con la lettura del testo di Teofilo, dipinti murali strettamente connessi con l’epoca e l’area geografica, Scoperti nel 2006 nel comune di Monte san Biagio, è l’abbazia di San Manio. Analizzando il testo pittorico e leggendo la fonte si trovano molti punti in comune. Ci troviamo a Fondi, a sud di Roma e il ciclo pittorico è composto da tre fasi pittoriche dal IX al XII sec rinvenute casualmente. L’abbazia presentava nel 2006 una grande chiesa realizzata nel 1500 attigua al monastero in parte distrutto, realizzata al di sopra di resti romani e al di sopra di una fonte d’acqua importante dall’epoca romana, nel 2006 divenne territorio del parco nazionale dei monti aurunci. Per le caratteristiche ambientali della zona si costruì un museo naturalistico. Realizzando il museo venne alla luce dapprima un piccolo ambiente con un ciclo pittorico quasi completamente coperto da uno spesso strato di scialbo. Si presentava con aspetti interessanti. Si è potuto riconoscere la presenza di un ciclo con le storie di San Benedetto, scena dell’incontro di san benedetto con santa scolastica, la sorella. Dal punto di vista storico artistico non si conoscono cicli integri (Montecassino distrutto). Non viene subito riconosciuto per quello che poi risulta essere la sua pertinenza architettonica. Proseguendo con lo scavo venne alla luce un ambiente semicircolare che era un’abside collegata ad un transetto, nel transetto c’erano le storie di san benedetto (XII sec), nell’abside dipinti di un altro periodo. Sotto la chiesa 500esca dunque c’era una chiesa medievale con orientamento ribaltato rispetto alla chiesa 35 moderna. Vi furono una serie di campagne di scavo che portarono allo stesso e un’operazione di scavo più meticolosa che mise alla luce una necropoli romana al di sotto della chiesa medievale. L’ambiente del transetto destro della chiesa medievale è stato riutilizzato e anche chiuso, dunque le scene sono state scialbate e ritagliate dallo scialbo solo le porzioni di dipinto ancora ben conservate, la pittura è di buona qualità. All’interno dell’abside una serie di clipei con santi e vescovi, sempre nell’abside presenza di un palinsesto, sequenza di strati pittorici pertinenti a fasi diverse e epoche diverse. La prima fase è riconoscibile solo attraverso frammenti nello scavo. Seconda fase datazione XI per motivi iconografici stilistici, terza fase datazione prima metà del XII sec, è la fase più estesa, comprende abside e transetto, nel transetto non sono presenti le fasi precedenti ed è probabile che sia stato aggiunto. il transetto sinistro è completamente perduto. in questo momento si ha la trasformazione edilizia. intorno al 1125 l’abbazia di san Manio passò in via definitiva sotto l’abbazia di Montecassino e vennero aggiornate le pitture, con l’aggiunta di un ciclo dedicato proprio a san Benedetto. Nella parte inferiore spunta una griglia, zampe di un leone, questa fascia è pertinente alla seconda fase decorative che è stata scoperta realizzando uno scavo nell’emiciclo dell’abside sotto alla pavimentazione Quando viene rinnovata la chiesa venne anche alzato il livello della pavimentazione e ricoperta la decorazione del catino absidale, questo passaggio avviene probabilmente all’inizio del XI secolo, si decise di ridecorare l’abside con questa decorazione particolare, nella fascia inferiore serie di animali intorno ad una griglia/gabbia. Emergono dall’analisi morfologica dati materici sull’uso dei colori e del disegno preparatorio: gli intonaci vengono levigati sulla superficie, l’impasto sembra malleabile, con buona lavorabilità in superficie, schiacciandola e facendo salire la paste più liquida in superficie, in questo modo su un’unica pontata si dipinge direttamente ad affresco e su un intonaco stanco, i segni dell’intonaco fresco li abbiamo dalle battiture di corda, vi è anche il segno del polpastrello della mano che ha retto la corda per realizzare le linee verticali. Le scene di combattimento fra animali mostrano anche un pentimento. Nelle immagini stratigrafiche si leggono bene gli strati che compongono la malta, che la caratterizzano e che la differenziano dalle altre. Gamma cromatica composta da ocra gialla, ocra rossa e nero, gamma cromatica standard. Prima fase, (XI sec.) scene di lotta tra animali, a sinistra lupo, leone e serpente, a destra un leone con un’antilope, non sono scene molto comuni (scene di s Antonio, santa Maria antiqua e altri pochi confronti). Cosa c’era prima di questo ciclo? Lo sappiamo solo da frammenti pittorici, in particolare blocco con mano di cristo, vangelo aperto e panneggio della veste, questo frammento dapprima era stato considerato come permanente alla seconda fase in realtà analizzando la stratigrafia sono stati analizzati tre strati quindi tre fasi pittoriche. Analizzando i materiali costitutivi degli intonaci e morfologia pittorica si è capito che apparteneva ad una fase diversa da quelle in situ. Questa mano sul blocco poteva essere il cristo che si trovava nella calotta absidale, ed aveva un fondo in lapislazzuli (analizzate dai frammenti) al di sopra di uno strato preparatorio nero, si è ipotizzata una maestà. È ipotizzabile che fosse pertinente alla prima fase ma che fosse stata risparmiata al momento della zoccolatura con gli animali. Quando si decide di rinnovare la chiesa nel XII sec, il ciclo viene coperto come anche in cristo e nell’abside una grande figura di cristo circondata da angeli con scene legate alla figura di cristo. Lavoro svolto per oltre due anni da una equipe di storici dell’arte, restauratori e archeologi, mettendo insieme le ipotesi create dal contesto storico archeologico, all’interno di questi assi di ricerca un asse importante ha riguardato proprio le tecniche di esecuzione, questo ha consentito di far luce anche su una terza fase. L’analisi dei frammenti e l’analisi delle modalità esecutive hanno permesso di fare chiarezza. CICLO PITTORICO NEL TRANSETTO DESTRO E NELL’EMICICLO ABSIDALE, SAN BENEDETTO è possibile datarlo alla prima metà del XII secolo, collegato al passaggio definitivo di San Manio all’abbazia di Montecassino 1125. L’analisi di questo ciclo pittorico dal punto di vista della tecnica di esecuzione ha permesso di capire come hanno lavorato le maestranze impegnate sui ponteggi del rinnovamento decorativo della chiesa di san Manio. Non ci sono tracce di giornate e di cesure verticali ma solo giunti tra facce di intonaco orizzontali. Si è iniziato a dipingere dalla parte più alta scendendo verso il basso. L’ambiente del transetto non è molto grande quindi probabilmente si procedeva si parete in parete, i pittori dovevano dunque avere un 36 programma iconografico molto ben stabilito a monte. Il programma parte dalla fascia più alta scende nella mediana e termina nella più bassa. L’intonaco è steso per pontate, nell’intonaco a destra si riconosce il segno di giuntura tra le pontate, il punto di accavallamento segue una direzione dal basso verso l’alto. Una volta steso l’intonaco, sull’intonaco ancora ben bagnato si è passato alla disposizione del disegno preparatorio, sono state tracciate le linee di riferimento delle figure architettoniche che ospitavano le figure. Le linee sono state utilizzate con battiture di corda sottili che lasciano solchi ben visibili nell’intonaco. Le corde erano fissate con dei chiodi (vi sono segni di elementi metallici). Le figure sono tracciate con disegno preparatorio a pennello, utilizzando degli strumenti come le sagome che si ripetono, vi sono incisioni da compasso, lasciano solchi piuttosto spessi e ben visibili a luce radente, con le incisioni sono state realizzate le aureole e le circonferenze dei clipei che contengono figure. Nella parte bassa battitura di corda verticale, nei clipei c’è una linea mediana che coincide perfettamente con la linea mediana del volto, per inserire regolarmente le figure all’interno. Tracce oggi riconoscibili denotano compasso con tratto largo per i clipei e più fine, ma sempre deciso per le aureole. Nell’abside troviamo comunque i segni della trasposizione dell’immagine, incisione di compasso, intonaco steso per pontate anche qui e un sistema di incisioni a compasso e battiture di corda, che dividono in zone il velario nella parte finale dell’emiciclo absidale. Impianto decorativo deciso e formato prima delle figure. Figure tracciate con disegno preparatorio rosso steso a pennello, si rintracciano su occhi, naso, dove è caduta la pellicola pittorica. Le figure speculari sono costruite attraverso l’utilizzo di sagome speculari, poi la resa stilistica veniva caratterizzata attraverso la stesura della pellicola pittorica. Il disegno preparatorio veniva realizzato pontata per pontata. Si dipingeva con una sovrapposizione di stesure pittoriche, fondo in ocra con sovrapposizione di pennellate più scure marroni, poi nero degli arbusti e poi il bianco. Gli impasti erano sempre più densi e corposi. In altri punti come nel fondo della scena, troviamo una preparazione scura che accoglie il blu (azzurrite). Altri punti presentano l’utilizzo di altri pigmenti come la biacca, pigmento non compatibile con la tecnica ad affresco e poi un verde su una preparazione grigio scuro. Collegamento con Teofilo stesura verde al di sopra dello strato preparatorio grigio scuro. Alla fine del capitolo XV di Teofilo parla della stesura del verde e dell’azzurro a secco con una preparazione di nero e calce sottostante. Il colore di san Manio è molto scuro e con stesura corposa, si è capito attraverso le indagini scientifiche che il verde è steso a secco su una preparazione ad affresco realizzata con bianco di calce e nero di vite. Questo è noto anche per la stesura del blu ed è più diffuso, mentre il verde meno diffuso. Sulla pontata venivano stese delle mani ad affresco ma le pitture venivano realizzate a calce, tranne quei colori che anche Teofilo dice che devono essere stesi a secco con altri leganti come rosso d’uovo. A calce si dipingevano i panneggi, le architetture, l’insieme dell’immagine che veniva poi finita con le stesure a secco, oppure per ampliare la gamma cromatica e creare effetti di colore che con la pittura a calce non si potevano ottenere, come ad esempio l’ottenimento di una campitura verde brillante, oppure la realizzazione di lumeggiature con la biacca (bianco di piombo steso a secco perché incompatibile con l’affresco), ma anche la stesura di altri colori come lacche rosse che andavano a rifinire i panneggi. In rapporto la fonte i dipinti murali di san Manio portano in sé le caratteristiche dei dipinti descritti da Teofilo. 1 aprile 2020 IL LIBRO DELL’ARTE DI CENNINO CENNINI -trattato tardo medievale (XIV sec) -compilazione fra fonti diverse integrate con osservazioni ed esperienze personali Cennino Cennini è allievo di Agnolo Gaddi Committente: Arte padovana interessata ai segreti di Giotto (o arte fiorentina?) Uso dell’olio come legante e tecnica dell’affresco. Come tutte le fonti ha una storia complessa, prima edizione 1821, curata da Giuseppe Tandroni. Il testo era già conosciuto nel 500. Vasari ci lascia un ritratto di Cennino nel 1550, ne accenna riferendosi all’arte rifondata da Giotto con l’idea che vasari avrebbe potuto leggere il 39 succede anche quando si trovano bottaccioli (masse che si formano nell’intonaco quando la calce non è ben spenta). Quando si deve “ismaltare” (stendere l’intonaco) quindi stendere l’intonaco bagnare bene, il supporto deve essere spazzato e il muro ben bagnato (il giusto), finché non riesce ad appianare l’intonaco sopra al muro. Si stende un primo strato, si pareggia la struttura muraria poi quando vuoi lavorare devi fare uno strato di ismalto, cioè di intonaco un poco grasso, cioè deve realizzare l’arriccio, superficie arricciata e lavorata in superficie. Il supporto si bagna per consentire il rinzaffo o l’arriccio su di esso. Una volta realizzato l’arriccio inizia a progettare la composizione figurativa attraverso un disegno preparatorio (sinopia) che è un abbozzo della composizione realizzato non solo con la terra di sinope attraverso anche altri materiali ed un procedimento + complesso, si utilizza anche il carbone. All’interno di una struttura compositiva dell’abbattitura di corda, che serve per prendere le misure e definire gli spazi. Con il filo a piombo, con l’abbattitura di corda si prosegue. La descrizione della trasposizione dell’immagine sull’arriccio è estremamente dettagliata attraverso l’uso del compasso, filo a piombo e battiture di corda, questo serve per la costruzione dello spazio dentro il quale si costruiscono le figure con l’ocra e con un pennello di setole si inizia a disegnare le figure realizzando le ombre, da ultimo con la sinopia, con un pennello sottile si sistemano i volti, i capelli, si rifiniscono in modo che siano ben costruite. Una volta composto e realizzato questo disegno si passa poi a realizzare i fregi intorno alle figure. 2 aprile 2020 Cennini Dapprima disegna le cornici (o le forme intorno alle figure) e poi ci parla della stesura per giornate, l’artista deve considerare quanto può lavorare in quella giornata e allora stendere l’intonaco necessario per il lavoro di quella giornata. Cennino ci dice anche che è conveniente finire di dipingere l’intonaco stesso il giorno in cui si stende. Quando si sta per stendere la giornata bisogna bagnare bene lo strato di intonaco che è già steso, poi si spruzza dell’acqua e con un’asticella si sfrega bene per pianeggiare e distribuire meglio la calce, si ribagna di nuovo l’intonaco appena steso e con la punta della cazzuola bagnata si può ancora uniformare. Sopra questa giornata si procede riportando sulla giornata il disegno predisposto sull’arriccio (il disegno sull’arriccio serve come disegno compositivo, al livello spaziale) si riporta con filo a piombo, battitura di corda e compassi. Ora inizia spiegando come procedere nella realizzazione di una testa di un santo o di una santa descrivendo la preparazione delle tinte e la sequenza delle stesure pittoriche. Cennino ci dà una sequenza che prevede un arriccio, un intonaco e un intonachino. ESEMPI DI SINOPIA realizzata sullo strato di arriccio, noi le conosciamo perché si vedono laddove ci sono delle cadute degli strati preparatori. Ma una grande riscoperta delle sinopie c’è stata quando nel secondo dopoguerra si è preceduto alla disfatta di molte opere d’arte, la più grande quella operata nel campo santo di Pisa, dove si decise di strappare i dipinti murali e al di sotto vengono alla luce le sinopie (Ugo Procacci SINOPIE E AFFRESCHI). La scoperta delle sinopie è stato un momento molto importante. In alcuni casi (Lorenzo di Bicci XIV sec) la sinopia è molto precisa e dettagliata, sia al livello delle cornici o delle architetture sia al livello della figura. Mentre in altri casi (Masolino da Panicale, XIV sec) le figure sono tutte abbozzate e si evidenziano cambiamenti tra la sinopia e il dipinto completato che sono stati apportati durante la lavorazione. Altri elementi INTONACO e INTONACHINO e la GIORNATA è una porzione di intonaco che può avere la forma di un particolare iconografico, possono essere di piccole dimensioni o più grandi, spesso la forma segue la porzione di immagine che deve essere riprodotta. Le giornate vengono stese una accanto all’altra e lasciano i segni di giunzione (giunti) tra l’una e l’altra, ben visibili a luce radente. I sistemi di trasposizione dell’immagine descritti da Cennini sono quelli fondamentali che vengono utilizzati per trasporre la sinopia o il disegno preparatorio: BATTITURA DEI FILI: metodo di scansione dello spazio e trasposizione delle linee rette di una composizione, in alcuni casi il cordino intriso nel colore lascia sull’intonaco dei segni colorati, anche in questo caso si può riconoscere l’annodamento della corda, si riconoscono gli schizzi lasciati (sotto la pellicola pittorica) dalla corda nel momento in cui batte al muro. INCISIONE DIRETTA: incisione dell’intonaco fresco utilizzando il compasso, possono essere anche 40 realizzate a mano libera con delle punte che vanno a incidere l’intonaco fresco. Il DISEGNO PREPARATORIO è realizzato a pennello sull’intonaco ancora bagnato, con terre ocra o rosse e può essere più o meno particolareggiato (steso sulla giornata). È la mano dell’artista che determina le caratteristiche del disegno. SPOLVERO tecnica che utilizza un supporto cartaceo su cui viene riportato il disegno da riprodurre, il cartone bucato viene appoggiato all’intonaco fresco, si batte con una garza con carboncino e resta così il profilo del disegno a puntini neri, la tecnica del CARTONE che non è una tecnica medievale (in quanto compare solo a medioevo inoltrato) consiste nel riportare il disegno 1:1 su questi grandi supporti cartacei, i tratti dell’immagine venivano ricalcati con un elemento rigido tanto da lasciare delle tracce sull’intonaco, sono le cosiddette INCISIONI INDIRETTE, lasciando un solco a “spigoli arrotondati” rispetto all’incisione diretta. I cartoni più celebri Raffaello, scuola di Atene. Il disegno è trasferito anche utilizzando la tecnica della QUADRETTATURA che poteva essere trasferita sull’intonaco a incisione indiretta. SANTA CECILIA IN TRASTEVERE, CONTROFACCIATA, GIUDIZIO UNIVERSALE DI CAVALLINI il restauro condotto nel 1987 da Carlo Giantomassi e Donatella Azari ha messo in luce alcune tecniche, dal punto di vista stratigrafico 3 strati preparatori, uno strato di rinzaffo, uno di arriccio e uno di intonaco, già nella stesura si notano situazioni anomale, per esempio non esiste un arriccio nella pontata superiore del giudizio mentre in quella inferiore è presente nella destra e in quella sinistra ma con una spessore inferiore, la parte centrale è invece priva di arriccio, questo dimostra che anche in un cantiere di grandi dimensioni all’interno dell’organizzazione del lavoro potevano esserci situazioni diverse nella stesura degli strati preparatori. Tra le altre situazioni curiose del cantiere cavalliniano vi è anche la trasposizione della sinopia, trasposta con una terra rossa e gialla ed è molto generica, sommatoria. La sinopia non è sull’arriccio ma direttamente sulla muratura (sotto l’intonaco, dove non c’è l’arriccio) nella controfacciata, in realtà è una prassi che si trova spesso. L’intonaco al di sopra della sinopia sulla muratura ha uno spessore che varia, nella controfacciata 6mm, minore nelle porzioni laterali. Altro elemento, la stesura delle pontate e delle giornate, si lavorava con un ponteggio, le pontate hanno un’altezza che varia tra i due metri e venti e i due metri e quaranta (altezza del ponteggio). In mezzo la figura di cristo. Il ponteggio aveva un’altezza che corrispondeva ai registri pittorici. 71 giornate (44 nella fascia con cristo e 27 nella zona inferiore). Se osserviamo l’andamento delle giornate, ci rendiamo conto che hanno un andamento regolare all’interno della pontata. Ma andando a leggere la sovrapposizione dei giunti di giornata si capisce come si è proceduto nell’utilizzare pontate contestuali nell’alternare. Il punto di partenza non è l’angolo in alto a sinistra come normalmente si ritiene, qui le giornate hanno un andamento scalare, si è ipotizzato anche un pittore mancino. Il cantiere ha iniziato a lavorare partendo dal centro e cioè dalla figura di cristo, per poi stendere gli intonaci a destra o a sinistra. Si lavora in modo scalare, si parla di GIORNATE CONTESTUALI, cioè giornate che vengono realizzate contestualmente in una stessa giornata, probabilmente da due pittori diversi, si procede dividendo in giornate i volti dalle vesti, sono state riconosciute 9 giornate grandi (2,5m), 23 medie e 39 piccole (fino a 0,12mq). È il lavoro di più pittori che operano in punti diversi del dipinto. È un sistema definito a T, perché si è lavorato dipingendo contestualmente e in parallelo, cioè le giornate procedono verso destra e verso sinistra con un ordine alternato. La fascia dei dannati appare eseguita in un numero maggiore di giornate, abbiamo anche giornate più piccole che raccolgono gruppi di figure (la giornata 51 sembra comprendere molte figure). Tutti gli uomini presenti in cantiere nello stesso momento avevano un compito preciso e un’organizzazione tale senza sovrapporsi uno agli altri. Utilizzando questo sistema di stesura che possiamo definire AD INCASTRO, questo modo di lavorare fa pensare alle specializzazioni all’interno del cantiere, si pensa che ci fosse uno specialista per realizzare gli incarnati. Una volta stese le giornate su ogni giornata troviamo i segni di trasposizione dell’immagine. Il disegno è realizzato in modo molto accurato, segni del cordino realizzati con una terra rossa, si riconoscono gli schizzi, utilizzato per dividere le linee dei troni degli apostoli, vi sono anche incisioni dirette soprattutto nelle porzioni laterali, sono presenti per definire alcuni panneggi o delle aree che accolgono la lamina metallica. Il dipinto è realizzato ad affresco (colori terre naturali e terre bruciate) ma è presente anche una finitura a secco. Il fondo è realizzato con azzurrite e quindi sappiamo che l’azzurrite è usata con un legante a tempera, organico quando l’intonaco è completamente asciutto. Altri elementi 41 messi a secco sono le dorature a missione sulle spade, mentre le parti argentate sono realizzate con lamine di stagno. Ma c’è ancora un altro elemento realizzato a secco. Le croci sono dipinte sopra a tutte le giornate, una giornata superiore con il piano del ponteggio superiore che è dipinta in un’unica grande giornata, le croci sono dipinte tutte alla fine probabilmente utilizzando una calce, quando è stato dipinto il fondo blu. Ci troviamo di fronte ad un intonaco steso per giornate che prevede anche l’utilizzo della tecnica di pittura a secco. BASILICA DI SAN FRANCESCO AD ASSISI, GIOTTO Cennino Cennini ci parla di dipingere quanto vuoi fare in un giorno, pensate ad un cantiere così grande. Vi è anche una tempistica dettata dalla committenza. Ci vuole un’organizzazione serrata e una progettazione ben pianificate. L’analisi dei dati della tecnica di esecuzione ha consentito di capire come la bottega si è mossa, come ha pensato e ha progettato. Giotto era il magister, ha avuto una squadra di pittori che hanno lavorato con lui e per lui e questo lo sappiamo dall’analisi dei dati materiali. Il cantiere di assisi presenta gli intonaci stesi direttamente sulla muratura, non ci sono arricci, è stata rinvenuta un pezzettino di sinopia che sembra essere stata stesa direttamente sulla muratura. Conteggio delle giornate realizzato da Bruno Zanardi che ha lavorato al restauro del ciclo francescano a più riprese ha contato 188 giornate nella parete destra, 35 nella controfacciata e 323 nella parete sinistra, la parete destra e la sinistra hanno la stessa grandezza ma ci sono molte più giornate a sinistra. Le giornate più grandi arrivano fino a 6 mq e riguardano elementi architettonico o il velario, le giornate più piccole arrivano a 0,22 mq. Ordine cronologico a sinistra l’omaggio, segue il mantello e poi il perdono è la sequenza delle storie di Francesco, ma dal punto di vista tecnico la stesura non inizia dalla prima scena e quindi dall’omaggio dell’uomo semplice, ma inizia dalla seconda scena ovvero il dono del mantello. L’ultima è la giornata 546 che è quella che chiude. RIASCOLTARE PER LE IPOTESI!!! Distribuzione delle giornate stesure che vanno da sinistra verso destra, dall’alto verso il basso e all’interno di ogni scena anche un andamento scalare. Non si può creare un sistema numerico assoluto. Questo modo di procedere ci fa capire che questo numero, 546 di giornate non corrisponde a 546 giornate lavorative perché l’organizzazione permetteva di lavorare in più punti nella stessa giornata. Sul ponteggio si ipotizza che ci fossero due ponteggi mobili ognuno con la grandezza di due scene. Erano attivi più pittori contestualmente sui ponteggi. Si parte dalla terza e poi si aggiunge la seconda scena, la cesura fra la seconda e la terza scena indica che ci fosse un ponteggio che occupava la prima scena. La prima scena originariamente doveva essere diversa, ma poi cambiò. Altre battiture di corda sono le battiture di corda con i cordini e gli schizzi rossi ai lati dell’intonaco stesso, realizzato a pennello con l’intonaco stesso. Il disegno preparatorio, è realizzato a pennello ma con modalità diverse; vi è un disegno di grande dettaglio che indica i chiari e gli scuri e tratteggia ombre e lineamenti, e un disegno più sommario affidato alla molteplicità di altre persone che lavorano all’interno del cantiere, quindi è possibile riconoscere diverse “mani” che lavorano. Colori diversi come verde, rosso e non solo l’ocra. Sono riscontrate anche incisioni dirette (sempre con strumenti rigidi come le righe e non solo il compasso) o a mano libera (panneggio). Sono tantissimi gli strumenti utilizzati contestualmente, per trasporre un disegno di progetto fino al disegno preparatorio utilizzando degli strumenti chiamati “Patrones” o “anfibula”. Siamo nella parte destra= 188 giornate dove le scene più piccole sono concentrate ella fascia centrale, quindi è chiaro che vi è una maggior cura nel parcellizzare l’intonaco necessario alle giornate perché immaginiamo che nel cantiere ci fosse una distribuzione dei compiti. I capo squadra erano addetti alla realizzazione dei volti e delle figure e gli uomini che erano nella squadra erano addetti invece alla realizzazione delle giornate più grandi e medie e al contesto dalla scena agli elementi architettonici. Su ciascuna giornata sono stati rinvenuti i segni della trasposizione dell’immagine. I segni riconosciuti riguardano la battitura di corda e dei segni in cui le corde sono state fermate con dei chiodi. Il disegno di progetto è un disegno di piccolo formato, che ha una prima fase di trasposizione sulla muratura o sull’arriccio attraverso la sinopia e una seconda fase di trasposizione che è quella del disegno preparatorio. 44 risalgono agli anni ottanta del ‘900 e sono connessi al cantiere di restauro dell’oratorio di S. Silvestro della chiesa dei S. Quattro Coronati a Roma. → Ci si chiede se vi fossero delle forme che si ripetevano costanti. L’artista si poneva il problema di trovare un’unita proporzionale tra le moltissime figure, spesso anche centinaia da rappresentare nello stesso ciclo. S.S. ciclo pittorico non molto vasto ma denso di immagini, l’ambiente non è grandissimo, ma il ciclo pittorico si dispiega sulle pareti con scene estremamente articolate. Sembrava che ci fosse un modello a monte, di piccolo formato per le figure. La logica del cantiere ci fa supporre la presenza di disegni in piccolo formato, perché su grandi stesure di intonaco realizzato per pontate troviamo una densità figurativa che non può non essere così ben organizzata e gestita su grandi superfici se non attraverso una progettazione che passa da un disegno in piccolo formato. Come si passava da piccolo al grande formato? Erano forme che si ripetevano, soprattutto volti e cavalli (nell’oratorio si S. Silvestro di S.S. quattro coronati). Si decise di mettere in campo una verifica tecnica, si verificò la dimensione delle figure che vennero ricalcate con un grande foglio di acetato, mettendo in evidenza la presenza di forme ripetitive uguali e delle stesse dimensioni, anche se i cavalli nella pittura poi presentano manti con colori diversi, ma il profilo si sovrappone perfettamente. Questo “fenomeno” si ripresenta anche nei volti. Il cantiere doveva avere uno strumento leggero e maneggevole che consentisse di realizzare delle operazioni di disegno sugli intonaci. Diverse ipotesi: disegnare a mano libera seguendo punti di riferimento che consentivano di realizzare forme tutte uguali (operazione piuttosto difficoltosa). Un’altra ipotesi sarebbe quella di avere un metodo per elaborare le proporzioni attraverso un modulo che avvenisse per duplicare, ingrandire e rimpicciolire le dimensioni mantenendo la forma sempre uguale. Anche se le evidenze materiche portano verso un’altra strada: presenza di antibola o sagome all’interno dei cantieri, strumento duttile da usare che poteva essere sovrapposto agli strati preparatori, spostato, ribaltato, utilizzato come prototipo. La costruzione delle figure, può subire delle variazioni. Queste sagome, possono essere utilizzate anche spostandole. L’idea, che il cantiere pittorico avesse questi strumenti nasce attraverso una verifica tecnica che, partendo dagli anni ottanta si è diffusa a tappeto in tutti i cantieri. La presenza di questi strumenti, non è stata subito accolta negli studi storico-artistici, e la verifica reiterata della presenza di questi strumenti in molti contesti in un vasto periodo cronologico (VI-XIII sec.) consente di far entrare nel procedimento esecutivo, anche gli antibola. Una volta identificate le sagome, restava da capire se ci fosse una conferma nelle fonti. La prima fonte esaminata è stata “L’ermeneutica” di Dionisio da Furnà → pubblicata in italiano da Donato Grosso nel 1971, prima edizione in lingua italiana. Si trovano elementi importanti su come si realizzano gli antibola →L’Ermeneutica è un manuale iconografico che serviva ai pittori per dipingere aspetti iconografici ormai standardizzati, è una fonte settecentesca, ma abbiamo motivo di credere che sia giunta a noi in una copia settecentesca e che sia in realtà più antica. Procedendo negli studi si è iniziato a capire che queste forme potevano essere scomposte in più elementi, dunque la sagoma non era solo la figura intera ma, poteva essere anche solo una parte della figura. Ogni elemento era individuato da un sistema di riconoscimento che consentiva di ricomporre le immagini nel momento della trasposizione attraverso un progetto ben dettagliato. Sagoma chiusa→ Forma chiusa all’interno di un profilo, può essere utilizzata scontornandola con un pennello (S. Manio), quindi tracciandone il profilo, oppure può essere a forma chiusa ma ritagliata all’interno per campire una superficie. Ritrovamenti di sagome a forma chiusa durante il restauro di due cicli pittorici: uno presso l’Abbazia di Pomposa e l’altro nel Cappellone di S. Nicola a Talentino, all’interno delle buche pontaie sono state trovate delle sagome di mano e piedi di S. Nicola, tuttavia non siamo in possesso di queste sagome perché non sono state conservate, anche se abbiamo notizia delle relazioni dei restauri condotti negli anni settanta. Ciò significa che questi strumenti esistevano davvero ed erano utilizzati sui ponteggi. Non sono giunti fino a noi perché realizzati con materiali degradabili e anche perché erano strumenti considerati di uso di cantiere che 45 talvolta potevano essere consunti e quindi non più utilizzabili. Il patrono per il ritratto di Fischer realizzato da Hans Holbein, “Il giovane” a forma chiusa, ma allo stesso tempo è dipinta all’interno con un chiaro scuro, quindi è uno stato diventato di patrones, forma chiusa che presenta all’interno tutti gli elementi che completano il volto. Dopo questi cantieri, viene riscontrato anche l’utilizzo da sagoma come copia da copia, quindi l’utilizzo di strumenti per replicare e copiare figure di santi; gli antibola quindi diventano degli strumenti pittorici, che definiscono anche i caratteri pittorici al loro interno, da riprodurre. Le sagome possono essere di varia tipologia. Oltre alle sagome a forma chiusa, ci sono anche: - Segmenti replicati → si trovano all’interno della costruzione dei panneggi (pieghe); ciò porta a pensare che vi fossero anche una serie di segmenti attraverso l’uso di curvilinee, righe e squadre. E’ possibile trovarsi di fronte ad una sagoma tagliata all’interno, con aperture che consentono di trasporre non solo il profilo esterno della forma, ma anche degli elementi interni essenziali. - Sagome traforate→ Dionisio da Furnà, per l’esecuzione degli antibola viene ripetuta più volte nel testo l’indicazione di tracciare accuratamente delle aperture all’interno. Questo testo è importante perché è stato il primo utilizzato da Mara Nimmo e Carla Olivetti per verificare l’esistenza dei patrones nel ciclo dell’oratorio di S. Silvestro dei S.S. quattro coronati. Il manuale fornisce una precisa sequenza per apprendere l’arte della pittura e segnala come ricavare copie a grandezza naturale. Nel primo capitolo, Dionisio insegna proprio a realizzare degli antibola partendo da altri antibola → come da copie. Fra i procedimenti messi in evidenza vengono forniti non solo i metodi ma anche le indicazioni: - Primo antibola realizzato disegnando sia sul recto che sul verso (immagine che si può utilizzare anche ribaltata) - Secondo antibola, parte posteriore pulita (quindi è una copia da copia, un’immagine). Nel primo caso, si utilizza una carta trasparente poiché si ha l’immagine davanti e dietro. Nel secondo caso, non è necessario utilizzare una carta trasparente. Gli antibola quindi sono realizzati su un supporto cartaceo reso trasparente attraverso un processo descritto da fonti trecentesche e che prende il nome di carta oleata attraverso il passaggio di olii o cera su supporto cartaceo. Antibola → strumento su supporto cartaceo trasparente o opaco su cui sono tracciate le linee essenziali di un’immagine insieme alle luci e alle ombre. Può essere una copia ottenuta con diverse tecniche, in base alle caratteristiche fisiche dell’opera da cui è ricavata (dipinto murale o su tavola). E’ sempre una riproduzione a grandezza naturale, ovvero 1:1. In uno dei passaggi del capitolo di Dionisio, si dice di tracciare all’interno della copia, le aperture, letteralmente con il colore nero. L’interpretazione di Donato Grosso è di tracciarla a traforo, ma sappiamo che con il colore non si può forare la carta. Questo modo di tracciare le aperture indica delle aperture a traforo all’interno della sagoma. Questo ci dice che è fondamentale la lettura della fonte. Le sagome traforate all’interno sono molto duttili, vengono utilizzate anche per colorare delle xilografie nel XV secolo o per realizzare carte da gioco. Uno dei problemi maggiori riguarda i materiali utilizzati per realizzare i patrones. Attraverso i documenti del 1307 relativi alla decorazione della Cappella di S. Stefano a Westminster, in cui si parla di pergamene utilizzate per i patronos. Abbiamo anche un documento contabile relativo al Palazzo Vaticano del 30 agosto 1369 in cui vengono registrati i pagamenti per carta reale da utilizzare per i patronos →venivano eseguiti patronos con fogli di dimensioni molto grandi per trasferire l’immagine sullo strato preparatorio da dipingere. Nel 1369 nel cantiere Vaticano pagano una lira e quattro soldi (?) sempre per carta per patroni, qui vi è l’informazione che le carte erano incerate perché il documento parla di un pagamento di cere per i patroni. La cera aumentava la consistenza fisica della carta e aveva anche la funzione di renderla trasparente. Quella carta doveva essere idrorepellente perché messa a contatto con l’intonaco umido, ma soprattutto doveva avere uno spessore tale da non rompersi durante l’utilizzo reiterato all’interno dello stesso ciclo pittorico e doveva 46 essere trasparente per vedere sempre quello che stava sotto la carta e allo stesso tempo per poter copiare, quindi per realizzare copie da copie. Altre fonti che appartengono al XVI secolo, elementi all’interno del trattato tecnico, ne parla in un capitolo dedicato alla carta per patroni, realizzato impregnando un foglio di carta con olio di lino caldo. Si utilizzavano sagome scontornate oppure ritagliate all’interno, andamento non casuale ma dettato dalle forme. Riferimento al capitolo XV alla trasposizione dell’immagine. La lettura incrociata di più elementi ha fatto capire che con il verbo pertraere si intende la trasposizione del disegno attraverso le sagome. Cennini parla del modo in cui si traspone un’immagine con carta lucida. L’importanza del ritrarre è collegata alla tecnica del disegno e della copiatura. Questa lettura porta Mara Nimmo e Carla Olivetti a indagare vero la riproduzione, la copia di un prototipo di riferimento, che viene realizzato scomponendolo in porzioni, come se fosse una pratica comune nel medioevo scomporre un’immagine e replicarne alcune parti. Nel capitolo XVI ci insegna a fare la carta lucida, utilizzando la pergamena. L’utilizzo di SAGOME ripetute appartiene anche al cantiere giottesco, queste sagome fanno talmente parte della dotazione del pittore che vengono utilizzati in contesti diversi. Nelle fonti Teofilo attraverso l’interpretazione del pertraere su muro parla della tecnica del copiare a ricalco. Pertraere indica una serie di situazioni, dalla copia alla trasposizione. Fonti testimoniano l’uso di queste tecniche e anche i materiali utilizzati per realizzare le sagome o gli antibola. Strumento necessario al cantiere pittorico medievale che può essere utilizzato anche in contesti diversi, per essere applicato a superfici con misure diverse. ASSISI presenza delle sagome. I dati tecnici ci mostrano come nel cantiere pittorico giottesco le sagome fossero utilizzate. Basilica superiore di assisi, ciclo pittorico di San Francesco, sono presenti tre patroni fondamentali per costruire i volti: primo, disegno con volto tondeggiante, riconosciuto dalla seconda fino alla settima scena, con delle eccezioni di forme più piccole nella settima scena; secondo, forma meno regolare e più squadrata, usata per le teste nelle scene dalla XIII alla XIX; terzo patrono appare per la prima volta nella scena XVIII fino alla XXVIII e ritorna anche nella prima scena(che è in realtà l’ultima ad essere stata dipinta), ha una forma simile del secondo antibolo, e ne sembra una sua variante in dimensione leggermente ridotta, il quarto è una variante del terzo lo troviamo tra la XXII e la XXV. PRIMO PATRONO trova delle corrispondenze con le storie dell’antico testamento che si trovano sopra al ciclo francescano nei volti della scena con la benedizione di Isacco e Giacobbe, ciò pone problemi dal punto di vista storico artistico. Secondo lo studio di Zanardi si può vedere una mano molto simile e vicina a quella delle storie francescane e l’aver trovato uno stesso antibolo può aprire l’ipotesi di una stessa paternità tra le scene di Isacco e quelle di San Francesco. In supporto alla lettura che vede una connessione tra i due cicli verrà osservata sempre da Zanardi la modalità esecutiva dei volti. Modi esecutivi dei volti e uso dei patronos→ possiamo seguire l’uso dei patrones e il loro cambiamento nel percorso che va dalla seconda scena per poi ritornare alla prima. Questi cambiamenti di uso delle sagome corrispondono ad un cambiamento anche nelle modalità costruttive dei volti. Il cantiere pittorico di assisi possedeva delle sagome con cambiamenti evidenti che corrispondono alle modalità costruttive dei volti differenti. 09 aprile 2020 S. MARIA ANTIQUA figura dell’angelo bello: volto, parte centrale illuminata da una zona gialla. Stesura sotto i lineamenti, sotto occhi, bocca e naso. Questa costruzione attraverso i colori appartiene a questo tipo di pittura. Abbiamo ombra grigia, maschere verdi, campitura gialla e infine l’incarnato, sono tutte preparazioni fatte con grande maestria dall’artista. Al di sopra di queste preparazioni si si iniziano a delineare i lineamenti, dapprima le ombre e poi si disegnano gli scuri e a mano a mano si schiarisce dando colpi di luce. Costruzione della palpebra: il rosa è steso sopra la preparazione marrone, lo stesso le sopracciglia. Confronto con il volto 49 • Primo modo → alcuni maestri tolgono un po' di bianco di S. Giovanni stemperato con acqua cercando le sommità e i rilievi del volto, poi danno rosetta sulle labbra, sulle gote, poi sopra, vi è in aggiunta un po' di acquarella, ossia un incarnato molto liquido che rimane colorito; successivamente si aggiungono i rilievi con una punta di bianco per creare le lumeggiature. • Secondo modo → ”Questo è il modo di quelli che sanno poco d’arte”. Cennini critica questo metodo di procedere che prevede di stendere verdaccio e “incarnazione” (?) andando poi ad aggiungere bilanciamenti e lumeggiature; • Terzo modo → riferito a Giotto, Cennino Cennini lo sottolinea come il modo migliore. Dopo aver riferito a sé stesso, a Taddeo e ad Agnolo Gaddi inizia con la descrizione dell’ordine. Bianco di S. Giovanni più cinabrese chiara, con acqua chiara a tempera, in modo da renderlo ben liquido con un pennello di setole morbide ben premuto con le dita. Ci dà un’indicazione di costruzione del volto, le guance rosse vengono dipinte verso le orecchie e non vicino al naso, sfumandole verso l’esterno, perché aiutavano a dare rilievo al viso. L’incarnato era diviso in tre parti: chiara, scusa, rosetta (ossia la tonalità intermedia); si comincia dalla più chiara con un pennello dalle setole morbide, e mozzetto, non ci deve essere molto colore. Con la tonalità intermedia, si ripassano tutti i particolari del viso, infine con quella più scura si va sulle estremità delle ombre lasciando sempre il verdeterra che non deve perdere il suo credito, dunque deve sempre essere visibile e risultare un’ombra tangibile. Successivamente, si vanno a sfumare le tre incarnazioni in modo da amalgamare i colori (novità tra ‘200 e ‘300). Dopo aver dato l’incarnazione si procede facendone una molto più chiara, quasi bianca insistendo sulle ciglia, sul naso, sulla sommità del mento, poi con un pennello appuntito e con il bianco puro si procede facendo il bianco degli occhi, la punta del naso e passandolo leggermente sulla bocca. Sempre con il pennello appuntito ma col nero, si crea il profilo del contorno degli occhi, le narici del naso e i buchi delle orecchie. Con la sinopia scura, invece, si realizzano gli occhi, il naso, le ciglia e la bocca creando inoltre, una zona d’ombra sopra il labbro (che deve essere un po' più scuro rispetto a quello inferiore) Dopo aver profilato i contorni, sempre con il verdaccio si vanno a dipingere i capelli (con ocra chiara e poi profilandoli con la sinopia). Vi sono dei punti che non trovano riscontro con il ciclo francescano anche se diventa un punto cardine per lo studio delle tecniche esecutive, per definire e distinguere le modalità utilizzate da pittori diversi in epoche diverse e in contesti geografici diversi. 15 aprile 2020 MOSAICO trasposizione dell’immagine sugli strati preparatori. Il cantiere pittorico aveva a disposizione diversi strumenti per trasporre l’immagine, fra questi gli antibola, che la bottega aveva a disposizione. Mosaico, tecnica che si basa sull’accostamento. Le tessere vengono inserite in uno strato preparatorio che le accoglie creando motivi decorativi o figurativi. Come quelli a Uruk in Mesopotamia, dove all’inizio del III secolo vengono realizzate colonne. Opus sectile, giustapposizione di materiali lapidei, come nello stendardo di Ur databile al III millennio. Il mosaico è stato utilizzato molto in epoca ellenistica e romana. Oppure l’utilizzo di paste vitree per decorare le pareti delle terme, richiamando l’acqua. Mosaico che riveste le superfici architettoniche delle basiliche per tutto il corso del medioevo, il mosaico parietale subirà dei cambiamenti ma mantiene anche una costante. Tecnica maggiormente utilizzata per dare luce alle cattedrali. Trasposizione di tutte le sale. Il mosaico subisce dei fattori di degrado che non lo rendono una tecnica adatta a sopravvivere per l’eternità ma è quello che ci dice Vitruvio. Come viene realizzato un mosaico, l’immagine musiva è un testo pittorico fragile perché è fatta di materiali differenti. Mentre nel dipinto murale se si perde la materia si perdono gli strati superficiali dell’immagine, nel caso del mosaico invece quando si perde la tessera si perde completamente l’immagine, c’è uno stretto rapporto tra materia e immagine. È la materia stessa che compone il ritmo dell’immagine. Incidenza forte della materia, consentono al mosaico di interagire 50 con la luce. Le tessere compongono il tessuto musivo, ogni tessera ha una forma diversa dalle altre e l’accostamento di queste crea una vibrazione con la luce. Diversamente in epoca moderna si assiste ad una negazione di queste caratteristiche musive. Si utilizzano tessere sempre uguali. Viene negata la matericità del mosaico in grado di imitare il ductus delle pennellate. Presenza di interstizi, spazi vuoti tra una tessera e l’altra. Gli spazi assumono un valore che viene costruito inserendo le tessere una accanto all’altra. I valori modali e la relazione tra le tessere vanno analizzate; gli spazi vuoti hanno un senso nel discorso ritmico. Altre modalità: inserimento delle tessere nello strato preparatorio di allettamento, quanto viene inserita, quanto spazio viene lasciato tra una tessera e l’altra. Allettamenti: uno più discontinuo, spazi più larghi, l’altro presenta una serrata disposizione delle tessere accostate una all’altra, si chiude con l’ombra realizzata con una disposizione a scacchiera (tipico degli anni XIII-XIV). Nel procedimento esecutivo del mosaico la malta di allettamento veniva dipinta ad affresco. Cavallini, Santa Maria in Trastevere, troviamo una modalità espressiva, disposizione aggregante, assimilazione sempre più del mosaico alla pittura, necessità di trascrivere immagini pittoriche cercando di diminuire sempre la matericità. All’epoca di Giotto e di Cavallini abbiamo un magister che coordina il lavoro e che lo segue, ciò consente di lavorare su più superfici contestualmente. Nel cantiere musivo i mosaici del cantiere di Giotto ci permettono di dire che Giotto non è l’autore dei mosaici, ma un artista con esperienza che è capace di accostare le tessere. Catino di San Giovanni in Laterano raffigurato con la riga, mentre è rappresentato mentre sta intagliando le tessere. Mosaicista, Iacopo da Camerino. Trasferiscono il progetto sull’intonaco attraverso antiboli e sagome. Il disegno preparatorio e le campiture cromatiche. Organizzazione consente di tenere il controllo dell’impresa musiva, attitudine mentale e organizzativa, che troviamo anche in cantieri più antichi. Nell’editto di Diocleziano vediamo i pagamenti verso 4 artisti diversi che appartengono al cantiere musivo, non sappiamo esattamente quale fosse la reale funzione di queste figure, distinti in tessellario, il pictor tessellario e il pictor parietario(?) Anche il codice teodosiano distingue il MUSIVARIUS cioè chi realizza il mosaico dal PICTOR IMAGINARIUS che progetta il posizionamento del mosaico sulla parete e il PICTOR PARIETARIUS che trasferisce il mosaico sulla malta da allettamento. C’è una divisione dei compiti che passa attraverso delle fasi del procedimento esecutivo. Pictor distinto dal musivario attraverso elemetni di piccolo formato e che va a costruire l’immagine. Mosaico, tecnica e materiale, fonti→ Mappae Clavicula, trattati molto interessanti anonimi, trattato fiorentino, come si caratterizzano le fonti. Formazione delle tessere più complesse da realizzare, subisce variazioni nel corso del tempo. Si può seguire una cronologia dei materiali seguendo la presenza di alcuni composti. Le tessere che presentano come opacizzante l’antimonio sono prodotte in epoca romana tardo-antica. Questi sono alcuni degli esempi per seguire attraverso i materiali costitutivi la cronologia dei mosaici. Materiali che riguardano gli opacizzanti mentre i coloranti rimangono gli stessi, per quanto riguarda le tessere dorate cambia il processo di esecuzione. Le fonti danno informazioni sui materiali che formano gli strati vetrosi. Teofilo non ha compreso il processo e lo basa sull’osservazione e ci fornisce informazioni incoerenti con la produzione delle tessere musive dorate. La ricetta sul mosaico si trova nel terzo libro. Riferimento molto interessante, il rapporto con Bisanzio e con Costantinopoli è un rapporto stretto. Mosaico parietale è un mosaico su supporto fisso, possono essere anche su supporto autoportante, con la tecnica del micro mosaico. Predisposizione degli strati preparatori: supporto musario viene preparato, si susseguono fino a tre strati preparatori, che non hanno una nomenclatura precisa, infine una malta di allettamento, ultimo strato, strato che accoglie le tessere, alla fine le tessere. Mosaico pesante, singole tessere, inclinazione delle tessere serva proprio a creare un la luce un effetto vibrato, giochi di luce straordinari e permette di usare un numero di tessere inferiore. Nel cantiere pittorico murale si dipingeva per grandi porzioni, nel mosaico parietale dobbiamo inserire le tessere all’interno di uno strato di allettamento che deve essere morbido, quindi fresco. Di per sé il mosaico ha sempre adottato porzioni piccole. Mentre l’intonaco steso per pontate o per giornate prevede un accostamento che sono i giunti di giornata o i giunti di pontata, i giunti tra una porzione e l’altra vengono coperti dalle tessere e mimetizzano la giunzione. Osservando il mosaico a luce radente a volte è possibile riconoscerla. Le tessere devono essere stese velocemente su un intonaco ben 51 preparato. È come se ci fosse sulla malta un vero e proprio dipinto murale. Questa guida pittorica ha anche un’altra funzione e cioè di eliminare il bianco che emerge tra le tessere, la malta di allettamento era dipinta di rosso e di nero, il colore rosso corrisponde alle tessere musive dorate, il rosso serviva per imitare la stesura di bolo come preparazione della stesura della muratura. Le lettere di questa grande iscrizione monumentale erano lettere nere. Leggiamo gli interstizi perché la tessera quando è caduta ha rotto gli interstizi, nel momento in cui si si inserisce la tessera accanto alla tessera la malta sale e la porta più o meno in superficie. La tessera può essere inserita nella malta di allettamento ed entra direttamente in gioco, ma non è una malta bianca, è una malta colorata. La tessera era inserita per due terzi, la tessera non si vedeva ma era comunque colorata dove il colore della campitura cromatica è svanito. Funzione di guida per il mosaicista che sapeva che tessere mettere e quali colori. Era anche un elemento che partecipava della organicità dell’immagine. Questo pezzo di malta di allettamento è un -pezzo trovato in una bica pontaia nel cantiere di Monreale. Nelle buche pontaie vengono trovati altri materiali come lastre di vetro e tessere. A proposito della sequenza delle porzioni di mosaico. Il disegno viene trasposto utilizzando le sagome e gli antibola. Sant’Agnese e san Tommaso sono realizzato con la stessa sagoma e poi definiti con i lineamenti. Pur essendo uomo e donna viene usata una stessa sagoma. PICTOR PARIETARIUS O IMMAGINARIUS colui che viene realizzato nel mosaico di san Giovanni con la riga e con il compasso. Maestri diversi con compiti diversi. 16 aprile 2020 Materiali costitutivi del mosaico parietale, tessere in pasta vitrea, tessere in materiali lapidei e tessere dorate. L’uso del colore ha delle caratteristiche importanti, i mosaici nelle basiliche utilizzano prevalentemente fondi oro perché riflettendo la luce rendono le aule liturgiche in stretta connessione con la liturgia. I colori maggiormente utilizzati sono blu, verdi, rossi, gialli, arancioni. La tessera lapidea viene utilizzata principalmente per l’incarnato, colore difficile da rendere con pasta vitrea, i calcari. Un momento in cui si usa solo pasta vitrea sotto il pontificato di pasquale primo, santa cecilia in Trastevere, santa . incarnato viene realizzato con tessere di materiale lapideo, vi sono almeno tre sfumature diverse di rosa nel volto, anche in natura si possono trovare diverse sfumature di colore, la pietra è opaca e si alterna con il vetro creando giochi ritmici di luce. Vengono utilizzate anche tessere semitrasparenti o trasparenti pigmentate con tonalità verdi che creano le ombre come sotto l’occhio della vergine e lungo la canna nasale. MOSAICO DEL MONUMENTO FUNEBRE DEL CARDINAL DURAND Alcune tessere hanno forme diverse, il taglio della pietra è diverso a seconda della pietra, le tessere sono accostate l’una all’altra e cercano di imitare la pittura SANCTA SANCTORUM sotto in pontificato di Niccolò terzo 1870??? Allettamento completamente diverso da quello del cardinal Duran? Le tessere sono molto piccole 2-3 mm e molto lunghe e vengono infilati per un terzo nella malta di allettamento, ciò crea un effetto vibrante. La giustapposizione sembra casuale, ci sono dei colori che delimitano ombre e luci ma nell’accostare tessere dello stesso colore l’allettamento non segue filari precisi. Le tessere lapidee possono essere anche marmi utilizzati in dimensioni più grandi utilizzati per campire le parti bianche, come per esempio nelle vesti. Anche nell’utilizzo dei marmi ci possono essere delle varianti, a seconda delle caratteristiche morfologiche che si vogliono ottenere. Tessere in pasta vitrea sono le maggiormente utilizzate, la composizione di base è un vetro siliceo poi colorato e opacizzato. il mosaicista non produce il vetro, viene prodotto. Pizze con forma ovoidale, panetti di vetro poi schiacciate e fatti raffreddare, sono state trovate nelle buche pontaie del cantiere di Monreale. Le tessere venivano quindi tagliate anche sul ponteggio. Dalle pizze di forma ovale si tagliano le tessere. All’esterno la pizza si presenta opaca e sporca di terre refrattarie, mentre il lato del taglio è pulito e brillante, le tessere tagliate dalla pizza vengono inserite nel mosaico dal lato del taglio. Che le tessere siano state tagliate direttamente sul ponteggio lo testimoniano alcune tessere inserite a taglio speculare una vicino all’altra, dunque appena tagliate le ha allettate. Le tessere rosse e arancioni mostrano come i coloranti non si siano ben miscelati (gli ossidi di ferro rosso non si sono ben miscelati nell’impasto vitreo) e questo tipo di tessere sono dette a becco di merlo. Da lontano ciò crea una sfumatura. All’interno dell’impasto vetroso possono rimanere intrappolate delle bocce 54 legno e incamottatura. I materiali hanno caratteristiche interessanti che determinano le scelte che si compiono nel procedimento esecutivo. L’aspetto finale deve essere uniforme, liscio e brillante. Il procedimento della pittura su tavola descritta da Teofilo si può riscontrare su tavole medievali. Le opere più vicine a questa descrizione sono quelle datate al XII secolo. La preparazione descritta da Teofilo e in particolare la levigatura finale si trova anche nel testo di Eraclio nel libro III del trattato intitolato i colori e le arti dei romani. Un testo altomedievale sulle tecniche della miniatura. Nel capitolo XXIV del terzo libro dopo aver levigato la superficie con l’asperella(?) si sofferma nella lavorazione del legno a base di bianco di piombo, nel caso in cui il legno non possa essere ricoperto di pelli. Quindi al posto dell’incamottatura usa uno strato di bianco di piombo anche nel capitolo XXII del primo libro di Teofilo si parla di legni che non possono essere coperti con pelli, ci sono dei riferimenti più ampi rispetto ai testi di Cennino Cennini. CROCE DEL MAESTRO GUGLIELMO dipinta nel 1138 (duomo di Sarzana) è una delle prime croci dipinte medievali, cronologicamente molto vicina ai testi di Teofilo. La croce di Sarzana è in legno di castagno alta quasi tre metri e larga 2,14 m. ha uno spessore di circa 5 cm, è un legno di buona qualità, ha una buona durabilità e subisce pochi attacchi da parte degli insetti, le fibre sono molto dritte. In questo caso sono stati utilizzati tagli radiali o sub radiali. È una costruzione molto solida. Le tavole sono unite insieme con un sistema ad incastro con tenone, cioè con incastri fra braccio centrale e braccio laterale. L’incastro a tenoni caratterizza un gruppo di croci dipinte nell’area lucchese. L’incastro a tenone veniva poi fissato attraverso dei chiodi o dei perni di legno per rendere la struttura più resistente. Composto da sei elementi principali uniti con perni, chiodi e incastro del tenone. I perni servono ad ingrandire lo specchio pittorico, anche l’aureola si trova inserita con un incastro a tenone all’interno del braccio principale e poi è fissata con quattro perni di legno. L’unione delle tavole è seguita dalla preparazione degli strati preparatori, una volta che tutte le tavole sono unite il supporto è completamente predisposto e si passa alla lavorazione degli strati preparatori che servono a migliorare la finitura della superficie dipinta per ottenere un piano levigato poco assorbente e senza soluzione di continuità. Eraclio e Teofilo danno dei suggerimenti per far diventare la superficie piana e lucida ma sappiamo che la stratigrafia è composta da altri strati preparatori. Nella croce sono presenti delle strisce di pergamena sulle giunzioni dei bracci e dell’aureola, successivamente su tutta la superficie venne incollata una trama di tela di lino piuttosto fitta. Questo favorisce l’unione e il collegamento degli elementi lignei. Ciò conferisce maggiore stabilità e compattezza all’insieme, legando tutta la superficie dipinta con una tela che serviva a rendere il supporto pronto ad accogliere gli strati preparatori. È uno strato che fa da cuscinetto, ammortizzante. Il supporto ligneo è un materiale che si muove naturalmente nell’ambiente in cui è conservato. Al di sopra dello strato di incamottatura troviamo gli strati preparatori composti da gesso e colla. Si riconoscono due strati distinti nella croce di Sarzana con spessori diversi e struttura granulare diversa, viene utilizzato un gesso più grosso e un gesso più sottile. Al di sopra degli strati preparatori così predisposti e con lo strato finale liscio verrà trasposto il disegno con linee incise e con disegni e poi viene dipinto a tempera. L’analisi del DOSSALE DI MELIORE DI JACOPO NELLA CHIESA DI SAN LEOLINO A PANZANO nella prima metà de XIII secolo è una struttura realizzata con 3 tavole di pioppo, ricavata da tagli intermedi disposta in maniera orizzontale (posizione riservata ai dossali). La tela nel caso del dossale si trova sopra ad uno strato di gesso grosso, possiamo trovare dei punti di divergenza tra fonti e ciò che mostrano le analisi condotte sulle opere in situ. Le fonti che abbiamo analizzato finora dimostrano il persistere della pittura su tavola dall’alto medioevo fino all’epoca moderna. L’apice della diffusione della pittura su tavola si compone. LORENZO MONACO, INCORONAZIONE DELLA VERGINE. CIMABUE, MAESTA’. Perché viene usato il legno? -facile lavorazione -maneggevolezza -resistenza -lunga durata 55 -ottima superficie per strati preparatori e pellicola pittorica -consentiva la realizzazione di piccole e grandi dimensioni. La scelta del legno non è mai stata casuale. Cennino parla soprattutto di fico, pioppo, tiglio e salice maggiormente utilizzate all’epoca in cui Cennino scrive. Soprattutto il pioppo viene utilizzato per pitture su tavola, ma troviamo anche il castagno, abete rosso ecc.. Per le traversature (?) castagno, olmo, pioppo e abete, cioè legni più teneri. In Italia prima del 1200 si hanno quercia, noce e castagno, mentre dal 1200 in poi la specie più usata è il pioppo. Il pioppo è considerato un legno non pregiato, ma ha delle buone caratteristiche, è leggero, facilmente lavorabile, omogeneo, colore molto chiaro ideale per stendere gli strati preparatori ed è facilmente stagionabile, non si dilata facilmente, la lunghezza massima è di 80 cm sufficiente per accoppiare più tavole e formare grandi supporti. La scelta del legno va di pari passo con la scelta del taglio: le tavole dovevano essere di un certo spessore, più è spessa più c’è massa e rallentano quindi i fenomeni di degrado fisico. Dovevano presentare tagli che consentissero il più possibile di avere una venatura parallela per scongiurare i movimenti del legno. I tagli privilegiati utilizzati sono quelli RADIALI E TANGENZIALI. RADIALE: tagliare il tronco in 4 spicchi e creare le tavole tagliando in contro fibra parallelamente, TANGENZIALE: realizzazione di tavole di maggiore dimensione tagliando la sezione del tronco in modo tangenziale, grande ampiezza che comprende anche la parte centrale del tronco con andamento radiale solo ai lati della tavola. Il taglio radiale è il taglio che presenta meno difetti perché non si imbarca facilmente ma ha una larghezza ridotta e un maggior costo. Il taglio tangenziale consente di avere tavole più grandi ad un minor costo ma tendono ad incurvarsi. Una volta tagliate le tavole vengono rifilate, viene eliminato l’alburno e i difetti del legno per cercare di avere un rapporto il più possibile stabile. Molto spesso troviamo anche il retro trattato con strati di colore, o di gesso e colla o anche di minio, perché anche il retro è a contatto con l’umidità e la temperatura esterna, veniva trattato per isolarlo. Sistemazione delle tavole una accanto all’altra, normalmente gli assi vengono posti al centro. L’accoppiamento delle tavole necessita di morsettatura (?) per rendere piana la tavola. Nei punti di incontro avviene l’incollaggio che serve per irrigidire la tenuta fra le tavole, il maggiormente utilizzato è il caseinato di calcio che ha tempi di asciugatura molto lunghi. Sul retro sono presenti le traverse come elemento di rinforzo, possono essere semplici oppure più complesse. Le traverse sono inchiodate su un supporto attraverso chiodi infilati dal retro, poi ricoperto dal legno della stessa specie per non creare fastidio nella predisposizione degli strati preparatori. La cornice è l’ultima parte montata, più pezzi inchiodati sul tavolato. La cornice viene lavorata all’interno dello spessore del tavolo, fa parte del tavolato stesso e ne segue i movimenti. Le cornici aggiunte vengono inchiodate o legate con perni di legno. 22 aprile 2020 Lettura di testi di Cennino Cennini, che accompagna l’artista nei vari procedimenti e nella doratura. CAPITOLO CXII COME SI DEVE COMINCIARE A LAVORARE IN TAVOLA questo capitolo è preceduto da quello in cui Cennini ci parla della produzione della colla di calcina e formaggio, è la cosiddetta colla di caseinato di calcio. CAPITOLO CXIII COME SI DEVE COMINCIARE A LAVORARE IN TAVOLA, O VERO IN ANCONE Il termine “arbero” è un venetismo che significa “pioppo” che Cennini indica come il migliore da lavorare. Le tavole ricavate dal pioppo devono essere prive di difetti perché altrimenti non ci sarà alcun rimedio in corso d’opera. Se ci sono tavole che presentano difetti si può intervenire risanandoli, con segatura e colla, spianando bene i punti in cui ci sono questi difetti. Nella prima parte indica quale specie lignea scegliere e come evitare i difetti, non ci dà indicazioni su come legare le tavole, ma è più attento ad insegnare come eliminare i difetti del legno al fine di ottenere un supporto privo di difetti che potrebbero danneggiare l’opera. Dà per scontato quindi che 56 le tavole siano già state assemblate tra loro. Il primo passaggio dopo aver risanato i difetti del legno è una stesura di colla fatta di pelle di pecora bollita. La prima colla che si dà serve per iniziare a far bere il legno e a prepararsi ad accogliere le due stesure di colla successive. Rispetto a Teofilo cennino fa preparare il legno e da una prima mano di colla leggera e poi due forti, successivamente si passa ad IMPANNARE la tavola, cioè a stendere l’incamottatura della tavola. CAPITOLO CXIV COME SI DEE IMPANNARE IN TAVOLA il panno deve essere sottile, di filo bianco, senza tracce di unto o di grasso. Le strisce di tela vengono inzuppate nella colla e distese con le mani sopra ai piani delle tavole. Prima si mettono le strisce sui punti di giuntura delle tavole e con i palmi delle mani si spiana bene. Cennino fa quindi prima un’incamottatura parziale sul punto di giunzione che è il punto più delicato. Quando si stende l’incamottatura ci deve essere un tempo arido e ventoso, mentre per dorare il tempo deve essere umido e piovoso. CAPITOLO CXV IN CHE MODO SI DEBBE INGESSARE UN PIANO DI TAVOLA, A STECCA, DI GESSO GROSSO Cennino distingue gli strati come realizzati con gesso grosso o sottile. Il gesso grosso, volterrano, è macinato molto bene. Con la lama di ferro si deve pulire il supporto ligneo, facendo in modo che non vi siano elementi estranei, poi si passa al gesso ben macinato, steso a pennello sopra le cornici e le foglie, cioè sugli elementi a rilievo, per due o tre volte. Sul tavolato invece si stende solo una mano, si deve lasciare seccare per 2-3 giorni, per avere una asciugatura completa. In questo modo il supporto ligneo che si era parzialmente bagnato sarà asciutto. Poi con il raschiatoio riprendi la forma delle cornici e dei fogliami, si lavora dopo la stesura in gesso grosso facendo ritornare le forme originali. Ora si stende il gesso sottile, è realizzato con del gesso lucido messo in ammollo in un vaso, l’acqua deve ricoprire perfettamente il gesso in modo che si spenga il carbonato di calcio, quando è morbido si butta via l’acqua e si fanno dei panetti che poi sono messi in vendita dagli speziali, venditori di materiali per pittori. Questo tipo di gesso è il gesso che si usa anche per la doratura o per realizzare elementi a rilievo. CAPITOLO CXVII COME S’INGESSA UN’ANCONA DI GESSO SOTTILE, E A CHE MODO SI TEMPERA I panetti di gesso così creati si devono bagnare, inserire in un panno di lino e spegnere nell’acqua. Una volta macinato, il panetto viene mischiato con la stessa colla utilizzata per il gesso grosso. In una pignatta nuova, non umida e ancora meglio se rivestita di pareti di vetro, si taglia il gesso e si mette la colla e poi si scioglie questo gesso nella colla. In tutto si daranno tre passate. La seconda passata si da solo con il pennello perché già la prima è stata fatta in modo da schiacciare e far aderire bene alla superficie. Siamo alla terza mano, le mani vanno alternate (una verticale una orizzontale e così via) per far aderire meglio gli strati. Questo strato di gesso sottile è composto da una sequenza di pennellate fino ad otto e sono difficili da identificare nelle stratigrafie. Il gesso grosso ha delle caratteristiche che consentono di distinguerlo da quello sottile. I capitoli CXVIII e CXIX (A CHE MODO DEI TEMPERARE E MACINARE GESSO SOTTILE DA RILEVARE danno dei suggerimenti e dei consigli anche su materiali alternativi da utilizzare. CAPITOLO CXX A CHE MODO DEI COMINCIARE A RADERE UN PIANO D’ANCONA INGESSATO DI GESSO SOTTILE Una volta completate le stesure della colla bisogna lasciar seccare per due giorni e due notti. Poi si spolverizza con carbone lo strato di gesso e colla, poi si spazzano via i residui di carbone con delle piume e si pulisce via la polvere nera. Il piano non si può radere troppo e perfettamente. Una volta tolta la polvere di carbone questa verrà eliminata completamente nelle zone piane ma rimarrà come sporco nelle zone più aggettanti e quindi è una guida per capire dove bisogna rasare di più. Le parti che rimarranno scure (con residui di carbone) andranno levigate di più. CAPITOLO CXXI SI COME SI DEE RADERE IL GESSO SOTTILE SU PER LI PIANI, E A CHE BUONA LA DETTA RADITURA La superficie del dipinto su tavola preparato a gesso e colla deve essere rasata con le lame. Si inizia a sfregare con delicatezza, tenendo conto che tutto ciò che si toglie può essere riutilizzato, poiché questo gesso può servire per fare un olio utile per la rilegatura dei libri. Bisogna arrivare a raggiungere un livello liscio 59 essere utilizzato, nel capitolo CXXXIII si parla di come mettere l’oro su terra verde in tavola. Una volta preparato il supporto si passa a posizionare l’oro sulla tavola, passaggio più complicato. Doratura eseguita nei seguenti modi: 1) a guazzo o bolo: per decorare ampie superfici (fondi, cornici, vesti); 2) a missione. CAPITOLO CXXXIV, DI CHE MODO SI METTE L’ORO IN TAVOLA il supporto della tavola dipinta con il bolo va pulita, eliminata polvere o qualsiasi altra imperfezione che potrebbe rompere la foglia d’oro che è sottilissima. Si bagna un pezzo di bolo della forma della foglia che si deve far aderire, si prende la foglia d’oro con delicatezza, di solito sollevandola con pennelli, poi uniformemente si bagna e con una serie di numerosissimi passaggi descritti da Cennino si applica la foglia, successivamente si passa alla brunitura. Descrive quali sono le pietre buone per brunire la foglia, come lavorare queste pietre e come porre rimedio quando non si può brunire. Per mettere la foglia d’oro serve un ambiente umido e non secco o arido. La brunitura è un passaggio importante perché determina la buona qualità del fondo. Oro a conchiglia, per dettagli ù minuti, oro a missione, usato per piccole decorazioni, su una preparazione a mordente oleo- resinoso. DORATURE SUI DIPINTI MURALI mentre nelle tavole avviene prima, nei dipinti murali la doratura viene realizzata quando l’intonaco è perfettamente asciutto e viene steso come ultimo strato, con una serie di difficoltà: la superficie non è levigata come per i dipinti su tavola e le operazioni di brunitura non sono possibili. L’adesione deve avvenire attraverso un mordente che consente di legare la foglia all’intonaco. La foglia d’oro è troppo sottile. Come si fa fronte a queste difficoltà? Utilizzando la foglia d’oro in lega con piccole quantità di piombo, argento e rame (raro uso dell’argento, non dura e viene scuro). La foglia viene applicata con una missione di giallorino, ocra gialla, bianco di piombo e olio di lino al di sopra di una stesura ocra nero carbone. Stagno dorato (stagno verniciato o ricoperto con foglia d’oro fatta aderire con la vernice) ADESIVI Nei dipinti murali viene utilizzato come adesivo o “mordente” la MISSIONE (una miscela oleo- resinosa avente la proprietà di mantenersi umida al lungo). Cennino Cennini parla di olio di lino cotto, biacca, verderame e vernice. Si ottiene un mordente colorato o più o meno veloce da essiccare in base alle dosi di pigmenti a base di Sali metallici presenti. Lo scopo del colore è di rendere visibile la zona in cui si sta mettendo la missione e rinforzare la tonalità dell’oro. Per lo stagno dorato si consiglia una vernice liquida non pigmentata. ALTRI ADESIVI: Teofilo ci parla di chiara d’uovo e in un manoscritto bolognese del sec. XV viene citato l’olio di lino mescolato a vernice. APPLICAZIONE direttamente sull’intonaco quando il dipinto è completato. L’intonaco viene reso meno assorbente con una mano di colla animale o di chiara d’uovo sbattuta, si applica il mordente a pennello, poi si trasferisce la lamina metallica e infine si passa alla tamponatura, necessaria per favorire l’adesione della foglia a mordente. 28 aprile 2020 TEMPERA: tecnica pittorica che utilizza colori in polvere stemperati in sostanze diverse dall’olio. Con il termine tempera si intendono diverse tecniche pittoriche, si intende utilizzare un medium, un legante pittorico. In Cennino con tempera si intende una pittura fatta con medium proteico, come uovo o colla animale. Questa tecnica si distingue dalla pittura ad olio, dalla pittura a tempera grassa (che si realizza attraverso un medium proteico e oleoso), e dalla tecnica ad encausto (pigmento + cera). Nelle fonti il termine TEMPERA indica un legante, il termine temperare viene utilizzato per tutte le sostanze di natura acquosa. 60 Cennino Cennini realizza un capitolo CXLV COME SI COLORISCE IN TAVOLA, E COME SI STEMPERANO I COLORI, vi è una premessa che riguarda il tipo di pittura, la sequenza delle stesure e la modalità per la preparazione del colore e per la stesura del colore. Nella prima parte dice ha già spiegato come si costruisce l’immagine quando ha descritto la pittura ad affresco, quelle tecniche sono da prendere in considerazione ad eccetto di alcuni aspetti: si inizia dal fondo oro, poi con le vesti, poi i fondi e poi i volti, l’altra cosa è che si usa il rosso d’uovo con cui si mescolano i colori, che devono essere ben “temperati” cioè mescolati, nella proporzione tanto rosso d’uovo quanto pigmento. I colori sono macinati in polvere e per essere mischiati con il rosso d’uovo la macinazione deve essere finissima, rispetto ai pigmenti utilizzati su muro. Suggerisce di iniziare dai vestiti rossi, color lacca, utilizzando sempre il colore in tre tonalità, il grado del suo colore, poi 2 parti di lacca e una parte di biacca e poi un colore ancora più chiaro, con questi colori costruisci la volumetria del panneggio. Prendi il pennello mozzetto e incomincia a dare il colore scuro, in modo da rendere le parti + scure della figura, mentre con il colore di mezzo dipingi i rilievi delle pieghe scure, infine con il colore chiaro dipingi La costruzione dell’immagine procede dagli scuri ai chiari, per arrivare alle sfumature delicate che si ottengono anche attraverso pause, perché il lavoro su tavola deve essere anche un lavoro di piacere. Si procede con i colori già preparati e già predisposti accanto al pittore, cercando di non far confusione tra un colore e l’altro e avendo cura di pulire bene il pennello tra un colore e l’altro. MADONNA DI SAN GIORGIO ALLA COSTA GIOTTO 1295 tecnica: tempera a uovo, con l’aggiunta di lattice di fico e gomme vegetali. La modalità esecutiva consiste in stesure pittoriche sovrapposte molte sottili, veloci e più o meno corpose, che lasciano trasparire lo strato sottostante, questo è già un modo interessante di utilizzate il ductus della pennellata. L’aspetto che ci interessa mettere in evidenza è la presenza di fondi cromatici. Il pittore ha predisposto dei fondi colorati al di sotto del manto blu, il manto realizzato con il, blu oltremare è dipinto sopra due fondi colorati, prima un tono rosato, composto da bianco di piombo e lacca e poi un fondo celeste composto da bianco di piombo e indaco. Questi due strati sono distribuiti in modo omogeneo, il rosato è ovunque, l’azzurro nei punti + chiari della veste. Queste due tonalità avevano la funzione di sostenere il blu oltremare. Il rosso scalda il tono e l’azzurro aumenta l’effetto del volume nei punti + chiari della veste. Diversamente i panneggi degli angeli non presentano fondi cromatici ma sono realizzarti sempre con blu oltremare. I manti degli angeli sono più chiari e sembrano + leggeri. Incarnati costruiti con Verdaccio soprattutto nelle zone + in ombra del volto, poi con la tonalità rosa vengono messe in evidenza le gote e le labbra e poi si passa al rosa è+ chiaro per definire l’incarnato, esattamente come descrive cennino Cennini. presenza della vernice sull’opera→ la tempera lascia una superficie opaca ma questo inconveniente veniva risolto passando una vernice sopra, aveva una funzione prettamente ottica, interveniva nella capacità di rapportarsi alla rifrazione della luce in un rapporto legante-pigmento la vernice è un elemento estremamente delicato perché tende a scurirsi. CROCE DI SANTA MARIA NOVELLA, GIOTTO, 1295 circa. Disegno preparatorio che limita nei dettagli la figura di cristo e dei dolenti, con la costruzione dei lineamenti e del panneggio, non solo utilizzando il carboncino con inchiostro, ma anche con una serie di incisioni, per costruire soprattutto i panneggi delle figure. Strato pittorico→ tecnica che utilizza la tempera a uovo, anche in questo caso sovrapponendo la tempera ad uovo con strutture sottili. Gli incarnati sono resi con due tonalità, rosa e rosa scuro. Lineamenti con le linee nere. Anche nella croce di santa Maria novella troviamo dei sottofondi cromatici, troviamo un sottofondo cromatico rosso, il rosso potrebbe essere servito per utilizzare anche quantità minori di pigmento blu anche perché creava uno strato cromatico intenso. Nel fondo intorno al corpo di cristo che è sempre blu oltremare, troviamo una stesura celeste accanto ad una stesura rosa. I fondi cromatici sono molto sottili mentre lo strato pittorico di blu oltremare ha uno spessore che è 4 volte quello preparatorio. Difficile capire perché vi sono uno strato azzurro, poi uno rosa e poi lo strato pittorico vero e proprio, non trova un riscontro preciso nelle fonti e soprattutto non trova un riscontro in Cennino Cennini. Altro elemento è la presenza di una vernice protettiva composta da olii e resine, diffusa oggi in modo disomogeneo, che è stato trovato in numero 61 consistente di stratigrafie, era stata rimossa in restauri precedenti. Cornice→ Cennino Cennini parla del verniciare dopo aver dipinto non solo le tavole ma tutti i lavori realizzati al di fuori del muro. Verniciatura: fase del procedimento importante. Il libro dell’arte non è un ricettario ma un trattato, quindi non abbiamo la ricetta della vernice. Quello che ci interessa nella lettura di Cennini, è la sua attenzione a questa ultima fase dei dipinti su tavola. Secondo Cennini → meglio verniciare aspettando che tutti gli strati siano asciutti. Se il colore non è completamente asciutto, si rischia di bagnare la tempera e di mischiare i colori. Non ci dà indicazione su come sia questa vernice, ci viene detto solo di utilizzarla al fine di ottenere una vivacità ed una freschezza dei colori. La vernice è un liquido forte, tuttavia, non ci vengono date altre informazioni. Sappiamo che si usava fino al XV secolo. La sandracca, ossia una resina ricavata da una conifera che si trovava in Africa settentrionale, e in Spagna. La resina è una sostanza trasparente talvolta leggermente pigmentata e appiccicosa. Il manoscritto bolognese riferisce due ricette: 1. Mano efficace, vernice composta da olio, semi di lino fresco, allume di rocca, spicchi d’aglio tritato, gomma arabica e chiari d’uovo sbattuti. 2. Ricetta che sembra più attendibile realizzata a base di gomma di ginepro, e olio di semi di lino. L’utilizzo delle resine che non sono presenti nel manoscritto bolognese, le troviamo invece in altre fonti per esempio nell’ Armenini, nei “Veri precetti della pittura” in cui si parla di una vernice fatta a base di resina di abete e applicata alle tavole riscaldate al sole. In realtà, anche Cennini consiglia di mettere le tavole al sole, forse proprio per favorire la distensione della vernice sul dipinto perché probabilmente si trattava di una sostanza densa e poco scorrevole che quindi riscaldata dai raggi del sole si ammorbidiva e si distendeva sulla superficie del dipinto. Secondo Cennini la superficie deve essere dipinta e non deve esserci nulla che dia fastidio alla stesura della vernice. Inoltre, non ci deve essere vento, altrimenti la polvere si mischierebbe insieme alla vernice e non può più essere rimossa con la conseguenza di creare una superficie opaca e torbida. Dopo aver esposto al sole sia la tavola che la vernice, bisogna distendere quest’ultima dappertutto, aiutandosi con le mani facendo attenzione a verniciare solo sopra la tempera e non sopra ad eventuali dorature, poiché sull’oro che è stato precedentemente brunito non possono essere passati altri liquidi. La vernice si stende con la mano perché deve essere stesa in maniera molto sottile e in modo omogeneo su tutta la superficie dipinta. Inoltre, la vernice può essere passata con una spugna assorbendola e aggiungendone laddove ce ne sia bisogno. Per far asciugare bene la vernice, è necessario farla cuocere bene; inoltre, non sempre è necessario esporre la tavola al sole per un tempo eccessivo, poiché questo potrebbe creare fessurazioni o altri tipi di degrado al supporto. Giorgio Vasari parla della pittura a tempera in due capitoli: - nel XX capitolo racconta della tempera vera e propria, ossia quella a uovo praticata dai maestri; - nel XXV parla invece della tempera a guazzo o a colla, tecnica che gli è più familiare perché appartiene al novero di anni in cui scrive. Mentre Vasari scrive “le Vite”, la tecnica della pittura a tempera a base di uovo non è più in uso mentre domina la pittura ad olio. 29 aprile 2020 64 retro. Stratigrafia più semplificata, non è presente incamottatura, vi è la presenza di fibre vegetali (stoppa) lungo le commettiture per creare movimento, è uno strato che serve per seguire i movimenti della tavola. TELE → Vasari dedica il capitolo XXIII dell’introduzione alle tele. Vasari ci dice che la pittura su tela era utilizzata per commerciare comodamente i dipinti, arrotolandole per essere più pratiche da trasportare. Ma le pitture su tela proprio perché devono essere arrotolate non possono essere ingessate perché si creperebbe il gesso. Sebbene sia stato trovato qualche esempio con un ingessatura molto fine è più comune trovare altre preparazioni, Vasari ci dice che si fa una pasta di farina di olio di noce e due o tre macinate di biacca, diventa una pasta malleabile, quando le tele hanno avuto 3/4 mano di colla passata da un verso all’0altro con il coltello si passa questa passa andando ad oscurare tutti i buchi, fatto ciò si danno una o due mani di colla dolce e poi mestica o imprimitura e alla fune si può dipingere ad olio secondo il modo che ha già descritto per i dipinti su tavola. Caravaggio sfrutta i colori della mestica per realizzare i fondi. 30 aprile 2020 DIPINTI MURALI A SECCO lavorare a secco significa predisporre gli strati preparatori in modo particolare. Cercando di diminuire la capacità assorbente degli strati preparatori. Strato di imprimitura, Vasari lo usa come sinonimo di mestica ma spesso il termine imprimitura viene utilizzato come strato preparatorio per dipinti su tavola, altri studiosi lo utilizzano come derivante dal termine inglese priming, preparazione tra il composto di gesso e colla e la pittura vera e propria. Quest’ultima è la definizione più corretta. L’imprimitura va così a rifinire per bene il fondo prima di dipingere, anche i sottofondi cromatici sono definiti imprimiture, hanno anche una funzione strutturale oltre che cromatica. Sono strati sottili spesso difficili da intercettare. L’imprimitura è a base di oli e pigmenti siccativi (biacca, giallorino e terre), serviva proprio come base per poter dipingere ad olio e anche su muro. FONTI, PITTURA A TEMPERA→ Cennino Cennini, il libro dell’arte cap. LXXII ci dice che la superficie viene impregnata con emulsione molto diluita di uovo e acqua (1 uovo in 2 scodelle di acqua); Vasari nel cap. XX del volume I delle Vite ci dice di stendere una o due mani a caldo della stessa colla impiegata per i colori. FONTI, PITTURA AD OLIO→ Cennino Cennini, il libro dell’arte cap. XC ci dice di dare una mano di colla leggera oppure un’emulsione di uovo intero sbattuto con lattice di fico; Giorgio Vasari nelle Vite, vol. I, cap. XXI e XXII ci dice che si satura la superficie con due o più mani di olio. Una volta che la superficie è asciutta, vi si applica uno strato sottile di olio, bianco di piombo, giallorino e argilla. TRATTATO DI ARCHITETTURA (1460-1464) Filarete, “Colori da utilizzare ad affresco” COMMENTARI Ghiberti 1450 ca. “Leganti oleosi” DE RE AEDIFICATORIA Leon battista Alberti 1450 ca. “Additivi vegetali nelle malte” -PITTURA A TEMPERA, IMPREGNARE LA SUPERFICIE DELL’INTONACO FINO A SATURAZIONE CON LO STESSO LEGANTE O CON LEGANTE AFFINE A QUELLO IMPIEGATO PER I COLORI -quantità incontrollabile, - distribuzione disomogenea → substrato poco omogeneo. -PITTURA AD OLIO, IMPASTANDO AL LEGANTE UNA CARICA MOLTO SOTTILE FORMANDO UN VERO E PROPRIO STRATO PREPARATORIO COMPATTO E POCO POROSO. Il rapporto fra materiale poroso e igroscopico (intonaco) e uno che lo è poco (preparazione finale) dà luogo ad una struttura che non consente all’umidità che proviene dal supporto di evaporare velocemente. Ristagno di umidità dell’intonaco → dilatazione → distacco. Tra gli esempi più antichi di pittura a secco sono i dipinti nel transetto della basilica di assisi dipinti da Giotto. Le indagini condotte durante l’ultimo restauro avvenuto a seguito del terremoto del 1997, hanno affermato l’utilizzo di pigmenti a base di piombo quindi che si utilizzano a secco e incompatibili con la pittura ad affresco, inoltre si è potuto constatare l’utilizzo di oli siccativi, sostanza organica che si percepisce analizzando con luce ultraviolette le sezioni. In altri casi come nelle preparazioni dei blu si sassiste anche ad un doppio utilizzo di procedimenti, da un lato troviamo lo strato azzurro chiaro 65 con biacca che ha tonalità giallastra, dall’altro abbiamo la situazione in cui l’azzurro, leggermente inverdito trasformato in malachite, si trova al di sopra di una preparazione nera al di sopra di un intonaco giallastro. Le indagini condotte sul maestro oltremontano offrono un esempio importante di pittura medievale a secco. Tra il colore e le stesure si potrebbero distinguere anche diverse capacità. Effetti coloristici nuovi che si possono ottenere con la tecnica ad olio. CAPPELLA DEI MAGI A PALAZZO MEDICI RICCARDI A FIRENZE realizzata da Benozzo Gozzoli, sebbene l’intonaco sia steso per giornate ci sono degli elementi dipinti su tutte le giornate in modo continuo, questi elementi insieme ad alcuni dettagli vengono dipinti utilizzando olio di lino e olio di noce come legante, questi oli permettono di creare effetti di trasparenza, sotto queste pitture ad olio vi sono delle imprimiture, ad affresco non sono dipinte solo le grandi imprimiture del fondo ma anche il paesaggio. La tempera serve ad arricchire la tavolozza con colori che non sarebbe stato possibile utilizzare ad affresco. L’affresco steso come base sulle giornate per raggiungere effetti calcolati, avere colori brillanti e sfumature che non si possono ottenere con l’affresco. Altro esempio LA CAMERA DEGLI SPOSI DI ANDREA MANTEGNA CASTELLO DI SAN GIORGIO A MANTOVA 1465-74 nei documenti è testimoniato l’uso dei materiali. Parete e volta ad affresco con alcune parti finite a secco, mentre la parete del camino è realizzata quasi esclusivamente con la tecnica a secco. Sopra la parete è presente quasi sempre uno strato isolante con olio siccativo e biacca, olio di lino e noce. È un’imprimitura, la tecnica è a tempera grassa quindi composta da uovo e da olio. Anche Mantegna sperimenta un nuovo metodo per dipingere in trasparenza, è indicativo che il cambiamento di tecnica appartiene ad un cambiamento che avviene in corso d’opera ma che precede la stesura della pellicola pittorica. Gli intonaci sul camino sono stesi per ampie porzioni rispetto a dove procede per giornate molto piccole, dipinte ad affresco e finite poi a secco. L’olio su muro ha un ruolo di sperimentazione in questo periodo mentre nel 500 diventerà una tecnica molto diffusa nonostante si prediliga nelle fonti e in Vasari la tecnica dell’affresco, che è il punto di riferimento massimo della tecnica pittorica murale. Artisti come Leonardo usano spesso l’olio per la realizzazione di velature e per creare atmosfere possibili solo utilizzando la pittura ad olio. Le sperimentazioni di Leonardo portano ad estendere ai dipinti murali le tecniche sperimentate su supporto mobile, nel cenacolo si assiste ad una tecnica affine alla pittura su tavolo realizzata con imprimitura ad olio e biacca e con stesure di colore con legante a base di olio e tempera emulsionante. Lomazzo parla dell’uso dell’olio “mediante colori macinati in olio di noce di spica e d’altre cose”, Eastlake diffonde una ricetta di Leonardo per estrarre a freddo l’olio di noci, questo significa che nel 500 vi era un utilizzo di pittura ad olio che vede fra gli sperimentatori di questa tecnica Leonardo. Nel cenacolo la pellicola pittorica è molto deteriorata. Sequenza ricostruttiva del cenacolo: intonaco, costituito da un impasto di granuli di calcite, brucite, feldspati e quarzo impregnati da un legante proteico (uovo) → fondo compatto colore giallino; strato di imprimitura sottile 10/20 micron a base di biacca, olio di lino e uovo; pittura a secco → leganti: uovo e olio di lino → TEMPERA GRASSA. Sebastiano Del Piombo nella cappella Borgherini in San Pietro in Montorio usa la pece greca per dipingere ad olio, presenta una decorazione che si trova nell’abside della cappella con flagellazione nell’emiciclo. Anche Raffaello avrebbe voluto cimentarsi nella pittura ad olio su muro mentre era alle prese con la decorazione pittorica della sala di Costantino, aveva predisposto la decorazione di una parete, nella vita di Giulio Romano viene riferito un passaggio in cui dice che Raffaello dopo aver fatto preparare la parete abbandona la pittura a secco e decide di tornare alla sua tecnica, l’affresco. Ma alcune figure della stanza sono dipinte ad olio con al di sotto una preparazione diversa da quella dell’affresco. Sebastiano nella calotta absidale dipinge ad affresco a giornate. La flagellazione non è dipinta ad affresco, non si trovano giornate e incisioni per la trasposizione del disegno, è un dipinto a secco. Sulla pellicola si trovano solo delle incisioni dirette leggerissime che seguono il tracciato dell’architettura. Vasari: predisposizioni su muro di più mani di olio di lino cotto, è un procedimento molto semplice ed elementare, ma Sebastiano utilizza la seconda tecnica descritta da Vasari, cioè di utilizzare degli strati dei priming (?) preparatori su cui stendere i colori, in particolare nella flagellazione si ritrovano in alcuni punti delle stratigrafie con strati organici stesi per preparare la superficie per il dipinto ad olio. FLAGELLAZIONE DIPINTA NELL’EMICICLO DELLA CAPPELLA BORGHERINI IN SAN PIETRO IN MONTORIO e FLAGELLAZIONE SU TAVOLA OGGI CONSERVATA AL MUSEO CIVICO DI VITERBO, entrambe opere di Sebastiano del Piombo, confronto: i due dipinti presentano il medesimo soggetto dipinto su tavola e dipinto 66 su muro. Ci sono molti elementi che coincidono. Vasari non accenna all’utilizzo di cartoni usati in contesti diversi, ma questi dipinti hanno delle cose in comune, innanzitutto sono dipinti ad olio, tecnica privilegiata da Sebastiano del Piombo. Il confronto tra le opere nasce proprio dall’ipotesi di trovare un cartone unico. La flagellazione di Viterbo sembra essere proprio una seconda versione del dipinto murale. La composizione, cioè lo schema della Borgherini è rispettato sia nella figura di cristo che nella figura di sinistra, che flagella cristo. Un modello comune di riferimento che può essere stato tratto dalla cappella Borgherini e poi riprodotto a Viterbo. Questa ipotesi si è resa concreta e palese con il confronto fra i disegni preparatori, sono state trovate delle tracce di disegno preparatorio, soprattutto sui volti, rispetto alla pietà di Sebastiano sempre a Viterbo in cui il disegno è molto più vivido e lineare, questo è più abbozzato. Nella flagellazione di Viterbo si rifà al modello della Borgherini perché non solo la figura di cristo viene ricalcata ma si rispetta lo schema compositivo. Si vede bene la posizione della mano che sembra semplicemente abbozzata e quasi sfumata, i due corpi sono stati riproporzionati, le misure non sono le stesse, il cartone viene dunque ingrandito e ridotto per necessità. C’è un forte rapporto di sovrapposizione tra le due figure e anche nel rapporto tra la figura e lo spazio. Il rapporto con LA PIETA’ DI SEBASTIANO DEL PIOMBO CONSERVATO NEL MUSEO CIVICO DI VITERBO è inevitabile, qui siamo in presenza di imprimiture colorate, che diventano sempre più un elemento caratterizzante. In questo caso Sebastiano usa un’imprimitura grigia a base di biacca per creare effetti ruvidi soprattutto per dipingere il corpo di cristo, vi è anche un’imprimitura rossa, una tonalità più calda sotto il manto blu della vergine. Crea dei fondi cromatici su cui dipingere ad olio. L’imprimitura colorata rende difficile l’individuazione del disegno preparatorio. Il paesaggio ha una struttura diversa, presenta un’assenza quasi totale di disegno perché il rapporto di Sebastiano del piombo con la pittura Veneziana passa attraverso il procedimento. Disegno della vergine corrispondenza con il disegno dell’albertina. La stessa caratteristica la troviamo nelle mani della cappella Barberini, ancora una volta abbiamo un disegno di riferimento, rapporto stretto tra i disegni di Sebastiano e di Michelangelo. Vasari sostiene che il dipinto nella cappella Borgherini sia stato realizzato da Michelangelo.
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