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Appunti sul Romanticismo, Alessandro Manzoni e i Promessi Sposi., Appunti di Italiano

Una panoramica sul Romanticismo, corrente culturale che si sviluppa nel secolo 1800. Si parla della sua origine in Germania, della sua diffusione in Europa e delle sue manifestazioni artistiche. Si analizza il dibattito classicistico-romantico e si evidenziano le tendenze opposte alla ragione. Il Romanticismo si contrappone alla cultura liberale dell'Illuminismo e porta alla ribalta la storia, il sentimento, la nazione e il popolo.

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 16/09/2022

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silvia-marsiano 🇮🇹

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Scarica Appunti sul Romanticismo, Alessandro Manzoni e i Promessi Sposi. e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! IL ROMANTICISMO L’ANNO 1800, UNA SCHEMATIZZAZIONE Cronologicamente parlando, il Romanticismo si colloca nel secolo 1800, anche se si tratta di schematizzazioni e di semplificazione, nel senso che, come per il Neoclassicismo contemporaneamente si parlava di altre correnti culturali, come la poesia sepolcrale, l’ossianesimo e lo sturm und drang, che, pur collocandosi nel secolo dei lumi, l’Illuminismo, non hanno più niente a che fare con la ragione, ma già preludono all’epoca successiva, quella del Romanticismo. Tanto più che il Romanticismo comprende tutte le manifestazioni artistiche, e si diffonde in tutta Europa attestandosi su condizioni culturali completamente diverse; per cui parlando di Romanticismo in Francia, in Spagna, in Inghilterra e in Italia, si hanno dei fenomeni culturali molto diversi tra di loro, perché la tradizione culturale in cui le idee nuove del Romanticismo si innestano è diversa di paese in paese. In senso moderno quando si parla di “romantico” si pensa a qualcosa che abbia a che fare con il sentimento, ma in origine Romanticismo deriva dalla parola “romantic” inglese, che non voleva essere un complimento, ma fu un’etichetta nata dalla critica a un certo tipo di letteratura considerata di livello inferiore. Romantic, infatti, fu un aggettivo utilizzato per designare degli scritti fantastici, romantic è una derivazione dei romanzi cavallereschi medievali di contenuto amoroso, i “romance” francesi: questa accezione negativa data dalla critica ad alcuni movimenti letterari sarà una sorta di caratteristica, si troverà per il decadentismo, per esempio. Tuttavia dalla originaria accezione negativa che si mantenne per tutto il 600 e per buona parte del 700, si passò a un’accezione positiva, cioè per romantico e per Romanticismo, si intese individuare quei paesaggi naturali o quelle situazioni emotive interiori che erano capaci di suscitare l’immaginazione, e quindi di provocare delle sensazioni piacevoli e raffinate: dunque per romantic prima si individuò un certo tipo di letteratura considerata inferiore, dopodiché si designarono una serie di manifestazioni in cui entrava in gioco l’immaginazione. Dal punto di vista ideologico ed estetico il Romanticismo nasce in Germania nel 1799, con il famoso Circolo di Jena, che ruota attorno a una rivista chiamata “Athenaeum”: in questo gruppo si possono annoverare filosofi come Fichte e Schelling, o letterati come Schlegel, di cui si parlerà a proposito di Manzoni, che fu il primo a designare con il termine romantico la poesia e la sensibilità moderna, per contrapporle a quelle classiche; da qui nacque il “dibattito classicistico-romantico”, cioè tra i sostenitori del classicismo e i sostenitori del romanticismo. Un altro esponente di spicco è Novalis, il quale finirà per identificare le due cose, poesia e Romanticismo, introducendo il concetto di lontananza, che è un concetto strettamente familiare a proposito di Leopardi (per lui tutto ciò che è lontano è romantico, in quanto chiama in causa l’immaginazione). Posto che il Romanticismo nasce in Germania, con questi nomi, si diffonde un po’ da tutte le parti con sentimenti in comune da parte degli artisti e degli intellettuali, come i sentimenti di irrequietezza, insoddisfazione, desiderio che si appaga di sé stesso, stati malinconici. In Inghilterra la poesia romantica comincia con Coleridge e Wordsworth con le “Lyrical Ballads”; il loro romanticismo parte dall’osservazione dei paesaggi naturali per suscitare l’immaginazione, ma non sono loro i più famosi romantici inglesi: si pensi infatti a Lord Byron, il poeta maledetto per eccellenza, piuttosto che a Jane Austen, piuttosto che a Charles Dickens, per cui il romanticismo si pluralizzò in una serie di esponenti, anche di generi letterari molto diversi, nell’ambito dello stesso paese. In Francia avremo personaggi del calibro di Hugo, De Balzac, Stendhal. Il Romanticismo comincia a nascere e a diffondersi nei primi 15 anni del 1800; il clima è quello napoleonico imperante fino al 1815, quando c’è il famoso Congresso di Vienna, a seguito del quale viene sancita la definitiva sconfitta di Napoleone e la spartizione dell’Europa tra l’ancien regime. Quando nasce il Romanticismo il clima culturale è quello francese, impera il regime politico imposto da Napoleone e le idee dell’illuminismo, per cui il Romanticismo (come nuovo fermento di idee), si contrappone a questo tipo di cultura, che è la cultura maggioritaria, in maniera esplicita. In realtà, però, già nel secolo dei lumi si erano manifestati segni di sentimento, di cose che non avevano a che fare solo con la ragione ma anche con il sentimento: sicuramente quello che si è manifestato nella parte finale, quindi la poesia elegiaca, l’ossianesimo, lo sturm und drang, ma anche nell’ambito dell’Illuminismo vero e proprio, la Rivoluzione francese, per esempio, è l’esatto contrario della cultura dei lumi. Se si pensa al pensiero di Rousseau, per esempio, lui parla di tutto per il popolo, lo stesso Voltaire, si parla di riformismo paternalistico, cioè di una guida che dall’alto dovrebbe migliorare le condizioni di vita delle masse. La Rivoluzione francese fu la ribalta, sul piano della storia, delle masse che di illuminato non avevano proprio nulla, le quali cedendo senz’altro non agli stimoli della ragione, ma a quelli della carica passionale, e quindi della violenza, pensavano bene di diventare finalmente soggetto della storia, artefici della storia e non più oggetto; non solo, la Rivoluzione francese aveva dimostrato come molte delle idee portate avanti dagli Illuministi, per quanto corrette in astratto, dovevano essere adattate alla situazione concreta della gente. Dunque già nell’Illuminismo ci sono segni di tendenze opposte rispetto alla ragione, e il Romanticismo interpretò la cifra più importante di opposizione alla ragione, anche se pure il romanticismo assume atteggiamenti controversi e contraddittori. Posto che il Romanticismo nasce nei primi 15 anni del secolo 800, posto che nasce con volontà di contrapporsi alla cultura liberale di quel momento, cioè quella Illuministica, porta alla ribalta tante cose che l’Illuminismo aveva messo da parte. Prima di tutto la storia, quando si sente parlare di cultura romantica, balzano in continuazione sotto gli occhi parole come sentimento, nazione, popolo e storia. La riscoperta della storia, lo storicismo, fu una riproduzione romantica, infatti gli illuministi nel loro considerare irrazionale la maggior parte della realtà, fecero la cosiddetta “tabula rasa”, vollero ripartire da zero, eliminando tutto quello che era stato fatto prima di loro. Proprio questo disinteresse per la storia, in particolar modo la condanna di alcuni periodi storici, vedi in particolare il Medioevo, che per gli illuministi era il trionfo dell’oscurantismo, fu assolutamente ribaltato dalla cultura romantica: i romantici studiano la storia perché sono convinti che lo studio della storia (e per storia si intende non storiografia ufficiale, ma si intende tutto: le cronache, le biografie, il folclore, i costumi, la religione, cioè la ricostruzione a 360 gradi della storia di un popolo), sia l’unico modo per comprendere l’anima del popolo. In particolar modo proprio il Medioevo, che era stato demonizzato dagli illuministi, secondo i romantici è un periodo da rivalutare, perché nel Medioevo a partire da quello che sopravviveva dell’Impero romano, nascono le nazioni moderne: la Francia, la Germania, l’Italia, la Spagna con una propria lingua, una propria cultura e la religione cristiana che è il grosso spartiacque tra il mondo classico e il mondo romano. perché per noi continuava a essere prioritario il Risorgimento nazionale. Per questo motivo, come gli uomini del Caffè, anche gli uomini del Conciliatore, si ponevano di discutere i problemi relativi alla conquista dell’indipendenza italiana. Continuarono la loro opera sempre a Milano, ponendosi gli stessi problemi linguistici, cioè di scegliere una lingua più semplice che potesse essere veicolo dei nuovi contenuti a prescindere dalla forma. Romanticismo per gli Italiani significò anche e soprattutto un dibattito: la polemica classicistico- romantica, che si innescò nel 1816 a seguito della pubblicazione sulla “Biblioteca Italiana”, una rivista letteraria particolarmente prestigiosa, di un articolo firmato da Germaine Necker, francese di nascita, baronessa di Staël-Holstein, meglio nota con il nome di Madame De Staël, che era una critica di letteratura; nel suo articolo rimproverava la letteratura italiana di essere rimasta indietro rispetto al generale movimento di idee nuove introdotte dal Romanticismo europeo, cioè accusava la nostra letteratura di essere arcaica, pedantesca, classicistica, cioè troppo legata al passato. Fondamentalmente per lei in Italia esistevano due tipi di poeti: o i classicisti, schiacciati dal peso della tradizione, oppure i verseggiatori frivoli, ma privi di contenuto; per il resto la letteratura italiana, secondo lei, non era stata in grado di produrre nient’altro di significativo. È vero che la nostra letteratura nel periodo dell’imperialismo napoleonico era stata effettivamente vuota, legata più alla celebrazione del regime che ad altro, però non è vero che la letteratura italiana aveva ignorato la letteratura europea, per esempio Foscolo subì l’influenza europea e a sua volta produsse una letteratura di respiro europeo; nel momento in cui scriveva la De Stael però Foscolo era andato in esilio, Monti (maestro di Foscolo) si era ritirato, per cui effettivamente la letteratura italiana offriva un panorama abbastanza ristretto. Questo atto d’accusa pubblicato dalla De Stael suscitò una vivace polemica da parte dei suoi sostenitori, i romantici, e di coloro i quali avversavano le sue idee, cioè i classicisti; questi ultimi si sentivano insultati da questa accusa e risposero a diversi livelli: ci fu chi si limitò a insultarla, chiamandola vecchia pitonessa, e ciò non ebbe alcuna utilità; altri, come Leopardi e Giordani, le risposero in maniera più circostanziale, motivando la loro scelta del classicismo in ragione di alcune considerazioni. Per Giordani, che tra l’altro fu il traduttore italiano dell’articolo della De Stael, il motivo per cui la letteratura italiana non era e non doveva essere uniforme a quella europea era dovuto al fatto che le tradizioni culturali di provenienza erano molto diverse, per cui pretendere uno stesso risultato da situazioni completamente diverse non era possibile, e lui metteva in guardia nei confronti di certe forme di Romanticismo europeo, soprattutto tedesco, in cui la letteratura diventava quasi un fatto irrazionale, una letteratura medievaleggiante a sfondo fantastico, popolata di streghe, folletti, etc. Anche se Giordani dava ragione alla De Stael sul fatto che in Italia si era troppo condizionati dal seguire le regole aristoteliche e la mitologia, sosteneva che la nuova mitologia nordica che popolava la letteratura romantica tedesca non era molto diversa, per cui se si criticava l’una, bisognava criticare anche l’altra; sosteneva anche che la letteratura italiana, nel bene o nel male, doveva fare i conti con le proprie tradizioni e il proprio passato, per cui aspettarsi che la letteratura italiana si uniformasse a quella europea solo perché in quel periodo storico la letteratura europea aveva proposto nuovi modelli non era giusto. La De Stael in effetti, dopo questa polemica, pubblicò una sorta di rettifica sulla Biblioteca Italiana, un articolo intitolato “Risposta alle accuse mossele”, in cui fondamentalmente precisava che il suo scopo non era quello di convincere la letteratura italiana a uniformarsi a quella europea, cioè a imitarla, ma lei sosteneva in realtà la necessità di studiare la letteratura europea. Quello che secondo lei era l'anello mancante era il fatto che la letteratura italiana era rimasta chiusa dentro i suoi orizzonti senza ampliarli, e questi orizzonti andavano ampliati studiando appunto la letteratura europea, in modo che i letterati italiani diventassero capaci di quello che lei definisce, in traduzione, “originalità trascendente”: quanto più l’intelletto acquista forza attraverso lo studio, quanto più interiorizza questo studio ed è capace di riproporlo in maniera originale, che trascende il punto di partenza arrivando a essere qualcosa di diverso. Nonostante la rettifica, il dibattito rimase aperto, coinvolgendo quasi tutti gli intellettuali di questo periodo e animando il panorama culturale letterario italiano, tanto più che il ritorno dell’Austria dopo il 1815 aveva cercato di appiattire e circoscrivere ogni forma di dibattito, perché per il governo austriaco la cosa più importante era il consenso, o spontaneo o attraverso la censura. Coloro che sostennero le idee della De Stael presero il nome di Romantici progressisti, gli intellettuali della nuova stagione che si ponevano in linea di continuità con quelli della stagione precedente (quelli del Caffè) erano anch’essi di estrazione aristocratica o borghese, avevano anch’essi il centro della loro produzione a Milano e si posero consapevolmente il problema di rivolgersi alla collettività italica con organi di stampa che non fossero filogovernativi: infatti quando l’Austria ritorna, impone la censura, nel senso che i giornali che rimasero aperti furono solo tre, ad eccezione della Biblioteca Italiana, e questi tre giornali erano tutti filogovernativi, sovvenzionati dall’Austria; così anche la Biblioteca Italiana, che era non un giornale ma una rivista, anche molto prestigiosa (di 140 pagine), che pagava ad altissimo prezzo le sue collaborazioni proprio perché era sovvenzionata dal governo e ovviamente in questa rivista nessun tipo di idea ostile al governo poteva essere veicolata. Per cui gli intellettuali che continuavano a sentire il problema del Risorgimento nazionale si posero il problema di fondare un organo di stampa che fosse loro e libero, nei limiti del possibile, aggirando la censura governativa, e nel frattempo tennero aperto un canale di comunicazione con il grande pubblico, ricorrendo a quella semplice pubblicistica che fu la stessa della stagione illuministica, cioè i pamphlets, gli opuscoli, i saggi brevi, in modo da veicolare in maniera immediata idee e concetti ritenuti fondamentali per provocare nell’opinione pubblica collettiva la necessità di combattere per la propria libertà e indipendenza. La parte più illuminata della borghesia italiana e di Foscolo aveva sperato che con la caduta di Napoleone ci sarebbe stato il riscatto nazionale italiano, ma in realtà non avvenne, evidentemente la classe media italica non era ancora pronta e quindi si passò da un regime all’altro. IL CONCILIATORE La polemica ristagnò nel 1817, e nel 1818 riprese in maniera vivace grazie alla fondazione di un nuovo organo di stampa, il Conciliatore, che fu fondato a Milano dai romantici progressisti nel 1818 e che, esattamente come il Caffè, con cui voleva mantenere una conciliazione (da qui il titolo, il tentativo di conciliare le tesi illuministiche e quelle romantiche), ebbe vita breve, difatti a distanza di circa un anno fu chiuso dalla censura governativa. Proprio come il Caffè, gli intellettuali che scrivevano nel Conciliatore volevano offrire un organo di stampa più libero rispetto agli altri, ma ovviamente per non essere censurati dovevano mascherare la vera natura dei loro contributi parlando di altro. Mentre gli intellettuali del Caffè si erano impegnati a non parlare ufficialmente né di Stato né di Chiesa, anche se lo facevano indirettamente, gli uomini del Conciliatore parlavano ufficialmente solo di letteratura, ma era chiaro a tutti che parlare di rispetto delle regole aristoteliche, uso della mitologia, rispetto per la tradizione classicista, significava essere nel primo caso classicisti, cioè legati all’ancien regime, nel secondo romantici progressisti, quindi dietro le battaglia letterarie si nascondevano gli stessi problemi della stagione precedente. Il direttore del Conciliatore fu Silvio Pellico e gli uomini del Conciliatore furono i vari Borsieri, di Breme, Berchet, che sono gli stessi che cospiravano contro il governo e che nel 1821 andranno a popolare le carceri austriache, non per niente Silvio Pellico è autore del “Le Mie Prigioni”, un testo composto durante la detenzione allo Spielberg, una delle carceri più dure del governo austriaco. Lo stesso Pellico, scrivendo al fratello, chiariva i termini della questione, dicendo che per classicisti si intendevano solo gli ultras e le spie, mentre per progressisti si intendevano i sostenitori delle nuove idee romantiche, ma anche i sostenitori del Risorgimento; infatti fondamentalmente si cercò di contrapporre a una letteratura classicista, intesa come letteratura contemplativa, evasiva, che si preoccupava solo di intrattenere e quindi era definita una letteratura per i morti, una letteratura limitante, cioè che colpisse la coscienza del lettore, e che infatti fu definita una letteratura per i vivi. Sostanzialmente la letteratura classicista era considerata fine a se stessa e soprattutto lontana dalle coscienze moderne, perché veicolava un sistema di conoscenze ormai molto e sepolto nella contemporaneità; contemporaneamente al rinnovamento dei contenuti, si parlava del rinnovamento della lingua, perché le cose vanno di pari passo: se ci si vuole rivolgere a un pubblico ampio, non si può utilizzare una lingua eccessivamente artificiosa, come voleva la tradizione classicista, perché si sarebbe fatta una scrematura sostanziale del pubblico. Per i Romantici progressisti e per gli uomini del Conciliatore non era importante la bellezza formale fine a se stessa, ma era importante che la letteratura veicolasse dei contenuti, quindi esattamente come gli uomini del Caffè, utilizzarono una lingua semplice, quotidiana, addirittura il dialetto, come aveva fatto Parini; mentre gli uomini del Caffè vivevano in una società in cui la classe borghese stava ancora stentando ad affermarsi, gli uomini del Conciliatore si trovano in una società in cui la classe borghese ormai è ampia, rappresenta il nervo dell’opinione nazionale, la figura dell’intellettuale è più libera perché ha la possibilità di fare sentire la sua voce, quindi le condizioni in cui si trovarono ad operare gli intellettuali della stagione romantica rispetto alla stagione illuministica erano più favorevoli affinché il loro messaggio giungesse a destinazione. Per questo motivo il Romanticismo italiano fu molto diverso dal Romanticismo tedesco, cioè dal Romanticismo per eccellenza, infatti ripudiò tutti quegli aspetti o retrivi, legati a una rievocazione storica del medioevo, piuttosto che irrazionali, cioè il medioevo popolato di streghe e folletti; il nostro Risorgimento era in funzione risorgimentale e patriottica, perché per noi l’obiettivo era il risorgimento nazionale, per cui centralità al medioevo, come era stata data dalla letteratura romantica, ma non il medioevo della chiesa e dell’impero o delle streghe e dei folletti, ma il medioevo che può avere un eco nella coscienza dei contemporanei, quel medioevo che ha offerto un esempio di patriottismo, in cui i comuni legandosi in alleanza sono riusciti a combattere e a sconfiggere Federico Barbarossa. GIOVANNI BERCHET Giovanni Berchet è autore di un’opera intitolata “Sul cacciatore feroce e sulla Eleonora di Goffredo Augusto Burger” con sottotitolo “Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo”: nella finzione letteraria di questa opera, Berchet finge di essere un signore di mezza età di nome Grisostomo (che tra l’altro era lo pseudonimo con cui firmava i suoi articoli sul Conciliatore) che scrive l’opera indirizzandola al figlio, il quale gli ha chiesto la traduzione delle due ballate di Goffredo Augusto Burger, una sul cacciatore feroce e l’altra sulla Eleonora. Grisostomo invia la traduzione al figlio, che si trova in collegio e ha chiesto la traduzione perché sa che sono dei testi significativi per la letteratura romantica; nel frattempo Grisostomo espone le sue idee a supporto di quelle romantiche, se non che alla fine mette tutto in discussione, nel senso che scherzando ritratta dicendo di essersi divertito alle spalle dei romantici, ecco perché lettera semiseria. L’opera è significativa per alcuni punti: il fatto che la traduzione delle due ballate non è offerta in poesia ma in prosa; è lo stesso Grisostomo che giustifica questa scelta, dicendo che la poesia deve allontanarsi dal giudizio dei critici “scrutina parole” piuttosto che “scrutina pensieri”, sta dicendo cioè Terra per aiutare gli uomini ad elevarsi dalla condizione ferita verso una condizione umana. Il contenuto ricorda “Le Grazie” di Foscolo (peraltro, posto che la composizione non fu mai completata e che Foscolo andò procedendo per frammenti nel corso di 20 anni, fu cominciata nel 1812, quindi l’opera di Manzoni è precedente. L’Urania rispecchia un orientamento della letteratura neoclassica che verrà riproposto da Foscolo e che avrà una versione anche in Monti, cioè la funzione educatrice e civilizzatrice dell’arte e della letteratura. Quest’opera rappresenta il punto più alto, ma al tempo stesso il punto di non ritorno, per quanto riguarda la letteratura di Manzoni rispetto al neoclassicismo. Non è un’opera completamente al di fuori del suo svolgimento spirituale in questi anni, perché il tema (aldilà della mitologia e del neoclassicismo) riguarda la funzione dell’arte nella società, però in forma neoclassica, eccessivamente elaborata e raffinata, in cui è più importante l’aspetto esteriore che non quello interno: questo non soddisfa Manzoni. Tant’è vero che lui in una lettera privata a Fauriel, il suo corrispondente amico, dirà “sono scontentissimo di questi versi, perché li considero assolutamente lontani dalla coscienza moderna, ne scriverò forse di più brutti ma mai più come questi”. Quindi lui stesso dopo aver compiuto l’opera dichiara di doversi allontanare definitivamente dal neoclassicismo, perché secondo lui è una forma di letteratura che non serve a niente, che ripropone un sistema di regole lontane dalla coscienza moderna e quindi lui non ci vuole avere nulla a che fare. LA CONVERSIONE Contemporaneamente si compie l’evento probabilmente centrale nella sua vita, e conseguentemente nella sua letteratura, cioè la conversione. Le biografie portano e riportano l’episodio del miracolo di San Rocco, ammettendo che abbia effettivamente avuto luogo: tuttavia attribuire la conversione di Manzoni a un fatto accidentale come questo, vista invece la centralità che ebbe nella sua vita, è assurdo; difatti se la conversione fosse stata frutto del miracolo di San Rocco, la portata di questa conversione sarebbe stata estremamente minoritaria, quando invece operò in maniera incisiva, non solo nella sua vita ma anche nella sua letteratura, per tutto il resto della sua vita. MIRACOLO DI SAN ROCCO Manzoni si trova a Parigi e passeggia con la moglie, Enrichetta Blondel, quando a un certo punto viene investito dalla folla plaudente che accompagna il corteo nuziale di Napoleone, il quale sta sposando la figlia di Maria Teresa d’Austria in terze nozze. I due vengono investiti dalla folla e separati (Manzoni soffriva di agorafobia: aveva terrore degli spazi aperti) e Manzoni non trova più la moglie. Cerca un rifugio e quello più vicino che gli si offre è la chiesa di San Rocco, nella quale secondo questo episodio lui entra e chiede a Dio come prova della sua esistenza il ritrovamento della moglie, che era lì, ma vista la sua ansia e fragilità questo episodio è stato assunto come simbolico di una profonda rivoluzione interiore che invece in realtà è dovuta ad altro. Essendo un fatto intimo, i motivi attraverso i quali lui matura la sua conversione ed evolve spiritualmente non è dato sapere. Nonostante questo le biografie successive hanno cercato in qualche modo di circostanziare i fatti della vita di Manzoni che hanno propiziato questo processo. Prima di tutto la moglie: si sposa molto giovane e la moglie, Enrichetta Blondel, è calvinista, per cui apparentemente non c’entra nulla con la religione cattolica; innanzitutto però per lui vivere con lei vuol dire vedere come la religione faccia parte della vita di tutti i giorni, perché lei è una fedele convinta, non vive la religione la domenica, ma ci crede davvero, se non fosse che comincia a nutrire dei dubbi, per cui chiede degli incontri con dei sacerdoti cattolici per confrontarsi con loro e il frutto di tutto questo è la sua conversione al cattolicesimo. Chiaro che era presente anche il marito, per cui è probabile che questo processo vissuto dalla moglie, abbia coinvolto anche lui. Lei chiede di risposarlo da cattolica, e nasce la prima figlia, Giulia. Dunque le occasioni e di avvicinamento con la Chiesa cattolica furono tante e lo coinvolsero in prima persona. Circostanze a parte, quello che sappiamo per certo è che la conversione fu l’evento più importante della vita di Manzoni, e lo condizionerà in maniera assoluta e si innesterà su quel rigore morale, su quel senso del dovere, che rappresentano il suo modo di essere, per cui (già su un personaggio del genere) la conversione agisce dando ulteriore serietà e ulteriori contenuti morali. GIANSENISMO Per anni è rimasta aperta la polemica sul presunto giansenismo di Manzoni. Il giansenismo è una corrente interna alla Chiesa che prende il nome dal suo fondatore Cornelio Giansenio, il quale partendo da alcuni degli assunti del pensiero di Sant’Agostino, sulla grazia, la predestinazione e il peccato originale (tant’è vero che l’opera maggiore di Giansenio si intitola “Augustinus”), propone delle nuove tesi rispetto al destino ultraterreno dell’uomo; secondo lui a seguito del peccato originale l’uomo è caduto in un tale stato di prostrazione morale dal quale non è più in grado di venire fuori. Infatti, viene schiacciato dalla cosiddetta delectatio, cioè il piacere per il male, dal quale non riesce a liberarsi e che non gli permette di seguire la forza opposta, cioè la delectatio per il bene. Quindi l’uomo è destinato alla dannazione, e, tranne pochi eletti che sono stati scelti da Dio per essere salvati, gli altri invece andranno incontro alla dannazione. Il pensiero di Giansenio per molti versi è molto simile al calvinismo, che, in sintesi, insiste sul concetto di predestinazione e grazia: secondo la religione calvinista non ci salviamo per le nostre opere e meriti, ma ci salviamo esclusivamente per la grazia. Secondo il calvinismo dunque quando nasciamo siamo già predestinati ad essere dannati o a essere beati, perché è Dio con la sua onnipotenza che ha scelto per noi il destino, e con la sua grazia ne salva alcuni e ne condanna altri. Questo modo di vedere la religione avrebbe potuto tradursi in indifferenza nei confronti del bene: se ti conquisti il paradiso o l’inferno non per tua scelta ma perché Dio ha già scelto in un senso o nell’altro prima che tu nascessi, volendo puoi fare quello che vuoi, tanto non cambia niente. Però nella religione calvinista questo concetto, che avrebbe potuto portare ad una deriva morale, viene riproposto in un altro modo: posto che noi nasciamo predestinati, e posto che è la grazia di Dio che ci salva oppure no, come facciamo a sapere se apparteniamo ai buoni o ai cattivi? L’unico modo che abbiamo di vivere sulla terra è impegnarci a fare il bene, quindi il fatto di essere operosi, produttivi per noi stessi e per gli altri è una sorta di garanzia per noi, una testimonianza prima di arrivare al cospetto di Dio, sia che siamo tra coloro che Dio ha deciso di salvare oppure no. Il giansenismo ruota attorno agli stessi concetti di predestinazione e di grazia; lo scopo era quello di dare rigore alla teologia e rigore alla morale, cioè Giansenio voleva essere un riformatore della teologia introducendo questi concetti, e in effetti la Chiesa in un primo momento non lo condannò, anzi lo esaltò, diventò una sorta di punto di riferimento. A un certo punto però il suo pensiero, proprio perché molto simile a confessioni religiose come quella del calvinismo, fu sconfessato dalla chiesa e addirittura giudicato eretico, per cui il giansenismo rappresenta un’interpretazione interna al cattolicesimo che fu sconfessato dalla stessa Chiesa. La critica ha visto nelle opere di Manzoni un atteggiamento che per alcuni versi possa essere assimilato al giansenismo. In realtà non c’è nulla dal punto di vista dottrinale o teologico di giansenista nel messaggio di Manzoni, semmai l’influenza giansenista la si può trovare nel suo pessimismo: Manzoni è un uomo estremamente pessimista e questo suo pessimismo sulla storia dell’uomo sulla Terra lo riversa nelle sue opere, ma sicuramente non si può parlare di giansenismo. Con il giansenismo ha in comune questo senso della caduta, cioè questo pessimismo assoluto sulla vita dell’uomo sulla Terra a seguito del peccato originale; per il resto nulla lo mette in comune con il giansenismo e quindi le sue opere o esplicitamente religiose o che comunque ruotano intorno al problema morale e religioso sono al di fuori di qualunque possibile condanna. GLI INNI SACRI Gli Inni Sacri sono la prima opera letteraria che compie Manzoni dopo la conversione. Nel suo progetto iniziale dovevano essere dodici, in modo accompagnare le principali festività del calendario liturgico cristiano, e quindi celebrare gli eventi più significativi della liturgia cristiana nell’anno solare. In realtà ne compie quattro, più un frammento Ognissanti e la Pentecoste dopo. Li compie tutti, compreso il frammento, tra il 1812 e il 1815, mentre la Pentecoste è più tarda, del 1822. Dunque sono la Resurrezione, il Nome di Maria, il Natale, la Passione, Ognissanti, che è un frammento (rimase incompleto), e la Pentecoste di 10 anni dopo. Con questa prima opera lui tenta di compiere il cambiamento letterario che aveva già annunciato quando aveva finito di compiere l’Urania. Il genere letterario adottato è quello della lirica; quando pensiamo alla lirica pensiamo a Petrarca, modello assoluto per la lirica italiana: quella di Petrarca è una lirica soggettiva in cui il poeta esplora sé stesso e il proprio animo. Quella di Manzoni invece non è più una lirica soggettiva, ma vuole essere una lirica oggettiva, morale: lui non vuole interpretare i propri sentimenti, ma i sentimenti del popolo cristiano, quindi abbandona definitivamente la materia dell’Urania, la mitologia, che non ha più senso, e abbraccia un’altra materia, quella cristologica: la narrazione della vita e del messaggio cristiano, perché la considera utile e oggettivamente interessante. Manzoni punta su questa oggettività cercando di interpretare il sentimento popolare, quindi non si tratta più di qualcosa di squisitamente soggettivo che riguarda solo lui, ma che cerca di interpretare il senso comune. Cambia materia, cambia il genere letterario lirico e cambia la forma: abbandona le stilizzazioni della tradizione classicistica e neoclassica, e scrive dei versi che lui stesso definisce più brutti, ma perché lo scopo è quello di avvicinarsi al sentimento popolare. La materia è una materia vera e non più inventata, il genere letterario non è più la lirica soggettiva ma diventa oggettiva, lo stile non è più quello della tradizione ma è uno stile nuovo, molto più semplice, consapevolmente più brutto dal punto di vista estetico, però più utile dal punto di vista morale. Di tutta la possibile gamma di contenuti religiosi sceglie quelli cristologici, perché vuole raggiungere il popolo; per cui il messaggio biblico, oscuro e difficile e che necessita di mediazione teologica, non è quello che si presta allo scopo. Invece la narrazione degli episodi centrali della vita di Cristo risulta non solo più semplice per lui, che d’altra parte è un neofita, per cui non ha avuto tempo di approfondire più di tanto i contenuti teologici, ma è anche il messaggio più semplice da veicolare al popolo, senza considerare che il messaggio cristologico nella sua natura è quello che si avvicina di più alle idee illuministiche di egualitarismo, di democraticità, per cui c’è una consonanza con la sua prima formazione illuministica. IL VERO STORICO, UN’OSSESSIONE Manzoni da questo momento in poi proverà un’ossessione nei confronti del vero storico, cioè della verità storica dei fatti, infatti insieme al dramma (alla narrazione letteraria) nasce anche una prefazione, la notizia, nella quale lui rende ragione sistematicamente dei piccoli cambiamenti che ha dovuto fare rispetto alla realtà storica per esigenze drammaturgiche, così come fa una netta distinzione tra i personaggi storici, quelli che ha trovato effettivamente nelle fonti, e i personaggi letterari, che ha dovuto introdurre sempre per esigenze drammaturgiche: per lui insistere sulla verità storica e distinguere l’operazione storica da quella eventualmente letteraria diventano fondamentali, perché lui condivide un giudizio che riguarda la letteratura, in quanto fondata sull’arte della parola, sulla capacità che la parola ha di persuadere colui che ascolta o legge (infatti il teatro già in età classica era nato per offrire insegnamenti ai cittadini); quindi, posto che la letteratura esercita un potente messaggio su chiunque la riceva, può essere indirizzata o al bene o al male, cioè può essere causa o di miglioramento morale o di corruzione morale. Manzoni è convinto che se lui fa letteratura, avendo quest’ultima questo enorme potere sulla gente, lui deve esercitarlo in maniera seria, e può farlo solo se racconta la verità; le invenzioni e le finzioni secondo lui sono una responsabilità da parte di chi le scrive nei confronti del pubblico, perché in questo modo privano l’arte e la letteratura della sua giustificazione: la letteratura deve raccontare la verità e solo in questo modo si riscatta dall’accusa moralistica di potere determinate anche conseguenze negative in chi la fruisce. Per questo motivo Manzoni è ossessionato dalla ricerca della verità: nel momento in cui racconta la verità non può essere causa di corruzione morale. Questa ricerca ossessiva di vero storico nell’opera si traduce accompagnando l’opera con uno scritto in cui lui giustifica tutte le più piccole variazioni che ha fatto rispetto ai documenti che ha trovato. Nell’opera in sé scardina le regole aristoteliche, che prevedevano le tre unità: di tempo, di luogo e d’azione; l’unità di tempo prevedeva che tutto ciò che veniva rappresentato sulla scena doveva esaurirsi nell’arco di 24h, l’unità di luogo prevedeva che non ci fossero cambi di scena da un atto all’altro (e questo si spiega per motivi di semplicità narrativa, perché cambiare sempre fondale non era fattibile), e l’unità d’azione prevedeva un numero limitato di protagonisti intorno a un’unica vicenda. Queste regole erano diventate regole nel 1500, perché in realtà l’Arte Poetica di Aristotele racconta le modalità di svolgimento del teatro ad Atene, ma non ha imposto queste regole, poi i cinquecenteschi crearono una vera e propria precettistica, e fecero diventare queste indicazioni dei precetti da seguire obbligatoriamente, basandosi sul principio di verosimiglianza, cioè applicando queste regole lo spettatore poteva immedesimarsi. In Manzoni ebbe grande influenza il corso di letteratura drammatica di Schlegel, il quale fu il primo a sostenere l’arbitrarietà di queste regole, cioè fu il primo a dire che erano semplicemente una descrizione della prassi in uso ad Atene e che si basavano su un falso principio, cioè la verosimiglianza, che secondo Schlegel non era fondamentale, perché lo spettatore non deve calarsi nei panni dei personaggi, ma deve guardarli dall’esterno e rendersi conto attraverso il loro esempio dell’insegnamento da trarre. Questo corso portò Manzoni a scrivere una letteratura più libera da tutti i condizionamenti del passato, tra cui le unità aristoteliche; delle tre unità Manzoni ne segue solo una, tra l’altro riveduta a suo modo. L’unità di tempo non viene rispettata, il suo dramma storico dura sette anni, dal 1425 al 1432, e neanche l’unità di luogo viene rispettata, perché la rappresentazione passa da Milano a Venezia, poi al campo di battaglia, poi di nuovo a Venezia (non solo cambia di atto in atto, ma a volte anche all’interno dello stesso atto); l’unità d’azione lui la interpreta come una serie di fatti ridotti a unità. La sua non è una battaglia per una letteratura più bella, e già lo ha già detto negli Inni Sacri, ma per lui la letteratura deve essere interessante e moralmente valida, quindi anche se è consapevole che scrive versi più brutti non gliene importa nulla, perché lui persegue altri obiettivi. Un’altra introduzione importante di Manzoni, fedele a tutto questo ragionamento sono i cori (solo uno in questa tragedia, mentre nell’Adelchi se ne trovano due): il coro solitamente è una sorta di personaggio che interloquisce con il protagonista e lo aiuta a sviscerare i suoi sentimenti, fa andare avanti l’azione o riferisce le cose che non possono avvenire sulla scena, quindi fondamentalmente il coro è parte integrante dell’azione drammaturgica. Il coro di Manzoni, invece, è completamente un’altra cosa: lui cambia temporaneamente genere letterario, non è più drammaturgia, ma apre una fase lirica di riflessione, in cui esprime dei commenti sui fatti che sta narrando dal punto di vista morale e religioso, quindi è una sorta di spazio personale che lui si ritaglia nella narrazione, questo sempre in obbedienza alla sua ossessione nei confronti della verità storica; infatti se lui commentasse man mano che descrive i fatti, influenzerebbe il lettore, cioè darebbe la sua interpretazione dei fatti in maniera esplicita: quando deve fare delle considerazioni soggettive che sente necessarie le mette tra parentesi per non influenzare il resto della narrazione, quando ha finito chiude parentesi e torna alla narrazione. Nel Carmagnola c’è un solo coro che, alla fine del secondo atto, precede la battaglia di Maclodio, ma non è una descrizione della battaglia, bensì una riflessione condotta da Manzoni sulla battaglia come parte della guerra. Questa riflessione lui la conduce su due livelli: da una parte quello politico e storico, cioè rievoca questa battaglia perché è una battaglia gloriosa del Medioevo, riporta in auge il medioevo in senso patriottico risorgimentale, ma è una battaglia fratricida, una battaglia che contribuirà a dissanguare il nostro paese e a metterlo nelle condizioni di diventare preda del nemico straniero; il secondo livello è quello morale e religioso, cioè Manzoni riflette sulla stupidità e sull’incoscienza degli uomini che non si rendono conto che le guerre in generale, e in particolare quelle fratricide, cioè tra conterranei, sono la negazione del concetto di fratellanza universale e di fratellanza religiosa, perché posto che siamo tutti fratelli, a maggior ragione lo sono quelli che abitano nello stesso luogo. Sulla riuscita artistica del coro la critica è divisa, nel senso che ci sono momenti di alta poesia e momenti in cui il tono si abbassa. Carmagnola è un personaggio caratterizzato estremamente in positivo, è un personaggio leale, buono e generoso che si scontra con la logica dei potenti e ne rimane non solo sconfitto, ma anche schiacciato; dall’altro lato è un personaggio considerato artisticamente non riuscito proprio per questa sua caratterizzazione a tutto tondo, cioè è un personaggio moralmente perfetto, che non subisce nessun tipo di evoluzione. La tragedia comporta un lungo e faticoso processo di evoluzione psicologica da parte del protagonista, e questo nella tragedia di Manzoni è assente: Carmagnola è buono fin dall’inizio e buono rimane fino alla fine, non ha consapevolezza del male, non si sta rendendo conto di tutto quello che sta avvenendo intorno a lui, non ha il male dentro di sé e non riesce a vederlo neanche fuori. Tuttavia la concezione pessimistica di Manzoni è operativa fin da ora: Manzoni a seguito della conversione maturerà una conversione pessimistica dell’uomo; il fatto di aver conquistato la fede non lo porta ad avere certezze terrene, anzi l’esatto contrario, tra il mondo della storia (terreno) e il mondo della morale (ultraterreno) per Manzoni c’è un abisso: i giusti, quelli che vengono definiti uomini del Vangelo, non otterranno ricompensa ai loro meriti sulla Terra, ma saranno certi di questa ricompensa solo nell’aldilà, perché sulla terra regnano la forza, la violenza e la sopraffazione, per cui sulla terra vincono e vinceranno gli uomini della forza, mentre gli uomini del Vangelo possono sperare di trovare riconoscimento dei proprio meriti esclusivamente nell’aldilà. Questo tipo di concezione c’è già nella prima tragedia, però non si concretizza in una narrazione e soprattutto non si caratterizza in una figura del personaggio principale, come figura complessa e con un’evoluzione psicologica che lo porta a rendersi conto del male e ad assumere una posizione antagonistica nei confronti del male. Anche nel momento della morte Carmagnola è parzialmente consapevole; c’è solo l’ultima scena, quella del colloquio con la madre e con la figlia, nella quale sembra miracolosamente rendersi conto di quello che è successo, ma anche questa presa di coscienza non è supportata da un processo alle spalle, bensì cade dall’alto. Il ruolo di coscienza che non riesce al personaggio protagonista riesce invece a un personaggio di cui Manzoni ha parlato nella prefazione, dicendo che non è un personaggio di cui ha trovato notizia nelle fonti ma che ha dovuto introdurre per esigenze artistiche: si tratta del senatore Marco, amico di Carmagnola, l’unico che lo difende, anche se poi in extremis lo abbandona. Marco appartiene a quella categoria di personaggi verosimili, cioè personaggi non realmente esistiti ma che introduce perché sono importanti per l’articolazione della narrazione. Marco capisce il male, il male che circonda l’amico, e cerca di difenderlo, ed addirittura è chiamato non solo a capire, ma anche a scegliere; capisce quindi la differenza tra bene e male e a un certo punto deve concludere questa sua comprensione in atto, e sceglie per il male, nel senso che viene corrotto dal senato con l’offerta di un incarico prestigioso in Oriente e parte, abbandonando l’amico al suo destino, tra l’altro dopo essersi impegnato con il senatore a non rivelare nulla dei piani di Venezia. Quando Venezia richiama in patria Carmagnola non lo dice che è per metterlo in stato di accusa, lo richiama ufficialmente per discutere con lui delle trattative di pace da proporre ai Visconti; Marco decide di tacere e parte. LA LETTERA A CHAUVET Nel momento in cui la tragedia fu pubblicata, nel 19, andò in contro alla critica letteraria: era interessante per il contenuto, cioè per questa concezione pessimistica che emerge in Manzoni, tuttavia la critica non la prese in considerazione per il contenuto ma per la forma, perché il 1816 era l’anno della polemica classicistico romantica (quella della De Stael, del tradizionalismo). Dunque questa tragedia fu inserita nel dibattito tra i classicisti e i romantici; ovviamente Manzoni rientrò nei romantici progressisti, e i classicisti, quelli che erano ancorati alle tradizioni, avevamo molto da ridire: la loro voce fu quella del critico francese Chauvet, il quale pubblico un lungo articolo nel quale non solo criticava la tragedia di Manzoni, ma la smontava pezzo per pezzo alla luce delle regole classicistiche. Chauvet sosteneva che i primi tre atti non servissero a niente, e che fossero da eliminare, come se la tragedia dovesse partire dal quarto atto, cioè dove Carmagnola e Venezia entrano in conflitto, secondo lui la tragedia deve ruotare intorno a quello che si chiama “collisione, conflitto”. Nei primi tre atti questa collisione non c’è, la vera collisione compare al quarto atto, cioè al momento del conflitto tra Venezia e Carmagnola. Sempre secondo Chauvet avrebbe dovuto verificarsi questo: Venezia da una parte il Carmagnola dall’altra. Dalla parte di Venezia tutti gli elementi governativi, dalla parte del Carmagnola la famiglia, cioè l’amore per la figlia, l’esercito e il popolo Veneziano; dopodiché sarebbe dovuto avvenire che il Carmagnola, appoggiato da queste tre componenti, avrebbe avuto la meglio sul senato, se non che si sarebbe fatto prendere da scrupoli di natura morale per cui avrebbe interrotto la sua azione e avrebbe esitato: durante la sua esitazione il senato avrebbe approfittato del prenderlo e schiacciarlo. Questa secondo lui doveva essere la struttura della tragedia secondo la narrativa teatrale tradizionale. non si evidenziano come principali o come secondari, bensì nella storia i fatti avvengono e basta, e quando il poeta o il letterato ne sceglie uno, determinandolo come catastrofe, e ritenendolo principale rispetto agli altri, è solo una sua scelta: determinare la catastrofe, cioè scegliere l’argomento principale facendolo coincidere con un fatto piuttosto che con un altro, è una scelta unicamente del poeta, e corrisponde a una sua prospettiva aprioristica. Il poeta deve narrare una storia, e quindi, aprioristicamente, sceglie come ordinare la storia: quindi, tra tutti sceglie un fatto, che gli sembra più significativo degli altri, ed intorno a questo ordina tutto il resto; il problema sta nel fatto che questo non è verità storica, ma è una scelta libera da parte del poeta o del letterato. Dunque, vista l’ossessività di Manzoni verso la ricerca del vero storico, è chiaro che lui, nel momento in cui deve fare letteratura, è ovvio che alla storia deve coniugare anche la poesia, altrimenti scriverebbe un saggio di storia, ma deve nascere letteratura, quindi, alla storia deve necessariamente accoppiare la poesia. Nel momento in cui al lavoro dello storico aggiunge quello del poeta, è chiaro che il poeta deve prescindere, deve avere una libertà creativa che lo porta a compiere delle scelte, che non sono supportate dal vero storico, ma sono semplicemente scelte sue, personali. LA SECONDA TRAGEDIA DI MANZONI (1822): LA STORIA DEI VINTI. Manzoni, una volta tornato in Italia dopo la parentesi francese, compie lo sforzo creativo più vasto di tutta la sua vita, nel quale compone tutte le sue opere più significative: dall’Adelchi, al “discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia”, “Marzo 1821”, “5 maggio”, la prima redazione del romanzo, del 21/23, quella conosciuta generalmente con il nome “Fermo e Lucia” (che non è mai stata pubblicata ma è stata ritrovata nei suoi archivi e la critica ha dato questo nome). Dunque, a seguito del chiarimento intellettuale che affronta e supera con il viaggio in Francia, torna in Italia e comincia la stagione più creativa della sua vita da cui nasceranno tutte le sue opere maggiori. La prima di queste opere che si colloca cronologicamente è l’Adelchi, una tragedia, o meglio, dramma storico; la prima tragedia di Manzoni era stata il Carmagnola, la seconda sarà l’Adelchi: sempre una tragedia, sempre un dramma storico, che però lui stesso considererà, come scrive nella lettera a Fauriel, “una tragedia plus populaire” cioè più popolare, più nella direzione del popolo. Manzoni difatti vuole focalizzare l’attenzione non solo sulla storia del popolo longobardo, che è protagonista nella persona di Adelchi (o Adalgiso, al secolo), che è l’ultimo figlio del Re Desiderio, col quale si conclude la dinastia longobarda e la dominazione longobarda in Italia, perché arriva Carlo Magno, sconfigge Desiderio e Adelchi, e dunque la dominazione longobarda finisce con loro. Al di là di questa storia, che rappresenta la storia ufficiale, a Manzoni interessa anche un’altra storia: quella della popolazione Lamina, cioè la popolazione indigena autoctona, (non possiamo chiamarla italica e neanche italiana perché non c’è una popolazione italiana), i latini, quindi la popolazione che c’era sul nostro territorio quando arrivarono i Longobardi; i Longobardi sottoposero i latini alla loro dominazione, e quindi i longobardi erano il popolo egemone, i latini il popolo subalterno. Nella storia dei longobardi nessuno parla dei latini, perché la storia è fatta sempre dai vincitori, per cui riferisce le informazioni dal punto di vista dei vincitori; dal punto di vista dei vinti non scrive o documenta nessuno. Difatti a Manzoni interessa mettere a fuoco, oltre alla storia della fine del regno longobardo in Italia a seguito della discesa di Carlo Magno, anche le vicende del popolo latino, che si trovava anche in Italia in quel momento, ma di cui nessuno parla: la storia longobardica non ne parla, la storia franca neanche, e quindi contestualmente all’Adelchi scrive un saggio intitolato “discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia”. Manzoni vuole dunque illuminare la storia dal basso e, anziché parlare della storia ufficiale, vuole parlare della storia della gente comune, della storia ufficiosa, la storia dei latini, di quelli che si trovavano in Italia quando sono arrivati gli oppressori, e sono stati oppressi, quindi sono stati fatti “schiavi” da nuovi vincitori e dominatori. Dunque Manzoni manifesta in quest’opera una concezione più ampia e più popolare della storia, perché tiene conto del popolo, ed anche più complessa, perché considera che la storia non è fatta solo dalle grandi personalità, ma è fatta anche dall’intreccio di tante componenti diverse, anche e soprattutto della storia quotidiana di generazioni e generazioni di persone comuni, che vivono in quel determinato luogo e per la storia è come se non ci vivessero, cioè passano come se non fossero mai esistite perché nessuno ne tiene braccia, nessuno ne documenta il passaggio. Quindi a lui interessa dare una visione della storia più ampia, che tenga conto della prospettiva dal basso, quella che illumina finalmente la gente comune, quella che per generazioni ha vissuto prima e ha continuato a vivere dopo, su un territorio che passa di mano in mano, di dominazione in dominazione, e che di loro non tiene conto, come se non esistessero affatto. Posto che l’intenzione è quella di illuminare la storia dal basso, quindi rendere finalmente protagonista la gente, l’Adelchi era comunque una tragedia; il genere letterario in questione appartiene a quella famosa gerarchia di stili, di provenienza classica, secondo cui la tragedia è considerata il genere più alto e nobile i cui protagonisti non sono persone comuni, ma sono dei, eroi, principi e regine, e che viene scritto con un linguaggio aulico ed elevato. In ossequio al genere letterario, quindi, l’obiettivo di Manzoni viene completamente mancato, perché vorrebbe fare una cosa, cioè quella finalmente di dare finalmente voce agli umili, di mettere sotto i riflettori una parte della storia che generalmente nessuno considera, però la scelta del genere letterario della tragedia comporta che lui debba parlare sempre di re, regine e principi, perché i protagonisti della tragedia sono questi, non è mai il popolo, non è mai la gente comune. In questa tragedia in cinque atti e due cori, uno alla fine terzo e uno alla fine del quarto atto, lui racconta la fine del regno Longobardo o Longobardico in Italia, quindi le vicende dal 772 al 774 d.C. per narrare della conquista da parte dei Franchi di Carlo Magno del territorio Italico, e quindi del cambiamento nella dominazione dei latini dai longobardi ai franchi. ATTO I La scena si apre con lo scudiero che annuncia il ritorno a casa di Ermengarda. Ermengarda è la figlia del re Longobardo Desiderio, sorella di Adelchi, ed era stata data in sposa per motivi politici (come era prassi per l’epoca) a Carlo Magno; tuttavia Carlo Magno, sempre per motivi politici, a un certo punto la ripudia per una nuova alleanza tramite matrimonio, con una principessa nordica di nome Ildegarda, dunque Ermengarda viene riportata a casa. Vediamo sulla scena due personalità, Desiderio da una parte, e Adelchi dall’altra, che si caratterizzano esattamente per quello che sono: il primo come uomo della forza, il secondo come uomo del Vangelo, così come lo definirà Manzoni. Questo significa che Desiderio è il re barbarico, forte, violento e ottuso nei confronti di qualunque altro sentimento che non sia orgoglio, ira o vendetta; non gliene frega nulla della figlia, difatti non si preoccupa dal punto di vista umano di accogliere Ermengarda e sostenerla, ma quello che gli importa è di avere subito un torto, di essere stato umiliato nel suo orgoglio regale, e cerca vendetta. Viceversa Adelchi, pur appartenendo alla famiglia reale, e quindi pur essendo sulla carta anche lui un uomo della forza e del potere, non rappresenta la logica della forza e del potere, bensì la logica dei sentimenti umani; lui non considera quello che ha considerato il padre, ma considera la sorella: si preoccupa per lei, la accoglie e cerca di sostenerla. Ovviamente il tutto è preludio alla guerra tra Longobardi e Franchi: questa guerra difatti viene dichiarata, anche perché il messaggero di Carlo Magno intima Desiderio di lasciare i territori della chiesa; dunque ufficialmente la guerra scoppia perché i Longobardi hanno occupato i territori della Chiesa, e Carlo Magno, l’imperatore cristiano per eccellenza, prende le parti della Chiesa e intima ai Longobardi di ritirarsi, altrimenti sarebbe stata guerra. E difatti, guerra fu. Si chiude il primo atto con questa dichiarazione di guerra. ATTO II Dunque scoppia la guerra, che si svolse alle chiuse delle Alpi, cioè sotto le Alpi, perché questo è il confine tra il regno longobardico e i Franchi, che tentano di entrare. La guerra è in stallo: i Franchi cercano di penetrare, ma non riescono, sia per i valichi naturali delle Alpi, che non riescono a oltrepassare, sia per le prodezze di Adelchi, che scoraggiano sia Carlo Magno che il suo esercito; il personaggio di Carlo Magno difatti, in un colloquio con il diacono del Papa, viene ridimensionato da Manzoni: non è più il “defensor fidei”, l’imperatore cristianissimo disposto a morire pur di difendere la Chiesa, ma è andato lì, ambizioso, vuole conquiste, ma, poiché si rende conto che queste conquiste non stanno avvenendo facilmente, è disposto a tornarsene a casa. Avviene però un fatto imprevisto: un diacono di Ravenna, un tale Martino, si reca presso l’accampamento di Carlo e rivela ai Franchi che esiste un passaggio segreto che permette di aggirare la chiusa delle Alpi, in modo da piombare sull’esercito di Desiderio e Adelchi alle spalle (un po’ come avviene con Leonida alle Termopili). Si chiude il II atto con questa informazione, che viene portata al campo franco da Martino, diacono di Ravenna. ATTO III Il terzo atto si apre con Adelchi che parla con il suo scudiero, Anfrido. Questo atto è particolarmente significativo per evidenziare la natura di questo personaggio, che è un personaggio artisticamente riuscito. Adelchi è un personaggio positivo, come era stato Carmagnola; è un personaggio leale, buono, pietoso, fiducioso, che è messo, dalla iniquità del tempo in cui vive, nelle condizioni di non poter fare quello che vorrebbe: non può sfidare a un cavalleresco duello di Dio Carlo Magno, innanzitutto perché Carlo Magno gli si sottrae sistematicamente, e poi perché c’è una guerra tra il proprio popolo e quello franco, e quindi non semplicemente una guerra tra i due; Adelchi inoltre teme che il padre lo costringa a usare le armi contro il Papa, perché lui è cristiano, però è anche figlio di Desiderio, per cui deve obbedire agli ordini del padre. Dunque fondamentalmente Adelchi è un personaggio combattuto tra il senso del dovere, quello che sa che dovrebbe fare, e invece la sua vera natura, che lo porterebbe a fare tutt’altro. In questo colloquio con il suo alter ego, cioè con questo scudiero che gli è fedelissimo, lui porta alla luce questa sua sofferenza interiore, e il tutto viene sublimato nella formula con cui Anfrido chiude la discussione dicendo: “Soffri e sii grande, questo è il tuo destino”. Dunque Adelchi è un personaggio complesso, un personaggio che ha consapevolezza del male, e che purtroppo teme anche di essere costretto a farlo, nonostante non voglia, per senso del dovere, perché lui è un principe e ha degli obblighi, sia nei confronti del padre che nei confronti del popolo. I PROMESSI SPOSI IL GENERE: LA SCELTA DEL ROMANZO Abbiamo visto che Manzoni era e continuerà ad essere ossessionato dallo scrupolo del vero storico; ha tentato diversi generi letterari, ma fondamentalmente sono stati due tentativi dello stesso genere, dramma storico ovvero tragedia, in cui il suo tentativo di illuminare la storia dal basso, cioè di far parlare non solo la storia ufficiale ma anche la storia ufficiosa del popolo, è andato fallito, proprio in considerazione del genere letterario in questione. A questo punto Manzoni, dopo essere rimasto scontento dell’Adelchi, nonostante il successo di critica e di pubblico, decide di cambiare genere letterario, e sceglie il romanzo. Il romanzo è un genere narrativo in prosa, abbastanza diffuso oggi, ma che per l’epoca storica nella quale vive Manzoni fu una scelta coraggiosa: il romanzo in Italia non aveva avuto grande diffusioni, perché era considerato, secondo un pregiudizio classicistico, un genere letterario inferiore. Per cui il classicismo tradizionale preferiva altri generi letterari, come la tragedia, per genere letterario aulico e nobile, ed il romanzo veniva considerato qualcosa per le basse sfere; dunque in Italia, chi voleva raggiungere fama e successo con la letteratura, difficilmente sceglieva il romanzo, perché era considerato inferiore rispetto agli altri generi letterari. Il romanzo in Europa invece era stato ampiamente utilizzato ed ampiamente apprezzato, per cui Manzoni si allinea a delle scelte che potremmo definire internazionali, piuttosto che nazionali. Tuttavia, aldilà dell’aderenza a modelli locali piuttosto che non, per Manzoni questa scelta significa la possibilità, che lui ha sempre cercato, di liberarsi dalle regole e di realizzare i suoi progetti letterari. Nella “Lettera sul Romanticismo al marchese Cesare D’Azeglio” Manzoni, in un passaggio famoso, definisce la letteratura che lui vuole fare con tre aggettivi: vera, utile e interessante; la scelta del romanzo gli permetterà di raggiungere tutti e tre questi obiettivi. • Ricerca del vero: Manzoni ne è ossessionato, secondo lui la letteratura trova spiegazione solamente così; • Utile: lui condivide con gli Illuministi della generazione precedente e con i Romantici di questa, una concezione didascalica della letteratura; la letteratura deve insegnare qualcosa, e nel romanzo le informazioni che lui inserisce sono a 360 gradi. Sottintendendo una formazione di tipo morale e religioso, che per lui è fondamentale, il romanzo gli permette di fornire informazioni complete nella ricostruzione di un determinato quadro storico; • Interessante: il generale letterario del romanzo, rompendo quei limiti della letteratura classicista che si indirizzava solo all’élite, solo alla parte alta della popolazione, è una letteratura oggettivamente interessante perché scegliendo una forma più semplice e un linguaggio più quotidiano, è in grado di coinvolgere il grande pubblico (dunque non una cerchia ristretta, ma la classe borghese, alla quale si rivolvono i romantici). In più, cosa non da poco, essendo il genere letterario del romanzo sottovalutato in Italia, e quindi poco utilizzato, non pesavano su questo genere letterario tutte le regole, le leggi e i limiti imposti del classicismo in tutti gli altri generi letterari utilizzati. Dunque Manzoni si trova nella mano uno strumento agile, sostanzialmente nuovo in Italia (non ha una tradizione alle spalle), che gli permette di raggiungere il suo obiettivo, cioè la rappresentazione della storia del basso in maniera seria. Premettiamo che la storia che Manzoni vuole rappresentare è la storia della gente comunque, la famosa storia “dal basso”; secondo la separazione degli stili (che risale al classicismo) fare letteratura significava fare tre tipologie di genere letterario: tragedia, il genere più alto, la commedia, quello di mezzo, e l’elegia, il genere più basso. • La tragedia trattava di personaggi straordinari che compiono imprese eccezionali con un linguaggio aulico (aveva dunque una rappresentazione seria); • La commedia invece portava sulla scena gente comune, però, essendo commedia e non tragedia, la rappresentazione non veniva fatta in maniera seria o problematica, bensì in maniera comica. A Manzoni serviva fondere insieme queste due cose: rappresentazione seria della realtà, ma non della realtà aulica come nella tragedia, ma della realtà bassa, cioè della gente comune. Per cui sceglie il romanzo storico, e per rendere seria la rappresentazione della gente comune lui prende i personaggi del popolo che vuole rappresentare e li immerge nella storia. Questo non è un passaggio da poco, perché nella rappresentazione comica per esempio, quando venivano portati sulla scena i personaggi quotidiani, questi personaggi non avevano un’identità o una personalità, bensì erano caratterizzati per interpretare o una virtù, o un vizio, o un’intera classe sociale che si riconosceva nelle loro tradizioni; invece, a Manzoni, non interessa più niente del genere: non gli interessano le astrazioni, come nella commedia, lui vuole creare una rappresentazione vera della realtà dal basso con personaggi credibili, unici e irripetibili, personaggi veri, non un bozzetto o una caricatura. Manzoni tra l’altro non vuole neanche cedere alla tentazione delle alterazioni; generalmente il fatto di creare dei personaggi artistici portava da una parte a delle astrazioni, cioè questi non erano personaggi reali ma caricature, e in più erano spesso caratterizzati in positivo, cioè lontani dalla realtà e assolutamente fittizi. Manzoni invece prende i personaggi e li immerge nella storia: ogni loro gesto, ogni loro parola, pensiero o sentimento viene caratterizzato sulla base di quel determinato momento storico e di quel determinato luogo storico di cui loro solo parte integrante; dunque il Renzo Tramaglino e la Lucia Mondella, i protagonisti dei Promessi Sposi, sono contadini della metà del 1600 perfettamente costruiti su quella che è la mentalità, il modo di essere, di parlare o di comportarsi di contadini della metà del 1600, eppure hanno una loro personalità, una loro identità propria, perché non sono costruiti in astratto, bensì sono calati nella storia, perfettamente fedeli alla classe sociale cui appartengono, ma con un carattere. Il modello di Manzoni, dato che non vi erano modelli in Italia, è la letteratura inglese; il grande modello per lui è Walter Scott, autore di una serie di romanzi storici, di cui il più famoso “Ivanhoe”, cavaliere medievale al centro di molteplici avventure. I PERSONAGGI VEROSIMILI: LA STORIA DAL BASSO Il tipo di rappresentazione del romanzo storico che Manzoni sceglie è paragonabile ad un quadro: generalmente nella rappresentazione storica tradizionale è come se vedessimo al centro della rappresentazione i grandi fatti ed i grandi personaggi e sullo sfondo invece quelli minori. Manzoni invece ribalta questa visione: i grandi personaggi ed i grandi fatti sono sullo sfondo, in contro luce, rappresentano l’ambientazione, mentre al centro del quadro ci sono personaggi minori. Ma come costruisce Manzoni i personaggi minori? Posto che nei libri di storia, nelle cronache storiche, nelle ricostruzioni di qualunque tipo, non si parla di personaggi comuni, perché la storia non terrà traccia di noi, della gente comune: parlerà del nostro periodo, dei personaggi in vista. Considerando che Manzoni è ossessionato dal vero storico, e quindi non vuole inventare niente perché la letteratura non ha il diritto di inventare, e considerato che la storia non teneva e non terrà traccia della gente comune, lui riesce a trovare una soluzione di compromesso passando dal vero al verosimile. Poiché dunque nella storia lui non può trovare traccia di personaggi comuni, li ricostruisce in maniera verosimile, documentandosi scrupolosamente su tutte le fonti a disposizione su quell’epoca storica, creando dunque personaggi assolutamente verosimili per rappresentare i contadini della metà del 1600: nessun libro di storia ne porta traccia, ma è assolutamente verosimile che ne siano esistiti come loro, perché Manzoni non li inventa di sana pianta, ma legge quanto più è possibile della metà del 1600, libri di storia, biografie, cronache, memorie, scritture provate, copie di leggi; fattosi dunque questo quadro il più ampio possibile, costruisce i personaggi in maniera assolutamente verosimile basandosi su di esso. In questo, come sempre, diventa “più realista del re”: difatti critica addirittura il suo modello, pur avendolo scelto come tale, dicendo che, sebbene Scott avesse fatto un romanzo storico, aveva creato personaggi fittizi e tenuto ben poco conto della storia, o comunque non nella maniera più rigorosa possibile. Dice anche di aver respinto nella sua opera qualunque cosa possa definirsi romanzesca; romanzesco è l’espediente tramite il quale, a seguito di una serie di peripezie, visto che il romanzo parte dall’idillio (situazione iniziale) che viene interrotto da un fatto, più o meno drammatico, che a sua volta mette in moto gli altri, dunque una serie di peripezie, che però si concludono generalmente in maniera positiva; molto spesso quando la trama veniva eccessivamente prolungata, in modo da tenere sulle spine il lettore, ad un certo punto si doveva concludere, per cui dopo molte peripezie arrivava il famoso (come lo definisce Manzoni) “colpo di scopa”: improvvisamente tutto si sistema come si sarebbe dovuto sistemare. Dunque prima mille ostacoli, dopodiché, quasi come ci fosse stato un colpo di scopa, i mille ostacoli spariscono e tutto torna al proprio posto. Secondo Manzoni questo espediente, chiamato appunto espediente romanzesco, cioè questa possibilità dell’autore di far cambiare improvvisamente cose in un senso o nell’altro, è da respingere, perché non è così che avviene nella realtà, nessuno nella realtà ci risolve miracolosamente la vita con un colpo di scopa: deve esserci una costruzione credibile. IL 1600: UN MODELLO NEGATIVO Ma perché Manzoni parla proprio del 1600? Ovviamente non è una scelta fatta a caso, dato che nessuna delle opere di Manzoni dopo la conversione è un’opera a caso: lui sceglie di scrivere determinate opere perché combatte a suo modo la battaglia romantica per il rinnovamento della letteratura; non è un partigiano, non è un cospiratore o uno che va fisicamente a combattere, ma comunque combatte per il romanticismo in letteratura. Manzoni dunque comincia a scrivere questo romanzo (la data è significativa per capire come si iscrive e perché) il 24 Aprile 1821, che non è una data a caso; difatti immediatamente prima erano avvenuti i famosi moti del Marzo 1821, che lui rievoca nell’ode “Marzo 1821”: pur non partecipando in prima persona partecipa letterariamente, dando il proprio supporto a questi moti rivoluzionari, in cui purtroppo la borghesia subì una sconfitta ed una temporanea battuta d’arresto. Proprio immediatamente dopo, Manzoni comincia a scrivere il romanzo, perché vuole fornire a quella che sarà la nuova classe dirigente dello Stato, quella borghese (che prima realizzerà lo stato e poi lo governerà), un modello su cui costruire questo Stato; Manzoni torna dunque indietro nel tempo a cercare qual è lo stato e la società che possa considerarsi per le atteggiamento antagonistico nei confronti del male, devono comunque combattere il male, perché altrimenti è come se ne stessero facendo. Di certo questo può essere fatto entro certi limiti, esistono infatti anche dei margini d’azione: i giusti, adoperandosi con i mezzi che hanno a disposizione contro qualunque forma di male, appena lo riconoscono, hanno in qualche modo la possibilità di modificare le cose, non in maniera definitiva, perché il male è destinato ad esserci sulla Terra, ma i giusti devono comunque combatterlo, facendo quello che possono. È per questo motivo che il modello cattolico di Manzoni può andare di pari passo con quello politico che si ispira a un progressismo sociale, ad un progressismo promosso dal Romanticismo: l’uomo, sia che si tratti di uomo con connotazione religiosa che con connotazione politica, deve fare del suo meglio, ed adoperarsi per il bene comune contrastando e combattendo qualunque forma di male (religioso o sociale) con i mezzi che hanno a loro disposizione. Questo è uno degli insegnamenti fondamentali del romanzo, definitivo per questo motivo un “bildungsroman”, cioè un “romanzo di formazione”, il che non è altro che un romanzo in cui i protagonisti imparano, attraversano delle vicende che li segnano e dalle quali imparano delle lezioni che resteranno dentro di loro per il resto della loro vita; i lettori assieme fanno altrettanto. STRUTTURA DEL ROMANZO: DALL’IDILLIO ALL’INCOMBERE DELLA STORIA Tutto inizia dall’idillio, la situazione iniziale, che è una situazione pressoché stabile in cui i protagonisti (quasi sempre due, perché il romanzo quasi sempre ha per protagonisti un uomo e una donna, separati da varie peripezie), vivono una situazione serena, interrotta dal sopraggiungere di qualcos’altro. Nel caso dei due Promessi Sposi, Renzo e Lucia, loro vivevano nel villaggio, stavano per sposarsi, pensavano di poter continuare nel futuro la stessa vita del passato, ma da sposati, con famiglia, lavorando, andando incontro ai loro obblighi sociali e lavorativi. Tuttavia la storia interviene a smentirli: dal loro angolo di quiete domestica vengono strappati fuori dal fiume della storia della loro epoca, che viene a prenderli fino a casa, travolgendoli nel suo vortice, facendogli esplorare il male della storia; se fossero rimasti nella loro storia iniziale non avrebbero sperimentato il male, ne sarebbero rimasti immuni, ma questo non può esistere, perché per Manzoni il male incombe su tutto e tutti, sempre ed in qualunque momento. Per cui i due promessi sposi ad un certo punto, senza che loro abbiano concorso più di tanto a questo, vengono coinvolti da un fiume in piena che sono le peripezie una dopo l’altra, che li separeranno per tutto il romanzo, a iniziare dall’Addio ai monti. RENZO E LUCIA, DUE PERSONAGGI DIVERSI Le esperienze dei due personaggi, dopo la separazione, divergono: Renzo sperimenta il male in campo sociale, Lucia in campo morale; questi due personaggi sono diversi, strutturalmente e caratterialmente, e diversa è la loro funziona nel romanzo. RENZO TRAMAGLINO Renzo secondo Manzoni è il tipico contadino della metà del 1600, in positivo e in negativo: • in positivo è una persona onesta, laboriosa, che ha progetti di vita seri, come quello di mettere su famiglia o di aprire una filanda; • in negativo, ha la convinzione di potersi fare giustizia da solo, la convinzione che un atto di forza possa compensare il sopruso, l’ingiustizia e la prepotenza. Per cui ad un certo punto lui fa minacce a destra e a manca, va dall’avvocato Azzeccagarbugli, pensa di poter fare chissà cosa col coltello: ma la lezione che dovrà imparare, attraverso tutte le peripezie che gli capitano, è che l’uomo non dovrà mai cedere all’impulso della violenza e alla tentazione di farsi giustizia da solo, perché l’uomo, soprattutto quello delle classi umili alla quale appartiene Renzo, deve rassegnarsi alla sua condizione sociale, sperando nell’aiuto divino e delle classi più alte, senza mai cedere a questa tentazione, perché questo da una parte li alienerebbe alla benevolenza di Dio, diventerebbero malvagi, ed in più potrebbero andare incontro a conseguenze estremamente negative (quando Renzo si trova coinvolto nell’assalto ai forni a Milano rischia la forca, stavano per giustiziarlo). Dunque tutto il percorso di Renzo lo porterà a capire che l’uomo giusto deve confidare in Dio e affidarsi completamente alla sua volontà, sperando in meglio e rinunciando a qualunque violenza o tentazione di farsi giustizia da solo. LUCIA MONDELLA Lucia ha già dall’inizio la consapevolezza che Renzo raggiungerà alla fine della storia: questa consapevolezza di doversi completamente affidare a Dio rinunciando a qualsiasi tentazione di farsi giustizia da soli Renzo la acquisisce alla fine della storia, Lucia invece ce l’ha già, come per dono divino, all’inizio della storia. Lei è una contadina, è assolutamente aliena da ogni forma di violenza, profondamente religiosa, si affida completamente a Dio: per questo parte della critica l’ha definito un personaggio statico, un personaggio che mantiene le sue caratteristiche dall’inizio alla fine. In realtà non è così: Lucia impara, ma impara una lezione diversa da quella di Renzo, perché questo non ha bisogno di impararlo, lo sa già. Sarà però vittima di un altro errore, la visione ingenuamente idillica della vita e della realtà: è convinta che se non farà male non riceverà male, e che la virtù divina interviene sempre infallibilmente a proteggere i buoni e a punire i malvagi; tuttavia non è così, perché sarebbe troppo comodo che ci fosse un “ombrello”, che sia la provvidenza o altro, sopra la nostra testa che ci protegge infallibilmente da qualunque forma di male. Lucia dovrà imparare a sue spese che il male esiste, che non basta essere buoni per tenerlo lontano, perché il male incombe su tutti, senza distinzioni. LA MORALE DELLA STORIA Lucia arriverà a questa conclusione (non basta non fare del male per non riceverne) nella fase finale del romanzo, quando cercherà di trarre le estreme conseguenze di tutto quello che è successo, seduta davanti al focolaio domestico, ormai sposa e madre di figli, insieme a Renzo, in quello che viene definito il “sugo” della storia, cioè la morale di tutto quello che è successo. Pressappoco i due arrivano a questa conclusione: “I guai vengono perché ci si è dato cagione, e quando vengono per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore.” Renzo e Lucia capiscono dunque che il male esiste per tutti, che i guai ci sono per tutti, ma alla fine ritorna, in parole molto più semplici e adatte alla gente umili di cui si sta parlando, il concetto di “provvida sventura” dell’Adelchi; la sventura è il male che si abbatte sugli uomini, però anche questo male può avere un carattere provvidenziale, può servire a qualcosa: serve a renderci migliori, a farci maturare psicologicamente. Posto che non abbiamo ricompensa sulla Terra bensì nell’aldilà, possiamo comunque imparare dal male una lezione sulla Terra, e questa lezione è combatterlo e contrastarlo nei limiti delle nostre possibilità, o subirlo perché abbiamo esaurito il nostro margine d’azione, ma già nel fare questo (riconoscerlo, combatterlo, contrastarlo con ogni mezzo e subirlo) possiamo evolvere, maturare e migliorare. La morale è dunque che il male, che è qualcosa di inevitabile, ha comunque in sé qualcosa di positivo, ha un carattere provvidenziale: è Dio che ce lo manda, nel suo disegno imperscrutabile, e noi possiamo far sì che abbia un significato positivo nelle nostre vite. UNA CIRCOLARITÀ IMPERFETTA Qualcuno nella critica ha parlato di ricomposizione dell’idillio; cioè parte della critica ha detto che il romanzo dei promessi sposi è un romanzo circolare: si apre e si chiude, così come si era aperto (i due che si devono sposare, succedono tutte le peripezie in mezzo, si chiude con il matrimonio ed il loro progetto di vita predisposto all’inizio del romanzo); posto dunque che l’idillio iniziale viene interrotto dalla trama, alla fine il sogno iniziale dei due viene raggiunto alla fine del romanzo. In realtà non è così, il romanzo non ha un andamento circolare, perché i personaggi sono profondamente cambiati, non sono più gli stessi Renzo e Lucia dell’inizio del romanzo, in quanto quello che gli è successo gli ha fatto raggiungere consapevolezze diverse; la consapevolezza maggiore che hanno raggiunto entrambi è che la loro vita è stata complicata, sono usciti fuori dalla concezione della vita serena ed idilliaca, hanno sperimentato il male volente o nolente, sono stati trascinati nel vortice del male nella storia intorno a loro, e quindi hanno imparato che il male c’è sempre e per tutti, l’unica cosa che puoi fare è opporti, nei limiti delle tue possibilità. Dunque non si tratta di una circolarità perfetta, perché la storia porta sì a compimento i piani dei protagonisti, ma questi alla fine sono profondamente diversi rispetto all’inizio, hanno capito che l’equivalenza “virtù = felicità” sulla Terra non esiste, non basta essere virtuosi per essere felici, non basta affidarsi alla provvidenza, che ci farà da scudo. È per questo motivo che quando si parla di romanzo della provvidenza per i promessi sposi si deve fare una distinzione: il concetto di provvidenza è senz’altro presente, ma in maniera diversa sulla bocca dei due contadini rispetto al pensiero di Manzoni. Manzoni non può avere una visione così semplice delle cose come quella che hanno i contadini, ma fondamentalmente il concetto è lo stesso, cioè che “virtù=felicità” non esiste; i due contadini lo imparano a loro spese, imparano che devono assumere un atteggiamento agonistico bei confronti del male; ovviamente la concezione di Manzoni è più complessa ed è quella che ci riposta al concetto di “provvida sventura”, il valore provvidenziale del male che per l’appunto ha una funzione, quella di renderci migliori. LE EDIZIONI DEL ROMANZO: DAL FERMO E LUCIA AI PROMESSI SPOSI Le edizioni del romanzo che noi conosciamo sono tre; Manzoni comincia la stesura nel 21 e la completa nel 23, questo primo romanzo però non lo pubblica, infatti verrà ritrovato nei suoi archivi e lo critica lo porterà alle stampe postumo, con il titolo di “Fermo e Lucia”, che è quello più probabile desunto dal primo nome dei due protagonisti. Dopodiché esistono altre due edizioni: una del 27 e l’altra la famosa “quarantana”, cioè quella dal 40 in poi, a seguito del famoso “risciacquo in Arno”. Tra quella del 27 e quella del 40 (noi leggiamo quest’ultima), non ci sono grandissime differenze se
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