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Appunti sulla Critica del Giudizio estetico (Kant), Appunti di Estetica

Gli appunti commentano e approfondiscono la lettura della prima parte della terza Critica kantiana.

Tipologia: Appunti

2019/2020

In vendita dal 22/02/2022

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fgmdsymfvsrdh 🇮🇹

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Scarica Appunti sulla Critica del Giudizio estetico (Kant) e più Appunti in PDF di Estetica solo su Docsity! CRITICA DELLA CAPACITÀ DI GIUDIZIO: INTRODUZIONE AL TESTO Guarderemo soltanto la prima parte del testo, la critica del giudizio estetico. Struttura del giudizio La terza critica è un testo per certi versi eccentrico rispetto al sistema kantiano, sebbene voglia creare l’unità di esso. È eccentrico perché pieno di ossimori: a volte sembra quasi che Kant si contraddica o utilizzi delle espressioni difficili da giustificare se si hanno in mente soltanto le prime due critiche. Kant si trova in effetti a dover scardinare alcuni aspetti di rigidità affermati nelle prime due critiche proprio per garantire l’unità sistematica. Partiamo dalla struttura classica del giudizio, cioè S è P, che si trova nei trattati classici di logica che Kant aveva ampiamente studiato e che trattava da una prospettiva wolffiana. La logica classica intende il giudizio come attribuzione di significato a un oggetto attraverso l’attribuzione del predicato P, tramite la formulazione di un giudizio, la procedura del giudicare. Questo noi lo scopriamo nell’Introduzione alla Critica del giudizio: per Kant, l’attribuzione del predicato può avvenire secondo modalità diverse. Quella copula che unisce la S e la P può creare l’unione attraverso la formulazione del giudizio secondo tre modalità, che vengono distinte secondo diversi criteri, anzitutto secondo le facoltà impiegate e poi secondo il predicato che si vuole attribuire attraverso la copula, definendo tre tipi di giudizi: - Giudizi conoscitivi o logici o determinati. Si attribuisce una qualità all’oggetto, quindi il predicato è di tipo qualitativo. Sono indagati nella prima Critica. Le facoltà in gioco sono sensibilità, immaginazione e intelletto: la sensibilità apprende le qualità degli oggetti sensibili attraverso le forme a priori di spazio e di tempo e ci restituisce le intuizioni; l’intelletto riconosce le intuizioni attraverso le categorie; l’immaginazione ci fornisce gli schemi che permettono l’applicazione delle categorie alle intuizioni. Si tratta di giudizi sintetici a priori: non siamo né nell’ambito dell’empirismo (che giudica a posteriori) né in quello di una logica pura (che guarda soltanto ai giudizi analitici). Il giudizio di riferimento che Kant usa per spiegarlo è quello matematico. - Giudizi morali. Si afferma la bontà di un’azione, quindi il predicato è “buono” e l’oggetto che si giudica è l’azione morale. Sono indagati nella seconda Critica. Non siamo più nell’ambito degli oggetti sensibili, dei fenomeni, nel dominio della natura, ma entriamo nel dominio della libertà, cioè nell’ambito della morale, del sovrasensibile. Kant è incredibilmente attento a ribadire che, nell’ambito della moralità, non deve esserci alcuna interferenza con le inclinazioni sensibili. Si deve giudicare attraverso la legge morale della ragione, e le inclinazioni sensibili non devono influenzare la sua applicazione, perché comprometterebbero il giudizio. La facoltà in gioco è unicamente la facoltà pura pratica. Abbiamo qui una completa separazione rispetto al mondo dei fenomeni: naturalmente, l’azione morale avviene nel mondo fenomenico, ma il giudizio deve avvenire soltanto in accordo con la legge della ragione che è sovrasensibile. - Giudizi riflettenti, che si dividono in estetici e teleologici. Per definirli incappiamo nella prima difficoltà: la struttura rimane S è P, ma il predicato non viene attribuito sulla base delle qualità dell’oggetto percepito, ma sulla base della riflessione del soggetto (sia il soggetto che pensa su di sé e su ciò che si trova di fronte, ma sia un meccanismo di proiezione del soggetto sulla natura empirica). Attribuisce il predicato sulla base di un principio a priori molto particolare che è quello di finalità: non sulla base delle qualità dell’oggetto ma sulla base dello stato d’animo del soggetto, della sua riflessione. Vediamo sin da ora come questo ultimo tipo di giudizio sia più complesso, difficile già nella definizione, che fatica a inserirsi nel Kant che abbiamo conosciuto nelle prime due critiche. Tutte e tre le tipologie di giudizio si determinano in base alle facoltà in gioco: intelletto, sensibilità, immaginazione, ragione, capacità di giudizio. Quello che bisogna tener presente è il fatto che Kant non sempre si riferisce alle facoltà allo stesso modo nelle tre critiche: per esempio, nella prima attribuisce all’immaginazione delle funzioni differenti sia se noi guardiamo alla prima edizione della Critica della ragion pura, sia se guardiamo alla seconda. Ugualmente, nella terza critica la funzione dell’immaginazione cambia di nuovo. Lo stesso vale per la ragione: nel caso del giudizio morale, parla della ragione come facoltà che guida la morale, come ragione pura pratica; a volte però, come accade spesso nella terza critica, si riferisce alla ragione come alla facoltà razionale in generale che garantisce l’unità del soggetto. In effetti, lo stesso Kant aveva denunciato questa ambiguità del termine “ragione”, termine centrale del sistema trascendentale, in cui effettivamente, nella seconda critica, quando fa riferimento al primato della ragione pura pratica, dice che la ragione pratica è pura per definizione e sta al di sopra delle altre facoltà. È come se, in qualche modo, la ragione fosse la facoltà a cui le altre si riferiscono, che governa l’unità delle altre ma che allo stesso tempo può avere un suo specifico campo d’azione, cioè appunto quello della morale. Nel leggere la Critica del giudizio dovremo stare quindi attenti a quest’ambiguità. Un altro aspetto che dobbiamo ricordare è che la ragione arriva ad avere una funzione di fondamento: quando Kant parla della ragione parla sempre del Grund, l’elemento di fondamento delle altre facoltà. Il problema dell’unità Il problema che Kant si pone con la terza critica, dopo aver preso atto del fatto che ci sono queste tre fondamentali modalità di giudizio, è quello dell’unità sistematica. Per Kant non è sufficiente riconoscere tre modalità del giudizio, ma occorre garantire che, sulla base della convinzione dell’unità della ragione, il soggetto debba essere inteso come unitario e non frammentato nelle sue diverse funzioni. Il problema dell’unità non è soltanto quello dell’unità del soggetto, anche se questo è il problema di fondo, ma si traduce nella prospettiva kantiana anche nel problema di garantire l’unità del sistema trascendentale. Alle tre tipologie di giudizio corrispondono le tre critiche kantiane. Con le prime due critiche, Kant ha sostanzialmente creato due mondi separati: il mondo dei fenomeni, conosciuti attraverso l’applicazione delle categorie intellettuali, con il processo di sussunzione alle categorie tramite gli schemi, senza possibilità di conoscere la cosa in sé; dall’altra parte il mondo della morale, laddove al contrario non ci dev’essere alcuna interferenza da parte delle inclinazioni sensibili, e l’unica legge che permette il giudizio morale è sovrasensibile. Il titolo originario della terza critica è Kritik der Urteilskraft. La traduzione più conosciuta, che si è affermata nella tradizione italiana, è la versione di Gargiulo, pubblicata da Laterza, che traduce Critica del giudizio. Questo, però, va incontro a un’imprecisione: con Urteilskraft non si intende il giudizio come “S è P”, cioè la formulazione del giudizio (Urteil), ma come la facoltà, la capacità preposta alla formulazione del giudizio. Per Kant, la critica viene proprio fatta di una specifica facoltà. È meglio dunque utilizzare una traduzione più letterale, come Critica della facoltà di giudizio. Con questa modifica della traduzione, si rende chiaro che la terza critica kantiana non si occupa di discutere la struttura del giudizio ma di analizzare l’attività di una facoltà generale come quella di giudizio. È generale perché non è all’opera solo nei giudizi riflettenti, ma in ogni nostra formulazione dei giudizi. Nella prima parte della critica della capacità di giudizio, quella che noi vedremo, le facoltà in gioco sono diverse: immaginazione, intelletto, ragione, capacità di giudizio. Kant ha come obiettivo quello di comporre tutte e tre le critiche in un sistema trascendentale unitario, in accordo con la logica classica di scuola wolffiana. Questo progetto sistematico era già Già nel suo intento, la terza critica è contraddittoria: abbiamo a che fare con il garantire due aspetti che appaiono già come ossimorici. Dall’intento di tenere insieme l’eterogeneità possiamo probabilmente individuare l’origine di tutte le espressioni ossimoriche che si trovano nel testo, apparentemente contraddittorie. La metafora che fa Kant è geografica: identifica i due domini come due territori separati, e vuole creare un ponte che permetta il passaggio da uno all’altro. Informazioni sul testo e struttura La Critica del giudizio è pubblicata nel 1790, al termine del decennio più produttivo per Kant (la prima edizione della prima critica è del 1781). Kant aveva inizialmente intenzione di scrivere una “Critica del gusto”, probabilmente spinto dalla cultura del suo tempo: abbiamo visto come progressivamente il pensiero settecentesco fosse sempre più interessato ai temi dell’estetica, quindi inizialmente Kant sembra voler recepire questa moda. Poi, però, si rende conto che non può affidare alla terza critica un intento esclusivamente critico, ma deve anche dare unità al suo sistema. Così, non risponde più soltanto all’esigenza di trattare l’estetica, ma articola il progetto intorno alla capacità di giudizio come facoltà della mediazione. Il problema sistematico che Kant si pone viene affrontato attraverso una descrizione delle diverse declinazioni del principio di finalità, cioè del principio a priori della capacità di giudizio. In relazione a queste diverse declinazioni, la Critica del giudizio viene divisa in due parti nettamente separate: - Critica del giudizio estetico, che riproduce quell’interesse iniziale per la critica del gusto; - Critica del giudizio teleologico, che è dedicata alla filosofia della natura (che stava anch’essa in quegli anni acquisendo importanza, anche a seguito di una serie di riflessioni negli studi biologici). Oltre a queste due parti principali, si aggiunge una lunga e articolata Introduzione, che potrebbe quasi costituire una terza parte (e vedremo come crei problemi genetici e strutturali). Le due parti sono strutturate in maniera abbastanza simile, sebbene poi alla Critica del giudizio teleologico manchi la parte dedicata alla deduzione. La struttura rispetta il modo critico kantiano di procedere, l’ordinamento che possiamo riscontrare nelle prime due critiche. - Nella Critica del giudizio estetico troviamo • L’analitica del bello (strutturata nei quattro momenti che abbiamo visto nella definizione di bello) • L’analitica del sublime (divisa in sublime matematico e dinamico) • La deduzione dei giudizi estetici • La dialettica dei giudizi estetici • La metodologia - Nella Critica del giudizio teleologico troviamo • Analitica, un po’ sacrificata • Dialettica • Metodologia, parte più ampia Noi ci soffermeremo sull’Introduzione e sulla Critica del giudizio estetico. Problemi affrontati Si tratta di una schematizzazione parziale della prof. I problemi e i temi principali che possiamo riscontrare nella Critica della capacità di giudizio sono questi: 1. Da sfondo fa il tema onnipresente dell’immaginazione, soprattutto se guardiamo alla prima parte della Critica. Una delle domande che ci dovremo porre riguarda il tipo di ruolo che Kant affida all’immaginazione nell’estetica e la sua collocazione fra le facoltà2. Eppure, l’immaginazione è protagonista sia della formulazione del giudizio sul bello, sia in quella del giudizio sul sublime, sia nell’attività del genio, sia nel momento del simbolo. 2. Il secondo problema fondamentale è quello del passaggio (Übergang), cioè il problema sistematico di creare il passaggio dal determinismo naturale alla libertà morale sulla base della considerazione che noi ci percepiamo come un soggetto unico. Già nella prima critica avevamo degli elementi nella “terza antinomìa”, dove aveva indicato la nostra possibilità di pensare (denken) natura e libertà insieme come due parti che non stanno in contraddizione. Il pensiero è un termine che torna più volte nella Critica del giudizio: è un’attività che Kant distingue dall’erklären, dallo spiegare. Il pensiero è un’attività generale della ragione, mentre la spiegazione è argomentativa, intellettuale, logica, epistemologica. Per Kant possiamo pensare natura e libertà insieme senza contraddizione, attraverso questa generica attività della ragione che si pensa come unitaria, anche se non possiamo spiegare, argomentare a favore del passaggio da natura a libertà. Per questo, la mediazione tra i due domini è affidato alla capacità di giudizio, una capacità generica che deve permetterci di pensare la coesistenza di natura e libertà, la possibilità del passaggio dall’uso teoretico all’uso pratico della ragione. In questa attività del pensiero, dobbiamo ricordarci di avere a che fare non con una spiegazione statica, una dimostrazione che arriva a conclusione, ma con un passaggio, con qualcosa di dinamico. I due domini della filosofia non vengono semplicemente accostati come in una dimostrazione, ma vengono pensati insieme come se fossero due territori geografiche tra le quali vi è un movimento. La mediazione è dinamica, è un movimento che conduce dal dominio della natura a quello della libertà. Nella possibilità di pensare il passaggio, per Kant il primato va alla ragione pratica: il passaggio dall’uso speculativo a quello pratico, dalla natura alla libertà. Si passa dal determinismo naturale che si percepisce con i sensi e in cui siamo immersi alla libertà morale. Questo passaggio che la capacità di giudizio realizza è una sorta di movimento progressivo che permette al soggetto di passare dalla sua dimensione sensoriale a quella morale. Nella metafora del ponte, l’obiettivo non è andare e tornare, ma è andare verso la libertà. L’uomo si realizza come unitario nel momento in cui realizza il movimento verso la libertà. Anche il problema dell’applicazione è l’applicazione della legge morale nel mondo. Se intendiamo il soggetto come duplice, la possibilità dell’unità del soggetto è garantita dall’unità della ragione. 3. Altro problema fondamentale è quello antropologico. Kant vuole ricercare una definizione del soggetto in quanto essere umano. Nella Critica della ragion pura, Kant poneva a fondamento della sua filosofia trascendentale tre domande essenziali: • “Che cosa posso sapere?”: è affrontata delimitando i confini della ragione nel mondo fenomenico; • “Che cosa devo fare?”: è affrontata individuando i principi su cui si fonda il comportamento morale; • “Che cosa mi è lecito sperare?”: Kant si chiede se si possa guardare al sovrasensibile e se il sapere può accedere alla fede. A questo, risponde La religione entro i limiti della sola ragione, un importante testo kantiano Verrà poi pubblicata postuma la Logica, in cui Kant dice che a fondamento di queste tre domande (che non corrispondono alle tre critiche) ve ne sta una quarta, che definisce “antropologica”: “che cos’è l’uomo?”. A questa domanda deve rispondere l’antropologia e 2 Nell’Introduzione, Kant delinea proprio un sistema delle facoltà con uno schema, ma non è chiaro dove vada collocata l’immaginazione. su essa si fonda l’intero sistema trascendentale. Kant non affronta mai in modo esplicito il problema della quarta domanda, ma gli interpreti concordano nel considerare la domanda antropologica come sottesa alla terza critica. Il problema del passaggio dalla natura alla libertà è in effetti da ricondurre alla domanda antropologica. Questo tema della definizione della natura umana ha un riferimento preciso, essenziale per tutto l’idealismo tedesco, cioè il tema della Bestimmung. Si tratta di un termine molto complesso della tradizione filosofica tedesca, che può essere anche tradotto con il problema della “destinazione”, cioè la domanda “a che cosa è destinato l’uomo?”. Il passaggio da natura a libertà è direzionato verso la libertà proprio perché, in questo tentativo definitorio dell’essere umano, se ne vuole indicare anche la sua destinazione, che per Kant è quella morale. Il tentativo di costruire questo ponte non è un semplice gioco sistematico e astratto, ma ha un profondo significato per la stessa natura umana. Quello che Kant vuole spiegare nella terza critica è come un essere finito e condizionato, radicato nella sensibilità, sottoposto al decorso temporale come l’uomo possa fare esperienza in se stesso di valori che si sottraggono allo spazio e al tempo. In che modo un essere finito come l’uomo può essere aperto all’infinito? Questo ha un profondo significato anche nell’intendere l’estetica: diversamente dalla conoscenza e dalla morale, l’estetica diventa un’attività profondamente umana, che riflette di questa duplicità umana. La ricezione della Critica della capacità di giudizio Uno dei motivi per cui la terza critica non è studiata come le altre due è la sua complessità e la sua ambiguità. Di fronte al procedere a volte ossimorico e apparentemente contraddittorio, si possono dare letture e interpretazioni molto diverse. Inizialmente però, negli anni subito dopo il 1790, la Critica del giudizio venne recepita moltissimo. I lettori si concentrarono o su singole tematiche o sul problema del costruire un sistema trascendentale in generale. L’atteggiamento non fu di ricondurla strettamente al pensiero kantiano per guardarne coerenze o incoerenze, ma venne un po’ saccheggiata, anche da autori di grande rilievo: Hegel, che ne è un grande lettore; Schiller, che elabora la sua estetica proprio dalla lettura della Critica del giudizio, ritenendo di dover rispondere a una serie di problemi aperti da Kant; Fichte e Schelling sono grandi lettori e si preoccupano specialmente del problema sistematico; Schlegel e i romantici, che si concentrano su determinate tematiche (genio, simbolo) ma che in effetti elaborano l’estetica romantica proprio a seguito di questa lettura; Goethe e Hölderlin, sul versante letterario, assimilano le tematiche della terza critica. È particolarmente amata dai romantici, perché porta a superare una visione in effetti parziale di un Kant razionalista, intellettuale, anche un po’ troppo astratto e formalista e lascia spazio al problema del sentimento di piacere e dispiacere, che loro tenderanno a esasperare. In un certo senso, per la prima parte dell’800, è come se avesse più importanza la terza critica rispetto alle altre due, proprio perché pone il problema della costruzione di un sistema filosofico. La continua attenzione alla costruzione di un sistema unitario e coerente di Fichte, Schelling, Hegel deriva proprio dalla lettura della terza critica, in particolare dall’introduzione. Non è un’esagerazione pensare che l’idealismo e la filosofia hegeliana si formino proprio a partire da questa lettura, in qualche modo più che dalla lettura delle altre due critiche. Dopo questa ricezione fortissima nella prima parte dell’800 ma poi fino anche a Schopenhauer, abbiamo un dibattito che si colloca nel ‘900, più o meno verso gli anni ’40 e ’50, ove si registrano importanti letture della Critica del giudizio da parte di Heidegger e di Cassirer3, della Arendt (che 3 Nel 1929 Heidegger e Cassirer articolano un dibattito molto importante intorno al tema dell’immaginazione in Kant, il dibattito di Davos, che prende avvio dalla prima critica e che però tiene conto anche della terza (di cui Heidegger è sicuramente un grande lettore). l’immaginazione può avere rispettivamente o una funzione, come dirà Cassirer, di radice comune delle facoltà di intelletto e di ragione o il ruolo di un’ancella dell’intelletto che fornisce unicamente gli schemi per applicare le categorie alle intuizioni. Nell’introduzione alla Critica della ragion pura, Kant scrive che vi sono “due ceppi della conoscenza umana, i quali derivano forse da una radice comune ma a noi sconosciuta, cioè sensibilità e intelletto. Attraverso la prima, gli oggetti ci sono dati, mentre attraverso il secondo essi vengono pensati”. Kant riconosce che intuizione e intelletto riconoscono sugli oggetti dell’esperienza: la sensibilità ci dà delle intuizioni degli oggetti, mentre l’intelletto permette una loro conoscenza applicando le categorie. Tra sensibilità e intelletto esiste una radice comune, che potrebbe per l’appunto essere l’immaginazione, se pensiamo al debito di Kant nei confronti di Wolff, che collocava a fondamento delle due facoltà la vis raepresentativa. L’esperienza assume così un po’ un carattere di ambiguità: da una parte prevale un senso passivo e ricettivo, dell’esperienza dataci attraverso la sensibilità; dall’altra prevale il lato attivo, intellettuale, che organizza il materiale dell’esperienza e che formula giudizi di conoscenza. In questo senso, va collocata l’immaginazione, che, a seconda che si guardi alla prima o alla seconda edizione, può essere intesa come quella facoltà che ha un ruolo essenziale nel rendere omogenei la sensibilità e l’intelletto e quindi anche nella realizzazione della sintesi operata dall’intelletto. L’immaginazione avrebbe così la capacità di compiere da un lato una “sintesi figurata” (ci dà una rappresentazione dell’oggetto) e dall’altro una “sintesi intellettuale” (offre alla categoria intellettuale un materiale che può essere conosciuto). Di fatto, Kant definisce nella prima critica l’immaginazione come capacità riproduttiva, capacità di rappresentare un oggetto anche senza la sua presenza nell’intuizione e di offrirlo all’intelletto. Kant dirà così che l’immaginazione è un’intuizione non passiva ma figurale, ricettiva, riproduttiva. Si può così intendere l’immaginazione come una facoltà intermedia, metà intellettuale e metà sensibile. Allora forse si può pensare che quella radice comune di sensibilità e intelletto sia appunto l’immaginazione. Un altro luogo per comprendere l’immaginazione nella Critica della ragion pura è l’analitica trascendentale. Sappiamo che lì, tra la prima e la seconda edizione, c’è una differenza fondamentale. Nella prima Kant, più chiaramente, parla di tre diverse sintesi attraverso cui sarebbe possibile la conoscenza dell’oggetto: - Sintesi della sensibilità, cioè l’intuizione - Sintesi dell’immaginazione, cioè la riproduzione - Sintesi della ricognizione, cioè la conoscenza intellettuale L’idea è quella di un’immaginazione che agisce per associazioni sulla scorta della descrizione lockiana, per cui secondo Kant abbiamo delle apparenze che ci vengono restituite attraverso le forme a priori della sensibilità (spazio e tempo), dandoci una prima sintesi del mondo fenomenico (es. punti), poi abbiamo la sintesi riproduttiva dell’immaginazione, che ci dà una riproduzione unitaria, e infine la sintesi intellettuale mi permette di riconoscere quello che viene restituito all’intelletto (es. linea). Questa teoria delle tre sintesi scompare nella seconda edizione, dove è soppiantata da una più complessa teoria dello schematismo. Qui abbiamo una visione ridimensionata dell’immaginazione. Se nella prima edizione era una capacità autonoma, che aveva una sintesi corrispondente, nella seconda edizione perde un po’ la sua autonomia e viene asservita all’intelletto. L’immaginazione sembra un po’ rinunciare a quella sua natura di radice comune di sensibilità e intelletto e a essere ridotta a funzione dell’intelletto. Ciò che è chiaro è che, nella teoria dello schematismo, il problema per Kant è rendere le categorie applicabili alle intuizioni: categorie e intuizioni sono eterogenee (le prime sono a priori, le seconde a posteriori). Qui elabora la nozione di schema, con cui si intende un procedimento. Lo schema è un prodotto dell’immaginazione: è quel processo con cui l’immaginazione ci dà l’immagine dell’oggetto. Lo schema è una determinazione del tempo, nel senso che è quel procedimento in grado di calare la categoria, non sottoposta di per sé alla temporalità, nel tempo. L’immaginazione è in grado di restituire attraverso lo schematismo un’intuizione alla categoria. Attraverso la costruzione dell’immagine, l’immaginazione permette di applicare le categorie, perché, collocandosi un po’ a metà tra intuizione e categoria, prende il materiale appreso dalla sensibilità nell’intuizione, lo unisce in un’immagine e permette così l’applicazione della categoria. Un esempio, che Kant mutua dal Trattato di Hume, è quello del triangolo: quando vediamo nell’esperienza concreta dei triangoli vediamo dei triangoli specifici, ma per riconoscere quella figura come un triangolo, per ricondurla alla categoria triangolo, l’immaginazione ha bisogno di formarsi una rappresentazione che è una figura generica di triangolo, che non esiste. Essa è dunque è in grado di estrarre dall’immagine particolare una forma che si presta alla conoscenza generale della categoria, e quindi la categoria la riconosce come triangolo. Nella teoria dello schematismo, dunque, l’immaginazione mantiene il proprio ruolo di facoltà intermedia tra sensibilità e intelletto, anche se perde quello fondamentale di radice comune e non è più del tutto autonoma. Lo schematismo è quella teoria che ci spiega come l’intuizione possa essere ricondotta al concetto intellettuale. Ci stupiremo, dunque, quando leggeremo nella Critica del giudizio che Kant pensa a uno schematismo senza concetto. Vediamo ora i problemi dell’immaginazione nella Critica del giudizio. Quello che anzitutto cambia è il fatto che l’immaginazione venga intesa nella sua natura produttiva, e non più nella sua sola capacità riproduttiva. Ciò non vuol dire né che stiamo parlando della fantasia (non produce chimere) né di un’immaginazione che produce delle immagini attraverso gli schemi per poi sottoporle all’intelletto. Con produttività dell’immaginazione si intende anzitutto la capacità dell’immaginazione di produrre giudizi. Nella terza critica, l’immaginazione diventa ancora più protagonista. Non abbiamo più nemmeno quell’articolazione in tre sintesi, laddove il giudizio si compie soltanto dopo la sintesi intellettuale. Qui la sintesi intellettuale non c’è, non c’è una conclusione nella comprensione dell’intelletto, ma si produce effettivamente un giudizio. È interessante notare come nella terza critica l’immaginazione viene ad assumere diverse funzioni, nuove e più attive. Se nella prima critica dovevamo intendere l’immaginazione anche secondo quelle tre sintesi, nella terza abbiamo da una parte, nel caso del bello, il libero gioco tra immaginazione e intelletto e dall’altra, nel caso del sublime, un’articolazione tra apprensione e comprensione (l’immaginazione svolge entrambi i ruoli, quasi al pari, rispettivamente, di sensibilità e intelletto). Si potrebbe dire che, se nella prima critica, vedevamo un asservimento dell’immaginazione all’intelletto, nella terza sembra essere l’intelletto al servizio dell’immaginazione. L’immaginazione compare, nella terza critica, principalmente in tre luoghi: - Nell’analitica del bello. Qui si confronta con l’intelletto e si accorda liberamente con esso. Questo è forse il luogo in cui c’è più vicinanza con la teoria dello schematismo. Se, nella teoria dello schematismo, l’immaginazione produceva una rappresentazione che poi veniva offerta alla sintesi intellettuale, qui immaginazione e intelletto si accordano spontaneamente. Siccome di fatto il giudizio estetico è molto più flessibile di quello logico, l’immaginazione formula un giudizio che non si basa tanto sulle caratteristiche dell’oggetto percepito, non abbiamo il problema di sottoporre l’intuizione dell’oggetto alla categoria intellettuale, ma abbiamo piuttosto quello di esprimere il nostro sentimento di piacere o dispiacere. Quindi, la categoria non deve essere applicata all’intuizione, perché non abbiamo lo scopo di ottenere una conoscenza logica dell’oggetto, ma piuttosto l’esigenza di formulare un giudizio che esprima il nostro sentimento di fronte a esso. La regolarità dell’intelletto non scompare del tutto, ma rimane come una sorta di ancora per l’immaginazione, di modo che essa non si trasformi in fantasia, superando i confini del mondo dell’esperienza, ma rimanga ancorata alla regolarità intellettuale, benché la regolarità dell’intelletto non agisca. L’immaginazione si confronta con la regolarità intellettuale e porta alla formulazione di un giudizio che è espressione di un sentimento di fronte all’oggetto. - Nell’analitica del sublime. Qui l’immaginazione cambia di nuovo la propria funzione. Non si mette in relazione con l’intelletto ma con la ragione. L’immaginazione arriva a compiere due movimenti: quello dell’apprensione e quello della comprensione. Apprende l’oggetto, quasi fosse sensibilità, e poi la presenza delle idee della ragione richiede all’immaginazione anche la comprensione, cioè anche di compiere la sintesi della ricognizione. L’immaginazione si trova in questo senso ad essere sovraccarica: non è in grado di compiere la comprensione, e infatti l’analitica del sublime è una descrizione del fallimento dell’immaginazione. Essa infatti, non avendo la regolarità e i limiti dell’intelletto, apprende all’infinito. Sicuramente ci permette, per esempio, di immaginare una linea retta, ma l’immaginazione non è onnipotente e dunque non è in grado di restituirci un’immagine e una comprensione che garantisca al tempo stesso l’unità dell’immagine e la totalità delle apprensioni infinite. La ragione, con la sua presenza, chiede troppo all’immaginazione che appunto fallisce, e da lì si origine il sentimento del sublime. - Nella teoria delle idee estetiche. L’immaginazione diventa produttrice di idee estetiche, cioè produce degli archetipi, dei modelli, che servono poi al genio nella creazione artistica. Nella dimensione del genio siamo decisamente oltre la relazione tra intelletto e sensibilità che abbiamo visto nella prima critica: l’immaginazione diventa decisamente creatrice, produttrice, non certo di schemi né di semplici rappresentazioni ma di modelli che servono alla creazione del genio. Consigli di lettura (in caso di difficoltà o per approfondimenti): - Menegoni, Introduzione alla lettura della Critica del giudizio - Nuzzo, The unity of reason: trattazione generale della filosofia kantiana guardando al problema dell’unità sistematica. di un altro uso della ragione, ma c’è una relazione con la filosofia teoretica, a partire dalla somiglianza nel parlare di leggi (della natura e morale) necessarie. Questo è il problema del sistema trascendentale. II. Del dominio della filosofia in generale Cpv.1-2 La nostra conoscenza arriva fino a dove possiamo applicare le categorie, ma i concetti sono sufficienti per darci la conoscenza di determinati oggetti (sensibili) ma insufficienti per darci una conoscenza degli oggetti sovrasensibili. Cpv.3 Abbiamo un’applicazione delle categorie all’insieme degli oggetti: alcuni di questi possono essere conosciuti, cioè permettono alle categorie a priori di essere sufficienti per la conoscenza; altri oggetti rivelano l’insufficienza delle categorie a priori a dare una conoscenza. Presenta qua tre termini: • La nozione di campo, che sta a indicare questi due insiemi di oggetti: è quel rapporto che l’oggetto ha con la nostra facoltà conoscitiva in generale. I concetti hanno il loro campo di applicazione negli oggetti. • Il territorio indica la parte di campo degli oggetti in cui la conoscenza ci è possibile (nel sistema trascendentale, è il territorio dell’esperienza); • La parte del territorio (quindi dell’esperienza) su cui i concetti possono essere legislatori, cioè in cui le categorie a priori possono effettivamente determinare le intuizioni, è il dominio di questi concetti.1 Cpv.4-5 La nostra facoltà conoscitiva a priori è legislatrice in un dominio attraverso i concetti della natura (dominio della natura, a cui corrisponde la filosofia teoretica e la legislazione da parte dell’intelletto) e in un altro dominio attraverso il concetto della libertà (dominio della libertà, a cui corrisponde la filosofia pratica e la legislazione da parte della volontà). L’intera filosofia, però, viene esercitata sempre su un unico territorio, che è il territorio dell’esperienza. Cpv.6 Così come le inclinazioni sensibili non rientrano nella legislazione della libertà, allo stesso modo una volontà che viene causata dalla libertà non disturba la legislazione dell’intelletto. Kant ritiene di aver esaurito di spiegare nella Critica della ragion pura come fenomeno e noumeno possono coesistere senza contraddizione, e quindi come possiamo pensare (denken, ≠ conoscere, dimostrare) senza contraddizione l’esistenza di una legislazione dell’intelletto sulla natura (ciò che possiamo conoscere attraverso le categorie intellettuali) e l’esistenza di una legislazione della ragione pura pratica attraverso la determinazione morale della volontà. Cpv.7 Dobbiamo comunque riconoscere che i domini sono due e non possono mischiarsi. Non si può mai realizzare una conoscenza teoretica dell’oggetto come cosa in sé: questo è ciò che stabilisce il confine tra il dominio della natura e quello della libertà. I domini sono due, il territorio è uno e anche il fondamento sovrasensibile è unico. A fondamento del fenomeno vi è la cosa in sé, di cui non possiamo avere conoscenza ma che c’è. L’idea del sovrasensibile dev’essere messa a fondamento della possibilità di tutti gli oggetti dell’esperienza. 1 Accenna qui a un problema, molto presente nella prima introduzione e invece sostanzialmente assente nella seconda, cioè al problema delle leggi empiriche. I concetti dell’esperienza (che non sono leggi che rispondono alle categorie intellettuali ma sono in generale una sorta di ordinamento pre-conoscitivo della ragione) hanno il loro territorio nella natura: non vi hanno però un dominio (non sono legislatori della natura), bensì un domicilio (la descrivono semplicemente). Sono delle regole empiriche, contingenti, che si trovano nella natura senza rispondere a delle categorie a priori. Esempio: il colore dei tulipani non risponde a una categoria a priori riferibile alla legislazione dell’intelletto su questi oggetti naturali; è una sorta di regola contingente che siano rossi o gialli, ma non rispondono a un criterio di necessità. Intelletto e ragione, teoretica e pratica, sono distinti nel dominio, ma ritrovano un’unità non soltanto nel territorio dell’esperienza ma anche nel fondamento, che è sovrasensibile per entrambi. C’è un’idea generale e indeterminata di “sovrasensibile” che esprime le condizioni di possibilità anche per gli oggetti fenomenici della natura. Cpv.8 Questo campo illimitato, anche se rimane inaccessibile, va presupposto, perché le idee sovrasensibili costituiscono le condizioni di possibilità del dominio della natura e del dominio della libertà. Questo fondamento sovrasensibile può trovare una sua realtà, cioè può in qualche modo emergere dal sommerso, soltanto attraverso la libertà, nella moralità, ma noi ne dobbiamo pensare l’esistenza come a fondamento di entrambi i domini. Cpv.9 È questo il problema dell’applicazione: la natura non influenza la libertà, le leggi sensibili non rientrano nel processo della decisione morale ma la libertà non deve rimanere una legge astratta, deve trovare la propria realizzazione nel mondo. In qualche modo questa ripartizione dei domini non è quindi completamente simmetrica. Dato che la libertà deve trovare una realtà nel mondo della natura, la natura (cioè là dove la libertà si deve applicare) deve poter essere pensata (non c’è una spiegazione attraverso categorie, una dimostrazione) in modo tale che essa abbia una forma di regolarità che renderà possibile l’applicazione della libertà al mondo. dobbiamo poter affrontare il problema del determinismo naturale che sembrerebbe rendere impossibile l’applicazione della libertà: dobbiamo poter pensare la natura come se si accordasse con i fini della libertà. Questo spiega perché Kant scrive una Critica del giudizio basandola sul principio di finalità. Descrive poi il fondamento sovrasensibile, comune a entrambi i domini, che deve essere pensato come unitario: lo stesso fonda sia la natura fenomenica (come cosa in sé) sia la legge della libertà. Di questo fondamento unitario non possiamo avere conoscenza e dunque non è un terzo dominio, ma rende possibile il passaggio da un modo di pensare a un altro. Ciò che cambia nei due domini, al di là della definizione astratta di “dominio”, è il modo di pensare, da teoretico (applico i principi della conoscenza intellettuale) a morale (applico la legge morale per giudicare l’azione). Questo passaggio dev’essere possibile, perché rende possibile l’applicazione della libertà al mondo della natura. III. Della critica della capacità di giudizio come mezzo di collegamento delle due parti della filosofia in un tutto Cpv.1-2 Kant qui accosta al problema sistematico (creare un’unità tra i due domini) il problema critico. Sono due problemi complementari ma diversi: un conto è parlare della suddivisione della filosofia, un conto è parlare della critica delle nostre facoltà pure, che non sono soltanto due. È possibile una critica delle facoltà pure che “sconfini” rispetto alla semplice divisione in due tra filosofia teoretica e pratica: nella critica delle facoltà è prevedibile parlare di un’altra facoltà con dei principi che non si applicano né all’uso teoretico né all’uso pratico. Cpv.3 Se con un’operazione critica vagliamo le facoltà del soggetto, vediamo che le facoltà sono più di due. Dobbiamo pensare a una terza facoltà, che costituisce un termine medio (Mittelglied), cioè la capacità di giudizio. Ora procede con una modalità molto frequente nella terza critica, cioè quella dell’analogia. Per analogia, Kant si accorge che, così come l’intelletto e la ragione pratica hanno dei principi a priori, dovremo pensare che anche questa terza facoltà abbia un principio suo proprio. Siccome però c’è una disparità tra le facoltà superiori del soggetto (la dimensione critica) e i domini (la dimensione sistematica), questo termine medio ha sì un suo principio a priori ma non ha un dominio. Kant scrive che questo principio a priori si applica a un certo territorio dell’esperienza. Il principio a priori della capacità di giudizio, proprio perché non ha un oggetto e quindi un dominio corrispondenti e quindi non è legislatore su nulla, è solo soggettivo. Con esso non determiniamo nulla. Cpv.4 L’intelletto, la capacità di giudizio e la ragione pratica si riferiscono a delle facoltà conoscitive superiori che sono irriducibili, fondamentali (facoltà conoscitiva, sentimento del piacere e dispiacere, facoltà appetitiva). Per analogia, così come la prima e la terza fondano intelletto e ragione, il sentimento di piacere e dispiacere fonderà la capacità di giudizio. Kant non è molto chiaro nel cercare di spiegare la relazione di fondamento tra il sentimento di piacere e il giudizio. Nella fine del paragrafo, Kant sostanzialmente dice che abbiamo un sentimento di piacere che corrisponde alla capacità di giudizio e che le corrisponde anche in questa capacità di mediazione. Così come la capacità di giudizio ha un suo principio a priori e può essere intesa come termine medio tra intelletto e ragione pratica, ugualmente il sentimento di piacere è una mediazione tra la facoltà conoscitiva e la facoltà appetitiva. È possibile così il passaggio da natura a libertà. Questo tema della mediazione attraverso il sentimento di piacere è spiegato da Kant attraverso una compenetrazione del piacere anche nell’ambito della moralità: il piacere ha a che fare anche con la soddisfazione della legge morale in Kant, e proprio per questo esso dall’essere un piacere dei sensi, che riguarda il dominio della natura, può farsi un piacere morale e quindi riguardare il dominio della libertà. Il piacere sembra essere la facoltà fondamentale che rende possibile la mediazione proprio perché può stare in entrambi i domini. Non ha un suo proprio dominio perché è in entrambi. Per Kant, evidentemente, il piacere è qualcosa di generale, né di natura esclusivamente fisica né esclusivamente spirituale. Il sentimento diventa fondamentale, perché nell’articolazione critica è quella facoltà superiore che permette il passaggio dal modo di pensare dell’intelletto a quello della ragione. Questo perché il sentimento è di natura ibrida: generalmente ha a che fare con i sensi, ma può presentarsi anche in forma più elevata (v. sentimento morale in Critica della ragion pratica). Nella Critica della ragion pratica, Kant attribuiva un ruolo al sentimento nel paragrafo dedicato ai moventi della ragion pratica, dove scrive che il rispetto della legge morale, inizialmente, crea un dispiacere ai nostri sensi ma poi realizza un piacere di natura superiore. L’aver rispettato la legge della ragione ci provoca una sorta di piacere, una soddisfazione. Per questo, noi proviamo un sentimento che è anche morale, che ci spinge a compiere l’azione secondo la legge morale. Ecco quindi che il piacere di cui parla qui è il piacere in generale, che può riguardare la nostra parte sensibile ma che è anche il piacere morale e che la facoltà di giudizio permette di esprimere. Il sentimento, e in particolare il sentimento di piacere, è per sua natura ibrido e per questo diventa la facoltà fondamentale che garantisce la possibilità della mediazione. Cpv. 5 Qui, con “critica della ragione pura” non intende la prima critica, ma la critica della ragione nella sua unità, cioè la critica della ragione pura che si esercita nella conoscenza, la ragione pura pratica che riguarda la morale e la ragione pura che si esercita attraverso la capacità di giudizio. La critica della ragione pura è cioè la critica delle facoltà del soggetto ricondotte alla sua parte razionale. A Kant non interessano i principi empirici o la dimensione empirica delle facoltà, ma piuttosto, secondo il metodo trascendentale, indagare la dimensione pura delle facoltà, cioè come queste facoltà applicano i propri principi a priori (categorie, principio di finalità, libertà). IV. Della capacità di giudizio come facoltà legislatrice a priori Non essendo il principio a priori della capacità di giudizio legislatore, Kant qui ci spiega in che modo la capacità di giudizio funziona come facoltà legislatrice a priori. Cpv.1 La capacità di giudizio in generale (S è P) è un accostare il particolare – cioè l’oggetto che giudico – a un universale (concetto dell’intelletto, legge della ragione, bello o Cpv.2 La capacità di giudizio si dà da sé delle massime che noi poniamo a fondamento della nostra riflessione sulla natura. Essendo un principio trascendentale che riguarda la capacità di giudizio riflettente e non determinante, quello della finalità della natura sarà un principio che riguarda soltanto la possibilità dell’esperienza e non ce la determina in nessun modo. Tuttavia, non riguarda una natura che pensiamo in astratto ma concretamente la natura in cui siamo immersi, composta secondo una molteplicità di leggi particolari. Cpv.3 Dire che la natura nella sua particolarità empirica può essere ordinata può andare incontro al rischio di tentare una spiegazione psicologistica di questi principi e questo non è ciò che interessa a Kant. Per Kant, la finalità della natura ha a che fare con un principio trascendentale dei giudizi. Non è una spiegazione psicologistica né metafisica, ma trascendentale, che dunque sarà degna di una deduzione trascendentale che ci indicherà il fondamento del giudicare in questo modo. Cpv. 4 Riprende la distinzione tra giudizio riflettente e giudizio determinante. Parlare della natura in generale (giudizio determinante) è diverso dal parlare della natura empirica, composta dalla particolarità dei fenomeni, in cui effettivamente siamo immersi. In questo caso dobbiamo pensarla in modo infinitamente molteplice, e orientarvici è proprio della capacità di giudizio riflettente. L’uomo non è in grado di sostenere il caos: non potendo determinare l’unità secondo leggi della natura la si presuppone. Quest’unità è insondabile (non determinabile) ma pensabile, cioè posso ipotizzarla. La capacità di giudizio riflettente deve pensare secondo un principio di finalità laddove la finalità è accordo del particolare naturale con le nostre facoltà conoscitive. Posso pensare la natura come se essa possa essere ordinata per essere assimilata dalle mie facoltà conoscitive. La finalità non è un concetto della natura né della libertà, non determina in nessun modo gli oggetti (dunque non ha un dominio) ma è un modo di procedere nella riflessione sulla natura. Noi proviamo piacere quando incontriamo una tale unità sotto leggi meramente empiriche, cioè quando il nostro intelletto è soddisfatto nel suo bisogno. Cpv.5 Secondo Kant siamo di fronte a un problema decisamente rilevante che riguarda la necessità del nostro intelletto di fare un’esperienza interconnessa. L’intelletto ha bisogno di leggi, ha bisogno che quest’unità sia pensata secondo delle leggi necessarie, appunto quelle della finalità, altrimenti non avanzeremmo dal particolare all’universale. Il principio a priori della finalità della natura non sta a fondamento delle leggi empiriche stesse, che non vengono determinate, ma a fondamento della riflessione su di esse. Di questo principio ci dà un’ulteriore definizione, quasi un esempio: esso è ben rappresentato se pensiamo alla subordinazione di generi e specie che noi possiamo cogliere. Kant ha in mente gli studi in ambito biologico, le classificazioni, per esempio, delle piante, che dalla metà del ‘700 si stavano sviluppando molto. Kant le osserva e riflette da un punto di vista di epistemologia generale: questo collocare gli oggetti naturali in generi e specie è qualcosa che riguarda il nostro modo di procedere, la nostra riflessione sulla varietà naturale e di cui abbiamo bisogno. Non ci dice niente sugli oggetti, bensì qualcosa sul nostro modo di riflettere su quegli oggetti. Per l’intelletto, quest’unità rimane assolutamente contingente, non è in grado di determinarla, di applicarla con categorie a priori. Al contrario, la capacità di giudizio, che si ferma alla riflessione e quindi non procede nella determinazione, deve presupporre come a priori questa regolarità, questa classificazione. Cpv.6-7 Riflettendo sulla limitatezza dell’intelletto, Kant dà ulteriori caratteristiche della finalità della natura. La capacità di giudizio non possiede un’autonomia (non possiede i principi a priori per determinare la natura, per prescriverle dei principi come fa l’intelletto quanto conosce attraverso le categorie) ma un’eautonomia: prescrive a se stessa una legge della riflessione, per procedere nella natura. La molteplicità dei fenomeni rimane, non viene superata, ma siamo in grado di pensarla come unitaria. Il finalismo non riguarda la natura, ma le facoltà del soggetto: la finalità che troviamo non riguarda la natura e il suo orientamento. VI. Del collegamento del sentimento del piacere col concetto della finalità della natura L’incipit del paragrafo è una sorta di riassunto di quanto si può leggere nella Prima introduzione. Si dilunga a spiegare il bisogno soggettivo dell’intelletto di trovare l’ordine. Cpv.1 Da un lato abbiamo a che fare con un accordo contingente, non garantito da leggi a priori date ma che si ritrova nel momento in cui il soggetto si misura con il particolare naturale, dall’altro però è inevitabile, ne abbiamo bisogno. Distingue tra le leggi necessarie (quelle dell’intelletto, le categorie a priori che diventano leggi della natura) e le leggi contingenti (che ritroviamo nella natura attraverso il principio di finalità ma che sono comunque inevitabili). È come se si riscontrasse un’intenzione della natura ad accordarsi con il nostro intelletto. Qui è centrale il termine Absicht (intento), che indica l’intento ordinare dell’intelletto di trovare nel molteplice naturale un’unità di principi. Cpv.2 Il fatto che il piacere sia determinato da un fondamento a priori in modo valido per ciascuno creerà molti problemi a Kant che risolverà nella deduzione dei giudizi estetici. Il piacere che deriviamo dal soddisfacimento dell’intento dell’intelletto di trovare un ordine della natura diventa un piacere che si riferisce, senza concetto a priori che lo fonda, alla facoltà conoscitiva in generale e non alla facoltà appetitiva (è da distinguersi dal piacere che troviamo nel compimento dell’azione moralmente buona). Cpv.3 Vi è una distinzione anche tra il piacere di cui stiamo parlando e quello che eventualmente si potrebbe provare nell’attività conoscitiva. Ma, nel caso della conoscenza logica, l’intelletto non sta perseguendo un intento ma sta seguendo necessariamente la sua natura (non c’è una “resistenza”, un disagio) e quindi non si prova alcun piacere. Nel caso invece di riscontro della finalità della natura (scoperta della possibilità di unificare più leggi empiriche eterogenee) dà luogo a un piacere che si confonde con l’ammirazione (Bewunderung) e che continua anche quando l’oggetto ci è noto. Il tipo di piacere che proviamo dipende dall’accordo contingente (non possiamo determinarlo né è dato a priori) della natura con la nostra facoltà conoscitiva e che corrisponde a un intento dell’intelletto. Andando contro all’intento dell’intelletto di trovare un ordine proveremmo un dispiacere che sta nell’eterogeneità delle leggi della natura che in nessun modo si riescono a unificare. Cpv.4 Non abbiamo una determinazione dell’applicazione del principio di finalità, il quale procede in maniera indeterminata: l’empirico molteplice in cui ci muoviamo è inteso come infinitamente molteplice. Di conseguenze saranno indeterminati anche i limiti della finalità. Proprio perché agiamo apprendendo all’infinito la molteplicità particolare, anche la stessa finalità potrà trovare applicazione all’infinito. Nessun concetto determinato dà dei limiti alla nostra applicazione del principio di finalità. C’è la speranza per cui quanto più si spinge la nostra esperienza della natura tanto più si troverà che la natura è semplice, interconnessa, ma questa speranza non è dimostrabile a priori. VII. Della rappresentazione estetica della finalità della natura I paragrafi VII e VIII sono dedicati alla particolare applicazione del principio di finalità, che può essere estetica o teleologica, giustificando così la struttura del testo. Il punto di riferimento di questa distinzione (anche se meno rispetto alla prima introduzione) è il principio di finalità. Esso rimane soggettivo, ma in un caso la finalità guiderà la riflessione sugli oggetti naturali attraverso un ulteriore elemento soggettivo, cioè la proiezione del sentimento del soggetto, mentre nell’altro caso è guidata da un elemento oggettivo (pur non andando a determinare in alcun modo gli oggetti naturali la nostra attenzione sarà rivolta alla loro struttura). Cpv.1 Qui introduce finalmente il tema estetico. La proprietà estetica, cioè la proprietà attribuita nel giudizio estetico, è ciò che costituisce il solo riferimento al soggetto nella rappresentazione di un oggetto. Quando rappresento un oggetto che è fuori di me, posso avere al tempo stesso un elemento esclusivamente soggettivo o un elemento oggettivo. La distinzione è tra validità estetica (giudizio estetico) e validità logica (giudizio logico) della rappresentazione dell’oggetto. Lo spazio esprime la mera forma dell’intuizione, ma poi essa viene adoperata per la conoscenza degli oggetti fuori di noi. È un elemento sì del soggetto, ma che poi serve per la determinazione dell’oggetto. Cpv.2 Quando ci troviamo in una condizione in cui la rappresentazione dell’oggetto non viene poi sottoposta alla determinazione del concetto, quindi la rappresentazione non è in nessun modo sottomessa alla conoscenza dell’oggetto ma viene applicato il principio di finalità e dunque si prova un sentimento di piacere, ecco che essa diventa una rappresentazione estetica della finalità. Questa è la distinzione tra validità logica e validità estetica. Nella terza critica indagherà appunto se ci sia una tale rappresentazione. Cpv.3 Anche nel caso dell’esperienza estetica, noi procediamo comunque con la mera apprensione (percepiamo un oggetto), ma l’apprensione è qui apprensione della forma di un oggetto dell’intuizione e non si riferisce a un concetto. A questa forma è collegato un piacere (collegamento, reso possibile dal principio di finalità): la rappresentazione non è quindi riferita all’oggetto ma ci dice qualcosa del soggetto, e il piacere è l’adeguatezza della forma alle nostre facoltà. È una finalità che riscontriamo nell’oggetto ma che appartiene a una proiezione del soggetto. Il movimento di apprensione delle forme è in questo caso demandato all’immaginazione (che come abbiamo visto è nella terza critica quasi sovrapposta all’intuizione della prima), v. qui “facoltà delle intuizioni a priori”. L’immaginazione apprende le forme degli oggetti, non le riferisce ai concetti dell’intelletto ma, siccome comunque si tratta di costruire una rappresentazione dell’oggetto, l’immaginazione (anche non intenzionalmente) ricerca un confronto con l’intelletto e con la sua regolarità. L’intelletto, essendo finito, ha sempre bisogno di ordinare le forme che l’immaginazione apprende: non applica le categorie, ma rimane con quel suo intento di ritrovare un ordine. Se questo accordo tra la richiesta di regolarità dell’intelletto e l’apprensione della forma da parte dell’immaginazione si realizza, grazie al principio di finalità, proviamo un sentimento di piacere. Quindi l’oggetto viene giudicato finalistico, cioè come se fosse in accordo con la capacità di giudizio riflettente. Il giudizio estetico è proprio l’espressione del piacere per questo accordo spontaneo. Quando, apprendendo la forma di un oggetto tramite l’immaginazione, la costruzione della rappresentazione3 secondo il principio di finalità dà luogo a un piacere, questo piacere risponde a una precisa dinamica trascendentale. Esso quindi è necessariamente collegato alla rappresentazione, perché necessariamente, ogni qual volta immaginazione e intelletto si trovano in accordo (cioè quando si soddisfa il bisogno dell’intelletto di trovare un’unità nell’eterogeneità naturale), si prova piacere ed esso è generato dall’accordo tra due funzioni trascendentali. Questa necessità non è però oggettiva, cioè non dipende dalla costituzione dell’oggetto, ma soggettiva, perché dipende dall’accordo delle facoltà del soggetto. Questo piacere quindi riguarda chiunque giudichi ritrovando quella finalità, secondo l’idea trascendentale kantiana per cui esiste un soggetto universale. 3 Kant definisce la rappresentazione in accordo con la scuola leibniziano-wolffiana: è intesa come riconduzione del molteplice all’unità. Cpv.1 Il passaggio dai due domini non può mai avvenire nei termini della Bestimmung, della determinazione. Per questo è necessario pensare a un’altra modalità del giudizio, quello riflettente: il passaggio avviene nei termini della Wirkung, l’effettualità, l’avere un effetto. Già nel paragrafo II ci aveva detto che la ragione deve avere un effetto sul dominio nell’intelletto. La ragione pratica non può determinare la natura, ma può avere un effetto sul dominio della natura. Il passaggio avviene in una sola direzione: il sensibile naturale non potrà mai essere causa del sovrasensibile morale, che è invece fondamento indeterminato (in questo senso causa) del sensibile, nella forma della cosa in sé. Qui aggiunge che essere fondamento di qualcosa vuol dire avere un effetto su questo qualcosa. L’effetto del sovrasensibile è il fine ultimo (Endzweck): la natura dell’uomo è orientata verso il suo fine ultimo, cioè la morale. Questo effetto passa attraverso l’uomo che viene definito nella sua umanità, corrispondente all’essere un corpo sensibile e una moralità sovrasensibile. L’uomo è l’unico essere ad avere in sé il proprio fine ultimo, cioè la legge morale. Per questo il passaggio da natura a moralità si colloca nel soggettivo. La capacità di giudizio riflettente, sottraendosi dalla determinazione, sarà in grado di creare un accesso al sovrasensibile. Nella nota leggiamo che questo passaggio è una promozione della moralità: esercitare la capacità di giudizio di fronte alla molteplicità empirica naturale ci portasse a esercitare e a promuovere la capacità morale. La promozione è tra la natura come fenomeno e gli effetti della libertà come fenomeni nel mondo sensibile. È la causalità della natura che viene subordinata alla causalità del soggetto inteso come fenomeno. Ritorna il tema del sovrasensibile: l’intellegibile, pur rimanendo indeterminato, costituisce il sostrato della natura, che quindi condivide il fondamento con la libertà (in questo senso promozione). Cpv.2 Determinabilità (apertura alla comprensione) ≠ determinazione. La capacità di giudizio dischiude, trovando l’unitarietà attraverso il principio di finalità, quell’idea del sovrasensibile, che per l’intelletto è assolutamente indeterminabile, mentre per la capacità di giudizio determinabile ma non determinato: sarà la ragione pratica a determinare quel sovrasensibile come morale, e in questo sarà possibile l’applicazione della legge morale alla natura. Cpv.3 La mediazione avviene anche a livello del sentimento di piacere e dispiacere, fondamento della capacità di giudizio. Il tema del “regolativo” diventerà fondamentale nella ricezione della terza critica. È l’idea di trovare una modalità della capacità di giudizio ulteriore alla determinazione. La capacità di giudizio non dà una determinazione, un contenuto alla facoltà conoscitiva, ma la orienta nel caos naturale. Il regolativo riguarda la facoltà conoscitiva (probabilmente in generale) ma diventa costitutivo rispetto al sentimento di piacere o dispiacere, dandone il contenuto. Kant riconosce di nuovo che il gioco di immaginazione e intelletto che fonda il sentimento di piacere diventa idoneo per creare quella mediazione che si ricercava tra il dominio della natura e quello della libertà. A trarne maggiore vantaggio è in questo la libertà, che riesce a trovare un’applicazione nel dominio della natura. La promozione sembra antropologica, che potrebbe essere l’idea presente nel ‘700 per cui un individuo che riesce a provare una forma di piacere di fronte agli spettacoli naturali, che possiede una sensibilità per la bellezza naturale, sarà più propenso al bene morale (unione tra bello e bene). Esercitare il proprio giudizio estetico, soprattutto davanti alla bellezza naturale, diventa una forma di ricettività e apertura al bene morale. L’introduzione si chiude con uno schema delle facoltà, quadripartite. Il termine “facoltà conoscitiva” si usa nella prima colonna come “teoretica”, mentre nella seconda indica le facoltà della conoscenza in generale (intelletto, capacità di giudizio, ragione), che mettono in atto le facoltà dell’animo complessive. Nell’etimologia tedesca dei principi a priori si rivela il tema della mediazione. • La Gesetzmässigkeit indica l’utilizzo delle categorie a priori. • La Zweckmässigkeit indica la finalità, che si distingue dal concetto di fine in quanto ha natura soggettiva. Sta anche etimologicamente nel mezzo: condivide la conformità con la Gesetzmässigkeit e il fine dell’Endzweck. • Endzweck il problema è che Kant ci ha detto che la capacità di giudizio non ha alcun dominio, non determinando nulla, ma qui indica la sua applicazione nell’arte. Questo crea una duplice ambiguità, che possiamo provare a risolvere con delle supposizioni: - Kant ci ha sempre detto che i domini sono due. Ma, se vogliamo andare più a fondo, potremmo immaginare che Kant, nel tema dell’applicazione, non abbia in mente la rigida ripartizione dei due domini ma piuttosto voglia indagare l’articolazione critica in tre parti. - Abbiamo assimilato l’estetica kantiana come un’estetica della natura, non tanto dell’opera arte. Possiamo immaginare che abbia l’idea della natura come opera d’arte in quanto ordinata. ANALITICA DEL BELLO Si divide in 4 momenti che riprendono l’articolazione della tavola aristotelica delle categorie, già usata nella prima critica, che definiscono il bello: qualità, quantità, relazione, modo. Da questa definizione emergono 4 temi: • Disinteresse • Relazione tra individualità e universalità del gusto (problema della deduzione) • Libero gioco tra le facoltà • Definizione di bellezza libera, che ci aprirà al tema dell’opera d’arte e della moralità Dobbiamo ricordarci che, quando Kant scrive l’analitica del bello, si colloca in un determinato contesto storico. Ha in mente la nozione di bellezza in Baumgarten, l’estetica dell’empirismo inglese e l’Encyclopédie. Non aderisce alla definizione baumgarteniana di bellezza come perfezione, e anzi mette in discussione quest’identità identificando il tema della bellezza libera. Le facoltà in gioco che vediamo nella definizione del bello (immaginazione e intelletto) vogliono rispondere a questa messa in discussione del tema della perfezione in vista di quello della libertà, anche intesa come semplice spontaneità. Il giudizio sul bello si realizza quando immaginazione e intelletto si trovano in un libero gioco, in un accordo spontaneo. Guarda alla critica della ragion pura e alla presenza dell’intelletto in forma di semplice regolarità. Nella definizione del bello l’intelletto rinuncia ad applicare le proprie categorie, rimanendo statico e al tempo stesso garantendo una qualche forma di regolarità, ancorando l’attività dell’immaginazione al mondo dell’esperienza. È naturale quindi che l’articolazione dell’analitica del bello sia effettuata in accordo con la tavola delle categorie. PRIMO MOMENTO DEL GIUDIZIO DI GUSTO, SECONDO LA QUALITÀ In questo primo momento dell’analitica del bello, Kant ci dice che il bello è ciò che piace senza interesse, intendendo con “interesse” l’interesse per l’esistenza dell’oggetto. L’ambito del giudizio estetico è infatti contemplativo. Il tema del disinteresse si ritrova nell’estetica del ‘700, ma Kant lo usa in termini sistematici. Il fatto che il giudizio estetico sia disinteressato ci dice precisamente che il bello non ha a che fare con il giudizio logico né con il giudizio pratico. - Il giudizio logico richiede una determinazione che qui è negata - Il giudizio pratico comporta l’interesse della ragione § 2. Il compiacimento che determina il giudizio di gusto è senza alcun interesse Dato che Kant ha una nozione soggettiva di bellezza, l’assenza di interesse riguarda il tipo di piacere di coinvolto. È il compiacimento a essere disinteressato. Proviamo un interesse quando il piacere per una rappresentazione dell’oggetto ne contempla l’esistenza (facoltà appetitiva). Abbiamo visto nell’Introduzione quel passaggio dall’apprensione dell’immaginazione (esibizione) alla rappresentazione dell’intelletto. Qua siamo in un ambito trascendentale: il piacere non deriva né dall’assimilazione dell’oggetto né dalla sua costituzione, ma dall’azione rappresentativa (riconduzione della molteplicità all’unità). Non mi interessa che l’oggetto esista, ma che si passi da un’apprensione molteplice e caotica all’unità della rappresentazione, che si offre al godimento del soggetto. Per il piacere estetico dipendo soltanto dalla mia attività rappresentativa, non dall’esistenza dell’oggetto. Nella nota Kant apre una porta che chiuderà nella dialettica. Il tema dell’interesse è molto complesso nella terza critica, perché è come se ci fosse un’evoluzione. Nei primi paragrafi Kant ci dice che il bello è assolutamente disinteressato, però poi più avanti (§42 e §59) scopriamo che nel § 6. Il bello è ciò che, senza concetti, viene rappresentato come oggetto di un compiacimento universale Dal titolo ricaviamo i seguenti elementi: - Assenza di un concetto dato (particolarità) - Abbiamo a che fare con una rappresentazione unitaria - Questa rappresentazione ci dà una forma di compiacimento - La natura di questo piacere è universale Torna la scelta di Kant di porre la qualità prima della quantità. Dato che non è implicato un interesse privato, si capisce in che senso questo compiacimento vuole essere universale. Il fondamento di questa aspettativa sta nel fatto che possiamo presupporre qualcosa che è uguale in tutti i soggetti (cioè le facoltà trascendentali). § 7. Confronto del bello col gradevole e col buono a partire dalla caratteristica indicata Qui Kant pone la questione che ha appena posto in termini trascendentali con un’attenzione empirica, facendo anche diversi esempi. Emerge il debito storico di Kant: il problema che sta affrontando è quello che Hume aveva posto nella Regola del gusto, che voleva dimostrare come mai empiricamente accada che l’espressione del proprio gusto, che si penserebbe assolutamente singolare, risponde a uno standard, a delle costanti. Utilizza termini humiani (es. biasimo). Kant sta discutendo il classico problema del de gustibus non disputandum est. Dire che una cosa è bella vuol dire enunciare un giudizio affermativo, quindi con struttura trascendentale, come se fosse un concetto, un predicato delle cose. Definisco la mia esperienza. Anche di un quadro posso dire che è mi piace o meno, ma non discutere se è bello o no. La pretesa alla validità comune non necessariamente si verifica empiricamente, non è un’universalità che derivo dall’esperienza (come invece fa Hume). Se mi baso semplicemente sulla catalogazione empirica, avrò soltanto regole generali e non universali. Se non viene soddisfatta, questo ci porta a biasimare l’interlocutore. Il biasimo estetico è distinto e “meno forte” da quello morale, perché non si basa su una legge, ma c’è un legame: il giudizio morale e quello estetico sono spesso avvicinati nel dibattito contemporaneo a Kant perché entrambi attribuiscono un valore, non sono descrittivi. L’uomo che manca di gusto può favorire il sospetto di essere moralmente “difettoso”: l’uomo di gusto, come vedremo, è naturalmente orientato verso il bene morale. § 8. L’universalità del compiacimento viene rappresentata, in un giudizio di gusto, solo come soggettiva Kant riconosce sia che il problema è molto complicato sia che sia necessario uno sforzo per convincere che effettivamente stiamo richiedendo una validità comune nonostante non abbiamo alcun concetto. La validità comune è un tratto essenziale della bellezza, e senza dimostrarla ne perderemmo la stessa essenza: la bellezza verrebbe ridotta a semplice piacevolezza. È la validità comune che ci garantisce che la bellezza sia oggetto di un giudizio trascendentale. Se si trovassero in disaccordo, cosa che può darsi si tratta di un disaccordo sulla giusta applicazione della facoltà, ma la facoltà garantisce l’universalità soggettiva. Quando si esprime un giudizio estetico, si parla come se si avesse una voce universale, come se si parlasse per la propria comunità estetica di riferimento. Il giudizio di gusto non postula il consenso di ciascuno. C’è un’incertezza nei confronti del gusto, siamo nell’ambito della possibilità e non della certezza concettuale o empirica. Questa pretesa alla validità comune è fondata nel momento in cui mi trovo in un’autentica esperienza estetica, cioè nel momento in cui il mio giudizio è autenticamente disinteressato e non l’ho mescolato né alla gradevolezza né al buono (giudizio estetico puro). Il problema è su cosa si fonda questa legittimità. § 9. Indagine della questione: nel giudizio di gusto è il sentimento di piacere che precede la valutazione dell’oggetto o è questa che precede quello? È un paragrafo centrale, perché ci dà il fondamento dell’essenza della bellezza, cioè la sua universalità. Kant si chiede: il piacere che provo fonda e quindi precede il giudizio o viceversa? È il piacere che fonda il giudizio di gusto, che mi garantisce quell’universalità? Kant scarta subito questa possibilità, perché contraddittoria. Se il piacere precedesse il giudizio, sarebbe indistinguibile dal gradevole (validità privata). Il piacere è effetto del giudizio di gusto, non causa. Dunque quale è la causa? Risolvendo questo problema, Kant indaga le facoltà in gioco. Il giudizio di gusto viene formulato dall’immaginazione che ci procura l’esibizione di una forma, che poi rapportandola alla regolarità intellettuale dà luogo a una rappresentazione unitaria. Il fondamento è proprio il libero gioco delle facoltà conoscitive (indipendente dalla conoscenza logica), attivato dalla rappresentazione di un soggetto. Questo accordo armonico produce uno stato d’animo nel soggetto, che non è vincolato a un concetto eppure è partecipabile dall’intera comunità dei giudicanti. Fondare il piacere nel libero gioco delle facoltà vuol dire dare ad esso un fondamento trascendentale, che ne garantisce l’universalità. È proprio questo riferire l’articolazione delle facoltà alla rappresentazione (conoscenza in generale) che sfocia nel piacere e che garantisce l’universalità, la comunicabilità (tratto della conoscenza), la pretesa nei confronti degli altri. Il presupposto è ovviamente il metodo trascendentale. Abbiamo sempre un rapporto tra immaginazione e intelletto, che ci garantisce la rappresentazione, ma qui abbiamo una rappresentazione estetica, non logica. La comunicabilità del giudizio estetico potrebbe essere spiegata, se non empiricamente, attraverso la tendenza dell’uomo alla socievolezza (spiegazione psicologistica), ma nemmeno questo modo lo soddisfa, non spiega la necessità. Dopo averci dato tutti gli elementi, Kant si ferma, rimandando la discussione alla Deduzione. Il problema è prima dimostrare i giudizi estetici a priori: siamo nell’ambito trascendentale, quindi né l’empirismo né lo psicologismo ci soddisfano; siamo sempre in un parallelismo con l’ambito conoscitivo, in una dimensione diversa da quella del piacevole. La questione minore a cui torna è: in che modo ci accorgiamo di questo libero gioco, visto che non scaturisce dalla determinazione dell’oggetto? L’esperienza estetica è un’attività intellettuale o si colloca nell’ambito della sensazione? Questo è un problema presente anche nel dibattito attuale. Kant ci dirà che, essendo priva di concetto, ci rendiamo conto del libero gioco a partire dal suo effetto. Kant inizia a introdurre un elemento che deriva dall’antropologia: il soggetto, quando compie un’esperienza estetica, è come vivificato, perché le facoltà si mettono in moto. Attraverso il piacere, il soggetto diviene consapevole di questo libero gioco. Non ci si deve attaccare al termine “determina”: non sta ritrattando rispetto alle distinzioni già fatte, ma solo dicendo che il giudizio di gusto arriva ad attribuire un predicato di gusto all’oggetto indipendentemente da concetti e riguardo al piacere. La consapevolezza avviene a livello della sensazione, perché priva di concetto. Il giudizio di gusto ci rende consapevoli del libero gioco attraverso la vivificazione delle facoltà che ci dà un sentimento comunicabile universalmente. L’unico tipo di consapevolezza che possiamo avere in assenza di concetto è questo effetto sulla sensazione, questo stato d’animo. Il piacere è quindi la conseguenza del libero gioco e ciò che ci rende consapevoli di esso. N.B.: 1. Notiamo che immaginazione e intelletto (l’esibizione del molteplice e dall’altro la rappresentazione in unità) vengono sempre considerate come separate. L’importante interprete italiano di Kant Silvestro Marcucci ha scritto Intelletto e intellettualismo nell’estetica di Kant, dove si interroga sulla presenza dell’intelletto e sulla sua natura nell’esperienza estetica. Afferma che esiste una differenza fondamentale tra la composizione del molteplice dell’immaginazione e la riconduzione a unità nella rappresentazione: da un lato abbiamo l’esibizione del molteplice, ma solo dall’altro la riconduzione a unità. Questi due momenti stanno sempre in accordo tra loro ed è proprio il passaggio dall’uno all’altro che provoca il piacere. In questo senso esiste un rapporto tra l’attività dell’immaginazione e l’operazione intellettuale la cui proporzione può variare, anche in relazione al tipo di arte. Ci saranno esperienze estetiche che richiedono una maggiore attività rappresentativa, altre minore. 2. Nell’Introduzione abbiamo letto che il piacere non può esprimere altro che l’adeguatezza dell’oggetto alle nostre facoltà conoscitive in gioco nella capacità di giudizio riflettente. Era il piacere scaturito dal finalismo riscontrato nella natura. Si poteva quindi concludere che questo piacere era prodotto dalla spontaneità del libero gioco tra immaginazione e intelletto. In questo senso è interessante un’altra interpretazione, quella di Luigi Scarabelli, importante voce della filosofia italiana del ‘900 e studioso di Kant. Secondo Scarabelli dobbiamo riflettere sul fatto che il libero gioco viene considerato da Kant come causa del sentimento di piacere, che viene presentato da Kant come effetto del rapporto tra le due facoltà conoscitive. Il sentimento di piacere è la ratio cognoscendi del libero gioco. La ratio essendi è quindi da individuare nelle facoltà conoscitive. Tra le due c’è un rapporto logico. Marcucci, riprendendo Scarabelli, sottolinea che questa lettura in realtà non è del tutto esatta: stando alle parole kantiane, si tratterebbe di un rapporto causa-effetto, e non di ratio essendi-cognoscendi. C’è un’autonomia e un’essenzialità del sentimento di piacere, che trova la propria possibilità trascendentale nella capacità di giudizio riflettente e che non è solo ciò che ci rende consapevoli del libero gioco. Il rapporto di causa-effetto è assolutamente da inquadrare nella dinamica del giudizio di gusto. È proprio la capacità di giudizio che diventa riflettente a costituire questa relazione di causa-effetto. Negli ultimi 20 anni, per interpretare il piacere estetico si è attinto dagli scritti di antropologia, da poco pubblicati. TERZO MOMENTO DEL GIUDIZIO DI GUSTO, SECONDO LA RELAZIONE È il momento più lungo ma non così complesso. Kant ritorna sulla finalità, introducendo una serie di temi molto importanti, come quello dell’ideale di bellezza o della bellezza libera. Siamo in diretta continuità con i primi due momenti: è rilevante per Kant ancora il problema dell’universalità, di cui qui vuole spiegare alcuni aspetti. Il risultato di questo momento è anche qui anomalo nella prospettiva kantiana: la bellezza è la forma della finalità di un oggetto in quanto essa vi viene percepita senza la rappresentazione di un fine. Nella nota finale dovrà infatti specificare ulteriormente: nella bellezza noi percepiamo la forma della finalità senza la rappresentazione di un fine. La finalità senza fini non è necessariamente bellezza: c’è una differenza essenziale tra un’opera creata con una determinata intenzione (es. artigianato preistorico), che racchiude in sé un fine anche se non riusciamo a coglierlo – attività da ricondurre all’utile – e la percezione della finalità nella forma di un fiore, in cui un fine non c’è. Non c’è il concetto di fine nella forma di un fiore, eppure la percepiamo come finalistica nei confronti delle nostre facoltà. È su questo che Kant riflette in questo momento della relazione. • Bellezza libera (dal concetto di fine) e giudizio di gusto puro. Nel giudicare la bellezza non c’è alcun inquinamento con ciò che la cosa deve essere. Si può riscontrare in quella valutazione secondo la mera forma, quando non teniamo in nessun conto il concetto di fine. Il problema è che la bellezza libera è davvero molto limitata. Gli esempi sono per lo più presi dalla natura. I fiori sono delle bellezze libere: li giudichiamo bello indipendentemente dal suo fine evolutivo, anzi a volte troviamo una bellezza laddove c’è una sorta di inutilità. • Bellezza aderente (al concetto di fine) e giudizio di gusto applicato. È una bellezza spuria. Ciò che viene tradizionalmente identificato come esempio massimo di bellezza, quella dell’essere umano, è una bellezza aderente. Un essere umano possiede in sé il proprio fine, dunque è impossibile giudicarne la bellezza in maniera pura (concretamente, un uomo malvagio non può dare luogo al sentimento della bellezza). L’uomo è definito dal suo fine, diversamente dal fiore. Questo accade anche per i cavalli, gli edifici, ecc.: hanno uno scopo di per sé. Poi però corregge il tiro. La distinzione tra le due bellezze dipende dal nostro sguardo, non dall’oggetto. Di fronte allo stesso oggetto possiamo cambiare sguardo. Nonostante l’apparenza rigorosa, bisogna stare attenti a non essere troppo schematici. I due tipi di bellezza qui individuati vanno a definire il giudizio di gusto puro. § 17. Dell’ideale della bellezza Qui il discorso si complica. Compare il tema dell’ideale della bellezza, tema classico nella storia dell’estetica (archetipo): ci si chiede se esista un modello di bellezza che possa essere usato in modo comparativo. Compare quella che non è una vera e propria opposizione tra idea normale e ideale di bellezza. Entrambe hanno a che fare con il gusto, ma paradossalmente, vedremo, nemmeno l’ideale della bellezza, che ha una funzione decisiva nell’ambito del giudizio estetico, rientra nel giudizio di gusto puro. L’idea normale è la nozione di canone, è la misura, la regola del gusto. Kant individua tutte quelle regole molto utilizzate nel neoclassicismo che sono regole di composizione e che rimandano a un’opera d’arte scolasticamente corretta più che autenticamente bella. L’ideale della bellezza ha invece a che fare con la moralità. Non solo non ci sono delle regole di composizione che ci garantiscono un’opera d’arte bella, ma nemmeno delle regole determinate o dei concetti determinati che ci permettano un criterio universale della bellezza. Questo vuol dire che quando formuliamo un giudizio di gusto “X è bello” questo è destinato a rimanere indeterminato, non ne avremo mai un criterio di correttezza o di verità. È tuttavia possibile individuare una comunicabilità del gusto sulla base delle facoltà dell’uomo. Kant distingue innanzitutto tra ideale e idea. L’ideale del bello non è semplicemente l’identificazione empirica di alcuni prodotti che costituiscono un modello da imitare, ma diventa l’esibizione di un’idea, da intendersi nella sua accezione kantiana come concetto razionale. Così Kant sta aprendo delle vie verso quell’articolazione tra natura e libertà. L’ideale della bellezza è qualcosa di assolutamente peculiare. Anzitutto bisogna specificare che si distingue dall’idea normale (p. 229): nella bellezza non possiamo avere misure o criteri certi. Quando si realizza una media tra le varie figure che piacciono e le si usa come una sorta di misura comune per tutti (es. proporzione tra gli arti nella statuaria classica) è un’idea normale, una misurazione che non può dare luogo all’ideale della bellezza. È qualcosa che prende i suoi elementi soltanto dall’esperienza, quindi se ne può dare soltanto una spiegazione psicologica. Il canone è da tenere distinto dall’ideale estetico, che costituisce l’archetipo del gusto. Esso ha a che fare con l’idea, con il concetto morale, con la perfezione. Kant arriva a dire che l’ideale del bello può essere ritrovato soltanto nell’uomo, perché solo lui rimanda esattamente a quell’idea, dal momento che contiene in sé l’idea sovrasensibile (morale). L’ideale del bello non è quindi una bellezza scolasticamente corretta ma un oggetto diventa idealmente bello quando è in grado di esibire un’idea. L’uomo costituirà la bellezza di maggior successo proprio perché è inevitabile per lui esibire l’idea, cioè il proprio fine (morale). Così spieghiamo quanto dice a pag. 227. L’ideale del bello si riscontra, paradossalmente, non in un giudizio di gusto puro, ma in un giudizio che comunque ha a che fare con un qualche concetto. Se partiamo dalla definizione di un’ideale come esibizione (sensibile) dell’idea (sovrasensibile), l’unico oggetto che può rimandare all’ideale del bello è appunto l’uomo. L’ideale della bellezza è un’esibizione delle idee pure della ragione, cioè dell’idea morale, e in questo senso non si può riscontrare in un giudizio puro, ma soltanto nell’esibizione che riguarda quell’unico essere che contiene in sé il proprio fine e che può determinarsi da sé i propri fini. Si parla qui di un ideale dell’immaginazione, che darà luogo alla teoria delle idee estetiche. L’ideale estetico diventa definito come quell’esibizione dell’idea della ragione. Si ha qui una grandissima restrizione degli oggetti ideali: l’ideale estetico vale solo per l’uomo, che è anche l’unico per cui vale il concetto di perfezione morale. L’uomo diventa l’ideale della bellezza e non sembra possibile distinguerne la bellezza ideale dalla perfezione morale. Questa identità nella definizione dell’uomo fa sì che sia al tempo stesso il vero soggetto e il vero oggetto del giudizio estetico. In questo senso l’uomo viene inteso come Selbstzweck, cioè che si dà da sé il proprio fine. Questo paragrafo ci anticipa quello che troveremo in fondo alla Critica. Pur essendo distinti, bello e buono sono inscindibili e la nostra destinazione morale viene esibito, alluso (anche se non determinato) dall’ideale del bello. Abbiamo una prima evoluzione di quel concetto di disinteresse che abbiamo visto: nella contemplazione disinteressata, se ci riferiamo alla contemplazione dell’uomo, è incluso anche uno sguardo etico al fine morale dell’uomo. QUARTO MOMENTO DEL GIUDIZIO DI GUSTO, SECONDO LA MODALITÀ Kant qui discute il tema della necessità, che abbiamo già intravisto nella relazione tra il piacere e l’accordo delle facoltà. Questa relazione ha una necessità esemplare, cioè una necessità del consenso di tutti in questo giudizio. Quando formulo un giudizio estetico, pretendo che valga come esempio di una regola universale benché non ho un concetto determinato per dimostrarla. Il bello è ciò che è oggetto di un compiacimento necessario, non perché viene formulato sulla base di un concetto ma perché necessariamente farà scaturire in tutti i soggetti lo stesso piacere. Emerge un tema particolare, cioè quello di un particolare dovere, il dovere da parte degli altri di accordarsi al nostro giudizio. § 19. La necessità soggettiva che attribuiamo a un giudizio di gusto è condizionata Kant ritorna su quanto detto nel secondo momento e introduce il termine dovere. Il giudizio di gusto, in questa sua pretesa nei confronti degli altri, contiene in sé una forma di dovere non assoluto, ma condizionato, cioè che si basa su un fondamento comune (trascendentale). Questo rimanda a un tema che Kant poteva aver trovato nell’estetica inglese, cioè quello del senso comune (common sense o sensus communis). Secondo Kant esiste negli uomini un sentire in comune: è questa parte quella che poi nel ‘900 è stata letta in un’accezione psicologistica e politica (v. Arendt). Gli uomini, all’interno della stesssa comunità del gusto, sviluppano un comune sentire di fronte alla contemplazione della bellezza. Quest’idea è per Kant fondata trascendentalmente. § 20. La condizione della necessità vantata da un giudizio di gusto è l’idea di un senso comune Il giudizio di gusto contiene in sé questa presupposizione di un senso comune. Soltanto presupponendo il senso comune, questo sentire che abbiamo in comune con gli altri, è possibile parlare di un giudizio di gusto. § 21. Se si possa presupporre fondatamente un senso comune Qui c’è il tema della necessità della comunicabilità come parte essenziale della conoscenza (passibilità di critica trascendentale). Non abbiamo una legge oggettiva che ce la garantisce ma abbiamo un fondamento soggettivo. § 22. La necessità del consenso universale che è pensata in un giudizio di gusto è una necessità soggettiva che è rappresentata come oggettiva presupponendo un senso comune Sul senso comune Kant si dilunga abbastanza, arrivando a parlare della necessità soggettiva del senso comune. Non ho una certezza empirica né logica. Il senso comune diventa un presupposto necessario della stessa comunicabilità estetica. Potremmo in qualche modo assimilarlo alla funzione che, nella prima critica, assume l’Io penso (ciò che deve accompagnare tutte le rappresentazioni). Devo darlo per presupposto. La necessità non riguarda solo il legame tra libero gioco e piacere ma la possibilità stessa della comunicabilità del giudizio. Sulla base della necessità soggettiva ribadiamo l’universalità soggettiva del secondo momento. Essa ha infatti validità esemplare (dovere condizionato). Kant affronta qui una questione molto interessante, ancora aperta. Abbiamo un fondamento che ci accomuna a tutti, un sentire comune che ci fa pensare a un vero e proprio senso interno. Ma se siamo tutti dotati di questo senso comune, dotato di una forma di necessità e che dà luogo a un particolare tipo di dovere, tutti possiedono il gusto come una facoltà sensoriale, naturale? Oppure è artificiale, culturale, da acquisire? Kant individua una specifica ambiguità del gusto, che resterà tale. Nota generale Possiamo trovarvi qualche esempio utile. - Il piacere determinato dal bello scaturisce immediatamente e necessariamente dall’accordo delle facoltà - Il piacere determinato dal sublime non è immediato. Non abbiamo nessun accordo della forma del molteplice con la rappresentazione. Abbiamo piuttosto un piacere che sorge indirettamente. Inizialmente, il soggetto è respinto dall’oggetto, non trovando una forma. Secondo Kant, però, sorge in un secondo momento uno stato d’animo che chiama di piacere negativo. Proviamo un iniziale dispiacere che ci dà poi (vedremo come) un compiacimento, che si avvicina all’ammirazione e al rispetto. Quel meccanismo che fa sì che la ragione sia costretta a rivolgersi alle idee della ragione ha un effetto, cioè sebbene comunque non ci sia un riconoscimento della finalità dell’oggetto ci si rende conto di possedere le idee della ragione. È come un meccanismo di risveglio della parte sovrasensibile dell’uomo, che tramite una torsione verso se stesso si eleva rispetto alla natura. • A chi si rivolge il sentimento. - La bellezza sembra affermare una qualità logica dell’oggetto. - Il sublime, in nessun modo, può essere trattato come un predicato che si attribuisce all’oggetto, proprio perché questo rimane illimitato. Il sublime sembra riguardare soltanto le idee della ragione, come se queste e non l’oggetto provocassero un’emozione nel soggetto, senza che nessuna esibizione del molteplice adeguata alla ragione venga data. Si prova un sentimento che a quel punto non è più rivolto verso l’oggetto ma completamente verso il soggetto. Il soggetto prova un sentimento sì innescato dalla percezione dell’oggetto, ma questo oggetto viene subito abbandonato e il soggetto si rivolge verso se stesso. Il sublime non esprime un piacere che dipende direttamente dagli oggetti, ma piuttosto un piacere negativo che scaturisce in modo indiretto dal rapporto “fallimentare” tra immaginazione e ragione. • Il principio di finalità. - Nel caso del bello, c’è un’applicazione del principio di finalità che realizza un accordo tra oggetto e soggetto, come se il privo fosse orientato verso le facoltà del secondo risultando finalistico. Da qui scaturiva un piacere immediato: il principio di finalità trovava riscontro all’esterno e veniva soddisfatto. Il principio - Nel caso del sublime, l’oggetto nella sua apprensione non soddisfa in nessun modo il principio di finalità, rimane “contro-finale” per la nostra capacità di giudizio e inadeguato per la nostra facoltà di esibizione. L’oggetto non si orienta nei confronti del soggetto: il mare in tempesta o il terremoto restano terribili, contrari alle facoltà naturali del soggetto. Il sublime riguarda unicamente non la forma dei soggetti ma solo le idee della ragione. Abbandona il molteplice naturale, non lo riconduce ad alcuna unità ordinata secondo leggi, ma mostra un uso della natura a favore del soggetto. Il soggetto prova un sentimento che ha a che fare con una finalità che riguarda solo lui. Il principio è tutto contenuto nel soggetto. In questo senso si può rileggere la secondarietà dell’analitica del sublime rispetto a quella del bello (v. pag. 263). Da un punto di vista della finalità della natura, è solo una mera appendice del bello; ma il soggetto, in base a questo attrito tra immaginazione e ragione, prova un sentimento di natura mista (dispiacere nei confronti della natura, piacere nei confronti del soggetto). Viene quindi meno l’articolazione trovata nell’analitica del bello (cfr. § 26). Siccome il sublime è completamente soggettivo e non c’è bisogno di dimostrare la finalità della natura, Kant tralascia di articolare i quattro momenti e si concentra solo sullo stato d’animo del soggetto. § 24. Della suddivisione dell’indagine del sentimento del sublime Per Kant c’è la distinzione tra sublime matematico e sublime dinamico, ma ricordiamoci (anche quando Kant sembra ambiguo) che sublime è il soggetto ed è ancora più soggettivo del bello. Il soggetto scopre la propria debolezza e finitezza, che si trova di fronte all’immensa grandezza o potenza (iniziale dispiacere) e poi la propria superiorità della natura. Non è soltanto in balia della natura ma scopre anche la propria destinazione sovrasensibile. È nell’animo del soggetto che sta la sublimità. Un oggetto può essere giudicato attraverso diversi sentimenti: gradevole, bene morale, bellezza, sublimità. Abbiamo quindi un’articolazione della rappresentazione del soggetto quantomeno in quattro tipologie: - Gradevolezza quando l’oggetto colpisce soltanto i sensi del soggetto - Buono quando la rappresentazione del soggetto (di solito di un’azione) si accorda con il concetto di scopo, in particolare con lo scopo morale - Bellezza quando l’oggetto possiede una rappresentazione che emerge dall’accordo delle facoltà conoscitive e da qui scaturisce un piacere immediato - Sublime quando il soggetto prova un sentimento di rispetto o timore di fronte a un oggetto che appare immensamente grande o potente Kant a poco a poco prova a inserire il sublime nel problema sistematico. La capacità di giudizio, identificata come termine medio nel passaggio tra natura e libertà. Questo intento viene mantenuto nel sublime, in cui effettivamente, attraverso questa particolare articolazione del principio di finalità si realizza in qualche modo il passaggio tra natura e libertà. Tuttavia, questa finalità non ci dice nulla dell’oggetto come nella bellezza, ma l’oggetto è solo usato e poi abbandonato. Di fatto, questa mediazione ci fa solo vedere la duplicità intrinseca del soggetto. Questo è stato letto a vari livelli. Christine Pries, interprete tedesca, sostiene che nel caso del sublime si verifichi un passaggio senza ponti da natura a libertà, che cioè non identifica un oggetto che è investito di un significato particolare che media (come l’opera d’arte nel bello: nella sua forma sensibile rimanda simbolicamente al sovrasensibile, come una sorta di prisma, un’apertura indiretta verso la moralità). In più, in questo passaggio assistiamo a una vera e propria elevazione del soggetto rispetto alla natura, in cui scopre di non essere soltanto naturale. In questo è racchiusa la stessa etimologia del termine “sublime” in tedesco (Erhabene, dal verbo erheben che significa elevarsi). Sembra un passaggio quasi verticale. Siccome questa forma di mediazione riguarda unicamente la consapevolezza del soggetto di se stesso, il sublime per Kant è un giudizio estetico non è un giudizio di gusto (il gusto va a definire il nostro rapporto con l’oggetto). Per questo, per Kant non è necessaria una deduzione del sublime: non si pone, come nel caso del bello, il problema della comunicabilità (v. nota generale, pag. 321). Ha un’universalità decisamente più facile da affermare. A. DEL SUBLIME MATEMATICO § 25. Definizione nominale del sublime Questa forma di compiacimento che proviamo, è un compiacimento per l’estensione dell’immaginazione in se stessa. Questa, pur non essendo in grado di rappresentarsi l’infinito è in grado di farcelo pensare. § 26. Della stima di grandezza delle cose naturali che è richiesta per l’idea del sublime Diventa qui chiara l’articolazione delle facoltà. Dobbiamo rilevare come cambi l’idea kantiana di immaginazione: nella prima critica era la facoltà dello schematismo, nell’analitica del bello sollevava il compito della sensibilità e si rapportava alla regolarità dell’intelletto, nel sublime le vengono attribuite due operazioni che confermano comunque l’idea costante per cui l’immaginazione è la capacità rappresentativa. • Apprensione: va avanti all’infinito. • Comprensione estetica: si fa sempre più fatica a tenere entro i suoi limiti l’apprensione. Abbiamo il concetto di insieme dei numeri reali (comprehensio logica), ma non riusciamo a costruircene un’immagine (comprehensio estetica). Il problema è la richiesta della totalità da parte della ragione. Il punto è il fatto stesso di poter pensare (denken) l’infinito: l’animo sente di avere questa facoltà che supera i confini della sensibilità nella prospettiva pratica (quella della ragione). La natura viene proprio abbandonata (v. passaggio senza ponti). Ci dà poi degli esempi di questa grandezza assoluta, anche se alcuni spiazzano. Dopo aver ci detto che il sublime può essere occasionato solo da oggetti naturali, ci fa degli esempi di oggetti artificiali (piramidi e altare di San Pietro). Compie delle riflessioni a partire da resoconti di viaggio altrui, come si usava all’epoca. È comunque interessante come già identifichi il meccanismo della giusta distanza dall’oggetto che vuole essere contemplato esteticamente e che poi viene studiato dall’estetica della visione, cioè una linea dell’estetica novecentesca che parte da Ernst Gombrich (il quale fonda l’estetica analitica). § 27. Della qualità del compiacimento nella valutazione del sublime È il passaggio più difficile. Sulla prima riga soprattutto ci si è molto confrontati, perché Kant non dà grandi spiegazioni aprendo però una via importante. Nel caso del sublime ci accorgiamo in generale di avere la capacità di pensare il sovrasensibile. Questo rimanda alle idee in senso indeterminato, cioè al substrato indeterminato del sovrasensibile. Esiste un’analogia tra il renderci conto di possedere delle idee in senso indeterminato e avere un’influenza sul sentimento da parte di idee determinate, delle idee pratiche. L’inizio del paragrafo ci dice di più sul rimando alla moralità. Questa forma di inadeguatezza che riguarda la nostra parte sensibile rispetto a quella sovrasensibile si trova in forma di rispetto (Achtung, traducibile anche come attenzione) per la legge morale. Dobbiamo riferirci alla parte della seconda critica dedicata ai moventi morali, dove Kant ci diceva che abbiamo un movente sentimentale a rispettare la legge morale perché nel momento in cui compiamo un’azione buona abbiamo un effetto sul sentimento, che è una forma di soddisfazione che ci ripaga dell’iniziale dispiacere dato dall’andare contro le nostre inclinazioni sensibili. Secondo Kant, nel sublime proviamo qualcosa di analogo: c’è sempre quel particolare dispiacere dei sensi, ma arriviamo a provare una forma di rispetto (anche se non per qualcosa che si realizza ma per la nostra parte sovrasensibile). Così ci specifica quell’apertura alla moralità che si realizza attraverso l’esperienza del sublime. Proviamo rispetto per la nostra destinazione (morale), per la nostra parte ideale, e per via di uno scambio tra oggetto e soggetto è come se utilizzassimo l’occasione dataci della natura per provare un rispetto per noi stessi. Ci tornerà nel sublime dinamico. Fa poi diverse specificazioni. B. DEL SUBLIME DINAMICO § 28. Della natura come potenza il giudizio di gusto non può essere determinabile mediante fondamenti di prova (empirica, descritta a pag. 371) come se fosse semplicemente soggettivo. I critici possono ragionare sull’opera d’arte, ma io ho bisogno prima di vederla, compiendo un’esperienza estetica. Il soggetto è universale ma anche autonomo. Deve giudicare soltanto sulla base delle sue facoltà. L’approvazione da parte degli altri o da parte dei critici non è una prova valida per la condivisione del giudizio, che dev’essere a priori (piacere che si fonda sulle condizioni soggettive comuni a tutti gli uomini). § 36. Del problema di una deduzione dei giudizi di gusto Kant si affaccia alla deduzione con il bagaglio derivante dall’analitica del bello. Ci si deve chiedere, in analogia con la prima critica, come sono possibili i giudizi estetici a priori? Come è possibile che il proprio sentimento di piacere, singolare, possa essere inerente la rappresentazione dello stesso oggetto in ogni altro soggetto? È il problema trascendentale. § 38. Deduzione dei giudizi di gusto Secondo Kant, per questo consenso universale servono due presupposti (v. nota 9): 1. Occorre che ci sia un accordo tra le facoltà conoscitive e la conoscenza generale e queste condizioni conoscitive vengano presupposte in tutti gli uomini. Senza questo, non sarebbe possibile la comunicazione della conoscenza. 2. Il giudizio deve riguardare soltanto il rapporto tra le facoltà conoscitive e la conoscenza generale, e non i concetti o la materia dell’oggetto. Accettato questo, è legittimo pretendere il piacere che ne scaturisce come un piacere valido universalmente. Sostanzialmente, Kant ripete quanto detto al §9, come afferma lui stesso nella nota che segue. § 39. Della comunicabilità di una sensazione Si troverà l’effetto di questa deduzione nella comunicabilità della sensazione. Proprio perché le condizioni sono soggettive a priori e non empiriche, si arriva a dimostrare che il sentimento estetico, come elemento della conoscenza in generale, è comunicabile. Kant tratta la bellezza qui come una qualità dell’oggetto senza fondarsi sul concetto. È una qualità dell’oggetto che viene derivata assolutamente dallo stato d’animo del soggetto. È in questi paragrafi che Kant comincia a parlare di una voce universale: proprio perché l’universalità del gusto possiede un fondamento a priori, essa va a fondare una comunità e si esprime tramite una voce universale. Noi saremmo dotati di un senso comune, una sorta di sesto senso che permette di coglierla. Kant lo aveva già definito negli anni ’80, ma la novità è che qui ne mette a fuoco il valore sociale. Diventa la condizione di possibilità di un confronto con i giudizi altrui. Diventa il segno caratterizzante dell’appartenenza a una comunità. È quello che oggi chiameremmo la condivisione di una cultura. Il gusto è al tempo stesso una facoltà che garantisce una coesione sociale ma anche discriminatrice (chi non si adegua a questa voce universale si autoesclude dalla comunità dei giudicanti). Ha gusto chi esce dall’isolamento della propria coscienza e si confronta con gli altri. Dal confronto emerge la capacità dell’avere buon gusto. Il gusto però non prevede soltanto il “pensare largo”, cioè il giudicare al posto degli altri, ma la prima massima di uscire dalla dimensione privata si combina con la seconda massima del senso comune, per cui la capacità di giudizio estetico prevede sì un mettersi al posto degli altri ma anche una forma di autonomia (bisogna giudicare solo sulle proprie facoltà soggettive, ed è proprio questo a garantire l’universalità). Il gusto, che si basa su questo senso che abbiamo in comune con gli altri, diventa anche una base per la vita associata e per la reciproca comprensione. § 40. Del gusto come di una specie di sensus communis Questo sensus communis è una sorta di minimo comun denominatore tra tutti gli uomini. Esso riguarda la maniera di rappresentazione di tutti. Si sfugge a quelle condizioni soggettive private e si guarda a quelle universali. Questo ha la forma di una aspettativa nei confronti degli altri (giudizi possibili, non effettivi, cioè sono comunque autonomo). Qui Kant riporta le tre massime del senso comune. Le massime riguardano l’applicazione empirica, non la critica del principio a priori del gusto, ma possono comunque servire per spiegarlo. 1. Pensare da sé, cioè in modo libero da pregiudizi, guardando solo alle proprie facoltà soggettive 2. Pensare nella posizione di ogni altro, cioè pensare che ogni altro possiederà le stesse facoltà soggettive e dunque riuscire a mettersi al suo posto 3. Pensare sempre in accordo con se stessi, cioè pensare in modo consequenziale (pensare con coerenza, autonomamente ma anche mettendomi al posto degli altri) § 41-42. Qui si arriva ad attribuire al bello una qualche forma di interesse. Kant non si sta contraddicendo, ma sta progredendo rispetto al primo momento dell’Analitica del bello. Si può declinare una forma di interesse particolare proprio dell’anima bella. L’interesse del bello è anzitutto sociale, cioè coltivare la bellezza è interesse della comunità, visto che ne garantisce la coesione. Coltivare le arti, la cultura diventa un elemento di coesione della comunità. Questa è la prima forma di interesse che Kant lega al bello. Altra forma di interesse che Kant lega al bello è un interesse “intellettuale1” immediato per la natura (non per l’arte: l’opera d’arte è sempre un po’ mescolata con il concetto di fine; tuttavia non è da escludere che non vi sia nell’opera d’arte nulla che apra alla moralità, v. paragrafi successivi), una sorta di coinvolgimento (interesse privo di utilità, quasi estatico). Questo è interessante da un punto di vista trascendentale. È nella contemplazione della natura e nell’interesse per i fenomeni naturali che Kant vede un’apertura verso la moralità, un segno dell’anima buona. Kant anticipa quanto verrà sviluppato da Schiller attraverso la definizione di anima bella (espressione kantiana), che risponde a un intento sistematico per Kant: l’uomo nella sua complessità coglie in modo sensibile la bellezza naturale e in questo si esibisce la moralità. Sorge un interesse analogo a quello morale. Comincia così a intravedersi il passaggio tra natura e libertà, ad aprirsi la vita verso l’interesse morale. Kant andrà a definire via via un movimento che avvicina sempre più la bellezza al sublime. § 43. Dell’arte in generale Ci interessa qui la collocazione sistematica dell’arte, vedendo in che modo possa avere una funzione sistematica nel garantire il passaggio da natura a libertà. Qui Kant ci dice che l’arte: - Si distingue dalla natura perché la natura non è il prodotto dalla volontà umana - Si distingue dalla scienza - Si distingue dall’artigianato È dunque libera in un senso limitato. Ci dev’essere comunque questo senso di libertà, dev’esservi infuso lo spirito (diversamente che dalla natura) che in essa però prende corpo. Vediamo un anticipo dell’idealismo tedesco e di Hegel. L’arte è un prodotto dello spirito (volontà libera che caratterizza l’agire dell’uomo) e questo la distingue dalla natura. Non ha a che fare con la moralità secondo quell’interesse immediato che vi è nella contemplazione naturale. 1 Kant non ci spiega perché lo chiama così. Forse il motivo è quello di distinguerlo dall’interesse dei sensi escluso nell’Analitica del bello. § 44. Dell’arte bella C’è poi un’ulteriore specificazione per quanto riguarda l’arte bella o arte estetica (termine che si impone a inizio ‘700): essa rispecchia il movimento della bellezza, perché possiede delle caratteristiche specifiche. Ha come unico fine quello di piacere. Le rappresentazioni diventano dei modi della conoscenza in generale. § 45. L’arte bella è arte in quanto sembra al contempo essere natura L’arte bella ha il proprio fine in se stessa: è indipendente da scopi particolari. La finalità dell’arte bella è una finalità senza fini come quella naturale. L’arte non deve imitare la natura ma deve possedere quella stessa libertà nella finalità. § 46. L’arte bella è arte del genio Kant ci dice che l’arte bella è l’arte del genio. L’arte diventa una produzione di un particolare soggetto. Il genio sarebbe proprio la capacità di esprimere l’idea attraverso l’arte: risponde a quella definizione di arte bella come manifestazione dello spirito. Non è il genio sregolato dei romantici ma, in assenza di regole predeterminate (concetto), è in grado di cogliere quel libero gioco di immaginazione e intelletto e di comunicare il proprio stato d’animo. Perciò può essere solo seguito come un maestro e non imitato. Non basta l’originalità eccessiva, ma deve avere un valore esemplare che gli altri devono riconoscere. Il genio inoltre esprime l’idea, non direttamente morale ma quella estetica, attraverso l’opera d’arte. Il genio è dotato per natura di questa capacità eccezionale. La natura così dà la regola all’arte, confermando la sua priorità. Il genio non è in grado di dare una spiegazione dell’opera d’arte. L’arte è una creazione immediata, viene intesa in quanto natura che dà la regola all’opera d’arte. Il genio è un semplice mezzo della natura per imprimersi anche negli oggetti dell’arte, quindi non sa come queste idee si trovino in lui, come sia in grado di produrre l’opera d’arte (non c’è un concetto). Il genio viene ricondotto a quella definizione antica di genio che è il genius loci, spirito guida nella creazione di cui però non si riesce a dare una spiegazione. § 47. Illustrazione e conferma della definizione precedente del genio Il genio va contrapposto allo spirito di imitazione. Il genio segue direttamente un proprio “istinto” naturale. § 48. Del rapporto del genio col gusto Compare la teoria delle idee estetiche, strettamente legata alla produzione del genio. Subito, Kant chiarisce che essa si colloca non nel problema della fruizione ma della creazione. L’arte bella ha sempre in sé un qualche concetto di fine, anche solo per la scelta del mezzo artistico (resta “spuria”). Qui Kant sembra brevemente confrontarsi con il tema del brutto. § 49. Delle facoltà dell’animo che costituiscono il genio Questo è uno dei paragrafi centrali dell’intera critica, fondando l’apertura alla libertà che si compie nella dialettica (in particolare al §59). Kant si concentra sullo spirito. Non ha una teoria elaborata come quella hegeliana. Lo spirito è quella vivificazione dell’anima, cioè il fatto che le facoltà si mettano in gioco, in movimento. Qui introduce però un elemento nuovo, quello dell’idea estetica. Si tratta di collocare questo impianto che troviamo nella definizione del genio nel movimento della rappresentazione, assolutamente centrale nell’esperienza estetica. Nella rappresentazione troviamo l’idea estetica (capacità del genio di cogliere al volo l’articolazione tra immaginazione e intelletto), che è una rappresentazione DIALETTICA DELLA CAPACITÀ DI GIUDIZIO ESTETICA La dialettica della capacità di giudizio estetico si fonda sul problema che si apre con l’idea estetica, cioè l’associazione al concetto. La natura indeterminata dell’idea estetica lascia molto di indicibile. Proprio perché l’idea estetica non può essere ricondotta a un concetto, non è esprimibile mai del tutto attraverso un linguaggio (es. spiegare una poesia è perderne l’essenza stessa; possiamo coglierla o pensarla ma non spiegarla). L’esperienza estetica individua questa relazione tra il mondo fenomenico e il mondo delle idee, a cui si allude. Questa relazione non è solo tra l’esibizione sensibile e l’idea indeterminata e inspiegabile, ma anche tra particolare e universale (sia perché apre all’idea, sia perché vuole essere condivisa da tutti gli uomini). Si parla quasi di un’interpretazione della forma bella: l’immaginazione agisce su queste esibizioni e dà occasione di “pensare molto”. Anche nelle dialettiche delle altre due critiche, Kant si preoccupava di tracciare i confini del trascendentale. Anche qui discute una vera e propria antinomia (del gusto). La parte più interessante è la conclusione a cui approda (§ 59). § 55. L’idea del giustificare la natura trascendentale del giudizio estetico, si trova sin dal primo paragrafo. Il giudizio di gusto è da trattarsi come un giudizio trascendentale e non come un giudizio dei sensi, quindi anche qui vanno tracciati i suoi confini trascendentali. § 56. Presentazione dell’antinomia del gusto Il problema è considerare due proverbi diffusi intorno al gusto, in contrapposizione tra loro (antinomia), a proposito dell’universalità: “ognuno ha il suo proprio gusto” vs “sul gusto non si può disputare”. Qui distingue: - Discutere (streiten): se ne può parlare, per cercare una concordia. - Disputare (disputieren): se ne può discutere mediante prove (concetti determinati) per accordare i soggetti. Nonostante ciascuno abbia il proprio gusto, sul gusto si può discutere (anche se non disputare), cioè si può arrivare a un accordo anche in mancanza di “prove”. L’antinomia consiste nel mettere in relazione le due proposizioni. § 57. Soluzione dell’antinomia del gusto La soluzione è far vedere che tesi e antitesi non sono contraddittorie: per farlo, dobbiamo attribuire al termine “concetto” due significati diversi (determinato / indeterminato). Nella discussione non si adducono delle prove, ma si realizza uno scambio di idee intorno all’oggetto del giudizio sulla base dell’umanità condivisa. L’idea estetica apre al sovrasensibile (sostrato sia della natura sia della libertà), e il sovrasensibile è un concetto. Esso rimane indeterminato, come il noumeno rimane inconoscibile da parte dell’intelletto, ma può essere determinato nella moralità. L’idea estetica si relaziona a un concetto, se con concetto intendiamo quello indeterminato, ossia il sostrato del sovrasensibile, che non può essere raggiunto da nessuna categoria intellettuale e che fonda la comunità dei giudicanti. Il giudizio di gusto condivide lo stesso fondamento dei fenomeni. Dobbiamo tener presente che sì, non c’è un concetto determinato adeguato all’idea estetica, non ho un concetto in dotazione da poter applicare a priori, ma un concetto c’è e si cerca di esibirlo. [= l’opera d’arte è un oggetto creato dal genio e nel suo stesso atto creativo c’è un’incarnazione dell’idea. È come se fosse un’apertura alle idee. Un quadro non è solo una tela colorata, ma è investito di un significato, invisibile ma che trapela, che va oltre la sua materialità] NOTA I. Troviamo una riflessione di Kant sulle idee estetiche, oltre che un parallelismo con il sentimento del sublime. Le idee sono estetiche quando sono riferite a un’intuizione secondo un principio meramente soggettivo (di finalità). Qui ritorna la tripartizione del sistema: - Concetto dell’intelletto (immanente): le categorie dell’intelletto dominano la natura - Idee estetiche: non si associano a un concetto tramite un principio oggettivo, ma hanno a che fare solo con un principio soggettivo (di finalità) e si associano a un concetto indeterminato. Ho un’intuizione ma non un concetto determinato. - Concetto della ragione (trascendente): inaccessibile alla conoscenza determinata. Ho un concetto determinato (legge morale) ma non un’intuizione. L’esposizione ha a che fare con la spiegazione concettuale, mentre la dimostrazione ha a che fare con un’esibizione, e quindi il concetto dell’intelletto è “riempito” dall’intuizione. Un concetto indimostrabile è un’idea della ragione: non troviamo un’intuizione corrispondente a questo sostrato sovrasensibile. Nell’idea estetica, invece, non è possibile trovare un concetto all’intuizione dell’immaginazione. Il fatto che l’opera d’arte possa valere universalmente si basa su quest’apertura al sovrasensibile, criterio soggettivo universale della condivisione dell’umanità. L’idea estetica rende possibile la concezione dell’opera d’arte come qualcosa che è in grado di racchiudere un rimando al sovrasensibile universale. Digressione sul sovrasensibile: idee estetiche e sublime Abbiamo trattato il giudizio come un giudizio di conoscenza in generale. Questo ci ha permesso di mettere in luce l’elemento concettuale che caratterizza il bello (concetto indeterminato del sovrasensibile, sostrato alla base di natura e libertà). Scopriamo quindi che nell’idea estetica si tenta di dare una presentazione che poi sfocia nell’opera d’arte a questo concetto indeterminato. Ci si può chiedere se tra idee estetiche e sublime esista una connessione. Differenze: - Nel caso del sublime abbiamo a che fare con la descrizione di un’esperienza estetica (focus: fruizione del soggetto) mentre la teoria delle idee estetiche è inserita nel processo di creazione artistica del genio - Il sublime ha a che fare con la natura, mentre la teoria delle idee estetiche è legata all’opera d’arte. Aspetti in comune: - L’immaginazione tenta di rappresentare il sovrasensibile in modo inadeguato. Nella teoria delle idee estetiche si misura con lo “spirito” (Geist), inteso come principio vivificante dell’animo che è la facoltà di esibire le idee estetiche. Il sovrasensibile, che è irrappresentabile, viene avvicinato dall’immaginazione, facoltà della rappresentazione (tensione tipica dell’estetica kantiana). L’immaginazione non è in grado di darci uno schema per giudicare quell’intuizione, non agisce secondo il rigore dello schematismo trascendentale. Nel sublime fallisce di fronte alle pretese della ragione; nelle idee estetiche, non c’è nessun concetto determinato adeguato alle idee estetiche. In entrambi i casi abbiamo a che fare con una rappresentazione indiretta, allusiva al sovrasensibile. Questa inadeguatezza è però di natura diversa: • Sublime: l’immaginazione non è in grado di fornire un’immagine e ha un effetto di introspezione (rappresentazione dello stato d’animo del soggetto) • Idea estetica: l’immaginazione, potentissima, produce un’opera d’arte. Ad essere inadeguata non è l’immaginazione ma la parte intellettuale, che non si adegua. In questo alludere al sovrasensibile, Kant si espone qui parlando di concetto (principale differenza con il sublime), arrivando a dire che il giudizio di gusto si fonda su un concetto. Questo concetto indeterminato cerca sempre un’esibizione e la trova nell’opera d’arte. La presenza fondamentale del sovrasensibile come concetto nelle idee estetiche giustifica sia il fatto che abbiamo a che fare con due movimento opposti (andare fuori dal soggetto nell’idea estetica; introspezione nel sublime). - viene messo in rilievo l’elemento antropologico (umanità). In entrambi i casi compare il termine Geist, un po’ a sorpresa: indica proprio la connessione col sovrasensibile che avviene al livello del soggetto trascendentale e che ha a che fare con un più ampio significato di essere umano (connessione interiorizzata con il sostrato sovrasensibile). Ci sono ovviamente delle differenze: • Sublime: la connessione con lo spirito rimane all’interno del soggetto • Idea estetica: da questa connessione che si realizza nello stato d’animo del genio con le idee ha poi luogo la creazione artistica, in cui lo spirito si manifesta. - Elemento inesponibile: è impossibile una spiegazione concettuale. Il bello, in qualche modo, si può prestare di più a essere trattato come un predicato dell’oggetto, mentre sublime e idee estetiche sono chiusi alle spiegazioni intellettuali. • Sublime (matematico): grandezza che non riesce in nessun modo a essere misurata intellettualmente • Idea estetica: svolge la funzione di archetipo per la creazione dell’opera, quindi le rappresentazioni dell’immaginazione non possono essere spiegate dall’intelletto. L’idea estetica arriva infine a configurarsi come un’idea dell’immaginazione, mentre il sublime apre all’idea della ragione e al sentimento morale. Queste differenze ci aprono al problema della dialettica dei giudizi estetici. Con la teoria delle idee estetiche, si è messa in campo la possibilità che un qualche concetto sia incluso nel giudizio estetico. Nella dialettica cerca proprio di confrontarsi con la presenza del concetto. Schematizzando molto, nella filosofia trascendentale abbiamo una triplice “declinazione” del sostrato sovrasensibile (cfr. pag. 529): - Il noumeno sotteso ai fenomeni - Il sovrasensibile come finalità della natura, a cui si allude nell’esperienza estetica, che fonda l’umanità condivisa. - Il sovrasensibile come principio della libertà, determinato come legge della ragione Questo sostrato sovrasensibile è assolutamente generale. Potremmo definirlo anche come “unità del soggetto” o “unità della ragione”, sotteso al funzionamento delle diverse facoltà. § 58. Dell’idealismo della finalità della natura, come pure dell’arte, quale unico principio della capacità di giudizio estetica Essendo il sovrasensibile un concetto indeterminato ma fondamentale per il giudizio di gusto, il procedimento di ricerca di una finalità nella natura diventa possibile soltanto tramite un fondamento ideale. L’idealismo della finalità è quello da cui siamo partiti: è possibile scorgere una finalità della natura proprio perché attiviamo un giudizio riflettente, che proietta sulla natura un ordine che deriva da noi stessi. Ha quindi a che fare con il sostrato sovrasensibile che ci costituisce come esseri umani. Questa forma di idealismo indica che noi guardiamo alla natura non per capire quali sono i suoi reali
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