Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Appunti Thomas Hobbes, Appunti di Filosofia

appunti del corso di storia della filosofia moderna della professoressa Schino

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 03/12/2020

Daniela.Giulietti
Daniela.Giulietti 🇮🇹

4.5

(36)

16 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti Thomas Hobbes e più Appunti in PDF di Filosofia solo su Docsity! THOMAS HOBBES (1588-1679): fu principalmente un filosofo politico e concepì la materia filosofica divisa in tre parti:  De corpore  De homine  De cive Hobbes scrisse di politica partendo dal problema reale e cruciale del suo tempo: il problema dell’unità dello stato, minacciata, da un lato dalle discordie religiose e dal contrasto delle due potestà, dall’altro, dal dissenso tra corona e parlamento e dalla disputa intorno alla divisione dei poteri.  De cive: Il De cive, dedicato alla politica, fu concepito da Hobbes come la terza ed ultima parte del suo sistema filosofico, che doveva comprendere anzitutto gli elementi della filosofia naturale e in secondo luogo gli elementi dell’etica. Tuttavia, poiché l’Inghilterra era alle soglie della guerra civile decise di dedicarsi alla terza parte che prendeva posizione con una soluzione originale di fronte alle controversie politiche e religiose dell’epoca. Il tema trattato, dunque, è quello dello stato e il concetto centrale dell’opera è l’obbedienza. Il tema è diviso in tre sezioni:  La libertàin cui analizza lo stato di natura (lo stato di massima libertà, in quanto non esistono leggi, e di massima uguaglianza, poiché non esistono gerarchie)ORIGINE DELLO STATO  Il poterein cui analizza l’origine e le forme razionali che lo stato può assumereSTRUTTURA DELLO STATO  La religionein cui analizza i RAPPORTI TRA STATO E CHIESA È ben definito l’obiettivo polemico: Hobbes vuole confutare il diritto di resistenza, ovvero tutte quelle teorie che sostenevano che per il cittadino fosse legittimo ribellarsi al sovrano nel caso egli avesse oltrepassato i limiti della propria sovranità, teorie avanzate dai monarcomachi, i quali sostenevano: il principio democratico, in base al quale il popolo era considerato il titolare della sovranità, di cui al re spettava solamente l’esercizio; gli individui possiedono dei diritti naturali che, in quanto tali, non possono essere annullati nemmeno dal sovrano, che nel farlo oltrepasserebbe i limiti del proprio mandato. Inoltre, i giusnaturalisti della prima metà del ‘600, vengono dalle devastanti guerre di religione, che avevano prodotto una profonda crisi delle coscienze e, di conseguenza, fatto insorgere la necessità di trovare un nuovo principio di giustizia, che non poteva più essere la religione e che rinvengono, invece, nella ragione umana. In altre parole, Hobbes vuole ricostruire un nuovo sistema di verità, in grado di sopperire alla mancanza di quell’universalismo che aveva garantito la chiesa. Per farlo, Hobbes introduce per la prima volta nello studio del fenomeno politico il metodo razionalistico e abbandona il metodo dell’autorità. Infatti, già nella prefazione (aggiunta alla seconda edizione) introduce la necessità di un metodo per orientarsi nella trattazione politica. Tale necessità scaturisce da una riflessione sulle condizioni epistemologiche del sapere umano, che porta Hobbes a contrapporre l’ordine delle discipline fisico- matematiche al totale disordine delle discipline morali. L’ordine delle discipline fisico-matematiche è legato all’esistenza di dimostrazioni che chiudono le porte a contestazioni ideologiche e Hobbes intende applicare lo stesso metodo alle discipline morali per giungere a simili dimostrazionidi qui l’affermazione “non voglio convincere, ma dimostrare”. Il metodo scientifico a cui Hobbes si riferisce è quello euclideo, che parte da principi auto evidenti (definizioni ed assiomi) e attraverso una serie concatenata di deduzioni trae conclusioni. Tuttavia, Hobbes precisa che il metodo euclideo è un metodo dimostrativo, che rappresenta la seconda fase (composizione) e, pertanto, da solo non è sufficiente. La prima fase del processo di dimostrazione è quella analitica, che prevede la scomposizione di una nozione nei suoi elementi costitutivi. Nelle sue opere politiche Hobbes ricorre ad entrambi e nella stessa introduzione al De cive dichiara che per conoscere una cosa bisogna conoscere gli elementi di cui è costituita e per spiegare il metodo reca l’esempio dell’orologio, che per comprenderne il funzionamento è necessario scomporre nei suoi elementi e analizzarne le interazioni, per poi ricomporlo. Questo metodo, della scomposizione e ricomposizione, va applicato anche allo stato, che è dunque paragonato ad un meccanismo, ad una costruzione artificiale prodotta dall’uomo. Gli elementi di cui si compone lo stato sono gli individui. Pertanto, il punto di partenza è l’analisi dell’uomo spogliato da tutte le sovrastrutture derivanti dal progresso, dalla civiltà, dall’interazione, … Da questa analisi Hobbes ricava due postulati certissimi:  L’uomo è naturalmente aggressivo e vuole per sé ciò che è in comunedesiderio naturale (cupiditas naturalis)  Il fine dell’uomo è la conservazione della vitaragione naturale (ratio naturalis) Questi postulati sono dedotti a partire da una visione naturalistica e meccanicistica, in base alla quale ogni realtà deve necessariamente essere spiegata in termini di corpo e moto. In questa concezione, l’uomo è un meccanismo animato, il cui movimento gli è dato un moto vitale e involontario, la circolazione del sangue (nota: Hobbes partecipa alla rivoluzione scientifica e il movimento rimanda alla legge di inerzia di Galileo, oltre che alle pubblicazioni di Harvey sulla circolazione). Come ogni altro meccanismo, l’uomo tende a conservare il proprio movimento vitale, ma in quel suo movimento, ogni individuo in quanto pezzo di materia è destinato a entrare in collisione con altri mezzi di materia (per Hobbes, che è un profondo anticristiano, l’aggressività naturale non ha una connotazione negativa, ma scaturisce da una semplice osservazione meccanicistica e non ha a che fare con la radice del male insita nell’uomo a causa del peccato originario). Dunque, dai due postulati certissimi emerge che la natura umana è contraddittoria, poiché non porta alla sopravvivenza, che è il fine dell’uomo, ma ad un suicidio collettivo. Lo stato nasce come istituzione dotata di forza, in grado di impedire l’uso della forza ai singoli, cioè capace di arrestare la tendenza innata dell’uomo ad entrare in conflitto con gli altri (homo homini lupus). Questa tendenza innata si presenta come timore o diffidenza reciproca ed è dovuta, secondo Hobbes, alla natura egoistica dell’uomo. Questa teoria causò il dissenso di molti teologi, secondo i quali tale tendenza era invece dovuta al peccato originario, per cui gli uomini avevano perso la loro innocenza, e che quindi accusarono Hobbes di aver contraddetto le Sacre Scrittura. A tal proposito, nella Prefazione, Hobbes si difende affermando che anche chi nega questa teoria su un piano teorico, di fatto la riafferma nella pratica, come fanno, ad es., gli stati, che anche se in pace si armano per potersi eventualmente difendere. Nel capitolo I del De Cive, Hobbes inizia la sua trattazione sull’origine dello stato cercando innanzitutto di smontare la tradizione concezione aristotelica dell’uomo naturalmente socievole. Aristotele, infatti, proponeva un modello evolutivo in base al quale l’uomo sceglie progressivamente di vivere in gruppi più grandi (dalla famiglia, che rappresenta già una forma specifica di società umana, alla polis). Si tratta di un modello di accrescimento puramente quantitativo, giustificato da un istinto naturale, la socievolezza, e pertanto immodificabile. Dunque, nel modello aristotelico, tra stato prepolitico e stato civile vi è un rapporto di continuità. Il giusnaturalismo, invece, propone un modello diametralmente opposto. Innanzitutto, nel modello giusnaturalistico il punto di partenza è lo stato di natura, cioè uno stato non politico, rispetto al quale lo stato politico nasce in antitesi. Inoltre, il passaggio dallo stato di natura allo stato o società civile non avviene per la forza delle stesse cose, la socievolezza, ma mediante una o più convenzioni. In sostanza, la società non è prolungamento della natura, ma rappresenta un salto e il consociarsi degli uomini non nasce da entra in crisi insieme alla concezione del diritto naturale e si afferma, invece, il positivismo giuridico, che afferma che una legge per essere tale deve contenere anche l’elemento della sanzione e, di conseguenza, riconosce come legge in senso stretto solo quella emanata dallo Stato. Nella tradizione giusnaturalistica, in parte prima e in parte dopo Hobbes, la funzione della legge naturale era quella di dare un contenuto alla legge positiva e in questo senso Hobbes si colloca lungo la stessa linea di pensiero. In altre parole, la legge naturale, sebbene priva dell’elemento della sanzione, mantiene una funzione importantissima, perché prescrive quei comportamenti che poi le leggi positive renderanno obbligatori mediante l’apparato coercitivo dello Statola legge naturale diventa veramente obbligatoria solo nello Stato civile, ma esiste prima dello Stato. Inoltre, nella concezione giusnaturalistica tradizionale, la legge naturale prescrivendo questi contenuti pone un limite al potere dello Stato, che non potrà mai legiferare contro la legge di natura. Rispetto a questa tradizione, la posizione di Hobbes è oscillante. In alcuni punti Hobbes sembra accettare completamente la logica del giusnaturalismo, fondata sul presupposto dell’esistenza di due ordini di leggi. Infatti, nel par. 29 del III capitolo, afferma che le leggi di natura sono immutabili ed eterne e i suoi contenuti non possono essere annullati dalle leggi positive, né dalle leggi consuetudinarie. E nel capitolo V riprende l’argomento e si ricava che la funzione dello stato è di far rispettare le leggi naturali. In altre parole, la legge positiva si limita a trasformare in obbligatorietà esterna una obbligatorietà solo interna delle leggi naturali. Inoltre, in questa prospettiva leggi naturali e leggi positive sono di uguale estensione e si contengono a vicenda: la legge positiva riprende la legge naturale e vi aggiunge semplicemente l’elemento della forza. Tuttavia, nelle pagine di Hobbes troviamo anche altre formulazioni che vanno in altre direzioni. Ovvero, la legge positiva non si limita ad attribuire semplicemente validità giuridica a contenuti che vengono da una legge ad essa precedente, ma al contrario la legge positiva interviene alla determinazione dei contenuti. Hobbes motiva questa operazione a partire dall’astrattezza che caratterizza le leggi naturali e, di conseguenza, dall’inapplicabilità delle leggi naturali. Per essere applicabili hanno bisogno di essere interpretate e adattate ad una serie di casi concreti. Il compito dell’interpretazione, una volta che l’uomo è entrato nello Stato, spetta al titolare del potere sovrano, che in questo suo compito di interpretazione della legge naturale dovrà anche riformulare la legge naturale e, in pratica, finirà con il ricreare una nuova legge. In questo modo la legge naturale non funziona più come limite all’azione legislativa dello stato. Queste osservazioni, così, si pongono in aperta contraddizione con quella dell’universalità e immutabilità delle leggi naturali ed è a questo proposito che emerge l’ambiguità del pensiero di Hobbes, che parte da premesse giusnaturalistiche, ma arriva a delle conclusioni che capovolgono le premesse e che, in un certo senso, anticipano il positivismo, per il quale le uniche leggi sono quelle delle Stato. Il tema del rapporto tra legge naturale e legge positiva è ripreso da Hobbes anche nella terza parte del De Cive, quella dedicata alla religione. Partendo dall’identificazione di legge naturale e legge divina, Hobbes affronta il problema del possibile conflitto tra legge divina e legge positiva e, attraverso un’operazione di esegesi biblica, trova un riscontro alle sue tesi nelle Sacre Scritture e afferma che neppure in questo le leggi naturali o divine funzionano come contenuto alle leggi positiva, giacché Cristo non ha dato contenuti e non si è posto come legislatore civile. Pertanto, il buon cittadino deve ricavare le norme di comportamento dallo Stato, poiché da momento in cui viene istituito lo Stato la legge positiva sostituisce completamente la legge naturale. La legge naturale, a questo punto, si è rivelata del tutto inapplicabile e una volta istituito lo Stato di essa non rimane niente, poiché lo Stato diviene l’unico in grado di legiferare e le leggi naturali perdono anche la loro funzione di limite all’azione dello Stato. Ciò nonostante, la funzione della legge naturale ne sistema giusnaturalistico hobbesiano rimane centrale, perché la funzione della legge naturale è quella di traghettare gli individui fuori dallo stato di natura e dentro lo stato civilela sua funzione è quella di indicare la norma base, ovvero quello di cercare la pace e quindi di istituire un potere centrale dotato di forza sufficiente per garantire una coesistenza pacifica. In altre parole, la funzione della legge naturale è anche quella di dare un fondamento razionale a tutto quell’apparato di leggi positive, che è rappresentato dallo Stato. Nei capitoli centrali, a partire dal V, Hobbes riprende la questione dell’inefficacia delle leggi naturale nello stato di natura, poiché l’osservanza delle leggi naturali è necessario che l’individui sia sicuro che dal rispetto di tali leggi non gliene venga alcun danno e che tutti allo stesso tempo le rispettino. Dunque, è necessario istituire un potere centrale che assicuri questa generale osservanza delle leggi naturali e che trasformi l’obbligatorietà interna in obbligatorietà esterna. Hobbes prosegue dimostrando che affinché questo potere funzioni è necessario che l’obbedienza che i cittadini devono a questo potere è necessario che sia una obbedienza assoluta e che questo potere deve essere unico e unitario. In questo senso, la funzione dello Stato non è più soltanto quella di trasformare una obbligatorietà interna in esterna, bensì quello di sostituire la legge naturale con un nuovo ordine di leggi che provengono dall’autorità che detiene il potere sovrano e si arriva, così, anche una teoria dello Stato assoluto. Nel par. 3 del cap. V prende in esame le modalità con cui si arriva a garantire quella sicurezza necessaria affinché gli individui osservino le leggi naturali. A questo scopo, secondo Hobbes, l’unica soluzione è quello di un accordo tra gli uomini per istituire un potere in grado di far rispettare le leggi e una situazione in cui sia più conveniente rispettare la legge che non violarla. Ma per raggiungere questa sicurezza è necessario che questo accordo venga stipulato tra quanti più individui è possibile. Tuttavia, anche questo genere di accordo di associazione, che dà vita ad una sorta di società di mutuo soccorso, è ancora insufficiente e ad esso deve seguire un patto di istituzione di un potere che renda svantaggioso a chiunque violare la legge e di sottomissione ad esso. Quindi, per fondare uno Stati non basta un patto di associazione, ma è necessario anche l’elemento della coazione. Hobbes, che è un contrattualista, dunque pone a fondamento dello Stato un accordo tra individui che volontariamente e liberamente scelgono di consociarsi e dunque il consenso di quelli che diventeranno i cittadini e che, al tempo stesso, si impegnano ad obbedire. Quindi, l’ipotesi contrattualistica di Hobbes prevede un doppio patto, che viene stipulato contestualmente: un pactum societatis e un pactum subiectionisla molteplicità delle volontà dei singoli individui che si consociano per un comune obiettivo, devono riconoscersi un’unica volontà, quella del titolare del potere sovrano, a cui si sottomettono. I contraenti di questo patto sono i singoli individui che vivono nello Stato di natura. Questi individui singolarmente si impegnano reciprocamente l’uno con l’altronon è un patto tra individuo e sovrano, ma tra ciascun individuo con gli altriil sovrano non compare come parte contraente, ma come un beneficiario. Il contenuto di questo patto è un’alienazione (o cessione) di tutti i diritti naturali, fatta eccezione per il diritto alla vita. Nel caso in cui la vita di un cittadino dovesse essere a rischio dalla condotta del sovrano, Hobbes riconosce una sorta di diritto alla resistenza, ma nel senso che in tal caso il cittadino è sciolto dal patto. In realtà, il diritto alla resistenza, per Hobbes, coincide con il diritto all’esilio (diritto che, contrariamente a quanto avveniva ai tempi di Hobbes, consente a chi sceglie l’esilio di conservare i propri beni e di disporne come meglio si crede). L’alienazione dei diritti avviene attraverso un trasferimento. Dunque, l’oggetto di questo patto è il trasferimento di tutti i diritti, eccetto quello alla vita, ad un terzo, che non è parte contraente, ma che in caso di accettazione risulta solamente come beneficiario. Il trasferimento dei diritti comporta l’impegno ad obbedire a colui a cui i diritti sono trasferiti. Quindi, il patto di fondazione dello Stato è, per Hobbes, un patto di unione (pactum unionionis), che è contestualmente un patto di associazione e un patto di sottomissione. In sostanza, il pactum unionionis può essere definito come un accordo in base al quale un certo numero di individui si impegnano reciprocamente a rinunciare integralmente allo ius in omnia e a traferirlo ad una terza persona non contraente. Il patto così inteso può essere assimilato ad un preciso istituto giuridico: la donazione. Hobbes anche qui si discosta dalla tradizione giusnaturalistica. In particolare, si discosta da un suo autorevole predecessore, Giovanni Althusius, che formalizza il patto di formazione dello Stato come un patto composto da due momenti distinti e indipendenti: prima il pactum societatis, con il quale gli individui (moltitudine) si consociano e danno vita al popolo, un’entità dotata di una sola volontà (la volontà della maggioranza); poi un patto tra popolo e sovrano, che un patto subiectionis, con il quale il popolo si impegna ad obbedire al sovrano e con il quale si forma lo Stato. Il patto così inteso può essere invocato a favore del diritto di resistenza. Hobbes, innovando, invece unifica i due momenti costitutivi dello Stato, ovvero il pactum societatis e il pactum subiectionis, in un unico patto, il pactum unionis, che è contestualmente un patto di associazione tra singoli individui e un patto di sottomissione ad una terza persona non contraente, ma beneficiaria. Quindi, Hobbes sostituisce al contratto tra popolo e sovrano il contratto tra gli individui tra di loro e in questo modo viene meno il punto di riferimento di coloro che teorizzavano il diritto resistenza. Infatti, i teorici del diritto di resistenza (monarcomachi, ovvero le frange più estreme dei calvinisti francesi e scozzesi) sostenevano che era legittimo disobbedire al sovrano qualora questo sovrano avesse violato il patto iniziale. Hobbes, eliminando il sovrano come parte contraente del patto, che si presenta sottoforma di una donazione, smonta l’apparato teorico dei monarcomachi. Il punto di partenza di Hobbes è quella che chiama moltitudine, ovvero una massa amorfa costituita da una quantità di individui, ciascuno portatore di una propria volontà. Questa massa, attraverso il pactum unionis, diviene una persona civilecioè, la volontà dei singoli individui, attraverso il patto, si unifica e diviene una un’unica volontà, che può essere considerata come una persona unica e una persona giuridica. Hobbes è il primo che afferma il principio della personalità dello Stato (che per Hobbes si identifica con il detentore del potere sovrano). Dato questo meccanismo del patto, per Hobbes non esiste il popolo. Per Hobbes esiste la moltitudine e poi esiste lo Stato, che rappresenta la volontà di tutti. Quindi, il popolo si identifica con il sovrano, in quanto la volontà del popolo è solo la volontà del sovrano. Il punto a cui Hobbes vuole arrivare è quello di definire la necessità di una obbedienza assoluta al sovrano e la conseguenza del patto, così come è strutturato, è quella dell’eliminazione di qualsiasi elemento che potrebbe giustificare il diritto alla resistenza, dal momento che si tratta di un contratto che non prevede alcuna reciprocità tra sovrano e cittadini. Tuttavia, l’origine contrattualistica, se pure elimina ogni limite originario al potere dello Stato così come è posta da Hobbes, di fatto rappresenta un problema, poiché potrebbe essere revocato qualora gli individui, che si erano accordati per fondare lo stato, si accordassero per scioglierlo. Tuttavia, Hobbes risolve il problema adducendo una impossibilità di fatto e una impossibilità di diritto (cap. VI par.19). L’impossibilità di fatto deriva è dovuta all’unanimità con cui viene stipulato il patto. Per essere sciolto, allo stesso modo tutti devono essere d’accordo a scioglierlo. La revoca, quindi, richiederebbe una unanimità di consensi tanto difficile da realizzarsi da potersi ritenere totalmente impossibile. L’impossibilità di diritto deriva dalla natura di donazione del patto ad un terzo che accetta la donazione e che deve anche acconsentire a revocare il patto. Così, il contratto risulta irrevocabile e indistruttibile. Nel capitolo VI Hobbes traccia anche la sua teoria dello Stato. L’opera di Hobbes rappresenta la prima teoria moderna dello Stato o dello Stato moderno. Con Hobbes si arriva infatti ad un momento di consapevolezza di questa entità giuridica che è lo Stato moderno e delle caratteristiche del potere che in questo stato viene esercitato. Lo stato moderno rappresenta l’acquisizione di un potere unitario su un certo territoriolo Stato è il potere più alto su un dato territorio. Questa unità del potere è il risultato di una liberazione da altri poteri (in particolare di liberazione dall’autorità religiosa, che pretende di esercitare un potere addirittura superiore a quello dello Stato in virtù di un potere di origine divina e di un potere transnazionale) e di una unificazione di istituzioni di poteri minori. Hobbes apre il capitolo, e la parte dedicata alla religione, riaffermando i motivi che determinano la necessità dell’obbedienza semplice (assoluta) al sovrano, in tutto ciò che non contrasta con la legge di Dio. Per farlo è necessario, però, sapere in cosa consiste la legge Dio e premessa necessaria alla comprensione è comprendere cosa è il Regno di Diole leggi di Dio sono le leggi che valgono nel Regno di Dio. Hobbes distingue tra un regno naturale e un regno profetico di Dio. Il Regno naturale di Dio corrisponde ad un regno in cui il rapporto tra Dio e l’uomo è mediato dalla sola ragione, ovvero è l’ambito dei rapporti tra l’uomo e Dio senza alcuna mediazione, se non l’interrogarsi dell’uomo sulla sua origine e sul suo destino. Il regno profetico di Dio è, invece, il regno del Dio rivelato agli uomini tramite la mediazione dei profeti. Il capitolo XII del Leviatano, invece, affronta quella che potremmo definire la “fenomenologia del sacro”, ovvero la nascita del sentimento religioso nell’uomo, e non si riferisce al Dio rivelato e neppure ad una divinità astratta, bensì agli dei pagani. L’idea di divinità per Hobbes nasce dal timore, in particolare dalla paura di cause ignote. Hobbes afferma che quel che caratterizza l’uomo è sempre la ricerca delle cause e ciò che li distingue dagli animali è il fatto che gli animali si appagano di risolvere sul piano quotidiano i loro principali istinti, mentre gli uomini ricercano le cause. Questa ricerca delle cause di eventi che producono la buona e la cattiva sorte dell’uomo e che produce un costante senso di ansietà, insieme alla paura determinata da eventi clamorosi, sono dunque all’origine dell’idea di divinitàl’idea di divinità nasce come causa ignota di eventi altrimenti inspiegabili che incutono timore. Questa causa ignota viene in qualche modo onorata al fine di renderla più benevola. Hobbes traccia un parallelo tra la condizione di Prometeo, incatenato e costretto a vedersi mangiare il fegato giorno dopo giorno da un’aquila, a quella dell’uomo, che convive con la consapevolezza che il futuro riserva dolori e sofferenze e, infine, la morte. A questa condizione di ansietà l’uomo reagisce con un meccanismo “protettivo” che consiste nell’individuare una causa prima agli eventi, un potere invisibile, che è appunto l’idea di divinità. A questo primo passaggio, con cui l’immaginazione crea un agente invisibile, segue la spiritualizzazione e viene immaginato come una sostanza incorporea, fatta della stessa materia dell’anima immortale, e così come l’uomo suppone di possedere un’anima, così suppone che questa stessa sostanza incorporea sia la sostanza di cui è fatto questo agente invisibile che si suppone essere la causa di fenomeni naturali altrimenti inspiegabili. Tuttavia, per Hobbes, che ragiona sempre in termini di corpo e moto, dire sostanza incorporea significa riferirsi a qualcosa che non esiste (la paragona all’immagine riflessa allo specchio o alla sostanza dei sogni) e che, come gli spettri, sono solo prodotti dell’immaginazione. In conclusione, Hobbes individua quattro semi naturali della religione: credere negli spiriti; l’ignoranza delle cause seconde; la devozione nei confronti di ciò che gli uomini temono, cioè la volontà di placare queste cause invisibili onde ottenere la buona sorte; l’attribuzione di valore di pronostico, ovvero si cerca di mettere in atto pratiche di divinazione per placare quell’ansia che riserva l’ignoranza del futuro. Hobbes, dunque, individua un fondamento naturale e passionale all’origine della religione, che pur tuttavia ha, secondo il filosofo, anche una funzione politica, che si articola su due piani: una politica umana, nel senso che insegna un’etica, e una politica divina, nel senso che insegna le leggi divine. PARTE TERZA DEL “ DE CIVE ” Comprende quattro capitoli:  XV: è dedicato al rapporto tra uomo e Dio su un piano puramente razionale/naturale. Abbiamo a che fare con una religione naturale, senza misteri, senza dogmi e priva di apparati  XVI: verte sul rapporto tra uomo e Dio nel Vecchio Testamento e dunque sul piano della religione rivelata  XVII: verte sul rapporto tra uomo e Dio nel Nuovo Testamento  XVIII: tratta delle condizioni necessarie alla salvezza Capitolo XV: Si apre con l’affermazione della necessità di conoscenza di quelle che sono le leggi di Dio, perché in caso contrario potrebbe accadere che si pecca o contro la Maestà divina, o contro la maestà terrena. Dal momento che leggi divine sono le leggi che valgono nel Ragno di Dio è innanzitutto necessario capire cosa si intende per regno di Dio. Hobbes afferma che per Regno di Dio si possono intendere sia il Regno naturale di Dio, ovvero il regno in cui il rapporto tra Dio e l’uomo è mediato solo dalla ragione naturale, sia il Regno profetico di Dio, ovvero il Regno in cui il rapporto tra Dio e l’uomo è mediato solla Rivelazione. Per capire cosa si debba intendere per Regno di Dio, bisogna conoscere in che modo Dio entra in rapporto con l’uomo e, a tal proposito, individua tre modalità:  “attraverso dettami taciti della retta ragione”Dio parla all’uomo attraverso la stessa ragione dell’uomo, che da solo può trovare delle indicazioni riguardanti Dio e la sua volontà, che si esprime per mezzo dei dettami della retta ragione (leggi di coscienza)  “attraverso una rivelazione, che può verificarsi o a mezzo di una voce soprannaturale o di una visione o di un sogno o di una suggestione divina”si tratta di un rapporto diretto, Dio si manifesta direttamente all’uomo, ovviamente non a tutti gli uomini, ma a pochi eletti, in modi diversi  “attraverso la parola di qualche uomo che Dio abbia raccomandato agli come degno di fede” in virtù di miracoli o profezie che ne attestino la credibilitài profeti Hobbes, quindi, fa riferimento ad una triplice parola divina:  Razionale (o naturale)  Sensibile (o fisica)  Profetica, che è anche quella contenuta nelle Sacre Scritture A questa triplice parola, corrisponde tre diverse modalità di ascoltare da parte dell’uomo:  La retta ragione  I sensi  La fede Continua poi Hobbes che in base alla differenza che esiste tra la parola razionale e quella profetica, si è attribuito a Dio un duplice regno: quello naturale, in cui Dio regna e comanda attraverso i dettami della retta ragione e che è un regno universale, poiché i comandi sono veicolati attraverso la retta ragione che è di tutti gli uomini, e quello profetico, che è un regno particolare, perché Dio si è rivelato solo ad un popolo, quello ad ebraico. Nota: dunque, nel Vecchio Testamento Dio si rivela ai profeti ebraici e si presenta come sovrano politico di un popolo specifico. È solo con la venuta di Cristo che si ha l’universalizzazione del messaggio di Dio e anche una depoliticizzazione del rapporto tra Jahvè e il popolo ebraico, in virtù anche del ruolo di insegnamento morale che Cristo ha riservato a sé stesso e di cui la Chiesa è erede. Hobbes nel capitolo XV tratta proprio il regno naturale di Dio e afferma che, in virtù della ragione umana, si può arrivare a conoscere l’esistenza di Dio, ma non l’essenza di Dio. La ragione umana può riconoscere un solo attributo di Dio, la sua onnipotenza. Quindi, da un punto di vista naturale, il Dio di Hobbes si pone come potenza irresistibile e somma e, di conseguenza, come volontà imperscrutabile che l’uomo può solo accettare. E nel par. 5 afferma che l’obbedienza degli uomini a Dio è giustificata dalla onnipotenza di Dio e in virtù della quale quello che Dio che comanda è giusto (ricorda che è essendo potenza somma Dio è anche somma razionalità, ma è una razionalità che non rientra nei limitati criteri di giudizi dell’uomo, che è un essere limitato). Nel par. 6, infatti, Hobbes richiama come emblematica la storia di Giobbe, un uomo retto e buono, eppure è colpito da una serie di disgrazie. Giobbe inizialmente sopporta ogni disgrazia da cui è colpito, ma quando è ormai esausto Dio gli si rivolge per dirgli proprio che le sue azioni non possono essere influenzate dall’operato umano. Hobbes offre anche una prova cosmologica (razionale) di Diodice Hobbes, tutto quello che esiste ha una causa, il mondo esiste e se non intendiamo Dio come causa del mondo, allora Dio esiste. In questa prospettiva, Dio è anche garanzia di una visione meccanicistica del mondo, in base alla quale tutto è corpo e moto, secondo una catena di azioni e reazioni, all’inizio della quale c’è Dio (il moto iniziale). Nel par. 14 Hobbes chiarisce che intende per Dio la causa del mondo, ma specifica anche che Dio non coincide con il mondo, perché se affermassimo, come il panteismo, che Dio coincide con il mondo, di fatto diremmo che Dio non esiste. Inoltre, una volta l’uomo con l’esercizio della ragione naturale è arrivato alla convinzione dell’esistenza di Dio, lì si deve fermare, perché all’uomo non è consentito conoscere Dio e quindi tentare di configurarselo in qualche modo e quindi determinarne gli attributi, poiché tutti gli attributi umani sono finiti, mentre Dio è infinito. L’uomo può usare degli aggettivi superlativi, ma solo a titolo onorifico, o ricorrere ad una terminologia usandola in senso negativo, secondo quella che è la cosiddetta “teologia negativa” sviluppata da uno scrittore del V secolo (Dionigi Pseudoareopagita) e in base alla quale noi possiamo dire di Dio solo quello che non è. Nel par. 15 Hobbes affronta anche la questione del culto da tributare al Dio della religione naturale e immediatamente distingue un piano di pura interiorità e una dimensione esteriore e pubblico. Il culto pubblico consiste nel tributare segni di onore verso la divinità e aggiunge che, anche sul piano della religione naturale il culto, il culto deve essere uniforme perché fa riferimento al pubblico, cioè alla somma di coloro che costituiscono uno stato e lo stato è unitario. Nel par. 16, fa un ulteriore passo avanti, e afferma che oltre a dover essere unitario all’interno di uno Stato, deve essere anche organizzato dallo Stato. Infatti, Hobbes afferma che i segni d’onore del culto esteriore sono segni convenzionali e, in quanto tali, sono istituiti dall’uomo ed è dunque necessario che qualcuno determini quali segni e riti seguire e, ovviamente, l’autorità preposta a tale decisione è lo Stato, poiché nel momento in cui i cittadini sono entrati a far parte dello stato i cittadini hanno trasferito al sovrano tutti i loro diritti, escluso quello alla vita, è chiaro che vi hanno trasferito anche quello di decidere cosa fare in maniera di culto religioso. Nel par. 17, secondo lo stesso ragionamento, Hobbes ritiene legittimo l’intervento dello stato in materia di interpretazione delle leggi di Dio, che nell’ambito del regno naturale di Dio corrispondo ai dettami della retta ragione, all’interno delle quali Hobbes distingue due categorie: le leggi secolari, che riguardano i rapporti fra gli uomini, e le leggi religiose, che riguardano i rapporti con dio. Dunque, all’interno del regno naturale di Dio vigono le leggi naturali, che però presentano due limiti. Innanzitutto, sono leggi morali, che in quanto tali obbligano solo nel foro interno (in coscienza) e che quindi non assicurano il rispetto da parte degli altri e non garantiscono la sopravvivenza. Ecco che le leggi naturali divengono veramente obbligatorie soltanto nella società civile, ovvero solo laddove tutti le rispettano. Il secondo limita risiede nell’astrattezza con cui si presentano e nella necessità di una interpretazione affinché possano essere applicate. E nel paragrafo 17 Hobbes afferma che questa interpretazione non può essere lasciata all’arbitrio di ciascuno, ma spetta appunto al sovrano, al quale si sono ceduti tutti i diritti. Dunque, per questa via, le leggi divine non sono altro che leggi dello stato in materia di culto. Resta però da capire quale comportamento deve tenere il cittadino nel caso in cui il sovrano dovesse ordinare di offende Dio o di negare Dio. In tal caso, dice Hobbes, il cittadino non deve obbedire al comando del sovrano, poiché lo stato ha il diritto di scegliere il che modo onorare Dio, ma non può ordinare di disonorarlo o di non prestargli alcun tipo di culto (ateismo di Stato)ed è anche uno dei pochissimi Nei paragrafi 9 e 10 troviamo le indicazioni delle leggi che Dio ha dato al popolo ebraico e, ancora una volta, sono le leggi naturali. Nel par. 13, invece, Hobbes chiarisce in che modo si configura l’autorità in questo regno politico di Dio sul popolo ebraico e in che modo si configura il problema dell’interpretazione delle leggi naturali. Hobbes afferma che Dio ha donato a Mosè l’autorità sia civile che religiosa e che, di conseguenza, Dio ha dato a Mosè l’autorità di interpretare sia le leggi naturali che le leggi riguardanti le questioni religiose. Dunque, Dio quando ha istituito il suo stato perfetto, lo ha fatto istituendo un potere unitario e non un potere civile a cui doveva affiancarsi un potere religioso, mediatore della parola di Dio. Capitolo XVII: Riguarda il rapporto Dio-uomo nel Nuovo Testamento e affronta il terzo patto, quello mediato da Cristo. Con questo patto abbiamo un ulteriore salto, perché con i due patti precedenti Jahvè istituiva un regno, di cui Jahvè era un sovrano politico, che agiva per tramite dei suoi luogotenenti. Con il tramite di Gesù si arriva ugualmente all’istituzione di un regno, ma non di un regno politico a decorrenza immediata, bensì di un regno avvenire. Inoltre, i primi due patti erano dettati fra Jahvè e uno specifico popolo, mentre con il patto di Cristo, mediante cui Dio Padre si incarna, si ha una universalizzazione dell’alleanza, il cui simbolo di appartenenza sarà il battesimo. Il modello, dunque, è sempre lo stesso, ma è questa volta declinato verso una dimensione spirituale. Quel che Hobbes sottolinea con forza è che Dio si incarna in Cristo, che arriva sulla terra per portare un messaggio di salvezza e annunciare il suo regno, non per darvi inizio. Il regno di Cristo, infatti, inizierà solamente dopo la sua seconda venuta, il Giudizio Universale, e dunque non si situa nella storia, ma alla fine e, in attesa di quel momento, afferma Hobbes, la volontà di Dio è che l’uomo obbedisca al sovrano. Quindi, il messaggio di Cristo viene condensato da Hobbes nella formula “fede è obbedienza”: fede in Cristo che è il salvatore e obbedienza alle leggi del sovrano (poiché le leggi divine non sono altro che le leggi naturali, le leggi naturali per essere applicate hanno bisogno di essere interpretate e l’unico autorizzato è il sovrano e, dunque, i comandi del sovrano non entrano mai in competizione con quelli di Dio). [La posizione di Hobbes è molto peculiare, perché da un lato spiritualizza molto la venuta e il ruolo di Cristo, dall’altro, quando parla di Regno di Cristo e Giudizio Universale, in una prospettiva interamente materialistica, fa riferimento ad un regno su questa terrail regno di Cristo è sempre terreno, non un regno dei cieli. Infatti, sempre facendo riferimento alle Sacre Scritture, mette in luce come queste facciano riferimento ad una resurrezione dei corpi e i buoni sopravviveranno, mentre i peccatori moriranno una seconda volta e questa volta per sempre] In sostanza, nell’interpretazione Hobbesiana, Cristo ha riservato su questa terra per sé stesso e per i suoi discepoli solo una funzione pastorale, di insegnamento della via della salvezza. Gesù Cristo non è stato mandato sulla terra per istituire nuove leggi, ma solo come portatore e promulgatore delle leggi del Padre, che intimano di obbedire al sovrano in attesa della seconda venuta che darà inizio al regno di Cristo. Hobbes vuole in questo modo dimostrare che Cristo ha rinunciato al suo ruolo politico-civile e che, di conseguenza, non c’è nessun rappresentante religioso che può arrogarsi questo potere politico. In questa prospettiva, la funzione della Chiesa, in quanto erede di Cristo, è unicamente quella di insegnamento e, per la precisione, relegata alla sfera privata, priva di qualsiasi ruolo pubblico. Quindi, la chiesa si presenta come una associazione di privati finalizzata alla crescita spirituale degli individui e non come una istituzione pubblica. Come tutte le associazioni private, la Chiesa non può che rispettare le leggi dello Stato. Questo significa due cose: che, come qualunque altra istituzione all’interno dello Stato, la Chiesa esiste soltanto in quanto riconosciuta dallo Stato come istituzione preposta all’insegnamento religioso e che deve essere soggetta al controllo dello Stato. Il modello che Hobbes propone è quello di una Chiesa rigidamente sottoposta allo Stato e non solo. Infatti, essendo una istituzione preposta all’insegnamento e alla crescita morale e spirituale degli individui, ha delle connotazioni nazionali. Quindi, il modello di Hobbes è quello di una chiesa nazionale e di una chiesa di stato. Dunque, dal momento che la Chiesa esiste come organizzazione nazionale all’interno di uno Stato, in un certo senso si identifica con lo Stato, poiché l’adunanza della Chiesa coincide con l’adunanza dei cittadini Chiesa e Stato sono solamente l’insieme dei cittadini visti da due diversi punti di vista. Di conseguenza, ne deriva che non tra Chiesa e Stato non vi può essere alcun conflitto. Capitolo XVIII Affronta, infine, la questione della salvaguardia della vita eterna e, alla luce di tutta la trattazione e dell’esegesi biblica, afferma che tutto è compreso in due virtù: la fede e l’obbedienza. E, nel par. 6, spiega cosa intende per fede e riduce tutto al nocciolo duro e peculiare del cristianesimo, perché afferma che l’unico articolo di fede richiesto per la salvezza è credere che Gesù è il Cristo. L’esegesi biblica serve ad Hobbes per ribaltare la pretesa di qualsiasi potere ecclesiastico di esercitare un potere parallelo o superiore al potere politico in quanto eredi di Cristo, poiché Cristo ha rinunciato a questo potere. La critica di Hobbes è rivolta alla tesi di Bellarmino e, più in generale, contro la Chiesa romana, che è una chiesa universale; contro i presbiteriani, che opponevano il potere dei vescovi al potere politico; contro quella corrente della chiesa anglicana secondo cui i vescovi dovevano essere nominati dalla Chiesa, mentre nella prospettiva di Hobbes i vescovi dovevano essere nominati dallo Stato e consacrati dalla Chiesa. Inoltre, serve ad Hobbes anche per esprimere un forte critica anti-ecclesiastica e anticlericale. In particolare, critica il tentativo della Chiesa, soprattutto di Roma, di dominare le coscienze. Per Hobbes, la Chiesa deve avere solo un ruolo salvifico, ovvero deve veicolare l’insegnamento di Cristo.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved