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Analisi di Pink Floyd The Wall: Storia e Analisi del Muro di Pink - Prof. Cicero, Appunti di Filosofia

Un'analisi approfondita del concept album pink floyd the wall, esplorando la storia e il significato del muro che separa il protagonista pink dal mondo esterno. L'analisi include l'origine del nome pink floyd, l'analisi dei testi delle canzoni, la sceneggiatura del film e la filosofia della musica rock. Il documento include anche le note ufficiali delle lezioni, l'analisi del brano d'apertura in the flesh e una descrizione dettagliata di ogni canzone del disco.

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 21/03/2024

Tiziabbb
Tiziabbb 🇮🇹

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Scarica Analisi di Pink Floyd The Wall: Storia e Analisi del Muro di Pink - Prof. Cicero e più Appunti in PDF di Filosofia solo su Docsity! DAMS BINOSORIAIDEL(CINEMAYE DELLE 'ARTI\PERFORMATIVE A.A. 2022/23, 2° SEMESTRE 1 Sommario Introduzione 2 I. Storia filosofica del rock 4 1. Le radici cultural-filosofiche del rock, 4 1.1. Schelling e il Dioniso trino, 4 1.2. Nietzsche e il Dioniso apollineo della tragedia ellenica, 5 2. Da Elvis a The Wall, 8 2.1. Dal rock’n’roll a Woodstock (1954-1969), 8 2.2. Il rock ai vertici dell’arte musicale del Novecento (1970-1977), 10 2.2.1. Introduzione alla prospettiva musicale adorniana, 10 2.2.2. L’estetica dell’“aura” in e oltre Benjamin, 11 2.2.3. La nigra aura e l’Ombra (Benjamin, Jung), 14 2.2.4. L’ombra di Dioniso nel XX secolo, 17 2.2.5. Le porte/brecce nel muro. Antesignani teorici dei Doors, 19 2.2.6. “La morte è la mia unica amica”, 21 II. Analisi di The Wall 24 III. Analisi di Pink Floyd The Wall [= PFW] 36 1. Sigarette (PFW 0-5"51) 2. Nella carne, ghiaccio sottile (PFW 5"51-12"50) 3. Primi mattoni nel muro del piccolo Pink (PFW 12"50-19"00) 4. Croci ovunque e sarcasmo nero a scuola (PFW 19"00-28"08) 5. Una voce inattesa al telefono (PFW 28"08-36"20) 6. Mostruosi amplessi (PFW 36"20-43"30) 7. Distruzioni e addio (PFW 43"30-54"00) 8. Un buon cane (PFW 54"00-1'00"50) 9. Ragazzi non reincontrati (PFW 1'00"50-1'06"19) 10. La rianimazione verminale dell’artista (PFW 1'06"19-1'12"24) 11. L’orgia martellista (PFW 1'12"24-1'23"17) 12. Mi autoprocesso, abbattete il muro (PFW 1'23"17-1'29"40) 13. Chi resiste (PFW 1'29"40-1'35"07) Non-conclusioni 43 4 I. Storia filosofica del rock 1. Le radici cultural-filosofiche del rock 1.1. Schelling e il Dioniso trino Per scandagliare le radici cultural-filosofiche del rock, cominciamo con il dionisiaco. Ma, prima ancora che dal Dioniso di Friedrich Nietzsche (1844-1900), partiamo dalla posizione – meno nota, ma non meno potente – di Friedrich Schelling (1775-1854), l’antico amico, poi competitore, di Hegel. Il tardo Schelling2 ha proposto una delle più originali teorie sul mito, ancora oggi molto feconda, secondo cui la mitologia in generale, e specialmente quella greca, co- stituirebbe la modalità originaria di estrinsecazione della Deità nella storia, come stadio preparatorio della prospettiva rivelativa cristiana. A partire dal VI secolo a.C., all’in- terno della mitologia greca si sarebbe verificato un passaggio mito-teo-logico decisivo: dagli dèi olimpico-omerici ai grandi dèi misterici, dalle divinità “materiali”, intrecciate alla terraneità e colluse inestricabilmente con l’umano, alle divinità puramente spiri- tuali, causanti, concatenate, esoteriche (celebrate innanzitutto nelle due eminenti loca- lità elleniche dell’isola di Samotracia e di Eleusi). Schelling ritiene che i grandi dèi, chiamati anche Cabiri, preludano già alle relazioni interne alla trinità del cristianesimo, per cui si tratterebbe di personalità divine propedeutiche alla rivelazione cristiana: «Questi dèi causanti, contenuto della dottrina dei misteri, sono come personalità suc- cessive di un unico e medesimo dio» (Filosofia della Rivelazione, lez. 21, p. 769). Questo dio unico, “anteriore” a Gesù Cristo, aveva quindi diversi nomi, ma il suo unico vero nome interno, esoterico, era: Dioniso. Tre forme, un’unica idea. La prima forma è Zagreo, il figlio di Zeus e Persefone che dà il via all’intero processo mito- (teo)logico; è il Dioniso selvaggio, disumano, senza pietà, il dio reale opprimente. La seconda forma è Bacco: il dio tenero, benefico, dispensatore di gioie – il Dioniso che ripara nella sotterraneità, grande dio dei trapassati, signore del mondo invisibile, il cui trasformarsi in pura anima viene rappresentato nei misteri come un morire del primo dio. La terza forma è Jacco, il dio elevato al di sopra del mutamento e del perire, lo spirito sempressente e permanente, in cui rivive il primo Dioniso. «Dioniso è il nome comune di quelle tre forme passando attraverso le quali il dio sorge e si genera per la coscienza» (ib., p. 801). Quanto al famoso mito della dilacerazione di Dioniso operata dai Titani3, nei misteri esso è stato rielaborato approfondendo il significato dei dolori e della morte del dio: il Dioniso che soffre e muore è Zagreo, chi libera è il mediatore Bacco, il rigenerato da 2 Per “tardo” intendo lo Schelling degli ultimi 25 anni, posteriore alla morte di Hegel (1831): quello della distinzione fra filosofia negativa (la logica e la metafisica classiche) e filosofia positiva (filosofia della mitologia e della rivelazione). 3 Il mito del Dioniso (figlio di Zeus e Persefone) catturato infante dai Titani, e poi da costoro smembrato, bollito, arrostito e mangiato, è al centro della spiritualità orfica. Solo il cuore del dio fu salvato, grazie ad Atena, che lo recò ancora palpitante a Zeus: il sovrano dell’Olimpo punì i Titani folgorandoli e incenerendoli, e dalle loro ceneri sorse il genere umano, mentre Demetra rigenerava Dioniso in modo del tutto nuovo. Il mito ha il suo corrispondente nella dila- cerazione di Osiride presente nelle narrazioni egizie. 5 Demetra è Jacco, il quale – raffigurato come bambino al seno di Demetra – erompe in un canto di giubilo. Ora, per Schelling, a Jacco sarebbe legato il segreto più intimo, sacro per eccellenza, dei misteri, il cui disvelamento veniva punito dalle leggi elleniche con la morte e il sequestro delle sostanze: in quanto terzo signore del mondo ancora a venire, istitutore di una nuova religione sopravveniente con lui, in quanto emancipatore dal processo mitologico e liberatore della coscienza a un futuro redentivo (ib., lez. 22, p. 843), Jacco era in certa misura la prefigurazione esoterica della nascita del Figlio di Dio, Gesù Cristo. Ed è nel quadro di questa ardita ricostruzione speculativa che, alcuni decenni prima di Nietzsche, Schelling connette esplicitamente Dioniso e l’origine della tragedia: La tragedia greca stessa è derivata soltanto da quei cori tragici in cui venivano cantati i dolori di Dioniso – cosa che risulta anche dal fatto che il palcoscenico rimase sempre sotto la particolare protezione di Dioniso, e che la preparazione delle grandi tragedie aveva luogo nei misteri di Dioniso. (ib., p. 835) 1.2. Nietzsche e il Dioniso apollineo della tragedia ellenica Jocelyn Pook, Masked Ball, 4"00 Il tema di Dioniso attraversa l’intera riflessione filosofica di Nietzsche, fin dal primo paragrafo della Nascita della tragedia (1872), in cui viene enunciata la polarità strut- turale di apollineo e dionisiaco, alla cui duplicità «è legato lo sviluppo dell’arte» (NT 21) in generale, non solo di quella greca. Nel mondo greco, l’arte di Apollo era la pla- stica, quella di Dioniso la musica: i due impulsi così diversi procedono l’uno accanto all’altro, per lo più in aperto dissidio fra loro e con un’eccitazione reciproca a frutti sempre nuovi e più robusti, per perpetuare in essi la lotta di quell’antitesi, che il comune termine «arte» solo apparentemente supera; finché da ultimo, per un miracoloso atto metafisico della «volontà» ellenica, appaiono accoppiati l’uno all’altro, e in questo accoppiamento producono finalmente l’opera d’arte altrettanto dionisiaca che apollinea della tra- gedia attica. (ivi) Nietzsche delinea questi due impulsi – «forze artistiche che scaturiscono dal seno stesso della natura, senza intervento dell’umano» (NT 27) – come corrispondenti ai due mondi artistici fondamentali: 1. il mondo del sogno [Traum], nella «gioiosa necessità» della sua bella parvenza configurata dai greci in Apollo, il dio profetico, il risplendente, divinità della luce; e 2. il mondo dell’ebbrezza [Rausch], caratterizzato dalla contrad- dizione tra l’orrore mostruoso per il dolore tanto individuale quanto cosmico, da un lato, e, dall’altro lato, dal rapimento gioioso, paranarcotico, che fa obliare la propria soggettività, in cui consiste l’essenza dell’impulso governato da Dioniso, il dio che procede in trionfo con il suo «carro coperto di fiori e ghirlande, la pantera e la tigre avanzano sotto il suo giogo». Nel canto e nella danza del «vangelo dell’armonia uni- 6 versale», nell’orgiasmo dionisiaco greco in quanto festa di redenzione e trasfigurazione universale, «l’uomo non è più artista, è divenuto egli stesso opera d’arte» (NT 26). Mentre la musica di Apollo era la linearità misurata delle note appena accennate della cetra, il carattere della musica dionisiaca era la smisurata forza sconvolgente del suono che rendeva necessaria l’intera simbolica del corpo, quale si dà non nella bocca e nel viso, ma nella danza che muove insieme ritmicamente tutte le membra (NT 30). Nietzsche stesso indica nell’Inno alla gioia, come quarto movimento della 9ª sinfo- nia di Beethoven, un esempio maestoso di dionisiaco (NT 26): Beethoven, Nona sinfonia – Quarto movimento, Inno alla gioia 3"06-4"06; 5"23–fine (Tre aspetti lascio inconsiderati in questo breve resoconto sul dionisiaco nietz- scheano: 1) l’interpretazione della figura di Socrate, 2) lo sfondo metafisico della vo- lontà universale nel senso di Schopenhauer, 3) la rinascita dello spirito dionisiaco nell’arte e nella filosofia tedesche. Del tutto capziosa la prima, eppure ha avuto grande influenza nel novecento (penso già solo a Heidegger); troppo obsoleto il secondo; an- cora troppo tedescocentrica, la terza). La tesi nietzscheana fondamentale è che nella tragedia greca l’umano è artista del sogno e insieme dell’ebbrezza. Essa si connette all’altra tesi importante secondo cui l’elemento primo e universale da cui tutto si genera – la poesia, l’arte più autentica – è la melodia, cioè il canto. Ciò concorda con la tradizione, ripresa anche da Schelling, la quale ci dice che la tragedia è sorta dal coro tragico; da qui Nietzsche individua nella collettività corale tragica primitiva l’incanto dell’autorispecchiamento dell’umano dio- nisiaco: «L’incantesimo [Verzauberung] è il presupposto di ogni arte drammatica» (NT 65). La genesi della tragedia greca dall’incantesimo musicale attesta secondo Nietzsche che «l’opera d’arte tragica dei greci è nata effettivamente dallo spirito della musica» (NT 120). Ma questa constatazione, come ho fatto notare nella prima lezione, non avrebbe granché valore se non rinviasse a un fenomeno epocale di cui Nietzsche fu senz’altro uno dei profeti più profondi (insieme a Poe, Baudelaire e Dostoevskij). Lui lo esprime così: «Auspìci certissimi ci garantiscono nel nostro mondo di oggi il gra- duale risveglio dello spirito dionisiaco» (NT 139). Nei capitoli finali della Nascita della tragedia (capp. 23-25) si toccano tre temi rile- vanti anche nell’ottica di una filosofia del rock: il ruolo del mito, la dissonanza musi- cale, l’attitudine dionisiaca di un popolo. Sul mito in generale Nietzsche fa dichiarazioni coerentemente visionarie: Il mito, immagine concentrata del mondo, come abbreviazione dell’apparenza, non può fare a meno del miracolo [Wunder]. […] Senza mito ogni civiltà perde la sua sana e creativa forza di natura: solo un orizzonte delimitato da miti può chiudere in unità tutto un movimento di civiltà. Solo dal mito le forze della fantasia e del sogno apollineo vengono salvate dal loro vagare senza direzione. Le immagini del mito devono essere i demonici custodi, inosservati e onnipresenti, sotto la cui vi- gilanza cresce l’anima giovane, e dai cui segni l’uomo interpreta la propria vita e le proprie lotte. (NT 161) 9 messa in movimento con l’elezione del presidente Kennedy» (Assante, La grande sto- ria del rock, p. 15). E il beat negli USA divenne rock – non rock’n’roll, che ormai come genere, ad appena dieci anni dalla nascita, era tramontato: e non più “solo” nuova maniera di con- cepire e scrivere la musica, ma atteggiamento generazionale, modo di essere, di pen- sare, di vivere – con il suo giovanilismo strutturale, l’elettricità della strumentazione dei nuovi gruppi, i capelli lunghi, gli indumenti policromi. E ad aprire il sentiero dell’integrazione del crogiolo musicale con i versi più appropriati ci pensò il bardo rock per antonomasia, Bob Dylan – a dar voce alla gioventù da un capo all’altro dell’oceano, per urlare la propria diversità, il proprio rigetto delle regole borghesi, dei valori del mondo genitoriale, del potere in mano a istituzioni obsolete. Le porte del connubio dionisiaco di rock e versi poetici vengono poi esplicitamente spalancate verso la metà degli anni ’60 dai Doors e dal Lizard King, il Re Lucertola, Jim Morrison. Con loro, attraverso loro, si fa strada l’aspirazione a cambiare il mondo, il che contribuisce a un’ulteriore svolta della situazione giovanile: la contro- cultura degli hippy, giovani che non tagliano più i capelli, vanno a vivere nelle comuni, praticano l’amore libero, rifiutano il denaro a favore del baratto, rifiutano la guerra in Vietnam ed eleggono a “terra promessa” la California. L’espressione musicale di questa nuova situazione è garantita dal rock psichedelico delle band di San Francisco, innan- zitutto Jefferson Airplane e Grateful Dead. Ma che il rock non sia soltanto pace e amore, bensì anche al fondo, indistricabilmente, sesso e guerra e caos e disordine – tutto ciò diviene eruttivamente chiaro nel giugno 1967, proprio vicino San Francisco, a Monterey, dove durante il primo festival pop il pubblico assiste a questa performance assolutamente mai udita né vista. Hendrix, Wild Thing, Monterey Pop Festival, domenica 18 giugno 1967. La hippy generation avrà poi la propria festa autocelebrativa nei quattro giorni di Woodstock (NY), 15-18 agosto 1969, con quasi mezzo milione di giovani ad autoge- stirsi mentre una maratona ininterrotta di musica rock li accompagnava nella realizza- zione del sogno di una vita davvero diversa. Senz’altro l’apice della diffusione dell’esperienza hippy. Ma, dopo Woodstock, le grandi utopie di palingenesi del mondo tramontano insieme all’avviarsi del lungo corteo luttuoso del rock (Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison…) – a conferma dell’estrema contraddizione insita «nel cuore del rock: musica di gioia e liberazione che porta dentro sé il grumo nero della distruzione e del caos» (Bertoncelli, Storia leggendaria della musica rock, p. 73). Un anno dopo, nell’ottobre 1970, veniva pubblicato un album rivoluzionario da una band fino a quel momento nota per il suo rock psichedelico, e che con questo disco sposava la causa del rock progressivo, il quale avrebbe caratterizzato la musica gio- vanile “alta” degli anni ’70 almeno fino all’avvento del punk. Titolo dell’album: Atom Heart Mother; il gruppo: Pink Floyd. Pink Floyd, Atom Heart Mother, 2"53 10 Genesis, Nursery Crime – The Musical Box I (5"00) 2.2. Il rock ai vertici dell’arte musicale del Novecento (1970-1977) 2.2.1. Introduzione alla prospettiva musicale adorniana Con Atom Heart Mother dell’ottobre 1970 il rock non entra soltanto in una nuova fase della sua breve storia, ma soprattutto accede a una dimensione di “elevatezza musi- cale”, a un vertice artistico insospettabile appena un paio d’anni prima. Affinché però questa non sembri una mera opinione personale, e prima ancora di contestualizzarla secondo l’essenziale fondo dionisiaco, è necessario commisurarla innanzitutto a una prospettiva filosofica adeguata. E questa non può che essere la prospettiva di Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969). Morto il 6 agosto 1969, dieci giorni prima dell’evento Woodstock, Adorno è stato senz’altro il maggior filosofo della musica nel Novecento5. Per lui la trattazione filo- sofica dell’arte musicale riguarda «la coerenza e consequenzialità [Konsequenz] dell’idea aprogrammatica, puramente immanente alle cose stesse» (FMM 10). Questa idea artistica è intesa nel senso in cui Walter Benjamin definiva l’“idea” come «confi- gurazione di una totalità caratterizzata dalla possibilità di una coesistenza significativa di estremi opposti» (Dramma barocco tedesco, 25)6. Vi invito a memorizzare la nozione di questa coesistenza di opposti configurata in idea artistica, perché una delle tesi di Adorno è che fin dagli anni della prima guerra mondiale la storia dell’arte musicale, non tollerando più la coesistenza dei contrari per via della “depravazione commerciale”, è una storia di decadenza, di involuzione tradi- zionalistica, perché «non appena l’amministrazione industriale del patrimonio cultu- rale diviene totalitaria, essa acquista potere anche su tutto ciò che non è esteticamente conformabile» (FMM 11). Per il filosofo di Francoforte l’unica forma d’arte che resiste a questo declino – la musica radicale [die radikale Musik], i cui due campioni sono Arnold Schönberg e Igor Stravinskij – deve comunque misurarsi quotidianamente con la concezione grossolana che il pubblico ha della musica tradizionale: «trovate musicali facili da tenere a mente, sequenze atmosfere e associazioni infaustamente belle [ominös schöne = subdolamente gradevoli]», mentre gli resta nascosta «la struttura musicale, che ne istituisce il senso» [der musikalische Zusammenhang, der den Sinn stiftet] (FMM 15); ripensate per esempio alla struttura di The Thin Ice. La massa del pubblico ama in fondo le tonalità piacevoli perché ha bisogno di con- solazioni positivizzanti e rassicuranti – è questa la convinzione di Adorno, mentre «l’arte oggi, nella misura in cui le compete in generale sostanzialità, riflette senza con- cessioni e porta alla coscienza tutto ciò che si vorrebbe dimenticare» (FMM 19): Quanto più la strapotente industria culturale trae a sé il principio chiarificatore e lo corrompe in una manipolazione dell’umano a favore di una sussistenza perma- 5 Fra la decina di scritti musicologici adorniani spiccano la Filosofia della musica moderna (1949 = FMM) e la Intro- duzione alla sociologia della musica (1962 = ISM). 6 Vedi più avanti (§ 2.2.2) l’idea (forma) in relazione alla concezione benjaminiana dell’“aura”. 11 nente dell’oscuro [forbestehendes Dunkle], tanto più l’arte avanza in opposizione alla falsa chiarezza, all’onnipotente stile attuale della luce al neon contrappone configurazioni di quell’oscurità rimossa, e serve allo schiarimento solo in quanto trasferisce consapevolmente la chiarità del mondo alle sue proprie tenebre. (FMM 20) Se tale posizione può essere in generale accolta come un buon riferimento interlo- cutorio, non bisogna però tacere che dalla prospettiva adorniana restano fuori ambiti artistici che ne denunciano la sconcertante limitatezza: il cinema, prima di tutto, e poi il jazz. Adorno è stato, come Heidegger, del tutto sordo alle istanze “oscure” incarnate “a pelle” dal cinema – e a differenza invece di Benjamin, il quale negli anni ’30 aveva colto lucidamente l’auraticità dei film e le potenzialità artistiche del fumetto e dell’ani- mazione. Sentite cosa scrive Adorno nella sua Teoria estetica (p. 434; uscita postuma nel 1970): Quando si consiglia il jazz e il rock-and-roll invece di Beethoven non si smonta la menzogna affermativa della cultura, ma si offre un pretesto alla barbarie e all’in- teresse di profitto dell’industria culturale. Battiato, La voce del padrone – Bandiera bianca 5"19 È certo ironico che proprio Adorno, uno dei maggiori critici dell’alienazione dell’ar- tista/musicista di metà-novecento7, sia caduto preda dell’alienazione dello studioso che, per lo sclerotizzarsi dei suoi lineamenti speculativi, non è in grado di comprendere i fenomeni più significativi che si affacciano nel mondo culturale in cui vive: «È tutt’al- tro che infondato il sospetto che l’umanità, nell’epoca della radio e dei grammofoni onnipresenti, dimentichi addirittura l’esperienza della musica [die Erfahrung der Mu- sik]» (FMM 27). L’errore di Adorno è altamente istruttivo, un esempio negativo che serve da monito per tutti coloro che si occupano di musica e di poiesis in generale. Considerate questa porzione di lezione di oggi come una introduzione generale all’estetica (musicale) di Adorno e quindi al volumetto di Quartana, Filosofia della musica rock, che è nel programma di questo corso. Genesis, Nursery Crime – The Musical Box II (5"24) 2.2.2. L’estetica dell’“aura”in e oltre Benjamin Quando si parla del rock progressivo come di una sfera artistica suprema si presuppon- gono innanzitutto due nozioni – arte e gerarchia artistica – di cui in ottica filosofica bisogna rendersi e rendere conto esplicitamente. E al riguardo c’è un concetto di Walter 7 Cfr. FMM 26, n. 19: «In America non c’è un solo quartetto che riesca a mantenersi senza le sovvenzioni di qualche università o di ricchi mecenati interessati: anche qui si fa strada la tendenza generale a trasformare l’artista – a cui traballa sotto i piedi la base dell’iniziativa liberale – in un impiegato. E non è così solo per la musica, ma per tutti i campi dello spirito oggettivo, massime per quello letterario: vera ragione ne è la crescente concentrazione economica e l’estinzione della libera concorrenza». 14 Ora, una dichiarazione esplicita di Benjamin è che nelle opere d’arte basate sulla riproduzione tecnica (fotografia e film) l’aura patirebbe deperimento, decadenza e di- struzione10. Ma, come dicevo, il pensiero asistematico di Benjamin si presta a venire integrato e ulteriormente riformulato, al punto che proprio il cinema – da lui a un certo punto battezzato come medium raffigurante tipicamente una bellezza non-auratica (OA 311) – ci permette invece di afferrare nel modo più genuino il destino dell’aura nel tempo della riproducibilità tecnica degli artefatti. Ecco allora come andrebbe riformu- lata la determinazione auratica in senso benjaminiano (e oltre): Aura è una strana tessitura di spazio e tempo, una apparizione sinestesica unica, l’improvvisa trasparizione e traspirazione di una forma (idea)11 che, dalla sua re- motissima regione essenziale, viene a comunicarsi ripetibilmente attraverso lo sguardo/volto di un essere umano, animale o inanimato – sguardo che, in contrac- cambio al nostro, si alza/volge verso di noi riattraendoci alla forma (idea) lontana, trascinandoci nel suo sogno. (OA XVI) Ogni essente è aurocapace. Allora l’arte – in qualunque modo venga definita – non potrà non essere una specie di capacità di conferire costruttivamente questa capacità auratica a dei materiali elementari (dai suoni ai colori, dai profumi alle epidermidi). Gli artefatti sono aurocapaci alla seconda potenza. Si pone così il duplice problema di come sia pensabile l’aura delle opere musicali rock e del suo rapporto con il dionisiaco. Pink Floyd, The Dark Side of the Moon – Time 6:53 Deep Purple, In Rock – Child in Time I (6"07) 2.2.3. La nigra aura e l’Ombra (Benjamin, Jung) Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto là dove molto pianto mi percuote. 27 Io venni in loco d'ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti è combattuto. 30 La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta. 33 Quando giungon davanti a la ruina, quivi le strida, il compianto, il lamento; bestemmian quivi la virtù divina. 36 Intesi ch'a così fatto tormento enno dannati i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento. 39 E come li stornei ne portan l'ali nel freddo tempo, a schiera larga e piena, 10 Tra gli artefatti che si basano sulla riproduzione tecnica è impossibile non annoverare anche le opere musicali ri- cordate su vinile o in uno dei vari formati digitali oggi a disposizione. 11 I termini “trasparizione” e “traspirazione” sono il coronamento anche dell’accezione ordinaria di aura. Partendo infatti dalla definizione di aura come “alone luminoso e anche atmosferico che circonda determinate persone, paesaggi o cose”, vengono qui intanto recuperati insieme i due momenti fotico e pneumatico, luminoso e spirituale, aureolare e aereo-atmosferico, della concezione classica dell’aura. 15 così quel fiato li spiriti mali 42 di qua, di là, di giù, di sù li mena; nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena. 45 E come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di sé lunga riga, così vid'io venir, traendo guai, 48 ombre portate da la detta briga; per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle genti che l'aura nera sì gastiga?». Dante, Inferno, V, vv. 25-51 (Gassmann) “Le genti gastigate dall’aura nera” (G. Doré, ad Inferno, V, vv. 25-51) La “toccante” teoria benjaminiana dell’aura, pur nella prospettiva illimitata che ci spa- lanca davanti – una prospettiva non solo estetica, ma anche teologica e, vorrei dire, ecologica – ha un solo limite: lascia intendere che il senso molto complesso dell’aura sia comunque e in definitiva “positivo”. Vi ribadisco che nell’esperienza auratica saltano le coordinate dei nostri convinci- menti e raziocinii abituali, viene sconvolta p.es. la distinzione tra soggettivo e oggettivo su cui basiamo la maggior parte dei nostri giudizi e pregiudizi. Ma questo sconvol- 16 gimento, sancito dall’attrazione che la lontana regione/forma/idea onirica esercita su di noi attraverso lo sguardo ricambiato dall’entità aurocapace, ha come sua caratteri- stica “temporale” l’improvvisità, non può essere programmato: e ciò vuol dire che non è possibile prefigurare la fisionomia della stessa forma remota da cui parte l’appello, non si può sapere prima se il sogno in cui veniamo trascinati è aureo, o enigmatico, oppure è un incubo. È impossibile presapere se l’aura sarà alba o (labirintico-)poli- croma oppure nigra. E questa ne-prescienza è filosoficamente – e psicologicamente e teologicamente – decisiva, in quanto sorprende e denuda la libertà dell’essente nella sua strutturale imprevedibilità. Anche a questo proposito bisogna essere chiari. Una nigra aura, un’aura nera pare una contraddizione in termini; “aura” viene infatti anche da aurum, oro, il metallo scin- tillante per eccellenza, e “aureola” è il cerchio d’oro sottile che cinge la parte alta del capo dei santi cristiani ecc.; sembrerebbe quindi che un’aura o è luminescente oppure non è. Eppure Dante la conosce bene, la cita persino come l’atmosfera che domina nell’inferno, nel «loco d’ogne luce muto»; e non è certo casuale l’accostamento dell’aura nera al demoniaco. Un grande cantore contemporaneo della nigra aura è Ste- phen King – leggete Insomnia (1994), se potete; ve ne riporto un brano, in cui si de- scrive il legame dell’aura con la morte di un vivente (I 347): Da ciascuna delle narici di Rosalie [la cagnetta morente del protagonista] scivolò fuori un filo che salì oscillando nell’aria. […] Era un altro tipo di aura [another kind of aura]. Una poltiglia nera da incubo, né liquida né gassosa, usciva a fiotti da Rosalie a ogni respiro che esalava. Invece di spargersi, le si raccoglieva attorno in lente volute di anti-luce [anti-light]. […] Era un sacco mortuario, e sotto i suoi occhi [= gli occhi di Ralph Roberts, il protagonista] Rosalie, ora che aveva avuto il filo reciso, se lo tesseva da sé come una placenta avvelenata. Ma nell’interpretare questa nigredo dell’aura bisogna evitare di cadere nell’errore dei falsi dilemmi o delle distinzioni assolute – come buono/cattivo, soggettivo/ogget- tivo, forma/contenuto, carne/spirito ecc. Ora, l’opposizione luce/tenebra non è asso- luta, e una delle vie filosofiche (e psicologiche) più adeguate per pensarla è quella dell’archetipica junghiana (in cui si riverbera la dottrina platonica delle idee). In una lettera a Gershom Scholem del 2 luglio 1937 (n. 93), Benjamin parla di un proprio studio intensivo degli archetipi e dell’inconscio collettivo di Jung, ma tra le sue carte non si sono rinvenuti appunti di queste letture; a ogni modo, ho motivo di ritenere che Benjamin non sia giunto a penetrare proprio l’archetipo dell’Ombra, che è indispensa- bile per poter parlare con contezza dell’aura nera. Ho usato prima la parola latina nigredo, “negritudine, nerezza”: è termine della tra- dizione alchemica, che Jung ha ripreso per via delle tangenze innegabili che l’intera tradizione alchemica esibisce con la psicologia analitica. Cfr. Mysterium Conjunctio- nis, p. 218: Quest’oscurità e questa nerezza significano sotto il profilo psicologico lo stato di smarrimento e di abbandono dell’uomo; quello stato che nell’epoca moderna for- nisce l’occasione di un’analisi psicologica dello stato presente; in altri termini pro- voca un esame rigoroso di tutti i contenuti che sono la causa о perlomeno 19 tamente teutonico-nazista –, è assai più che «un regresso e un ritorno al passato» (W 291): è uno sprofondamento vorticoso nel baratro della barbarie più nigra e caotica. Tuttavia Jung era sicuro che Wotan, dopo il suo costitutivo carattere inquietante, prepotente e tempestoso, avrebbe manifestato anche l’altra faccia strutturale, the light side of the moon, del tutto diversa, estatica e incantesimale – e ciò è avvenuto, a mio parere, sempre in connessione con la mitologia norrena, sì, ma grazie allo sforzo pro- digioso di ricreazione di una poiesis mitica nuova, extrateutonica – per meglio dire, una poiesis fantasy: mi riferisco a Tolkien e al suo cosmo (la prima edizione dello Hobbit è del 1937). E di ciò parlerò ancora più avanti, a proposito del reincantamento del mondo. Ci sono inoltre documenti sicuri che la data del risveglio dionisiaco nel novecento vada retrocessa almeno ai prodromi della prima guerra mondiale, e un monumento in tal senso è il Libro rosso che lo stesso Jung, il grande ma non acritico ammiratore dello Zarathustra di Nietzsche, cominciò a redigere nel 1913. La rilevazione di Maffesoli è dunque imprecisa, molto postdatata. Anche se i pro- dromi si concretizzano in monadi isolate, il risveglio dionisiaco vero e proprio si ca- ratterizza per il coinvolgimento dell’elemento collettivo, e non c’è dubbio che il rock(’n’roll) da Elvis in avanti appartiene a questa fase. E per coerenza con la cronologia non-lineare di oggi, assistiamo a questa perfor- mance del 1967, a Toronto, da parte delle Porte della percezione: Doors, The Doors – The End II 6:51 (Toronto 1967) 2.2.5. Le porte/brecce nel muro. Antesignani teorici dei Doors A pagina 4 del Matrimonio del Cielo e dell’Inferno (ca. 1790), William Blake scrive: 1. L’uomo non ha un Corpo distinto dalla sua Anima, perché il cosiddetto Corpo è una porzione dell’Anima distinta dai cinque sensi, i principali spiragli del- l’Anima in questa epoca. 2. L’Energia è l’unica vita ed è dal Corpo; e la Ragione è il limite o circonferenza esterna dell’Energia. 3. L’Energia è Delizia Eterna [Eternal Delight]. È allora nel contesto di questi enunciati “forti” che va compreso il passo famoso sulle porte della percezione (MCI 14): Infine al cherubino dalla spada fiammeggiante sarà ordinato di lasciare la custodia all’albero della vita, e, quando lui farà ciò, l’intera creazione sarà consumata e apparirà infinita e santa, mentre ora appare finita e corrotta. Ciò avverrà mediante un perfezionamento del piacere sensuale. Ma prima dovrà essere espulsa la nozione che l’uomo ha un corpo distinto dalla sua anima […]. 20 Se le porte della percezione fossero purificate, ogni cosa apparrebbe all’uomo così com’è, infinita [If the doors of perception were cleansed every thing would appear to man as it is, infinite]. Perché l’uomo si è imprigionato [For man has closed himself up] così da vedere tutto attraverso le strette fessure della sua caverna. Come è noto, l’espressione Doors of Perception è divenuta nel 1954 il titolo di uno scritto di Aldous Huxley (l’autore di Il mondo nuovo), che l’ha collegata a un altro titolo, meno famoso, di un racconto dello scrittore inglese Herbert G. Wells, Door in the Wall (1911): il desiderio di evadere, la smania di trascendere se stessi, sia pure soltanto per qualche momento, è ed è sempre stato uno dei principali bisogni dell’anima. L’arte e la religione, i carnevali e i saturnali, la danza e l’ascolto dell’oratoria, sono serviti tutti, secondo la frase di H.G. Wells, da porte nel muro. Se poi pensiamo che una delle traduzioni del titolo del raccolto wellsiano ripreso da Huxley è “breccia nel muro”, rinveniamo in un colpo solo un illuminante retroriferi- mento sia del doppio album dei Pink Floyd, sia dell’intitolazione del nostro corso (Another Break in the Wall). La percezione diretta [direct perception], dice Huxley, quella che acuisce all’estremo i sensi “esterni” così come il senso “interno”, è ciò di cui l’umano non può fare a meno (DP 61s): Questa realtà data è un infinito che supera ogni comprensione, eppure è suscettibile di essere afferrata direttamente e in certo modo totalmente. È una trascendenza che appartiene a un ordine diverso dall’umano, eppure può essere presente a noi come un’immanenza sentita, una partecipazione sperimentata. Ora, un punto fermo della trattazione huxleyana è che queste porte/brecce nel muro della sensibilità ordinaria, attraverso le quali si accede direttamente al mondo del- l’esperienza trascendentale, possono aprirsi anche tramite sostanza chimica, la me- scalina, cioè l’alcaloide psichedelico contenuto nel peyote (la pianta cactacea origina- ria del deserto del Messico) e utilizzato tradizionalmente nei riti sciamanici dei “pelle- rossa”, dei nativi americani. Ma ciò che importa a noi oggi è cogliere il senso genuino dell’esperienza trascen- dentale [transcendental experience], che a partire da Huxley (e con riguardo a certi lineamenti di filosofia indiana recepiti dalla cultura rock nella seconda metà degli anni ’60) può essere descritta appunto come contatto trascendente/immanente non-indivi- duale con il cosmo/caos non-finito – un tipo di esperienza che presenta forti affinità con ciò che io chiamo trasognanza [rêverie, in francese], o contemplazione attiva (Sa- pienza muta, § 10), e che è alla base sia dei più puri processi del pensiero speculativo, sia della realizzazione degli artefatti di ogni poiesis ri-creativa. Sentiamo come Huxley conclude, ottimisticamente, il suo saggio (DP 63): L’uomo che ritorna dalla Porta/Breccia nel Muro non sarà mai proprio lo stesso dell’uomo che era andato: sarà più saggio ma meno presuntuoso, più felice ma meno soddisfatto di sé, più umile nel riconoscere la propria ignoranza, eppure 21 meglio attrezzato per capire la relazione tra parole e cose, tra ragionamento siste- matico e Mistero insondabile che egli cerca, sempre invano, di comprendere. Il brano sembra rampollare direttamente da quell’unica, straordinariamente paradig- matica allegoria che è la caverna platonica (Repubblica, libro VII): ritornare nella ca- verna, dopo essere stati abbagliati dalla super-luce che vige là fuori, vuol dire rientrare nella collettività umana con «gli occhi pieni di tenebra» e addirittura rischiare la vita. Il brano sembra discenderne, ma non per gli esiti che prospetta: Huxley parla infatti “soltanto” di minore presunzione, maggiore umiltà, migliore equipaggiamento per ca- pire le relazioni ecc., ma non prende in considerazione le possibilità della frustrazione, dell’insofferenza, della sconsolatezza, della depressione post-estasi. Tornare dall’aldilà del Muro può significare anche non trovare più sopportabile la vita ordinaria e volerla fare finita (non avete l’impressione che l’intero The Wall tematizzi questa insopporta- bilità?). Jim Morrison scelse per la sua band il nome Doors avendo perfettamente contezza sia dei presupposti visionari di Blake, sia della connotazione fortemente psichedelica delle porte/brecce di Huxley. E li ha rimpolpati con il monstruum originale del proprio abisso. La sua morte pone tragicamente la questione di come possiamo far breccia nel Muro senza che ci crolli addosso. Doors, The End 2:21 + 6:51 2.2.6. “La morte è la mia unica amica” Stone, The Doors, Miami Concert I 4:56 Nel 1983 il tastierista Roy Manzarek (1939-2013), cofondatore nel settembre 1965 dei Doors, ha dichiarato che Jim Morrison era una reincarnazione del dio greco Dioniso. Era Dioniso incarnato e venuto nel XX secolo. Jim è esistito per portarci in un viaggio psichico. Era l’uomo che indica la strada, era lo sciamano, era il folle ed era il poeta sensitivo.13 Una testimonianza di prima mano, schietta, sobria quanto emblematica. Nel 1968, al culmine del successo della band, in un’intervista concessa a The Eye lo stesso Jim Morrison aveva esplicitamente connesso la tragedia greca, nietzscheanamente intesa, con l’origine del rock: A volte penso alla nascita del rock and roll come al dramma greco che è nato nello spiazzo dei covoni in una stagione critica del raccolto, e all’inizio non era altro che la preghiera di un gruppo di danzatori e cantanti. Poi un giorno un ossessionato saltò in mezzo e cominciò a imitare il dio. All’inizio c’erano solo canti e rulli. Man mano che le città si evolvevano e sempre più persone si preoccupavano di fare 13 «Jim Morrison was a reincanation of the Greek god Dionysus. He was Dionysus taking flesh and come into the 20th century. Jim existed to take us on a psychic voyage. He was the road man, he was the shaman, he was the madman and he was the sensitive poet». https://www.youtube.com/watch?v=zV8heb0oXbI 24 II. Analisi di The Wall15 In The Flesh? (Waters) - 3:20 GILMOUR: Fender Stratocaster 1970 • MASON: batteria • WATERS: voce, basso, VCS3 • WRIGHT: sintetizzatori ••• Fred Mandel: organo Hammond • Joe Chemay, Stan Farber, Jim Haas, Bruce Johnston, Jon Joyce, Toni Tennille: coro Il suono della canzone simula un’esecuzione dal vivo, per offrire una percezione uditiva coe- rente con lo sviluppo della vicenda. In avvio, la rock star Pink (alter ego di Roger Waters, ricordiamolo) è già in pieno stato degenerativo e indossa le fattezze grottesche di un dittatore che provoca e tiranneggia il pubblico dal palco. Il tema è l’orribilità degli show dal vivo, quella ripetitività poieticida che Cobain denuncerà drammaticamente nella sua ultima lettera del 1994. I demoni interiori del protagonista fanno il paio con la percezione alienante del pubblico maturata da Waters negli ultimi anni. Durante la parte cantata, il brano è puntellato soltanto da un arpeggio di chitarra e da un’at- mosfera vocale stile doo-wop16 che richiama l’adolescenza di Pink degli anni ’50. Le parole di Pink sembrano schernire il pubblico: «Così pensavi che ti sarebbe piaciuto andare allo spettacolo. / Forse non è proprio quello che ti aspettavi di vedere». Poi l’invito a guardare oltre le apparenze, a riavvolgere il nastro della vicenda e ripartire dal principio: «Devi venirmi a strappare di dosso il travestimento». Infine Pink richiama dal palco una serie di effetti scenici da concerto con cui mitragliare il pubblico: “Light!”, “Roll the sound effects!”, “Action!” e “Drop it on them!”. Seguono il rombo in picchiata di un bombardiere Stuka della Seconda Guerra Mondiale (estratto da una registrazione della BBC) e una deflagrazione che dilania idealmente la platea. Il velivolo costituisce anche un medio simbolico con il flashback sulla vita di Pink, che inizia nella canzone successiva con il pianto del bimbo: la nascita e l’assenza del padre morto in guerra, prima ferita (primo mattine) che lo accompagnerà per tutta la sua esistenza. ———————————————————————————————————————————————— The Thin Ice (Waters) - 2:27 GILMOUR: voce, Fender Stratocaster 1970, Prophet-5 • MASON: batteria • WATERS: voce, basso • WRIGHT: organo Ham- mond, piano Il pianto del neonato introduce la diteggiatura al pianoforte di Richard Wright, una specie di ninna nanna introdotta dal pianto di un neonato. Si apre il sipario sulla vita di Pink. L’in- nocenza dell’infanzia e l’amore iniziale dei genitori (la voce di Gilmour) lasciano presto il passo, con le insidie della crescita, a un’educazione invasiva, morbosa, ansiogena. La cinica interpretazione vocale di Waters ammonisce il bimbo sui pericoli incombenti: «Se dovessi pattinare / Sul ghiaccio sottile della vita moderna / Non stupirti quando una crepa nel ghiaccio / apparirà sotto i tuoi piedi». 15 Riferimento testuale privilegiato per queste notazioni è The Lunatics, Pink Floyd. Il fiume infinito. Le storie dietro le canzoni, Giunti 2018. 16 Il doo-wop è uno stile di musica vocale derivato dal rhythm’n’blues e dal rock’n’roll, affermatosi negli USA verso la seconda metà degli anni ’50: consiste nel rafforzare il canto solista con armonie vocali sincopate e cori impiegati come imitazione degli strumenti d’accompagnamento. 25 ———————————————————————————————————————————————— Another Brick In The Wall Part 1 (Waters) - 3:12 GILMOUR: chitarre, coro • WATERS: voce, coro, basso • WRIGHT: Fender Rhodes, Prophet-5, mini Moog C’è qui la prima allusione al muro come somma delle esperienze dolorose della vita che, mattone dopo mattone, estraniano sempre più l’individuo dai suoi simili. La prima posa di Pink, il primo mattone, è relativo alla morte in guerra del padre: «Papà è volato al di là dell’oceano / Lasciando solo un ricordo / Un’istantanea nell’album di famiglia». Un destino che, oltre a proporre un nuovo parallelo tra Pink e Roger, aveva segnato anche l’adolescenza di Barrett, orfano del padre stroncato da un male incurabile. Il tema, al di là della vicenda di chi ha perso un genitore in guerra o per un tumore, riguarda più in generale il senso di abban- dono vissuto dall’infante con la sua perdita. Privo di batteria, il brano si sostiene su un abile gioco di chitarra e tastiera di Gilmour e Wright. Il vociare di bambini dal minuto 2:03 è stato registrato davanti a una scuola di Beverly Hills. Infine furono aggiunte le registrazioni del tecnico Brian Christian, effettuate nella scuola elementare di suo figlio. ———————————————————————————————————————————————— The Happiest Days Of Our Lives (Waters) - 1:51 GILMOUR: chitarre, coro • MASON: batteria • WATERS: basso, voce, coro • WRIGHT: organo Hammond, clavinet ••• James GUTHRIE: batteria Oggetto della critica amara sono gli schemi mentali sclerotizzati e retrivi dell’insegnamento scolastico di fine anni ’50 (altro mattone nel muro), filtrati attraverso l’autorità di un maestro elementare frustrato e vendicativo. I maestri come espressione di una generazione cresciuta fra stenti, paure e dottrine com- portamentali rigide; molti di loro reduci di guerra, riconvertitisi in professori diligenti. Gli studenti erano invece figli di una nuova epoca di benessere postbellico, hanno prospettive e possibilità di vita molto diverse dai loro genitori. Quelli che per i ragazzini sarebbero dovuti essere «i giorni più felici» [the happiest days] si trasformavano così in ricordi tormentati da umiliazioni e severe lezioni a colpi di bacchetta sulle mani e sui glutei. L’insegnante soffre il contrappasso nel suo miserabile menage fami- liare, dove la moglie, “grassa e psicopatica”, tiranneggia e bastona il marito facendo a bran- delli ogni suo slancio vitale, quindi suscitando in lui un morboso desiderio di rivalsa, sfogato cinicamente e vigliaccamente in aula. La canzone è introdotta dal rumore assordante delle pale di un elicottero registrate a Los Angeles, all’eliporto di Van Nuys, dal fonico Brian Christian. Waters simula poi un effetto megafono con cui il maestro apostrofa gli alunni dal velivolo con toni militareschi e frasi cariche di livore: You, yes you! Stand still laddy! («Tu, sì tu, stai fermo cretino!»). Gli stacchi di batteria successivi sono stati incisi in simultanea da Mason e Guthrie: il primo il timpano, il rullante e la grancassa; il secondo il charleston e il piatto (afferrato con la mano per bloccarne bruscamente le vibrazioni). Il tema musicale riprende quello di Another Brick In The Wall Part 1; sul finale l’urlo di Waters introduce Another Brick In The Wall Part 2. 26 ———————————————————————————————————————————————— Another Brick In The Wall Part 2 (Waters) - 3:59 GILMOUR: chitarra Les Paul Goldtop 1955, Fender Stratocaster 1954 e 1957, voce • MASON: batteria • WATERS: basso, voce • WRIGHT: organo Hammond, Prophet-5 ••• Islington Green School: coro Canzone notissima e orecchiabilissima, dalla sezione ritmica accattivante, dotata di un sua- dente assolo di chitarra. Il testo, dalle forti implicazioni antisistema, punta il dito contro l’in- segnamento istituzionale arido e massificante, che vorrebbe plasmare le menti dei giovani omologandole al di fuori di ogni capacità critica o tendenza al pensiero individuale. L’idea di trasformare la breve traccia in un brano esteso e con cadenza ritmica presa in prestito dalla disco music fu di Bob Ezrin, che pensò anche di aggiungere alla traccia un coro di bambini per dilatarne la durata. La richiesta fu inoltrata a Londra a Nick Griffiths, che si rivolse alla Islington Green School (oggi City of London Academy), non lontana dagli studi. L’insegnante di musica Alun Renshaw reclutò ventitré ragazzi del Fourth Form Music Call (ragazzi dai dieci ai quindici anni, del nord di Londra, principalmente maschi) e li accompa- gnò agli studi. Condotti da Noel Davis, i giovani seguirono scrupolosamente le direttive. Il basso di Waters fu suonato con la corda bassa accordata in Re. L’assolo finale venne invece realizzato da Gilmour in un’unica seduta suonando una Les Paul. In coda alla canzone si ascolta la voce del maestro che esclama: If you don’t eat your meat you can’t have any pudding («Se non mangi la tua carne non puoi mangiare un budino »). E ancora: You! Yes you behind the bikesheds! Stand still laddy! («Tu! Sì, tu dietro le rimesse delle biciclette! Stai fermo cretino!»). Intanto la musica sfuma sul vociare dei bambini. Lo squillo di un telefono (Pink chiama la moglie dagli Stati Uniti) muta scena e introduce il brano successivo. Uscito come singolo (con piccole differenze in apertura), Another Brick In The Wall Part 2 scalò le classifiche di mezzo mondo. Venne realizzato anche un video promozionale della durata di 3:18, il primo in assoluto della band: Gerald Scarfe riprese alcuni bambini che gio- cavano a Kings Square Gardens, e usò alcune animazioni e il pupazzo del maestro che sareb- bero poi comparsi nei concerti dal vivo. La versione di Another Brick In The Wall Part 2 contenuta nel film Pink Floyd The Wall vinse nel 1983 il premio della British Academy Award come “Best Original Song”, ritirato dallo stesso Roger Waters. Nel 1990 la canzone è stata reincisa in studio dal bassista insieme alla Bleeding Heart Band e pubblicata su un CD destinato alle radio per promuovere il con- certo di THE WALL a Berlino. ———————————————————————————————————————————————— Mother (Waters) – 5:35 GILMOUR: voce, coro, chitarra elettrica e acustica, basso • WATERS: voce, chitarra acustica ••• Bob EZRIN: organo, piano, sintetizzatore • Jeff PORCARO: batteria A mettere su i primi mattoni della prigione di Pink, da cui si erigerà via via la sua (auto)clau- sura muraria, è la morbosità della madre: cresciuto senza il padre, il ragazzo è costantemente mantenuto nell’ovatta, in un’atmosfera di protezione ossessiva, appestata dai fantasmi ango- sciosi inoculatigli dalla donna. Of course Mama’s gonna help build the wall, «Naturalmente, mamma ti aiuterà a costruire il muro»: è il soffocante atto d’amore-egoismo dalle controindi- cazioni letali, come a impedire al figlio di recidere il cordone ombelicale. (È una delle diffe- renze rilevanti tra Pink e Roger, il quale ha certo attinto in parte a esperienze personali, ma ha poi caratterizzato il personaggio della madre con pesanti tratti caricaturali). 29 Il brano è diviso in due momenti musicali distinti: il primo, in avvio, con la voce della groupie e il cantato sconsolato di Waters, il secondo con una rabbiosa esecuzione in cui il testo viene urlato. ————————————————————————————————————— Don’t Leave Me Now (Waters) – 4:16 GILMOUR: basso, chitarre, coro, effetto respiro • MASON: batteria • WATERS: basso, chitarra, VCS3, voce • WRIGHT: organo Hammond, sintetizzatore, pianoforte Attorcigliato nella sua spirale autodistruttiva, Pink è preda di ossessioni paranoiche, fuori di sé, isolato dal mondo in una stanza d’albergo fatta letteralmente a pezzi. L’incipit di Don’t Leave Me Now è scandito da un respiro pesante (di Gilmour) che suscita inquietudine e panico, marcati dagli interventi invasivi del pianoforte e dagli echi della ta- stiera. Il brano costituisce come l’ultimo anelito disperato prima di precipitare nell’abisso, una drammatica invocazione d’aiuto alla (prima) moglie e, più in generale, al mondo esterno, in una situazione liminale tra lucidità e follia. La voce di Waters è sinistra, volutamente scon- nessa: Pink sta parlando alla sua vecchia moglie, si domanda perché si sono lasciati dopo che in realtà si sono trattati male per tanto tempo. ————————————————————————————————————— Another Brick In The Wall Part 3 (Waters) – 1:14 GILMOUR: chitarra, Prophet-5 • MASON: batteria • WATERS: basso, voce, chitarra • WRIGHT: Prophet-5 Qui Pink pare aver posato uno dei mattoni più pesanti del muro, quello che conchiude il de- finitivo isolamento dal mondo. Rispetto alla schizzata richiesta d’aiuto di Don’t Leave Me Now, il protagonista mostra una pelle nuova, una specie di irrigidimento cinico che trasforma la sofferenza della segregazione in un traguardo apparentemente voluto. Seduto tristemente davanti allo schermo tv, dopo aver cercato compulsivamente qualcosa da guardare, Pink esplode in un nuovo accesso d’ira fracassando un altro televisore. L’urlo rabbioso introduce il cantato di Waters: «Erano solo mattoni nel muro», come a volersi con- vincere di non aver davvero bisogno di nessuno. (Il rumore del televisore sfasciato all’inizio della canzone è stato registrato nel parcheggio degli studi Producers Workshop di Los Angeles: vennero acquistati alcuni apparecchi non funzionanti, e a occuparsi della registrazione furono James Guthrie e Brian Christian. A rompere materialmente il televisore fu invece Phil Taylor). ————————————————————————————————————— Goodbye Cruel World (Waters) – 1:17 WATERS: basso, voce • WRIGHT: Prophet-5 Questo brano chiude il lato B del primo disco e rappresenta il suicidio simbolico che, attra- verso l’ultimo mattone del muro, esclude definitivamente il protagonista dal mondo circo- stante e ne trasfigura l’identità. Goodbye Cruel World è un brano breve, cadenzato dal basso e dalla voce di Roger, con l’aggiunta di qualche piccolo inserimento di Wright. È uno dei momenti topici del tour di THE WALL: durante la prima parte dello show il muro veniva progressivamente costruito, tranne uno spiraglio centrale che permetteva al pubblico di scorgere ancora il viso del bassista mentre cantava. Sull’ultimo “goodbye” veniva sistemato il mattone cruciale, quello che separava to- talmente la band dal pubblico. 30 ————————————————————————————————————— Hey You (Waters) – 4:40 GILMOUR: basso, chitarra Ovation, chitarra Martin a 12 corde, voce • MASON: batteria • WATERS: voce • WRIGHT: organo Hammond, piano elettrico, sintetizzatori ••• James Guthrie: effetto ronzio Hey you è in parte anche un tentativo di vincere l’isolamento, di mettersi finalmente in con- tatto con gli altri, un modo per dire che se si sta insieme molte negatività svaniscono: l’unione dà conforto. Ma Pink ormai è prigioniero del muro, e il tentativo disperato di ristabilire un contatto con il mondo esterno fallisce perché la barriera è invalicabile. E, soprattutto, è solo un’intenzione disperata quanto astratta: c’è la consapevolezza che a isolarsi si regredisce, però il grido d’aiuto giunge troppo tardi, Pink lo canta solo a se stesso, rimanendo seduto in camera a ripeterselo. (C’è persino un’ultima – allucinata tardivissima – invocazione alla moglie: Open your heart, I’m coming home). Il dramma di Pink sta nel non aver compreso a tempo debito che l’isolamento porta alla dissoluzione; così le sue invocazioni (Hey you, don’t tell me there’s no hope at all / Together we stand, divided we fall, «Non dirmi che non c’è proprio più speranza, insieme restiamo in piedi, divisi cadiamo») restano solo vani propositi (But it was only fantasy / The wall was too high as you can see, «Ma era solo fantasia, il muro era troppo alto»), per via dell’inerzia e dell’incapacità di reagire. Nel testo emergono pure i primi riferimenti alla decomposizione e ai vermi che divorano il cervello, come rappresentazione simbolica del decadimento. L’introduzione di chitarra di Hey You fu realizzata con un particolare tipo di accordatura chiamata Nashville, che prevedeva anche il cambio di posizione di alcune corde. Il giro di basso introduttivo sembra riproporre quello di Pigs (Three Different Ones) di Animals, mentre al minuto 3:23 è udibile il “ping” introduttivo di Echoes; nell’assolo, invece, Gilmour ripete il tema di Another Brick In The Wall Part 2. I rumori ambientali in coda alla canzone furono registrati da Rick Hart alle tre del mattino sul tetto dei Producers Workshop di Los Angeles. ————————————————————————————————————— Is There Anybody Out There? (Waters) – 2:42 GILMOUR: effetto gabbiano con la chitarra • WATERS: basso, voce, coro • WRIGHT: Prophet-5 ••• Joe DiBlasi: chitarra classica • Bob Ezrin: sintetizzatore Una stanza d’albergo in un luogo straniero, completamente sfasciata; una finestra in frantumi che dà sulla strada, lo sfrecciare delle auto sullo sfondo. Un divano, un televisore, un tavolino e una lampada anonima: il mondo di Pink è raccolto in questa scena. Il telecomando cambia canale per l’ennesima volta, la TV trasmette Fandango, episodio della serie western statuni- tense Gunsmoke, gli attori sono James Arness e Diana Muldaur. Emergono sinistre le tastiere di Wright, avvolgendo sin dal principio il brano in un’atmo- sfera cupa e rarefatta. Gilmour accresce l’inquietudine con uno stridulo suono di chitarra, che qui evoca gemiti maligni provenienti dalle tenebre. La voce angosciante di Waters ripete più volte Is there anybody out there? (“C’è qualcuno là fuori?”). La sezione musicale che segue è tra le più toccanti dell’album: un arpeggio di chitarra delicato e melanconico che evoca la fragilità del protagonista, ormai ingabbiato nella sua la- birintica folle disperazione. L’arpeggio venne eseguito da Joe DiBlasi, un turnista reclutato da Michael Kamen per eseguire la parte insieme all’orchestra. Gilmour sentiva di non poterla fare in maniera sufficientemente pulita, e comunque di non poterla suonare in quello stile. 31 ————————————————————————————————————— Nobody Home (Waters) - 3:23 GILMOUR: basso • WATERS: voce, VCS3 • WRIGHT: Prophet-5 ••• Bob Ezrin: piano • New York Orchestra: parti orchestrali Anche in Nobody Home leitmotiv d’apertura è la televisione (la sit-com americana Gomer Pyle, U.S.M.C., ambientata nell’esercito), alla quale si aggiungono rumori di strada e un urlo lacerante di Roger Waters: Shut up! Il grido prosegue con la frase I’ve got a little black book with my poems in, che, seguìto dall’appassionante inciso di pianoforte di Bob Ezrin, si rial- laccia all’inizio del cantato. Nella descrizione di Pink si fondono momenti biografici provenienti da differenti storie: ci sono Wright, Barrett e naturalmente lo stesso Waters. Compaiono, ad esempio, probabili ri- ferimenti (non confermati da dichiarazioni ufficiali) ad alcuni vizi del tastierista legati ai suoi momenti personali più bui: I’ve got nicotine stains on my fingers Ho macchie di nicotina sulle dita I’ve got a silver spoon on a chain ho un cucchiaino d’argento a una catenella I have a grand piano to prop out my mortal remains. ho un grande pianoforte per eternare i miei resti mortali. Di Syd viene rimarcata la «permanente obbligatoria alla Hendrix» e l’abitudine giovanile di non portare i lacci alle scarpe, utilizzando degli elastici per tenerle insieme. Le scarpe in- glesi della Gohill, citate nel testo, erano indossate dal Diamante pazzo in alcune vecchie fo- tografie (v. immagine). La faccenda della coca – I’ve got a silverspoon on a chain – non riguarda nessuno in particolare, ma aggiunge tinte fosche ai ricordi trascritti nel piccolo libro nero. L’angoscia della telefonata senza risposta è poi ancora una volta l’esperienza ossessiva di Pink/Roger. Tra le frasi più significative della canzone: I’ve got a strong urge to fly / but I got nowhere to fly to («Ho un forte bisogno di volare via / ma non ho un posto dove volare»), segnale inequivoco del muro interiore che opprime Pink. ————————————————————————————————————— Vera (Waters) - 1:33 GILMOUR: basso, chitarra acustica • WATERS: voce • WRIGHT: Prophet-5 • New York Symphony Orchestra: parti orchestrali Anche Vera apre con alcuni dialoghi televisivi in sottofondo (il film di guerra I lunghi giorni delle aquile, del regista Guy Hamilton del 1969). Le scene militari riportano Pink al pensiero del padre caduto in battaglia. Per trattare il tema dell’assenza Roger Waters ricorre al perso- naggio di Vera Lynn, simbolo generazionale inglese amatissimo in patria. La cantante (il cui vero nome era Vera Margaret Lewis) aveva assunto il ruolo di interprete delle speranze di ricongiungimento fra i soldati partiti per il fronte e i loro cari. Ne fu espressione dolce e no- stalgica la canzone We’ll Meet Again (“Ci incontreremo ancora”), scritta da Ross Parker e Hughie Charles e portata al successo dalla Lynn nel 1939. La frase portante del brano, da cui Waters trasse parte delle parole di Vera, recitava: We’ll meet again / Don’t know where / Don’t know when / But I know we’ll meet again some sunny day («Ci incontreremo ancora / Non so dove / Non so quando / Ma so che ci incontreremo in una giornata di sole»). (v. filmato) Protagonista di un film intitolato proprio We’ll Meet Again e conduttrice per BBC Radio di Sincerely Yours, un programma all’epoca molto seguito, Vera Lynn è rimasta nelle grazie del pubblico inglese, ed è morta ultracentenaria nel 2020. 34 ——————————————————————————————————————————— Run Like Hell (Gilmour, Waters) – 4:24 GILMOUR: basso, Fender VI baritone, effetto piatti registrati al contrario, coro • MASON: batteria • WATERS: voce, urla e altri effetti vocali • WRIGHT: Prophet-5 ••• James Guthrie: effetto piatti incisi al contrario • Bobbye Hall: conga e bongo • Phil Taylor: pneumatici che stridono Scritta da David Gilmour durante le sedute di registrazione per il suo primo album solista, Run Like Hell in origine era una trama di sola chitarra, poi lavorata con un graffiante ritmo discorock, come suggerito da Bob Ezrin, e corredata con i testi scritti da Roger Waters. È anche l’unica canzone dell’album con un assolo di sintetizzatore di Wright. Vi emergono i risvolti violenti dell’allucinazione paranoica di Pink: il pubblico è irretito, si muove come diretto da una regia superiore, mentre gli Hammers svuotano la sala dalle presenze indesiderate. Per la registrazione del brano Gilmour usò una Fender Telecaster reissue del 1952. Le percussioni furono invece incise da Bobbye Hall. Nel brano ci sono anche rumori di fondo provenienti dalla strada: l’effetto dell’uomo che corre respirando affannosamente, mentre le urla di Roger Waters alla fine vennero riprese in un parcheggio di Los Angeles. ——————————————————————————————————————————— Waiting For The Worms (Waters) – 3:57 GILMOUR: basso, Prophet-5, chitarre, cori iniziali, risata, voce • MASON: batteria • WATERS: voce, megafono, VCS3, coro • WRIGHT: organo Hammond ••• Bob Ezrin: piano, cori iniziali • Joe Chemay, Stan Farber, Jim Haas, Bruce Johnston, Jon Joyce, Toni Tennille: coro Le parole in tedesco urlate da Waters all’inizio di Waiting For The Worms sono Eins, zwei, drei, Alle! («Uno, due, tre, tutti!»). Ascoltando in cuffia, dopo Run Like Hell il pubblico grida ‘Pink Floyd’ nel canale sinistro dello stereo, nel destro si ascoltano invece voci che scandi- scono ‘ham-mer, ham-mer’. Adesso l’effetto del sedativo comincia a svanire, e Pink vive una fase di sovrapposizione tra le sensazioni reali (che tornano prepotenti) e le allucinazioni di cui è stato preda durante l’intero spettacolo. Il simbolo dei vermi rappresenta la negatività che consuma il cervello e ne condiziona le scelte, una putrescenza metaforica dello stato d’animo di Pink: alla resa dei conti con se stesso, il suo delirio è il segnale che sta per rispondere di tutto il percorso. I martelli costituiscono un’allegoria delle forze oppressive esterne, mentre i vermi rappre- sentano il marcio intrinseco. Il brano cresce d’intensità con una progressione che tende al delirio, montando tra farneticazione ed esaltazione sino all’urlo “Stop!” di Pink che apre alla breve canzone successiva. ——————————————————————————————————————————— Stop (Waters) – 0:31 WATERS: voce ••• Bob Ezrin: pianoforte È la canzone più corta di tutta la discografia dei PF. Rinchiuso in una cella virtuale, Pink aspetta il processo alla sua esistenza. La sua sopportazione è al limite, e ora manifesta final- mente sentimenti umani, rivelandosi in tutta la sua fragilità. L’effetto delle droghe è sparito, Pink ne ha abbastanza di subire, dice «Stop». Aggiunge: «Voglio andare a casa,/ togliermi questa uniforme/ e abbandonare lo spettacolo./ Sto aspettando in questa cella/ perché devo sapere/ se sono stato colpevole per tutto questo tempo». È come se Pink si processasse. Il giudice è parte di se stesso, come tutti gli altri personaggi – tutto nella sua mente. 35 ——————————————————————————————————————————— The Trial (Waters) – 5:19 GILMOUR: basso, chitarre • MASON: batteria • WATERS: voce ••• Bob Ezrin: piano • New York Orchestra: parti orchestrali (direttori Bob Ezrin, Michael Kamen) • Vicky, Clare: coro Il brano si apre con il cigolio del cancello della cella di Pink, seguono dei passi che s’arre- stano, il rumore del martello del Giudice e l’inizio del processo. Al cospetto del Giudice, presentato dal Procuratore come “Vostro Onore il Verme”, Pink è un pupazzo nudo e inerme, vittima sacrificale, accusato di essere stato «colto in flagrante a mostrare sentimenti di natura pressoché umana, vergogna». Il Maestro assicura al Giudice: «Se mi avessero lasciato fare, lo avrei raddrizzato. Lascia- temelo martellare oggi! [Let me hammer him today]». La Moglie scarica su Pink la responsa- bilità del matrimonio andato in pezzi, senza risparmiargli velenose invettive: «Brutto stronzo, sei al fresco ora e spero che gettino via la chiave. Avresti dovuto parlare con me più spesso, e invece no! dovevi fare a modo tuo. Hai distrutto qualche famiglia ultimamente?». Irrompe infine prepotente la figura della Madre: «Vieni dalla mamma, piccolino, fatti stringere tra le mie braccia. Vostro Onore il Verme, me lo lasci riportare a casa”. Pink si libra inerme fra le pieghe della sua follia giurando di aver visto una via di uscita, «una porta là nel muro quando sono entrato». Ma non c’è scampo davanti alla Corte: il Giu- dice esterna un disprezzo esplicito: «In tutta la mia carriera di giudice non ho mai visto nes- suno più meritevole della massima pena. Il modo in cui hai fatto soffrire la tua povera moglie e tua madre mi fa venir voglia di defecare». Segue il verdetto: colpevole di aver accolto sentimenti umani tipici degli artisti e dei cuori solitari, Pink è condannato a venire esposto ai suoi simili e il Giudice ordina l’abbattimento del muro. Il reboante finale della canzone passa attraverso l’urlo corale Tear down the wall («Abbattete il muro»), poi la deflagrazione di un cannone mista a esplosioni e rumori di mat- toni che rovinano. In The Trial tutte le voci dei personaggi del processo sono interpretate da Roger Waters, ognuna con sue peculiarità per distinguersi dalle altre: uno spiccato accento dello Yorkshire per la Madre, una cadenza scozzese per il Maestro, un tono un po’ snob per il Giudice. La Moglie viene cantata con voce normale. Le frasi Shame on him e Call the defending wife, indicate sulla copertina del disco, non sono state cantate; viceversa i cori Crazy toys in the attic he is crazy e la frase Go on judge! Shit on him! sono stati eseguiti ma non sono riportati nei testi. The Trial si ispira musicalmente alle musiche di Kurt Weill per L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht. ——————————————————————————————————————————— Outside The Wall (Waters) – 1:46 GILMOUR: coro • WATERS: voce ••• Ragazzi di New York: coro • Frank Marocco: concertina • Trevor Veitch: mandolino • Larry Williams: clarinetto Il crepitio degli ultimi pezzi di muro sbriciolati lascia spazio al motivo di una concertina suo- nata da Frank Marocco. Waters intravede una speranza al di là dei muri che separano l’uma- nità, come se l’empatia fra individui sia il rimedio per abbattere il disperato isolamento dei singoli. Legami interpersonali e cooperazione gettano le basi dell’altruismo per il quale qual- cuno si batterà per te pur «barcolla e cade contro il muro di qualche pazzo fottuto». La voce di Waters è accompagnata da un coro di ragazzi. 36 III. Analisi di Pink Floyd The Wall [= PFW] 1. Sigarette (PFW 0-5"51) Corridoio d’HOTEL. Parte l’introduzione strumentale di una canzone di Vera Lynn, The Little Boy that Santa Claus Forgot (1937). Una inserviente esce da una camera e avvia l’aspirapolvere. Il rumore di un fiammifero che s’accende per dare fuoco a una lampada a olio. La mano è di Eric Fletcher Waters|Floyd (n. 1914), il papà di Roger|Pink, mentre sta in trincea ad Aprilia, dopo lo sbarco degli Alleati ad Anzio (avvenuto il 22 gennaio 1944). Eric sente sopra di sé il sibilo e l’esplosione di bombe; si accende una sigaretta; pulisce una pistola, mentre parte la prima canzone del film (non inclusa nell’album del 1979): When the Tigers Broke Free, part 1. Al termine del canto, le immagini di Pink bambino che corre in un immenso campo di rugby deserto. HOTEL. Suona ancora la canzone di Vera Lynn. Primo piano su un orologio di Mic- key Mouse al polso di Pink, il quale è seduto su sdraio e tiene fra le dita una sigaretta che sta consumandosi da sola. La telecamera risale fino all’occhio destro di Pink. L’inserviente spegne l’aspirapolvere, bussa alla porta della stanza di Pink (bloccata dall’interno con una catena). Lui ha lo sguardo fisso avanti a sé. L’inserviente sta per aprire la porta. 2. Nella carne, ghiaccio sottile (PFW 5"51-12"50) In the Flesh? Se la cameriera è bloccata dalla catena, una massa giovanile travolge correndo la bar- riera che la separa dall’arena del concerto di Pink — Soldati americani corrono il 18 febbraio 1944 nei pressi di Aprilia, per lo più soccombendo sotto le bombe — Prima del concerto, la polizia insegue blocca e perquisisce parecchi giovani — Un soldato a terra, colpito a morte… Da un balcone bardato solennemente con la serie di insegne paranaziste dei Martelli incrociati, Pink si affaccia sull’arena per proclamare il suo discorso a un pubblico as- sorto, come incantato — I soldati USA continuano a morire ad Aprilia sotto le bombe nemiche; Eric Waters|Floyd cerca di chiamare rinforzi al telefono, ma il suo rifugio in trincea viene colpito da un bombardiere tedesco Stuka (Sturzkampfflugzeug), l’uomo muore — Great Bookham, Surrey, 18 febbraio 1944: Mary White|Floyd, nel suo giardino, è assopita con in grembo una rivista di moda; poco più lontano i vagiti di un bimbo in una carrozzina (Roger era nato il 6 settembre 1943) — Aprilia: carri armati attraversano la zona bombardata… The Thin Ice … i corpi dei caduti vengono recuperati, i feriti ricoverati (alcuni sono così sfigurati da avere l’intero capo coperto da garze e bende – una “visione” che influirà decisivamente su altri “ricordi” ), la marcia mesta degli scampati in fila indiana — (Altro) HOTEL: la 39 Ritornano le immagini del “reale”: disordini nelle città, con assalti alle vetrine dei negozi, vengono placati dalla cariche della polizia. Young Lust Pink è in una roulotte durante una delle tante tournée, come indifferente all’esplosione di vita artificiale che si svolge nel retropalco e che ha nell’agente di Pink uno dei pro- tagonisti. Cinque groupies particolarmente intraprendenti (delle “dirty girls”) corrom- pono la sorveglianza e partecipano al festino. Una di loro entra nella roulotte, con Pink sulla difensiva. 7. Distruzioni e addio (PFW 43"30-54"00) Pink e la groupie sono ora in HOTEL. Lui accende la tv, in quel momento scorrono le immagini del film The Dam Busters (I guastatori delle dighe), diretto nel 1955 da Mi- chael Anderson (sull’operazione Chastise compiuta nel 1943 dall’aeronautica britan- nica [RAF] ai danni delle dighe tedesche della Ruhr; ricorreranno molti riferimenti alla triste vicenda del labrador Nigger, il cane del comandante Gibson, mascotte della Squa- driglia 617 della RAF protagonista dell’operazione, travolto da un’auto). Pink appare in uno stato precatatonico, la groupie cerca invano di sollecitarlo sensualmente. One of My Turns Pink rimane immobile finché non gli scende una lacrima: allora (Run to the bedroom!) esplode in una furia distruttiva, a farne le spese la stanza e ogni strumento e oggetto che vi si trovano – la ragazza è terrorizzata. La tv vola fuori dalla finestra. Don’t Leave Me Now Pink è solo, dentro la piscina, la mano destra sanguinante, nella posa “cruciale” già vista – immagina Judy che fa sesso con il suo amante. Ora Pink è su una poltrona, la mano destra sanguina ancora, ripensa ai propri errori («sai quanto ho bisogno di te per picchiarti a sangue il sabato sera») – sta a guardare la tv (sempre The Dam Busters) nell’ANGOLO di una surreale stanza d’albergo, sulla cui parete gioca l’ombra metamor- fica di Judy (fiore vulvico famelico, serpente dalla testa mostruosa) – Pink ne ha ter- rore, e ancora gli passano per la mente le immagini di Judy e amante, senonché… Another Brick in the Wall part 3 … Pink ha di nuovo in mano l’ascia e torna a distruggere la tv – si susseguono veloci sequenze già viste: Judy e Pink in vari momenti del passato, Pink in uniforme sul bal- cone, bombardamenti su Aprilia, sommosse nelle città e caricamenti della polizia, la groupie, Pink che esplode furioso, vandalismi urbani, l’insegnante, il piccolo Pink al parco e poi a letto con la madre, la morte di Eric, il matrimonio con Judy, la polizia in assetto antisommossa e … il Muro. Goodbye Cruel World Ora Pink è nell’HOTEL (d’inizio film), con la sigaretta a consumarsi fra le sue dita. Vede come davanti a sé il Muro. Attraverso il suo occhio destro si accede al campo di rugby, al piccolo Pink che corre finché non s’arresta – Le braccia del Pink adulto sono al Muro, quasi a volerlo scalare o a cercarvi una breccia. 40 8. Un buon cane (PFW 54"00-1'00"50) Is There Anybody Out There? Pink accosta l’orecchio alla parete, a tentare di udire suoni dall’altra parte del Muro. Ora gli si scaglia contro, come a volerlo abbattere. Sul pavimento sono ordinatamente, maniacalmente disposti molti oggetti superstiti alla devastazione furiosa (banconote, monete, carte di credito, chewing gum, sigarette, compresse, posate a forma di croce, pezzi di chitarra, long playing, foto ecc.). Pink sta ancora ultimando la sua opera, incrociando due ossi di pollo e mettendo in fila delle compresse rosa. In bagno, sta ora facendosi la barba: decide di radersi il petto e le sopracciglia – gocce di sangue nel lavabo. Il “nuovo” Pink guarda ancora The Dam Busters. Nobody home Pink fissa a lungo la tv, poi cambia nervosamente i canali (Tom & Jerry, Reagan in maniche di camicia, olimpiadi invernali, film, una messa) – e al telecomando premuto compulsivamente s’alternano i tasti pigiati di un telefono – Alla tv torna di nuovo The Dam Busters, con il comandante Gibson che chiama a sé Nigger – Pink è ora nel suo ANGOLO (in poltrona, davanti alla tv e sotto una piantana), ma all’aria aperta, ha le convulsioni, le ha anche come Pink decenne, in uno scenario apocalittico (filo spinato, alberi incendiati, rami secchi come martelli)… Il piccolo Pink va per un sentiero verso lo scenario di guerra di Aprilia, entra in un rifugio di trincea… 9. Ragazzi non reincontrati (PFW 1'00"50-1'06"19) … si ritrova in un corridoio, da cui accede a un’ampia camerata vuota (ma sono letti di pazienti manicomiali, come si evince dalla presenza di una camicia di forza), poi a una stanza dove accovacciato in un angolo c’è il Pink adulto (≈ Syd Barrett) senza soprac- ciglia, in divisa da paziente, con la faccia stravolta – Il piccolo fugge via, riprende a correre nel campo di rugby, ritorna nelle trincee di Aprilia trasbordanti di cadaveri dei soldati – incrocio con la notizia della morte di Nigger in Dam Busters. I due Pink nell’ANGOLO, di nuovo all’aperto, stanno l’uno di fronte all’altro, il pic- colo in piedi e l’adulto in poltrona. Il piccolo si allontana… Vera … giunge in una stazione ferroviaria affollata di gente che aspetta l’arrivo del treno con i soldati di rientro dal fronte. Nessuno è ritornato per Pink… Bring the Boys Back Home … il quale, mentre i tamburi rullano per i reduci, si ritrova attorniato dalla folla della stazione che canta all’unisono Bring the boys back home! La stazione è ora vuota, il piccolo Pink va all’ANGOLO, si siede mentre in tv passa ancora Dam Busters proprio nel momento in cui ricorre l’unica citazione di Hitler nel film – HOTEL: Pink ha perso i sensi. Il suo agente (Time to go!) fa sfondare la porta della camera. 41 10. La rianimazione verminale dell’artista (PFW 1'06"19-1'12"24) Comfortably Numb Entrano in stanza l’agente, il direttore dell’hotel, un medico e diversi inservienti, cer- cano invano di rianimare Pink – Il piccolo Pink accorre dal suo campo di rugby, racco- glie da terra un grosso topo ferito, lo porta a casa, ma la madre si ritrae inorridita, così il ragazzino lo accudisce in una baracca sul fiume, poco lontana da casa – Giustappo- sizioni dei due Pink: all’adulto il medico sta preparando un’iniezione per rianimarlo, il piccolo a letto (malato probabilmente per infezione contratta dal topo) è curato dalla mamma e da un medico; a contatto con ago e sostanza l’adulto urla (i vermi allucina- tori cominciano a lavorare) e dà segnali di ripresa – Passa Eric in divisa da soldato con in mano il topo morto – Il piccolo Pink scopre che il topo è morto, lo getta nel fiume, indossa il maglioncino con cui aveva avvolto l’animale – Passano l’insegnante con un nerbo tra le mani, il medico con lo stetoscopio, soldati – In Hotel gli inservienti rive- stono Pink e lo portano via verso l’ospedale. I vermi devastano dal di dentro progressivamente il corpo di Pink e culminano in escrescenze su tutta la pelle. In auto verso l’ospedale, Pink si strappa via a forza l’in- volucro verminale e ne esce rinvigorito, con lo sguardo duro. 11. L’orgia martellista (PFW 1'12"24-1'23"17) In the Flesh Pink the Hammer, vestito da plenipotenziario paranazista, marcia a capo di una squadra di suoi adepti nel tunnel che porta all’arena. La folla lo acclama urlante, Pink l’omaggia con gli avambracci incrociati. Il suo discorso è ascoltato dapprima con partecipazione assorta, poi via via con sempre maggiore esaltazione, fino al tripudio quando Pink pro- nuncia le parole finali (If I had my way, I’d have all of you shot!). Run like Hell La folla esulta in tutti i suoi elementi irreggimentati con le maschere di garza, mentre le squadre speciali di Pink/Hammer (delle paraSS) perseguitano i “reietti” e compiono retate e violenze gratuite per la città. Waiting for the Worms Gli Hammer preparano l’allocuzione pubblica all’aperto di Pink, dove viene annun- ciata una marcia su Westminster – a suggello dello stato (allucinatorio) di terrore ormai instaurato entro la collettività. La marcia degli Hammer appare massicciamente inar- restabile. 12. Mi autoprocesso, abbattete il muro (PFW 1'23"17-1'29"40) Stop Bagni dell’arena da concerto. Una guardia (la stessa delle Dirty Girls) si lava le mani dopo aver orinato. Pink è in un bagno, rannicchiato in un angolo, con bottiglia di cham- pagne e libretto nero in mano. La guardia sente la voce, fa per aprire la porta del ba- gno…
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