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Appunti videolezioni, Appunti di Diritto del Lavoro

Appunti delle videolezioni di diritto del lavoro nuovo programma

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 12/04/2024

massimiliano-bernardini
massimiliano-bernardini 🇮🇹

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Scarica Appunti videolezioni e più Appunti in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! DIRITTO SINDACALE Il diritto sindacale riguarda - la libertà e l’esercizio dell’attività sindacale: ciò con riguardo sia al singolo lavoratore che alle coalizione di lavoratori che danno vita ai sindacati (associazioni sindacali). - il contratto collettivo, ossia il contratto di diritto privato comune espressione dell’autonomia privata collettiva che presenta tratti peculiari rispetto al contratto individuale. - L’autotutela collettiva, ossia gli strumenti di lotta che i lavoratori possono utilizzare per perseguire l’interesse collettivo. La libertà sindacale. La Costituzione repubblicana riconosce due principi fondamentali per il diritto sindacale: 1. Libertà di organizzazione sindacale, art. 39 c. 1 della cost. “l’organizzazione sindacale è libera”. 2. Diritto di sciopero, art. 40 cost. “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Entrambi i suddetti articoli tuttavia sono rimasti parzialmente inapplicati: l’art. 39 non ha avuto applicazione per la parte relativa alla disciplina dei sindacati e dei contratti collettivi in quanto non è stato legiferato in attuazione ai commi 2, 3 e 4. L’art. 40 altrettanto ha visto regolamentare il diritto di sciopero esclusivamente per quello che riguarda i servizi pubblici essenziali. Il riconoscimento dei diritti di libertà sindacale e di sciopero rappresentano in modo emblematico il cambiamento avvenuto nel passaggio fra l’ordinamento corporativo e quello repubblicano: nel sistema corporativo la composizione dei conflitti economici collettivi era subordinata all’interesse supremo nazionale e postulava un intervento pubblicistico che prevenisse e reprimesse il conflitto. L’ordinamento repubblica esalta il conflitto sociale e lo impone come mezzo di composizione delle controversie economiche collettive. Art. 39 cost. C.1, “l’organizzazione sindacale è libera”, il comma 1 introduce un principio più ampio e specifico del generale diritto di associazione sancito dall’art. 18 Cost. in quanto la libertà sindacale si realizza in una dimensione individuale ma anche in una dimensione collettiva poiché la libertà dell’attività sindacale è riconosciuta non soltanto ai singoli ma anche alle associazioni in cui essi si riuniscono (sindacati). L’art. 39 ha, rispetto all’art. 18, anche una maggiore specificità in quanto l’attributo “sindacale” attribuisce una finalità specifica all’attività. La dimensione individuale della libertà sindacale non è soltanto la libertà di svolgere attività sindacale ma anche la libertà di adesione, di scelta e di inerzia. Il lavoratore infatti è libero di svolgere attività sindacale ed è altrettanto libero di aderire ad una delle molteplici organizzazioni sindacali esistenti. La libertà riconosciuta dall’art. 39 è però anche una libertà negativa, la liberà di inerzia, il lavoratore può decidere di non aderire ad organizzazioni sindacali ed anche di non svolgere alcuna attività sindacale. L’art. 39 ha anche una dimensione collettiva che incide sull’attività delle organizzazioni sindacali, sull’individuazione del gruppo titolare degli interessi da promuovere e sulla attività da mettere in campo per promuovere gli interessi scelti. L’attività sindacale è caratterizzata dal pluralismo delle organizzazioni sindacali con il divieto tuttavia di costituire sindacati di comodo: art. 17 l. 300/1970 (stat. lav.) in quanto è vietato ai datori di lavoro ed alle organizzazioni datoriali di costituire, mantenere o finanziare in qualsiasi modo organizzazioni sindacali dei lavoratori che perseguono, almeno in linea di principio, interessi opposti a quelli dei lavoratori. Il legislatore vieta quindi qualsiasi forma di sostegno o agevolazione ad organizzazioni dei lavoratori. Tale divieto non è sostenuto da una sanzione e pertanto vi sono due diverse opinioni: non sanzionare in alcun modo tale comportamento o farlo rientrare nel campo di applicazione dell’art. 28 stat. lav.. La libertà di scelta degli interessi da promuovere per l’organizzazione sindacale consente che le associazioni sindacali si costituiscano su due diversi criteri di aggregazione, per ramo di industri o per mestiere. Esempi sono i metalmeccanici Vs i piloti. Anche in questo caso è presente un limite legale: gli statuti devono sancire un ordinamento interno a base democratica. L’associazione sindacale, per libertà attribuitale dall’art. 39, gode anche di una libertà negoziale e quindi è libera di sottoscrivere o meno il contratto collettivo. La seconda parte dell’art. 39 è rimasta, ad oggi, inattuata: i motivi alla base di tale scelta del legislatore possono essere vari, sicuramente i sindacati vedevano con sospetto la possibilità di essere sottoposti a controllo da parte dello Stato attraverso l’obbligo di registrazione sottoposto alla verifica delle condizioni di cui all’art. 39. Parte delle associazioni sindacali, minoritarie, hanno sempre avuto motivo di volersi sottrarre alla necessità di “contarsi” e “pesarsi” rispettando l’avverbio proporzionalmente. L’attuazione dell’art. 39 avrebbe portato con se, presumibilmente, quella dell’art. 40 ed una limitazione al diritto di sciopero. Per quanto inattuata la seconda parte dell’art. 39 ha una sua efficacia negativa: è vietata una disposizione contraria e pertanto il legislatore non può promulgare una legge che attribuisce in modo stabile efficacia soggettiva erga omnes al contratto collettivo seguendo un percorso diverso da quello tracciato dai commi 2, 3 e 4. Norma fondamentale sulla libertà sindacale è la l. 300 del 1970 nota come Statuto del Lavoratori; tale legge si compone di 6 titoli: 1. Libertà e dignità del lavoratore 2. Libertà sindacale 3. Attività sindacale nei luoghi di lavoro 4. Disposizioni varie 5. (abrogato) 6. Disposizioni finali e penali. Art. 14 “Il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, è garantito a tutti i lavoratori all'interno dei luoghi di lavoro.” Diritto di associazione e di attività sindacale fuori e dentro il luogo di lavoro. Art. 15 “È nullo qualsiasi patto od atto diretto a: a) subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età, di nazionalità o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”. Sono vietati tutti gli atti discriminatori, non soltanto contro il sindacato. Art. 16 “È vietata la concessione di trattamenti economici di maggior favore aventi carattere discriminatorio a mente dell'articolo 15. Il pretore, su domanda dei lavoratori nei cui confronti è stata attuata la discriminazione di cui al comma precedente o delle associazioni sindacali alle quali questi hanno dato mandato, accertati i fatti, condanna il datore di lavoro al pagamento, a favore del fondo adeguamento pensioni, di una somma pari all'importo dei trattamenti economici di maggior favore illegittimamente corrisposti nel periodo massimo di un anno.” Sono vietati i trattamenti economici collettivi, di qualsiasi tipo purché suscettibili di valutazione economica, discriminatori ai sensi dell’art. 15. Art. 17 “È fatto divieto ai datori di lavoro e alle associazioni di datori di lavoro di costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori.” Divieto di costituzione di sindacati di comodo. Art. 28 norma di chiusura posta a tutela della effettività delle libertà previste dallo statuto. La repressione della condotta antisindacale e dei comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà sindacale nonché l’esercizio del diritto di sciopero. Sono titolari del diritto di sciopero i lavoratori subordinati del settore privato. Relativamente al settore pubblico, la titolarità della libertà di organizzazione sindacale è stata riconosciuta fin dalla caduta dell’ordinamento corporativo ma solo con la privatizzazione del pubblico impiego è stata riconosciuta ai sindacati dei dipendenti pubblici la possibilità di stipulare contratti collettivi. Anche i lavoratori autonomi o autonomi parasubordinati godono della libertà sindacale anche se, tale libertà è stata poco fruita da tali soggetti per mancanza di un interesse realmente collettivo e per la eterogeneità che li caratterizza; tuttavia non sono mancate eccezioni come gli agenti di commercio. I datori di lavoro, secondo la dottrina maggioritaria godono anch’essi di libertà sindacale, secondo la dottrina minoritaria la libertà degli imprenditori non ha la propria base nell’art. 39 ma bensì nell’art. 41. Tradizionalmente l’associazionismo sindacale delle parti datoriali è un associazionismo di risposta, di reazione, a quello dei lavoratori. Eccezione al diritto di libertà sindacale sono i militari poiché non è loro concesso creare associazioni sindacali ne esercitare il diritto di sciopero. Situazione più ibrida è quella dei lavoratori appartenenti al corpo della polizia di stato. Essi possono costituire associazioni sindacali purché siano dirette a rappresentare solo gli appartenenti al corpo; non possono esercitare il diritto di sciopero. L’organizzazione e l’attività sindacale Il fenomeno sindacale, anche a causa della mancata attuazione dell’art. 39 è caratterizzato da: 1. Pluralismo sindacale: vi è la presenza di molti sindacati, sia di settore produttivo sia di mestiere 2. Prevalenza del modello associativo: la forma tipica dell’associazione sindacale è l’associazione non riconosciuta ex art. 36 e ss c.c.. Tale circostanza iscrive il fenomeno sindacale ad una dimensione squisitamente gius-privatista. In conseguenza di quanto asserito le associazioni sindacali sono prive di personalità giuridica e soggiacciono alla scarna disciplina contenuta nel c.c., oltre a statuti e regolamenti approvati dagli associati. Nonostante la forma associativa aspirano, chi più chi meno, a rappresentare gli interessi della generalità dei lavoratori del proprio settore produttivo o mestiere. 3. Prevalenza del sindacato per ramo di industria: il fenomeno sindacale italiano si è caratterizzato per una chiara prevalenza del criterio aggregativo del ramo di industria o settore produttivo rispetto a quello del mestiere. Il sindacato per ramo di industria utilizza come criterio aggregativo il settore produttivo/merceologico dell’impresa quale criterio di aggregazione indipendentemente dal mestiere, l’inquadramento legale o economico. Il sindacato di mestiere, forma più antica, invece aspira ad aggregare e rappresentare gli interessi di un gruppo di lavoratori accomunati da una medesima professionalità o mestiere. Art. 18: specifiche tutele in caso di licenziamento. Il membro della RSU gode di specifiche tutele in caso di licenziamento. Artt. 23 e 24: permessi retribuiti e non retribuiti. Consentono la sospensione dell’obbligazione lavorativa, sospendono o meno l’obbligazione retributiva in base alla tipologia. I permessi sono retribuiti se motivati da esigenze connesse all’espletamento del mandato sindacale, non retribuiti per attività più genericamente di tipo sindacale quali trattative, convegni, congressi. Artt. 14 e ss e 28: libertà sindacale e repressione delle sue limitazioni. Diritti che riguardano tutti i lavoratori e non soltanto i membri della RSU. Comitati aziendali europei Il diritto U.E. prevedere la costituzione di comitati aziendali europei all’interno di imprese o gruppi di imprese di dimensione comunitaria. Hanno funzione di informazione consultazione a livello transnazionale. Anche per i membri di tali comitati sono previsti permessi retribuiti, permessi non retribuiti e limiti al trasferimento. La rappresentanza e la rappresentatività sindacale Nozione di rappresentanza sindacale: Nella sua accezione classica, per rappresentanza sindacale si intende l’attitudine del sindacato a svolgere un’attività produttiva di effetti rispetto alla categoria di lavoratori che il sindacato intende aggregare e tutelare. Negli anni la rappresentanza sindacale è stata costruita attraverso il ricorso agli schemi gius- privatistici della rappresentanza e del mandato da parte della dottrina e della giurisprudenza. Questa impostazione tuttavia presta il fianco ad elementi di criticità poiché il sindacato stipula il contratto collettivo in forza di un potere che gli è originariamente proprio; il contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali di tipo istituzionale è valido per in assenza di rappresentanza sindacale intesa in senso stretto. Questo perché? Perché l’interesse collettivo è diverso dall’interesse comune, è sintesi e trascende sia gli interessi individuali che quello comune, è indivisibile. Allora il lavoratore è titolare di interesse individuale, non collettivo. Anche assumendo che l’iscrizione sia corrispondente ad un mandato il lavoratore non è titolare dell’interesse collettivo e quindi non può esserne il mandante. Ulteriore elemento di critica, prevalente in dottrina e giurisprudenza è che il contratto collettivo stipulato da RSA è contratto collettivo valido ed efficace sebbene le RSA hanno natura non associativa ma istituzionale, quindi non può essere applicato lo schema gius-privatistico del mandato e della rappresentanza. La maggiore rappresentatività sindacale: Attraverso la vecchia formulazione dell’art. 19 l. 300/75 la maggiore rappresentatività era riconosciuta alle associazioni aderenti alle confederazioni nazionali maggiormente rappresentative o alle associazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo, nazionale, provinciale o territoriale, applicato nell’unità produttiva. Tuttavia non era e non è presenta una definizione legale e vi è la necessità di individuare i criteri di misurazione della maggiore rappresentatività sindacale, a tal fine la giurisprudenza ha elaborato dei criteri: 1. Consistenza numerica 2. L’equilibrata presenza in un ampio arco di settori produttivi 3. La presenza di una struttura organizzativa a livello nazionale 4. La partecipazione, concreta, sistematica e continuativa, alla contrattazione collettiva 5. Irrilevanza di una comparazione fra OO.SS. La rappresentatività delle principale OO.SS. entra in crisi perché i criteri che misuravano una rappresentatività storica e presunta, in alcuni casi per irradiamento, finivano per favorire le tre confederazioni storiche a danno di confederazioni di nuova emersione o di sindacati di mestiere come COBAS, nato come sindacato di mestiere, forte di una grande rappresentatività rimaneva escluso perché sindacati di mestiere. L’emersione di queste nuove confederazioni ha portato alla rottura dell’unità di azione sindacale e le critiche al sistema di rappresentatività presunta hanno portato al suo superamento. Nel 1995 infatti è stato approvato un referendum abrogativo che ha riformulato il testo dell’art. 19 “rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito: a) (abrogato), b) delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva. Il requisito si è quindi ridotto all’essere firmatari del contratto collettivo applicato in azienda reso quindi strumento di misurazione della rappresentatività sulla base del principio che le organizzazioni sindacali vengono invitate o ammesse alle trattative non per previsione normativa ma per la loro capacità di imporsi come interlocutori necessari e quindi anche sufficientemente rappresentativi (ricostruzione effettuata anche dalla corte costituzionale). Nel 2013 la corte costituzionale è stata chiamata nuovamente ad esprimersi sul requisito ”essere firmatari del contratto collettivo applicato in azienda” a seguito dello scontro Marchionne Vs Landini o FIAT Vs FIOM. In quel contesto la FIOM decise, in dissenso con le altre organizzazioni sindacali, di non sottoscrivere il contratto collettivo applicato in tutti gli stabilimenti FIAT. All’indomani si pose però un grave problema: FIOM-CGIL non sarebbe più stata legittimata a costituire RSU in azienda nonostante fosse, nel settore, il sindacato più rappresentativo. La situazione creatasi sarebbe stata gravemente lesiva della liberta delle OO.SS. in quanto, qualora una OS avesse deciso di non stipulare un contratto collettivo questa si sarebbe trovata esclusa dalla fruizione dei diritti sindacali nelle aziende del settore indipendentemente dalla sua rappresentatività; questo avrebbe posto le O.S. dissenzienti nella condizione di non poter far valere la loro contrarietà. A seguito di tutto ciò la corte costituzione, attraverso una sentenza interpretativa, ha chiarito che le parole “che siano firmatarie” devono essere intese in senso ampio ricomprendendo quindi le OO.SS. che, pur avendo partecipato attivamente alle trattative, hanno rifiutato la sottoscrizione finale del CCNL. Questa sentenza, pur risolvendo il problema della estromissione di sindacati potenzialmente molto rappresentativi a seguito di espressione di dissenso dalla fruizione dei diritti sindacali, apriva un problema interpretativo circa la partecipazione alle trattative ed il limite minimo da porre come requisito per poter affermare la partecipazione alle trattative di un OO.SS. (firma per adesione, partecipazione passiva ecc.). Testo unico della rappresentanza: siglato nel 2014 da confindustria, Cgil, Cisl e Uil, consolida, seppure con qualche modifica e integrazione, gli accordi interconfederali del 2011 e del 2013, integra nella nuova architettura del sistema la disciplina delle RSU. Introduce criteri per la quantificazione della rappresentativà: 1. Criterio numerico del 5% come media di dato associativo e dato elettorale 2. Partecipazione alla definizione della piattaforma contrattuale (esclusa firma per adesione) 3. Partecipazione alla delegazione trattante. Il testo attuale evidenzia limiti poiché il sistema di calcolo numerico della rappresentatività non è supportato da idonei strumenti per la raccolta dei dati, non viene stabilita una perimetrazione dell’area in cui effettuare la rilevazione: quali aree? Quali imprese? Tale problema, nel testo dell’accordo interconfederale del 2018 viene assegnato al CNEL per la sua risoluzione. Non vi è alcun sistema di valutazione della rappresentatività datoriale. Il contratto collettivo: Il contratto collettivo corporativo l’ordinamento corporativo è stato soppresso nel 43-44 e le norme che vi facevano riferimento espunte dall’ordinamento o implicitamente abrogate. Durante il periodo fascista, prima dell’abrogazione del sistema corporativo, in forza del combinato disposto dell’art. 1 delle preleggi che individuava fra le fonti del diritto le norme corporative e l’art. 5 che attribuiva la qualità di norma corporativa ai contratti collettivi veniva riconosciuta efficacia di norma giuridica ai contratti collettivi. In quanto fonte del diritto il contratto collettivo corporativo aveva efficacia soggettiva erga omnes ed efficacia oggettiva, era infatti inderogabile dall’autonomia privata individuale se non in meglio, art. 2077 cc disponeva l’inderogabilità se non in un regime più favorevole per il lavoratore. Il contratto collettivo post-corporativo Con la caduta del regime fascista c’è stato un cambio radicale di contesto di riferimento, non era più applicabile il combinato disposto degli artt. 1 e 5 delle preleggi e l’art. 2077 e ss cc in quanto l’ordinamento corporativo era stato abrogato e non erano state emanate norme che regolassero il contratto collettivo. In tale contesto, in assenza di norme legali il contratto collettivo è stato ricondotto all’art. 1322, c. 2 (contratto atipico “le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico). Appariva quindi una scelta obbligata quella della riconduzione del contratto collettivo ad una sfera gius-privatistica creando tuttavia problemi di efficacia del contratto collettivo sia sotto l’aspetto soggettivo (a chi si applica) che oggettivo (derogabilità), oltre al problema della interpretazione del contratto. Il contratto collettivo è quindi un accordo e regola interessi patrimoniali. I contratti possono essere atipici a patto che non contrari alla legge e realizzino interessi meritevoli di tutela: condizioni certamente soddisfatte dal CCNL. La meritevolezza si ricava anche dall’art. 39 della costituzione in quanto immediatamente precettivo e quindi ci si trova in costanza di un contratto atipico nominato e quindi soggetto alla disciplina dei contratti atipici. La natura è quindi quella di atto di autonomia privata collettiva, atto di tipo negoziale soggetto alla disciplina comune dei contratti in generale. Viene infatti detto anche contratto collettivo di diritto comune. Le funzioni del contratto collettivo. Il contratto collettivo ha due funzioni classiche 1. La funzione normativa, economico-normativa, disciplina analiticamente il rapporto di lavoro, dalla costituzione alla fine, la retribuzione, i permessi, le ferie, la disciplina del lavoratore subordinato, i provvedimenti disciplinari… ha anche una funzione obbligatoria, stabilisci i diritti ed i doveri fra le parti, fra le organizzazioni, es. clausole di tregua sindacale. Accanto alle funzioni classiche ci sono due funzioni nuove, 1. La funzione integrativa. Il legislatore chiama il contratto collettivo ad interare la disciplina di alcuni istituti regolata in modo generale. art. 2110 non stabilisce quanto dire il periodo massimo di comporto. 2. Funzione derogatoria. Inizia negli anni ’80 quando il legislatore riconosce al CCNL la possibilità di derogare in senso acquisitivo e talvolta peggiorativo rispetto alla legge. Questa funzione oggi raggiunge il suo culmine massimo a seguito dell’approvazione dell’art. 8 D.Lgs 128/11. 3. Funzione regolatoria. Il legislatore nel disciplinare un istituto rinvia al CCNL affinché ne regoli un aspetto, prevedendo tuttavia una disciplina valida in assenza di accordo fra le parti. Art. 5 l. 223/91, individua i criteri attraverso cui effettuare la scelta in caso di licenziamento collettivo. L’accordo fra OO.SS. e dato di lavoro possono modificare i criteri. La stipulazione del contratto. In giurisprudenza si è posto un problema, chi ha diritto, chi è legittimato a contrattare? Tale domanda trova la sua risposta nel mutuo riconoscimento delle parti in assenza di un obbligo a contrattare. Questo può portare anche ad azioni di forza da parte di soggetti che vogliono essere ammessi al tavolo delle trattative ma rimane pienamente conforme al sistema di conflitto sociale e pluralismo voluto dal costituente. Il T.U. sulla rappresentanza del 2014, con la rappresentatività a fini negoziali, tenta di superare il principio del mutuo riconoscimento a determinate condizioni, principalmente dal lato dei lavoratori subordinati, si è tentato di porre requisiti minimi per essere ammessi. L’efficacia soggettiva del contratto collettivo. Trattandosi di un contratto di diritto comune si pone il problema dei soggetti vincolati dal contratto. Ciò è un problema diverso dall’ambito di applicazione del contratto stabilita nell’accordo individuando l’ambito produttivo e quindi anche la platea di potenziali destinatari. L’efficacia soggetti riguarda l’obbligatorietà del contratto per i potenziali astratti destinatari. La soluzione del contratto atipico nominato lo renderebbe vincolante esclusivamente per le parti. Si è tentato di risolvere il problema attraverso gli istituti del mandato e della rappresentanza. Mancando nell’ordinamento una norma che attribuisca ex lege una rappresentanza od un mandato alle OO.SS. o datoriali si si trova nel caso generale e quindi serve un atto negoziale di mandato. Il problema è stato risolto con l’affiliazione sindacale quindi, almeno per fatti concludenti, un mandato da parte dl singolo, sia lavoratore o datore in questa visione appare rinvenibile. Tuttavia rimane ancora aperto il problema dei lavoratori o datori non iscritti ad alcun sindacato. Il datore non iscritto può non applicare il CCNL o può applicare quello di un altro settore merceologico a cui è iscritto, così come può non applicare il CCNL al lavoratore non iscritto ad alcun sindacato. Meccanismi di estensione dell’efficacia del contratto collettivo. 1. Il contratto collettivo deve essere applicato indipendentemente dall’iscrizione del datore di lavoro o del prestatore di lavoro qualora nel contratto individuale sia fatto rinvio al CCNL, le parti si vincolano al CCNL. 2. In caso di iscrizione datoriale allora il datore è obbligato ad applicare il contratto collettivo nazionale a tutti i lavoratori subordinati della sua impresa. 3. L’applicazione generalizzata e costante del contratto operata dalle parti lo rende applicabile per fatti concludenti. L’applicazione generalizzata della parte retributiva del CCNL. Diversamente dall’applicazione totale del contratto collettivo la sua parte relativa al trattamento economico e retributivo si fonda su norme come l’art. 36 c.1 cost. “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa.” e l’art. 2099 c.c. il quale impone che la retribuzione del prestatore di lavoro deve essere corrisposta con le modalità e nei termini in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito e che in caso di mancanza di accordo fra le parti questa viene decisa equitativamente dal giudice. Attraverso una lettura combinata delle due norme la giurisprudenza ha, nei fatti, esteso l’applicazione della parte retributiva del contratto collettivo a tutti i lavoratori. Non si tratta di una estensione in senso in quanto il giudice, nella sua sentenza, non applica direttamente il contratto collettivo, tuttavia lo utilizza come parametro per determinare il contenuto della retribuzione proporzionale e sufficiente poiché anche in assenza di una specifica norma attuativa l’art. 36 cost. è immediatamente precettivo, non necessita di una legge ordinaria di attuazione. Il contratto che non prevede una retribuzione proporzionale e sufficiente ha una nullità parziale, nulla per violazione di una norma imperativa, appunto l’art. 36 c. 1. Il giudice con sentenza costitutiva imporrà la retribuzione che rispetti la norma imperativa e per farlo assumerà come parametro proprio il contratto collettivo nazionale. L’efficacia soggettiva nel T.U. sulla rappresentanza del 2014. Il testo unico sulla rappresentanza siglato nel 2014 cerca di affrontare il problema dell’efficacia soggettiva del CCNL stabilendo che se l’accordo è siglato da associazioni sindacali che rappresentano almeno il 50%+1 dei lavoratori è esigibile nei confronti di tutti i sindacati che aderiscono al T.U. del 2014, anche qualora l’associazione sindacale di categoria non abbia sottoscritto il CCNL. Parimenti è stato oggetto di accordo che l’efficacia soggettiva si estende nei confronti di tutti i lavoratori dipendenti da imprese affiliate alle organizzazioni datoriali firmatarie del TU, ancorché i lavoratori non siano iscritti ad alcun sindacato oppure siano iscritti a sindacati dissenzienti. L’efficacia soggettiva del contratto collettivo aziendale. Essendo stipulato direttamente dal datore di lavoro lo obbliga immediatamente, salvo che questo contenga una disciplina peggiorativa. L’efficacia è quindi tendenzialmente generalizzata per tutti i dipendenti. Dottrina e giurisprudenza sono compatti nell’affermare che il contrato collettivo aziendale è applicabile a tutti i lavoratori subordinati, seppure attraverso ricostruzioni giuridiche diverse muovendo da tre punti fondamentali: 1. Il datore di lavoro ha il dovere di trattare paritariamente i lavoratori. 2. Indivisibilità oggettiva della materia trattata. 3. Finalizzazione dell’accordo a limitare un potere datoriale rivolto a tutti i lavoratori. L’art. 8 l. 138/2011 prevede l’efficacia erga omnes dei contratti di prossimità ancorché derogatori di fonti sovraordinate a patto che riguardino materie e perseguano le finalità previste dalla norma e siano stipulati secondo un criterio maggioritario con tre limiti, le norme costituzionali, comunitarie ed internazionali. L’efficacia oggettiva/inderogabilità del contratto collettivo. L’efficacia oggettiva del contratto collettivo inerisce l’inderogabilità del contratto collettivo ad opera del contratto individuale. Nel diritto vivente, seppur attraverso percorsi diversi, sia per la dottrina che per la giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il contratto collettivo nazionale è derogabile dal contratto individuale soltanto in melius e non in pejus. L’interpretazione del contratto collettivo di diritto comune. Al contratto collettivo si applicano i criteri di ermeneutica del contratto di cui all’art. 1362 cc con netta prevalenza dei criteri dell’interpretazione letterale e e dell’interpretazione complessiva e conservativa. La contrattazione collettiva: Nozione ed evoluzione della contrattazione collettiva. La nozione è “complesso di attività poste in essere dalle parti sociali al fine di autoregolamentare i propri interessi, che sfocia nella stipulazione del contratto collettivo ma ricomprende anche tutto l’insieme dei rapporti fra soggetti del sistema di relazioni industriali”. I piccoli imprenditori sono stati divisi in due categorie dalla corte costituzionale, “forti”, ovvero con almeno un lavoratore subordinato, in questo caso l’astensione non rivestirebbe i caratteri dello sciopero ma della serrata. I piccoli imprenditori sprovvisti di lavoratori subordinati vengono definiti “deboli” e possono fruire del diritto di sciopero. La proclamazione del diritto di sciopero. Secondo una parte della dottrina condizione di legittimità dell’esercizio di sciopero è la sua proclamazione da parte di una collettività di lavoratori, siano essi organizzati attraverso un sindacato oppure attraverso forme occasionali e rudimentali come i comitati di agitazione. La proclamazione deve cristallizzare l’esistenza del diritto collettivo, necessario per giustificare la dimensione collettiva. Le due ricostruzione sul diritto di sciopero tuttavia portano a differenti conclusioni in merito alla proclamazione. Differente dottrina infatti, ritenendo il diritto di sciopero individuale e non collettivo, afferma che la proclamazione pertanto non è requisito necessario. La proclamazione dello sciopero ha natura di negozio di autorizzazione ed è necessaria con preavviso nei servizi pubblici essenziali ed a tutela della capacità produttiva dell’azienda. I limiti al diritto di sciopero. Secondo l’opinione prevalente non esistono limiti interni (modalità e forme) al diritto di sciopero e sono quindi consentiti scioperi a singhiozzo, a scacchiera e parziali. Questi tipi di sciopero sono detti anomali. I limiti esterni del diritto di sciopero sono da ricercare prevalentemente nel diritto penale, sono infatti vietati danni agli impianti o alla produttività, da non confondere con i danni alla produzione che invece sono non solo legittimi ma ricercati dagli scioperanti. La distinzione è da ricercare nella durata del danno, il danno alla produzione ha un intervallo temporale approssimativamente corrispondente con quello dello sciopero, il danno alla produttività si può rappresentare con l’esempio dello spegnimento di un altoforno che richiede settimane per il ripristino della sua funzionalità. Il datore di lavoro ha pochi strumenti di difesa dal diritto di sciopero ed il loro esercizio è complesso e delicato. Il primo e principale è quello della messa in libertà dei lavoratori che in sciopero articolato offrono la prestazione resa inutile dallo sciopero dei colleghi. Lo strumento, legittimo se giustificato da ragioni oggettive di inutilizzabilità della prestazione, rappresenta comportamento antisindacale se ritorsivo ed espone il datore ad uno stato di mora credendi con il relativo obbligo non solo alla corresponsione della retribuzione ma anche dei danni. Forme diverse dal diritto di sciopero. Accanto allo sciopero si collocano forme diverse di lotta che non consistono nell’astensione e quindi non integrano il diritto di sciopero. Queste forme sono l’occupazione dell’impresa, il blocco delle merci, il picchettaggio. Inoltre vi è l’ostruzionismo e la non collaborazione: questa strategia consiste in una pedissequa e pretestuosa osservanza di regolamenti direttive ecc. finalizzata a rallentare la produzione. L’ostruzionismo non è illegittimo penalmente, a differenza delle altre forme di lotta, però può esporre il lavoratore a sanzioni disciplinari. Il crumiraggio. I lavoratori che non aderiscono allo sciopero ed eseguono la prestazione lavorativa vengono chiamati dagli altri lavoratori “crumiri”. Il crumiraggio in senso tecnico è altra cosa: è un comportamento datoriale che procede alla sostituzione di un lavoratore scioperante con un altro non scioperante. Il crumiraggio in senso tecnico può essere di due tipi: interno ed esterno. Il crumiraggio interno è legittimo, quello esterno è illegittimo se il contratto per l’utilizzazione della prestazione del crumiro è vietata, legittimo negli altri casi. Finalità del diritto di sciopero: 1. Sciopero a fini contrattuali o economico-professionali (art. 40 cost). ha la finalità di tutelare un interesse economico professionale, l’esempio più classico è quello proclamato in occasione del rinnovo del CCNL è si colloca pienamente all’interno del campo di applicazione dell’art. 40 della costituzione. 2. Sciopero economico-politico (art. 40 cost). si propone il fine di tutelare un interesse a contenuto direttamente o indirettamente economico e al tempo stesso ha un'altra caratteristica, non si pone in contrasto con la controparte datoriale. La rivendicazione, la pretesa, non è rivolta al datore di lavoro, non è nella sua disponibilità è contro i pubblici poteri. La pretesa può essere accolta solo dai pubblici poteri. Es. richiesta di superare il jobs act. Per la corte costituzionale questo tipo di sciopero rientra nel campo di azione dell’art. 40 della costituzione. 3. Sciopero politico (no art. 40 cost., si art. 3 della costituzione). È uno sciopero che si pone in contrasto non solo con i pubblici poteri ma ha anche la pretesa, la finalità di perseguire un interesse non esclusivo dei lavoratori e non collegato al loro status di lavoratore subordinato, persegue un interesse generale. Es. sciopero contro la guerra o a favore dell’ambiente. Per la corte costituzionale non rientra nel campo di applicazione dell’art. 40 ma dell’art. 3 della cost. in quanto l’individuo, scioperante, concorre alla vita nazionale. Questo tipo di sciopero è penalmente irrilevante ma espone sul piano civilistico il lavoratore ad un provvedimento disciplinare per inadempimento. 4. Sciopero di solidarietà. Esprime la solidarietà di un gruppo di lavoratori ad altro gruppo già in sciopero. Es. sciopero dei dipendenti dell’impresa X contro i licenziamenti collettivi dell’impresa Y. La corte costituzionale ha affermato che spetta, caso per caso, al singolo giudice stabilire se lo sciopero è ricollegabile ad un interesse degli scioperanti in solidarietà; in tal caso lo sciopero è legittimo, altrimenti no. L’interpretazione della corte costituzionale lascia tuttavia qualche perplessità in quanto parrebbe applicabile l’art. 3 (concorso alla vita nazionale) anche in questo caso. Lo sciopero nei servizi pubblici essenziali. I servizi pubblici essenziali sono servizi connessi a diritti della persona di rango costituzionale identici al diritto di sciopero, addirittura in alcuni casi prevalenti su di esso. Pertanto in tal caso il diritto di sciopero deve essere bilanciato con gli altri diritti in gioco. Lo sciopero nei servizi pubblici essenziali è uno sciopero particolare perché ancorché proclamato contro il datore di lavoro e per arrecare danno alla produzione colpisce soprattutto gli utilizzatori dei servizi. Nei servizi pubblici essenziali il diritto di sciopero è subordinato al preavviso attraverso comunicazione scritta della durata, modalità di esecuzione e delle motivazioni del diritto di sciopero ed alla esecuzione delle prestazioni indispensabili individuate dal contratto collettivo o dalla commissione di garanzia. Data la specificità dello sciopero nei servizi pubblici essenziali questi sono subordinati anche alla rarefazione degli scioperi (distanza temporale minima fra gli scioperi) e ad una procedura peculiare, la procedura di raffreddamento con l’evidente finalità di favorire la composizione del conflitto con strumenti differenti dallo sciopero. La commissione di garanzia. La commissione di garanzia dello sciopero nei servizi pubblici essenziali è una autorità amministrativa indipendente che esercita poteri di vigilanza sul rispetto delle regole procedimentali che disciplinano l’esercizio del diritto di sciopero nell’ambito particolare dei servizi pubblici essenziali. In particolare: - Valuta l’idoneità delle prestazioni indispensabili. - Individua eventuali violazioni. - Può adottare apposite delibere di invito. - Può adottare la provvisoria regolamentazione delle prestazioni indispensabili ove manchino gli accordi collettivi o non siano ritenuti idonei. - Può applicare le azioni, civili ed amministrative. - Può sollecitare l’ordinanza di precettazione. La serrata. La serrata è il tipico mezzo di lotta sindacale dei datori di lavoro, essa rappresenta, nel nostro ordinamento, una libertà e non un diritto soggettivo. Nella costituzione non ci sono riferimenti alla serrata, ne consegue che non è un diritto, tanto meno un diritto costituzionale. Tuttavia, secondo la corte costituzionale, la serrata può essere ricondotta all’art. 39 cost. e qualificata come libertà. Questa classificazione è importante perché non consente una rilevanza penale della serrata, tuttavia espone il datore di lavoro ad una azione civile in quanto si verrebbe a trovare in una situazione di mora credendi. La repressione della condotta antisindacale. L’art. 28 della l. 300/70 è una norma centrale rispetto a tutto il sistema del diritto sindacale. Introduce un eccezionale strumento di tutela di tutti i diritti che gravitano attorno all’art. 39 c.1 cost. (libertà sindacale). L’art. 39 si proietta in due direzioni, una dell’organizzazione sindacale ed una del singolo. La funzione dell’art. 28. E’ la norma cerniera del sistema di diritti che gravitano attorno alla libertà di organizzazione sindacale prevista dall’art. 39 c. 1 cost. Fornisce alle organizzazioni sindacali dei lavoratori una tutela giurisdizionale accelerata che costituisce un formidabile strumento di difesa, un contropotere effettivo rispetto alla possibilità del datore di lavoro di depotenziare gli strumenti di conflitto. Art. 28 c. 1 l. 300/70: “Qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il pretore del luogo ove è posto in essere il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione di cui al presente comma, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.” L’art. 28 c. 1 è norma in bianco a struttura aperta, il legislatore non fornisce una definizione della condotta antisindacale, non ne fornisce gli elementi esteriori, ne descrive gli effetti. Qualsiasi condotta idonea a produrre gli effetti previsti dalla norma (impedire o limitare l’esercizio della libertà e della attività sindacale e del diritto di sciopero). All’interno della norma c’è anche una definizione teleologica, elemento oggettivo: punibilità di qualsiasi condotta oggettivamente idonea a ledere il bene giuridico protetto dalla norma. Il comportamento, sotto il profilo dell’elemento oggettivo deve essere sufficiente a ledere il bene giuridico ed è, per la giurisprudenza maggioritaria, di per se sufficiente ad integrare la fattispecie. Tale affermazione è dovuta, secondo la stessa giurisprudenza, alla totalmente irrilevanza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa. Altra parte, minoritaria, valorizzando le parole “comportamento diretto a” ritiene che sia necessario il dolo, la volontà cioè di porre in essere un comportamento finalizzato allo scopo. Attualità del comportamento antisindacale. L’ammissibilità del rimedio giurisdizionale è subordinato alla attualità del comportamento antisindacale ancora in atto o alla persistenza degli effetti. “il solo esaurirsi della singola azione lesiva del datore di lavoro non può precludere l’ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, risulti tuttora persistente ed idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell’attività sindacale” La condotta antisindacale: offensività e plurioffensività. Una condotta sindacale può ledere più soggetti distinti, es. il provvedimento disciplinare comminato ad un lavoratore per aver partecipato ad uno sciopero lede certamente il diritto del singolo lavoratore destinatario del provvedimento, altrettanto lede l’organizzazione sindacale che ha proclamato lo sciopero. Profili di offensività della condotta antisindacale: - Lesione di interessi del sindacato: es. violazione dell’obbligo di informazione e consultazione. - Lesione di diritti sindacali dei lavoratori complessivamente considerati: es. violazione del diritto di assemblea. - Lesione dei diritti del singolo lavoratore in relazione a posizioni che coinvolgono interessi sindacali: es. violazione del diritto alla fruizione dei permessi ex art. 23 e 24 stat. lav. Una condotta plurioffensiva lede contemporaneamente il diritto del singolo lavoratore e l’interesse sindacale. La legittimazione attiva – legittimazione ad agire. La legittimazione spetta agli “organismi locali delle associazioni sindacali nazionali”. La scelta ha la finalità di favorire le organizzazioni sindacali di dimensione nazionale, requisito questo da accertare in concreto e non meramente formale. Con organismi locali intende le strutture periferiche e di base prossime al luogo dove la condotta antisindacale sarebbe stata posta in essere. Vi sono dubbi se la legittimazione spetti anche alle RSA/RSU. Escludere i sindacati non nazionali potrebbe essere considerato incostituzionale perché lede la libertà sindacale. La corte costituzionale, si è espressa sull’argomento ritenendo legittimo il requisito imposto dal legislatore perché l’art. 28 è uno strumento eccezionale, rapido ed assistito da norme penali e quindi richiede un uso responsabile. Si deve comunque rappresentare che l’esclusione della procedura prevista dall’art. 28 non preclude tutte le altre azioni civili, amministrative e penali. L’interesse ad agire: indicato in via generale dall’art. 100 cpc l’interesse ad agire deve essere ricostruito in relazione alla struttura aperta della norma e alla definizione teleologica della condotta antisindacale; risulta quindi più ampio di quello previsto generalmente dall’art. 100 cpc. L’interesse ad agire potrebbe essere riconosciuto anche ad un sindacato diverso da quello che ha visto ledere il proprio diritto sindacale. Es. applicazione della sanzione disciplinare ad un lavoratore scioperante durante lo sciopero proclamato dalla OS x. La OS y può avere interesse a che tale comportamento venga represso per evitare timore nei suoi simpatizzati ed iscritti in caso di futura proclamazione di sciopero. Legittimazione passiva. Legittimazione passiva indica il soggetto contro cui può essere proposta l’azione. Legittimato è esclusivamente il datore di lavoro, le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro non hanno alcuna legittimazione. Il procedimento giurisdizionale: “Su ricorso” in luogo di “su citazione” indica che la domanda è direttamente in giudizio non deve essere notificata prima al datore di lavoro. Il procedimento è di carattere sommario ed accelerato, in due giorni, attraverso sommarie informazioni ed il contraddittorio il giudice emette un decreto motivato, non una sentenza ed è immediatamente esecutivo. Il provvedimento emesso dal giudice contiene l’ordine di cessazione della condotta e di rimozione degli effetti. Il decreto deve essere motivato. DIRITTO DEL LAVORO Il diritto del lavoro in senso stretto ha ad oggetto lo studio dei rapporti individuali di lavoro subordinato o parasubordinato. Pertanto rientrano nel diritto del lavoro i rapporti di lavoro caratterizzati dal vincolo di subordinazione ex art. 2094 c.c. ma anche altre forme di lavoro quali quelle del variegato lavoro parasubordinato. L’art. 2094 c.c. istituisce un contratto di diritto comune con peculiarità che lo rendono unico: prima fra tutte l’implicazione della persona fisica del lavoratore nel rapporto di lavoro. Il lavoratore subordinato è perciò, e non soltanto per ciò, un soggetto contrattualmente debole che l’ordinamento, attraverso il diritto del lavoro, si propone di proteggere. Proprio a causa di queste peculiarità il diritto del lavoro si caratterizza per un elevatissimo tasso di inderogabilità, per lo meno in pejus, può essere concessa una deroga in melius. I diritti del lavoratore sono spesso indisponibili per impedire che la condizione di metus in cui si trova il lavoratore subordinato lo porti ad aggirare le norme inderogabili attraverso accordi di disposizione dei propri diritti in senso abdicativo. Il contratto di lavoro subordinato. Collocazione sistematica della disciplina del contratto di lavoro subordinato. Il codice civile del 1865 non conosceva il contratto di lavoro subordinato ed, invero, non conosceva la figura del contratto di lavoro, anche autonomo. Dottrina e giurisprudenza, quando il lavoro inizio a svilupparsi, l’attività di lavoro veniva regolata riconducendo lo scambio fra denaro e lavoro allo schema delle locazioni e, in particolare, allo schema della locazione delle opere e allo schema della locazione dell’opera. Nella prima fattispecie venivano ricondotti i rapporti di lavoro nei quali un soggetto, il lavoratore, metteva a disposizione di un altro soggetto (datore di lavoro), le proprio energie lavorative obbligandosi a lavorare in vista della soddisfazione di un interesse durevole del datore di lavoro. L’obbligazione lavorativa dedotta in contratto era considerata una obbligazione di mezzi. Nella seconda fattispecie, invece, venivano ricondotti tutti i rapporti nei quali il lavoratore si obbligava, nei confronti del datore di lavoro, a realizzare un opera o una servizio. A differenza della prima fattispecie, queste ipotesi erano caratterizzate dalla soddisfazione di un interesse istantaneo del datore di lavoro, rappresentato dalla consegna dell’opus perfectum. Collocazione sistematica della disciplina del contratto di lavoro subordinato. Il codice civile del 1942 conosce la figura del contratto di lavoro subordinato e, tuttavia, tale figura è destinataria di una disciplina che ha una particolare collocazione sistematica. Il codice, infatti, colloca la disciplina del contratto di lavoro subordinato, art. 2094, nel libro La nozione di subordinazione tecnico funzionale. L’espressione alle dipendenze identifica la subordinazione funzionale ed esprime il collegamento funzionale fra la prestazione lavorativa dedotta in contratto e l’interesse dell’imprenditore, da intendersi non come mero interesse del creditore della prestazione lavorativa bensì come interesse dell’impresa oggettivato in una determinata organizzazione aziendale . Un interesse le cui tracce si rinvengono di nuovo nell’art. 2104 c. 1 che disciplina il dovere di diligenza del prestatore di lavoro subordinato. La diligenza viene valutata in 3 parametri: 1. Natura della prestazione dovuta. 2. Interesse superiore della produzione nazionale 3. Interesse dell’imprenditore oggettivato in una determinata organizzazione aziendale. Il lavoratore non si obbliga ad eseguire una prestazione lavorativa ma si impegna a svolgere determinate mansioni collaborando in vista di un determinato risultato produttivo. Attraverso il contratto di lavoro subordinato e l’esercizio del potere direttivo l’imprenditore organizza la prestazione lavorativa e la dirige, coordinandola con gli altri fattori produttivi, verso il fine produttivo perseguito dall’impresa. Il contratto di lavoro subordinato, dunque, ha una funzione organizzativa sottolineata proprio dalla subordinazione funzionale. L’imprenditore, stipulando il contratto di lavoro subordinato, non si procura una prestazione lavorativa, si procura una prestazione lavorativa rispetto alla quale potrà esercitare poteri tali da consentirgli di coordinare la prestazione con tutte le restanti prestazioni ed i fattori produttivi in modo da ottimizzarle per il risultato produttivo. La nozione di subordinazione tecnico-funzionale come criterio discretivo fra autonomia e subordinazione. Art. 2222 c.c. (contratto d’opera) “quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV”. La nozione di subordinazione tecnico funzionale è elemento caratterizzante il contratto di lavoro subordinato e, allo stesso tempo, elemento che distingue il lavoro subordinato da quello autonomo, come si evince dalla lettura dell’art. 2222 c.c.. La subordinazione o la sua assenza è l’elemento distintivo fra il lavoro autonomo ed il lavoro subordinato, tuttavia la distinzione non è sempre netta ed evidente pertanto si pongono problemi di qualificazione dei rapporti che si pongono nella zona grigia al confine fra l’una e l’altra ipotesi. Il problema della qualificazione del rapporto di lavoro. La distinzione fra lavoro subordinato e lavoro autonomo, agevole da enunciare in termini descrittivi ed astratti, pone problemi pratici nei rapporti che si pongono ai confini delle due categorie. La prova dell’assoggettamento non è agevole e visibile sempre. Il dirigente è alter-ego dell’imprenditore, il medico in una clinica eseguirà le proprie prestazioni in scienza e coscienza e non sulle direttive dell’imprenditore. Il metodo di qualificazione del rapporto di lavoro. Nella qualificazione del rapporto di lavoro si deve utilizzare il metodo sussuntivo, basato sulla sussunzione per identità della fattispecie concreta nella relativa fattispecie astratta. Non è possibile applicare il metodo tipologico, secondo il quale la qualificazione avviene per approssimazione ed è sufficiente una coincidenza parziale fra fattispecie concreta e fattispecie astratta. Ne consegue che il corretto criterio di qualificazione del rapporto di lavoro consiste, anzitutto, nell’accertamento dell’elemento caratterizzante della eterodirezione della prestazione lavorativa con conseguente assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro. Ove ciò non sia possibile, si può ricorrere, in via sussidiaria, agli indici sintomatici della subordinazione elaborati dalla giurisprudenza. Gli indici sintomatici della subordinazione: ciascuno di questi indici non è di per se sufficiente a qualificare un rapporto di lavoro, essi vanno valutati complessivamente e posti in relazione fra loro. 1. Direttive. Le direttive sono istruzioni che possono essere impartite, anche in modo molto pregnante dal creditore al debitore in alcune situazioni che tuttavia rimangono certamente rapporti di lavoro autonomo. 2. Distinzione fra obbligazioni di mezzi e di risultato. (avvocato Vs muratore). 3. La erogazione di un compenso fisso e periodico. Anche per consulente o avvocato che sceglie forfettario. 4. La subordinazione socio economica. Situazione che dagli anni 80 e 90 caratterizza anche il prestatore d’opera. 5. L’esecuzione del lavoro all’interno della struttura dell’impresa con materiali ed attrezzature proprio della stessa. Ci sono lavoratori subordinati che non rendono la prestazione lavorativa all’interno della struttura dell’impresa e con mezzi dell’impresa. 6. L’osservanza di un vincolo di orario. 7. Il nome juris. Qualificazione, nome che le parti hanno dato al rapporto. Nessuno degli indici sintomatici da solo considerato può determinare la qualificazione di un rapporto di lavoro di natura dubbia come subordinato, poiché ciascuno degli indici è, di per sé, compatibile anche con il lavoro autonomo oppure con il lavoro autonomo parasubordinato. L’inadeguatezza di ciascun indice, da solo considerato, induce la giurisprudenza a ritenere che l’elemento essenziale della subordinazione sia rappresentato dall’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, di controllo e disciplinare del datore di lavoro e, ove tale elemento non sia facilmente apprezzabile, si può fare ricorso agli indici che devono essere utilizzati e valutati in modo globale come indizi rivelatori della subordinazione nei casi dubbi. Poteri datoriale limiti. La struttura gerarchica dell’impresa: L’art. 2086 cc imprime carattere gerarchico all’impresa, l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori. L’art. 2104 cc impone l’obbligo di diligenza e di obbedienza rispettivamente al c. 1 ed al c. 2. Il prestatore di lavoro subordinato è tenuto ad osservare le disposizioni concernenti l’esecuzione e la disciplina del lavoro, impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende. Queste disposizioni mettono in evidenza che l’impresa viene concepita dal codice civile del 1942 come un organizzazione di tipo gerarchica, piramidale, al cui vertice si colloca il datore di lavoro e dal quale dipendono gerarchicamente tutti i collaboratori che sono legati fra loro da rapporti di sovra-ordinazione e sotto-ordinazione gerarchica. La struttura gerarchica del contratto di lavoro subordinato. La struttura gerarchica dell’impresa si riflette nella struttura del contratto di lavoro subordinato nel quale, infatti, il prestatore di lavoro si obbliga: 1. A lavorare alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. 2. Ad osservare le disposizioni per l’esecuzione e la disciplinare del lavoro impartitegli dall’imprenditore. La posizione di supremazia del datore di lavoro. Dalla stipulazione del contratto di lavoro deriva una posizione di supremazia del datore di lavoro rispetto al lavoratore che si trova invece in una posizione di subordinazione. Si tratta di una posizione di supremazia non di mero fatto, bensì di diritto, connessa, da una parte, alla posizione di supremazia gerarchica evocata dagli artt. 2086 e 2104 cc e, dall’altra parte, alla struttura del contratto di lavoro subordinato. I poteri del datore di lavoro. Molte posizioni giuridiche soggettive che scaturiscono dal contratto di lavoro seguono lo schema classico, proprio delle obbligazioni, del diritto-obbligo, attive-passive. Es. il diritto di ricevere la prestazione lavorativa e l’obbligo di eseguirla; il diritto di ricevere la retribuzione e l’obbligo di erogarla. Lo schema diritto/obbligo non esaurisce le posizioni soggettive che scaturiscono dal contratto di lavoro, il quale, infatti, attribuisce al datore di lavoro una situazione di supremazia di diritto che si sostanzia nell’esercizio di poteri giuridici in senso stretto. Potere giuridico è diverso da diritto perché il titolare del potere giuridico è colui che può compiere un atto giuridico produttivo di effetti, modificativo della sfera giuridica del destinatario senza che questo cooperi facendo/non facendo o dando/non dando; il destinatario del potere giuridico si dice in posizione di soggezione. 1. Potere direttivo. Il potere direttivo è il principale ed essenziale potere del datore di lavoro e consiste nella possibilità di etero-determinare il contenuto della prestazione lavorativa, conformandola alle esigenze dell’impresa alle cui dipendenze la prestazione lavorativa viene resa. Non esiste una norma espressamente dedicata al potere direttivo, che tuttavia viene regolato in molte disposizioni di legge. 2. Potere di controllo. Il potere di controllo può essere esercitato sulla prestazione lavorativa e mai sulla persona del lavoratore. E’ una diretta derivazione del potere direttivo, essendo funzionale alla verifica del rispetto delle direttive impartite dall’imprenditore o dal superiore gerarchico. Il potere di controllo è quello che più di ogni altro, pone l’esigenza di circondare le prerogative datoriali di limiti che siano diretti ad impedire che l’esercizio del potere determini una violazione della libertà e dignità della persona del lavoratore. I principali limiti al potere di controllo sono contenuti negli artt. 2 e ss della l. 300/1970. 3. Potere disciplinare. Viene definito dall’art. 2106 cc “L'inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti può dar luogo all'applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell'infrazione”. E’ un potere di stretta derivazione dei due poteri precedenti. Il potere disciplinare ha una funzione essenzialmente conservativa ed è stato procedimentalizzato dall’art. 7 della l. 300/70. La sanzione disciplinare è di norma conservativa rispetto alla regola generale della risoluzione e risarcimento del danno in caso di inadempimento. Qui il fine ultimo è ridurre l’area di applicazione della risoluzione del contratto (licenziamento). I tre poteri hanno una consequenzialità fra loro, il potere direttivo fa discendere da sé il potere di controllo, da cui discende il potere disciplinare. Implicazione del lavoratore nel contratto di lavoro e necessità di porre dei limiti ai poteri datoriali . Ragionamento parte dalla implicazione del lavoratore nel rapporto di lavoro, dalla implicazione della sua persona, del suo corpo e delle sue energie psico-fisiche. Da tale implicazione discende l’esigenza di circondare i poteri datoriali di limiti che hanno la funzione di impedire che l’esercizio del potere datoriale abbia ad oggetto, anziché la prestazione lavorativa dedotta in contratto la persona del lavoratore in quanto le energie lavorative non sono separabili dal lavoratore. Sono quindi necessari limiti espressi di cui veniva richiesta la deduzione su base interpretativa dalle norme già presenti nell’ordinamento. In seguito è prevalsa la tesi per cui i limiti al potere datoriale debbono essere espressi e sanciti dalla legge, dal contratto collettivo o individuale. La classificazione dei limiti. Non esiste una classificazione legale dei limiti ai poteri datoriali. Attraverso un processo di analisi del materiale normativo è tuttavia possibili operare le seguenti classificazioni: 1. Obblighi di fare e obblighi di non fare: i primi impongono l’esercizio del potere ed i secondi invece lo vietano. 2. Limiti positivi e limiti negativi: i primi introducono un obbligo di fare, vincolando il datore all’esercizio di un determinato potere. Si tratta di limiti molto simili ai precedenti. 3. Limiti finali e limiti procedimentali: i primi concorrono alla determinazione della fattispecie sostanziale imponendo o vietando l’esercizio del potere (promozione, atti discriminatori) i secondi subordinano l’esercizio del potere all’osservanza di un procedimento (art. 7 stat. lav. o licenziamenti collettivi). 4. Limiti interni e limiti esterni: i primi funzionalizzano l’esercizio del potere verso determinati fini (giustificazione del licenziamento); i secondi tutelano gli interessi di soggetti diversi dal titolare del potere (trasferimento del lavoratore). Il limite interno è esemplificabile nel licenziamento, il limite interno consiste nell’imporre di esplicitare la motivazione del licenziamento in modo da funzionalizzare il potere al fine individuato dalla norma, giusta causa, giustificato motivo oggettivo o soggettivo. Il limite esterno tutela interessi diversi da chi esercita il potere, i limiti sono posti a tutela del lavoratore e non del datore. Il potere direttivo e l’inquadramento del lavoratore. Il potere direttivo. E’ il potere di dirigere la prestazione del lavoratore, di eterodeterminarla; eterodirigere la prestazione altrui. L’art. 2094 cc, pur descrivendo la figura del prestatore di lavoro subordinato, definisce il contratto di lavoro subordinato, il quale presenta due caratteristiche: 1. Una delle parti del contratto, il datore di lavoro, è di norma un’impresa che agisce sotto l’ombrello protettivo dell’art. 41 cost.. 2. Una delle due parti del contratto, il lavoratore, mette a disposizione dell’altra parte un bene, le energie lavorative, che non sono separabili dalla persona. Sebbene il datore di lavoro sia di norma un imprenditore che opera quale capo gerarchico dell’impresa (art. 2086 cc “è imprenditore colui che esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi”) e che decide liberamente (art. 41 cost. “l’iniziativa economica privata è libera”) ogni aspetto della vita dell’impresa stessa, l’acquisizione e gestione della forza lavoro non è una proiezione della libertà di iniziativa economica sancita dalla costituzione né dal carattere gerarchico dell’impresa. Al contrario, l’acquisizione e la gestione della forza lavoro, è sempre effetto della stipulazione del contratto di lavoro subordinato ex art. 2094 cc dal quale scaturiscono una serie di posizioni giuridiche, attive e passive, che legano le parti del contratto. Il potere direttivo trova il suo riconoscimento normativo nell’art. 2104 c. 2 cc: il prestatore di lavoro subordinato “deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.”. Altro riferimento al potere normativo si rinviene nell’art. 2094 cc: il prestatore di lavoro subordinato si obbliga a lavorare “alle dipendenze e sotto la direzione”. La natura gerarchica del potere direttivo è desumibile anche dall’art. 2086 cc: l’imprenditore è il capo gerarchi dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori. Il potere direttivo, a norma dell’art. 2104 c. 2 cc, si estrinseca nell’impartire disposizioni concernenti l’esecuzione del lavoro. In ciò consiste il potere di specificazione della prestazione dovuta, il cui contenuto e le cui modalità vengono determinate dal datore di lavoro. Il potere direttivo a norma dell’art. 2104 c. 2 cc si estrinseca anche nell’impartire disposizioni concernenti la disciplina del lavoro. In ciò si sostanzia il potere del datore di lavoro di vincolare la condotta del lavoratore al rispetto delle regole concernenti il regolare ed efficiente funzionamento dell’organizzazione aziendale: potere organizzativo. Il potere di impartire disposizioni che concernono la disciplina del lavoro esprime il profilo organizzativo del potere direttivo e mette in evidenza che quest’ultimo non riguarda unicamente la prestazione lavorativa in senso stretto, bensì anche regole di condotta aventi unicamente una finalità organizzativa. Es. obbligo di indossare una divisa. Il profilo organizzativo, connesso con il parametro dell’interesse dell’impresa di cui all’art. 2104 c. 1 cc, estende il debito di prestazione, a comportamenti estranei alla prestazione ma incidenti sull’organizzazione aziendale. In particolare l’art. 2104 stabilisce che il lavoratore deve eseguirle mansioni assegnate ai sensi dell’art. 2103 cc osservando la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e dall’interesse superiore della produzione nazionale. Potere direttivo: lo jus variandi. Una delle più importanti e peculiari manifestazioni del potere direttivo è lo jus variandi, ossia il potere del datore di lavoro di modificare unilateralmente il contenuto del contratto, in particolare le mansioni del lavoratore ed il luogo di esecuzione della prestazione lavorativa. Potere eccezionale, non ha corrispondenti negli altri contratti le modifiche all’accordo si fanno soltanto con l’accordo di entrambe le parti. Il potere direttivo e l’inquadramento del lavoratore. Altra importante manifestazione del potere direttivo è l’inquadramento del lavoratore il quale, ai sensi dell’art. 96 disp. Att. cc è determinato dalle mansioni di assunzione. Art. 96 dispo att. cc “l’imprenditore DEVE far conoscere al prestatore di lavoro, al momento dell’assunzione, la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in relazione alle mansioni per cui è assunto”. L’inquadramento quindi, seppur espressione del potere direttivo è atto dovuto al momento dell’assunzione. Dall’art. 96 si deduce che ai fini dell’inquadramento del lavoratore rilevano, dunque, le mansioni intere in senso oggettivo e non la professionalità astratta del lavoratore. Rileva dunque il compito in concreto assegnato al lavoratore e non i compiti che in astratto questi potrebbe svolgere. Dal rilievo oggettivo delle mansioni discende: la nullità radicale delle clausole di inquadramento formale (che subordinino l’accesso alla categoria o alla qualifica ad un atto formale di riconoscimento del datore di lavoro); l’irrilevanza della professionalità soggettiva del lavoratore ai fini di eventuali rivendicazioni di inquadramento superiore. Le categorie legali e categorie contrattuali. Le categorie legali sono delineate dall’art. 2095 cc e sono 1. Dirigenti, 2. Quadri, 3. Impiegati, 4. Operai. Le categorie contrattuali sono create dalla contrattazione collettiva in conformità al disposto ex art. 96 c. 2 disp. Att. cc. Es. operaio specializzato, qualificato, comune; impiegato di concetto o di ordine. Dirigenti. La legge non definisce la categoria dei dirigenti, in conformità con quanto stabilito dall’art. 96 c. 2 disp. Att. cc. La giurisprudenza, in passato, aveva elaborato la nozione di dirigente quale alter ego dell’imprenditore. ne utilizza il sistema di geolocalizzazione poiché svolge un servizio di pronto intervento. Secondo la prima interpretazione potrà essere utilizzata la geolocalizzazione come strumento di controllo per entrambi, per la seconda interpretazione la geolocalizzazione potrà essere utilizzata soltanto con caio in quanto soltanto lui utilizza quello specifico strumento. I controlli difensivi. Il controllo difensivo è un concetto di elaborazione giurisprudenziale che identifica l’attività del datore di lavoro diretta ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale. Secondo la giurisprudenza prevalente questi controlli, legittimamente esercitabili anche a mezzo di agenzie investigative, si sottraggono ai limiti posti dagli artt. 2, 3 e 4 stat. lav. in quanto sono finalizzati all’accertamento di illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, devono essere svolti con modalità non invasive e rispetto della dignità dei dipendenti. I controlli devono riguardare illeciti extracontrattuali. La tesi prevalente è stata criticata in quanto il controllo, se non accerta illeciti extracontrattuali si riduce a controllo sulla prestazione es. finto cliente, se scopre che viene sottratto denaro è un controllo dell’illecito e non dell’attività, se non c’è ammanco di denaro è un controllo sulla prestazione lavorativa. Con il nuovo art. 4 è prevista, nel c. 4, la tutela del patrimonio aziendale. Tematica dei controlli difensivi ne sarà influenzata. Art. 5 gli accertamenti sanitari. Sono vietati accertamenti sanitari da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente. Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quanto il datore di lavoro lo richieda. Il datore di lavoro ha facoltà di far controllare la idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico. Le fasce orarie di reperibilità sono 10-13 e 17-19 per i dipendenti privati e 08-13/14-20 per i dipendenti pubblici. In caso di irreperibilità o di rifiuto sottoporsi alla visita di controllo viene applicata una sanzione disciplinare. Art. 6 visite personali di controllo. Si tratta di ispezioni personali, sono state giudicate legittime dalla corte costituzionale, sono tuttavia illegittime salvo eccezioni qualificate da: 1. Indispensabilità, ovvero non ci sono misure alternative che possono essere applicate. 2. Tutela “qualificata” del patrimonio aziendale. La tutela del patrimonio aziendale non deve essere generica ma qualificata in relazione alla qualità delle materie prime, qualità degli strumenti, qualità dei prodotti. Non basta l’esigenza di tutelare il patrimonio ma serve che il patrimonio debba essere tutelato in relazione alle tre caratteristiche (materie prime, strumenti, prodotti). Il lavoratore che rifiuti di sottoporsi attuerà un comportamento con rilievo disciplinare. Il controllo deve essere eseguito all’uscita dai luoghi di lavoro, su soggetti scelti in base a criteri di selezione automatica riferiti alla collettività o a gruppi di lavoro. Devono inoltre essere eseguite nel rispetto della dignità della riservatezza del lavoratore. Il rispetto della dignità e della riservatezza del lavoratore prevale sull’esigenza di tutela del patrimonio aziendale, con la conseguenza che: 1. Sono illegittime forme di controllo idonee a creare un senso di disagio e degradazione psicologica con la conseguenza che in tal caso il rifiuto del lavoratore alla ispezione e perquisizione non rileva sul piano disciplinare. 2. La visita personale di controllo si deve, secondo l’opinione più diffusa, arrestare all’invito al lavoratore ad esibire gli oggetti portati addosso e non può mai tradursi in una perquisizione corporale. La cassazione ha chiarito che l’art. 6 non disciplina l’ispezione sulle cose. Art. 8 il divieto delle indagini sulle opinioni. È fatto divieto al datore di lavoro, sia ai fini dell’assunzione che nel corso del rapporto di lavoro, di effettuare indagini anche a mezzo terzi sulle opinioni politiche, religiose, sindacali del lavoratore. In generale su qualsiasi fatto non attinente la sua idoneità professionale. La norma ha la finalità di tutelare la riservatezza del lavoratore. Interesse del datore di lavoro a conoscere i fatti che incidono sulla capacità professionale. Le imprese di tendenza sono quelle organizzazioni che fanno di una certa tendenza (credo politico, opinione religiosa, opinione sindacale) la tendenza. Ci sono le mansioni neutre, cioè non hanno nulla a che vedere con la tendenza dell’organizzazione e le mansioni di tendenza che, invece, attengono a quella tendenza. In una scuola religiosa insegnamento della materia di religione è di tendenza, la mansione di bidello no. Il divieto di cui all’art. 8 trova applicazione nelle imprese di tendenza soltanto per le mansioni neutre. Il potere ed il procedimento disciplinare. Nozione. Art. 2106 “l’inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione”. Il potere può essere esercitato in conseguenza di qualsiasi inadempimento in senso tecnico e talvolta anche in presenza di comportamenti estranei alla sfera lavorativa e rientranti nella sfera privata. Nei contratti in generale la conseguenza dell’inadempimento è la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno. La funzione del potere disciplinare è pensata come strumento di repressione diverso dalla risoluzione per inadempimento. Il fine è ripristinare il buon funzionamento dell’organizzazione aziendale attraverso l’irrogazione di una pena privata. Si tratta di un potere eccezionale, non esistono altre casistiche in cui una parte può reagire all’inadempimento dell’altra con una sanzione privata. Tale eccezionalità ha imposto al legislatore di limitare il potere in via legislativa imponendo due grandi categorie di limiti: 1. Sostanziali: art. 2106 cc, principio di proporzionalità, presiede al corretto esercizio del potere disciplinare. Il principio in questione impone che: la sanzione irrogata nel caso concreto sia adeguata alla gravità della mancanza imputata al lavoratore. 2. Procedimentali: art. 7 l. 300/70, articolo collocato nel titolo I, protegge la libertà e la dignità del lavoratore; tale collocazione ne rivela la funzione. Le ipotesi di esercizio doveroso del potere disciplinare. In linea generale il potere disciplinare è facoltativo (art. 2106 può dar luogo); il mancato esercizio del potere disciplinare è una manifestazione negoziale, per fatti concludenti. Vi sono tuttavia ipotesi in cui l’esercizio del potere disciplinare è doveroso: in particolare tutte le volte in cui la mancanza del lavoratore si traduce anche nella lesione di interessi distinti da quello del datore di lavoro. Es. inosservanza delle norme sulla sicurezza; violazione delle regole sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. In tali casi il mancato esercizio del potere disciplinare determina o aggrava la responsabilità del datore di lavoro nei confronti dei soggetti danneggiati. Principio di legalità e pubblicità: predisposizione, contenuto e pubblicità del codice disciplinare. L’art. 7 c. 1 stat. lav. “Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano.” L’art. 7 c. 1 dello statuto dei lavoratori impone il rispetto del brocardo “nullum crimen, nulla poena sine lege” in quanto il codice disciplinare deve contenere le disposizioni concernenti le sanzioni disciplinari, le infrazioni a cui quelle sanzioni sono conseguenza e le modalità di contestazione. Il codice disciplinare deve essere affisso in un luogo accessibile a tutti i lavoratori. Il codice disciplinare deve recepire quanto in materia stabilito dai contratti collettivi. Eccezione sono fatti contrari al minimo etico e alle regole del vivere civile, ai doveri essenziali connessi al rapporto di lavoro, al manifesto interesse dell’impresa; fatti integranti illecito penale o rientranti in nozioni legali. La predisposizione del codice disciplinare è condizione per esercitare il relativo potere. Il codice è predisposto unilateralmente dal datore di lavoro e deve recepire la disciplina collettiva. Il grado di analiticità richiesto varia a seconda delle interpretazioni, una prima richiede la elencazione analitica dei comportamenti e delle relative sanzioni, una seconda, meno rigida, ritieni non sia necessario un elevato grado di approfondimento essendo sufficiente una generica individuazione delle violazioni ed un richiamo alla proporzionalità delle sanzioni. Il codice disciplinare deve essere affisso in luogo accessibile a tutti: la specifica disposizione di legge non ammette deroghe o forme alternative. È prevista specificamente l’affissione e pertanto forme diverse sono legittime accanto all’affissione e non in sostituzione di essa, nemmeno se sono forme migliorative quale ad esempio la consegna ad ugni lavoratore del codice. Principio della contestazione: forma, contenuto e tempo della contestazione disciplinare. Art. 7 c. 2 “Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa.” Art. 7 c. 5 “In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale, non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.” La giurisprudenza ha attribuito al principio della contestazione una serie di ulteriori principi. La contestazione deve essere: 1. Specifica. Non è necessario qualificare l’addebito; mettere a disposizione del lavoratore i documenti; esso però deve essere messo in condizione di conoscere la mancanza a lui imputata: è necessario descrivere il comportamento contestato e non procedere alla sua qualificazione. 2. Tempestiva. Da quanto il datore di lavoro ha conoscenza del fatto deve attivarsi. L’inerzia è considerata, per fatti concludenti, una rinunzia all’esercizio del potere. Non esiste una norma che espliciti un termine per l’esercizio, questo deve avvenire in modo immediato, valutata anche l’organizzazione aziendale. 3. Immutabile. A garanzia dei principi precedenti vi è quello di immutabilità. Le contestazioni mosse al lavoratore non possono essere modificate nel corso del procedimento, salvo aprire un nuovo procedimento nel caso vi siano ulteriori addebiti da contestare. È ammessa l’aggiunta di elementi accessori, confermativi, purché non determinino l mutazione della contestazione originaria. Principio del contraddittorio: difesa del lavoratore. Art. 7 c. 2 “Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa.” c. 3 “Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato.” La difesa del lavoratore potrà essere scritta o orale: nella prassi il lavoratore si difende prima di tutto per scritto attraverso delle lettere di giustificazione nelle quali richiede di essere ascoltato. In presenza di giustificazione scritta con richiesta di audizione orale il datore per essere sicuro di rispettare l’art. 7 deve ascoltare il lavoratore. Non è regolato il tempo di chiusura del procedimento con l’irrogazione della sanzione disciplinare se non nel tempo minimo di 5 giorni per i provvedimenti più gravi del rimprovero verbale. Irrogazione della sanzione disciplinare. La legge non impone una forma della irrogazione della sanzione disciplinare, generalmente questa è richiesta dai CCNL ed è comunque bene che sia sempre osservata la forma scritta. La lettera di irrogazione della sanzione non necessita di replicare alle giustificazioni del lavoratore, le dichiara non accolte e irroga la sanzione. Avviato il procedimento questo deve chiudersi tempestivamente, se ciò non avviene si considera abbandonato il procedimento per fatti concludenti e quindi una eventuale successiva sanzione sarebbe sprovvista del prodromico procedimento in quanto apparirebbe scollegata da quello svolto in procedenza chiuso senza sanzione. I CCNL di solito fissano una tempistica specifica. Tipologia delle sanzioni: 1. Rimprovero verbale, 2. Rimprovero scritto, 3. Multa non superiore alle quattro ore della retribuzione base. 4. Sospensione della prestazione e della retribuzione non superiore a 10 giorni. Il divieto di mutamenti definitivi. Per lungo tempo dottrina e giurisprudenza hanno ritenuto che l’art. 7 l. 300/70 non fosse applicabile al licenziamento disciplinare in quanto questo non costituisce sanzione disciplinare per la mancanza del carattere conservativo sia per il divieto di mutamento del rapporto di lavoro. La corte costituzionale ha successivamente dichiarato incostituzionale l’Art. 7 commi 1, 2 e 3 nella parte in cui non sono applicabili al licenziamento disciplinare. Il trasferimento per incompatibilità ambientale: dopo qualche oscillazione iniziale la giurisprudenza prevalente ha finito per ritenere che il trasferimento per incompatibilità ambientale, sebbene riconducibile ad un comportamento negligente del prestatore di lavoro, sia qualificabile come trasferimento per esigenze tecnico-organizzative e quindi legittimo. La sospensione cautelare: è una misura presa dal datore di lavoro durante il periodo del procedimento disciplinare. Al termine, se il fatto viene accertato è irrogata la sanzione ed il pagamento della retribuzione non è dovuta, se al termine del procedimento si giunge ad una archiviazione il lavoratore ha diritto alla retribuzione. Impugnazione della sanzione. L’impugnazione mediante arbitrato facoltativo può avvenire in conformità con quanto previsto dal CCNL ovvero dal c. 6 “Salvo analoghe procedure previste dai contratti collettivi di lavoro e ferma restando la facoltà di adire l'autorità giudiziaria, il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei venti giorni successivi, anche per mezzo dell'associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato, la costituzione, tramite l'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto di accordo, nominato dal direttore dell'ufficio del lavoro. La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio.” In assenza di diversa disposizione nel CCNL l’impugnazione deve avvenire entro 20 gg a pena di decadenza e deve richiedere all’ispettorato territoriale del lavoro la costituzione di una commissione di conciliazione e arbitrato composta di 3 membri. 1 nominato da una delle parti ed uno nominato di comune accordo; in carenza di accordo provvede l’ispettorato del lavoro. L’arbitrato determina la sospensione dell’efficacia del provvedimento disciplinare fino al termine della procedura arbitrale. Di fronte alla richiesta il datore di lavoro ha 3 possibilità: 1. Nominare il proprio arbitro entro 10 gg dall’invito dell’ispettorato del lavoro ed aprire la procedura. 2. Tacere, la sanzione disciplinare rimane sospesa e priva di efficacia. 3. Può adire il giudice entro 10 gg spostando la discussione dalla sede amministrativa a quella giudiziaria. La sentenza di incostituzionalità dei commi 1, 2 e 3 non ha menzionato i commi 6 e 7 quindi al licenziamento disciplinare non si applica sospensione. Gli obblighi del prestatore di lavoro subordinato. L’obbligo di eseguire la prestazione lavorativa. Il primo e fondamentale obbligo del lavoratore subordinato è eseguire la prestazione lavorativa (art. 2094 cc). Ciò si ricava dalla definizione stessa di collaboratore subordinato: colui che si obbliga a prestare il proprio lavoro manuale o intellettuale e trova conferma nell’obbligo di obbedienza alle disposizioni concernenti l’esecuzione del lavoro. Il contenuto dell’obbligo di eseguire la prestazione lavorativa. Ai sensi dell’art. 1346 cc l’oggetto del contratto deve essere lecito, possibile, determinato o determinabile. L’obbligo di eseguire la prestazione lavorativa manuale o intellettuale è un obbligo indeterminabile e quindi l’oggetto del contratto è indeterminabile ed il contratto è nullo se non vengono specificate le mansioni. Le mansioni da un punto di vista descrittivo, sono i compiti che il lavoratore deve eseguire e rappresentano il criterio di determinazione dell’oggetto del contratto. Grazie alle mansioni l’oggetto del contratto è determinato e/o determinabile e dunque il contratto è valido. Le mansioni del lavoratore subordinato e lo jus variandi: art. 2103 cc. Art. 2103 cc. c.1 “Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.” c. 2 “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale.” c. 3 “Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.” c. 4 “Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi.” c. 5 “Nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.” c. 6 “Nelle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa 1. Trasferta, o missione. Comporta un mutamento soltanto temporaneo del luogo di lavoro e non è regolata dalla legge ma dai CCNL. È provvisoria, importa la corresponsione di una indennità di trasferta e non necessita giustificazione. 2. Lavoro itinerante., viene pattuito lo svolgimento della prestazione in luoghi sempre diversi e provvisori. 3. Distacco o comando, determina l’inserimento in altra organizzazione aziendale. I limiti al trasferimento del lavoratore. Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, produttive e organizzative (ragioni oggettive). Le comprovate ragioni oggettive devono sussistere in caso di cambio di unità produttiva, non caso di spostamento interno all’unità produttiva non deve sussistere alcuna giustificazione. Per unità produttiva si intende una articolazione organizzativa idonea a conseguire anche in parte, con autonomia amministrativa e funzionale, lo scopo del datore di lavoro. La comunicazione del trasferimento ha forma libera salvo che sia previsto diversamente dal CCNL. Il preavviso non è previsto dalla legge ma è esigibile per i canoni di buona fede e correttezza previsti nei contratti in generale; di solito è disciplinato dal CCNL. Per l’impugnazione trovano applicazione i termini decadenziali di 60 gg per l’impugnativa stragiudiziale e successivi 120 davanti al giudice del lavoro. Le ragioni del trasferimento devono essere comprovate: è onere del datore di lavoro provarne la sussistenza; devono essere oggettive: devono riguardare l’organizzazione tecnico-produttiva e la migliore dislocazione del personale, con insindacabilità nel merito delle scelte economico organizzative dell’impresa. Le ragioni oggettive possono riguardare sia l’unità di destinazione che quella di provenienza. Limitazioni particolari al diritto datoriale sono: 1. Condizioni personali del lavoratore: alcuni CCNL limitano il trasferimento per alcune ragioni personali o frequentemente una volta raggiunta una certa anzianità. 2. Trasferimento per incompatibilità ambientale. La giurisprudenza ritiene che il trasferimento per incompatibilità ambientale, cioè il trasferimento che trova causa in una mancanza, in un comportamento del lavoratore assoggettato non alla disciplina dell’art. 7 stat. lav. ma all’art. 2103 c.8 e quindi l’incompatibilità originata dal comportamento si deve tradurre in una causa di disfunzione tecnica, organizzativa e produttiva. 3. Divieti di trasferimento. Le condizioni personali possono indurre talvolta il legislatore, talvolta il CCNL a disporre il divieto di trasferimento. Es. dirigente RSA se non previo nulla osta della sua OO.SS.. La durata della prestazione lavorativa. L’orario di lavoro indica sia la quantità della prestazione dovuta sia la sua distribuzione all’interno di un determinato arco temporale. L’estensione oraria della prestazione lavorativa, regolata dalla legge e dal contratto collettivo, è oggetto di accordo delle parti. Una volta determinata, all’atto di assunzione, l’estensione oraria complessiva (es. tempo pieno; part-time o a X ore settimanali) non può essere modificata unilateralmente dal datore di lavoro. Se datore riduce mora credendi e quindi il lavoratore che offre la prestazione ha diritto alla retribuzione. La distribuzione oraria della prestazione lavorativa, invece, è rimessa al potere direttivo ed organizzativo del datore di lavoro, salvo, ovviamente, i limiti di fonte legale e contrattuale. La durata della prestazione lavorativa: la disciplina della durata della prestazione lavorativa trova le sue fonti: 1. Art. 36 c. 2 e c. 3 cost. che, invero, si limitano a stabilire che la durata massima della giornata lavorativa deve essere stabilita per legge, nonché che il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi. 2. D.lgs 66/2003 il quale, attuativo della normativa comunitaria, ha abrogato la disciplina previgente salvo eccezioni espresse. 3. Nei contratti collettivi. La disciplina dell’orario di lavoro, che può essere a tempo pieno o parziale coinvolge molteplici interessi: 1. Interesse del lavoratore ad un carico non eccessivo ed a una distribuzione compatibile con le esigenze di vita privata. 2. Interesse dell’imprenditore ad un ottimizzazione in vista del risultato produttivo. 3. Interesse generale. Es. generalizzata riduzione dell’orario settimanale potrebbe portare un aumento occupazionale. Il D.Lgs n. 66/2003: definizioni. Il D.Lgs 66/2003 contiene una disciplina organica dell’orario di lavoro applicabile a tutti i settori pubblici e privati salvo le eccezioni espresse (gente di mare e personale dell’aviazione civile, forze armate e scuola). L’art. 1 in particolare individua la finalità del provvedimento normativo nell’attuazione della direttiva comunitaria 30/14/CE, come modificata dalla direttiva 2000/30/CE. Le definizioni enunciate sono: 1. Orario di lavoro: qualsiasi periodo di tempo nel quale il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro nell’esercizio delle proprie mansioni, funzioni o incombenze. 2. Periodo di riposo: qualsiasi periodo di tempo non ricompreso nell’orario di lavoro (definizione negativa). 3. Straordinario: periodo di lavoro svolto oltre il normale orario di lavoro. 4. Periodo notturno: periodo di almeno 7 ore consecutive comprendenti l’intervallo tra mezzanotte e le 05.00. 5. Lavoratore notturno: lavoratore che in modo abituale, almeno 80 gg lavorativi l’anno, svolge almeno 3 ore durante il periodo notturno. Orario normale, orario multiperiodale e durata massimo dell’orario di lavoro. L’art. 3, orario normale, fissa l’orario normale di lavoro, senza fissare un orario massimo giornaliero, e autorizza i contratti collettivi a: 1. Prevedere un orario normale inferiore a quello indicato dalla legge. 2. Riferire l’orario normale di lavoro alla durata media della prestazione lavorativa non superiore all’anno (orario multi periodale). L’art. 4 rimette al contratto collettivo la determinazione della durata massima settimanale dell’orario di lavoro e contestualmente stabilisci che la durata massima non può superare le 48, comprensive di straordinario. La durata massima settimanale è un limite medio che deve essere osservato con riferimento ad un arco temporale di 4 anni, elevabile fino a 12 dal contratto collettivo. Il lavoro straordinario. L’art. 5 rimette ai contratti collettivi le modalità di esecuzione dello straordinario che, in ogni caso, deve essere contenuto. Lo straordinario viene retribuito con le maggiorazioni previste dal contratto collettivo. In caso di sistema multiperiodale il lavoro straordinario si ha soltanto se la media oltrepassa l’orario normale di lavoro e non quando tale superamento avvenga in una o più settimane isolate. Ove esiste una disciplina collettiva, lo straordinario può essere imposto unilateralmente. In difetto, il lavoro straordinario: è subordinato ad accordo individuale, salvo le ipotesi eccezionali contemplate dall’art. 5 (es. cause di forza maggiore) ed è soggetto al limite massimo delle 250 ora annue. Il riposo giornaliero. L’art. 7 disciplina il riposo giornaliero che viene quantificato in 11 ore consecutive ogni 24 ore. Nelle attività caratterizzate da periodi frazionati di lavoro o da regime di reperibilità il principio della consecutività può subire eccezioni. La mancata determinazione espressa della durata massima giornaliera dell’orario di lavoro e l’art. 36 c. 2 cost: risulta rispettato il dettato costituzionale poiché dalla disciplina del riposo giornaliero si ricava la durata massima giornaliera dell’orario di lavoro quantificabile in 13 ore lavorative. Pause e riposi settimanali. Art. 8 pause: in caso di lavoro giornaliero che ecceda le 6 ore di lavoro, il lavoratore ha diritto ad un “intervallo di pausa” secondo quanto stabilito dal contratto collettivo ovvero in mancanza di almeno 10 minuti. Art. 9: riposi settimanali. Salvo le eccezioni espresse, ogni sette giorni di lavoro il lavoratore ha diritto ad un riposo settimanale di 24 ore consecutive. Il riposo settimanale di 24 ore di regola deve coincidere con la domenica e deve essere cumulato con il riposo giornaliero. Il periodo di riposo consecutivo è calcolato come media in un periodo non superiore a 14 gg. Le ferie annuali. Il lavoratore ha diritto, ai sensi dell’art. 36 c. 3 cost. ad almeno 4 settimane di ferie annuali, due settimane devono essere fruite nell’anno di maturazione, in modo continuativo se il lavoratore ne faccia richiesta. Due settimane possono essere fruite nei 18 mesi successivi alla maturazione. Le ferie non sono monetizzabili mediante corresponsione di indennità sostitutiva, fatta eccezione per la risoluzione del rapporto di lavoro con ferie residue. L’art. 10 D.Lgs 66/2003, lascia fermo quanto stabilito dall’art. 2109 cc e quindi: la collocazione del periodo di ferie rientra nel potere direttivo ed organizzativo del datore di lavoro, il quale deve tenere conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del dipendente. Il lavoro notturno. Definizioni: 1. Lavoro notturno: quello svolto in un periodo di almeno 7ore consecutive comprendenti l’intervallo fra mezzanotte e le cinque del mattino. 2. Lavoratore notturno: colui che svolge in via non eccezionale (almeno 80 gg all’anno) almeno 3 ore del suo orario nel periodo notturno. Sono presenti obblighi di consultazione sindacale per l’introduzione del lavoro notturno e per la protezione del lavoratore. Sono previste visite mediche obbligatorie, preventive e periodiche, l’adozione di specifiche misure di prevenzione e protezione. Il lavoratore notturno in caso di sopravvenuta inidoneità ha diritto al trasferimento a lavoro diurno. I diritti del lavoratore subordinato: la retribuzione. La retribuzione rappresenta il compenso che il prestatore di lavoro subordinato percepisce in cambio della svolgimento della prestazione lavorativa. Lo si evince dalla definizione di lavoratore subordinato come colui che si obbliga ad un facere verso un pagamento di una retribuzione. La retribuzione rappresenta la principale obbligazione che grava sul datore di lavoro e, al contempo, il principale diritto del prestatore di lavoro subordinato. Dal punto di vista della struttura del contratto, la retribuzione costituisce, insieme alle mansioni, l’oggetto del contratto. Il contratto di lavoro subordinato pone problemi di indeterminatezza dell’oggetto risolti con l’attribuzione delle mansioni ma ne pone anche per l’indeterminatezza della retribuzione se non concordata. Tuttavia in tal caso questa è stabilita dal CCNL o in carenza dal giudice secondo equità tenendo conto, ove occorra, del parere delle associazioni professionali; la sua indeterminatezza non comporta la nullità del contratto come accade per le mansioni. La nozione di retribuzione proporzionale e sufficiente. L’art. 36 c. 1 cost. stabilisce che il prestatore di lavoro subordinato ha il diritto di percepire una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro eseguito e, in ogni caso, sufficiente a garantire a se stesso ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La norma costituzionale appena richiamata introduce il principio della giusta retribuzione che, per essere tale, deve essere proporzionale e sufficiente. Il criterio della proporzionalità vincola la determinazione della retribuzione sotto il profilo della corrispettività, il quale, secondo la norma costituzionale, deve tenere conto di due distinti parametri: la quantità e la qualità del lavoro. Il primo importa che la retribuzione di un part time al 50% sarà legittimamente ridotta a metà di quella di un full time. La qualità del lavoro vincola la determinazione della retribuzione al rispetto del contenuto professionale della prestazione lavorativa, rendendo legittimo e giustificato, anche sul piano costituzionale, la differenziazione della retribuzione in ragione del livello di inquadramento e della categoria di appartenenza. La nozione di retribuzione proporzionale e sufficiente. Il criterio della sufficienza aspira a mitigare quello della corrispettività che, secondo il costituente, non deve necessariamente essere piena, avendo comunque la retribuzione la funzione di realizzare il principio di eguaglianza ex art. 2 cost. Il carattere immediatamente precettivo dell’art. 36 cost. L’art. 36 della costituzione, secondo una interpretazione risalente e, soprattutto, costante, l’art. 36 cost. è norma immediatamente precettiva, ossia norma costituzionale che vincola senza necessità di una norma di legge ordinaria attuativa. Ne consegue che la retribuzione pattuita dalle parti, ove non sia idonea a soddisfare il precetto costituzionale, deve essere considerata nulla per contrasto con una norma imperativa di rango costituzionale. La determinazione della giusta retribuzione ex artt. 2099 cc e 36 cost. Muovendo dalla considerazione del carattere immediatamente precettivo dell’art. 36 cost. e della conseguente nullità della clausola del contratto individuale che determini la retribuzione in difformità con i precetti della norma costituzionale, si è giunti ad introdurre un meccanismo di rideterminazione giudiziale della retribuzione. Secondo un orientamento molto risalente, infatti, la fattispecie della retribuzione nulla per contrasto con l’art. 36 cost. può essere equiparata alla fattispecie, tipizzata e disciplinata dall’art. 2099 c. 2 cc secondo il quale, in mancanza di accordo delle parti, la retribuzione deve essere determinata dal giudice. In altri termini, il giudice, in forza del combinato disposto ex artt. 2099 c. 2 e 36 cost. può dichiarare la nullità della retribuzione percepita dal lavoratore, se questa retribuzione sia inferiore al minimo costituzionale, e rideterminarne il contento della retribuzione rendendola conforme ai criteri di cui all’art. 36 Cost. Il contratto collettivo come parametro per la determinazione della giusta retribuzione. Il meccanismo di rideterminazione della giusta retribuzione sopra illustrato incontra il limite della individuazione di parametri oggettivi per orientare la valutazione giudiziale, non potendo questa essere rimessa alla integrale discrezionalità del giudice. Un orientamento giurisprudenziale molto risalente e costante ritiene che il parametro oggettivo alla stregua del quale determinare la retribuzione sia il contratto collettivo. Il giudice, in altri termini, deve accertare il contenuto della prestazione lavorativa svolta dal lavoratore e determinare la retribuzione in ragione delle tabelle retributive del contratto collettivo del settore merceologico cui è riconducibile l’attività del datore di lavoro. Natura costitutiva della sentenza. La determinazione della retribuzione attraverso il parametro del contratto collettivo non pone problemi rispetto all’efficacia soggettiva del contratto collettivo. Il meccanismo della retribuzione ai sensi degli artt. 2099 c. 2 cc e 36 cost. infatti, non ha come presupposto che il rapporto di lavoro sia assoggettato alla disciplina collettiva utilizzata dal giudice ed anzi, trova applicazione proprio laddove il contratto individuale non sia regolato dal contratto collettivo. L’applicazione del contratto collettivo quale parametro di riferimento non determina la violazione dell’art. 39 c. 2 cost. perché la sentenza che ridetermina la retribuzione non applica al rapporto di lavoro il contratto collettivo, si limita ad utilizzarlo come parametro esterno per orientare la valutazione giudiziale. In altri termini non ha efficacia dichiarativa (non accerta che a quel rapporto individuale si applica il contratto collettivo) bensì ha natura costitutiva (cioè la fonte di quantificazione della retribuzione è la sentenza non il contratto collettivo. Se il contratto collettivo è applicabile il lavoratore può chiedere l’applicazione. La scelta del contratto collettivo. In presenza di una pluralità di contratti collettivi, anche di diverso livello, si pone il problema di determinare quale sia il corretto parametro di determinazione della giusta retribuzione da utilizzare in concreto. Secondo l’orientamento prevalente il giudice, in tali casi, può scegliere discrezionalmente il contratto collettivo da utilizzare e può scegliere anche un contratto collettivo aziendale, purché la scelta sia accompagnata da una adeguata motivazione censurabile in cassazione. Inesistenza di una nozione legale unitaria di retribuzione. Nel nostro ordinamento esistono molteplici nozioni di retribuzione, ciascuna utile ai fini dell’applicazione dell’istituto di riferimento: calcolo del TFR c’è definizione, ai fini fiscali c’è una definizione e sono diverse fra loro. Non esiste un principio di omnicomprensività della retribuzione, alla stregua del quale attribuire natura retributiva ad ogni emolumento percepito dal lavoratore ed ogni elemento della retribuzione trova la sua regolamentazione e modalità di calcolo nella fonte legale o collettiva di riferimento. Forma e tipi di retribuzione. L’art. 2099 cc distingue diversi tipi di forme di retribuzione e, le disposizioni successive, delineano la relativa disciplina, oggi integrata da altre fonti legali e collettive. Le forme ed i tipi di retribuzione individuati dall’art. 2099 cc sono: 1. La retribuzione a tempo. È la retribuzione di gran lunga più diffusa. Con tale forma di retribuzione l’importo dovuto al prestatore di lavoro subordinato viene quantificato in ragione dell’estensione temporale della prestazione lavorativa. La retribuzione a tempo, evidentemente, prescinde dal risultato produttivo riconducibile alla prestazione svolta dal lavoratore, fermo restando il rispetto dei parametri di diligenza di cui all’art. 2104 c. 1 cc. Garantisce la piena realizzazione della giusta retribuzione ex art. 36 cost. 2. La retribuzione a cottimo. Prende come base di calcolo della retribuzione il risultato ottenuto dal prestatore di lavoro, di cui si misura, in tal modo, il rendimento rappresentato dal risultato ottenuto. Nella retribuzione a cottimo il rendimento del lavoratore è tuttavia misurato da parametri, rappresentati dalle tariffe di cottimo. Conseguentemente, anche nella retribuzione a cottimo la determinazione della retribuzione tiene conto dell’elemento temporale, nel senso che non si retribuisce soltanto il risultato ottenuto, bensì il lavoro normalmente occorrente, nell’unità di tempo, per raggiungere quel risultato. A ben vedere retribuito è il lavoro occorrente per unità di risultato. Il cottimo può essere individuale o collettivo. È obbligatorio nel lavoro a domicilio; quando il lavoratore è obbligato ad osservare un determinato ritmo produttivo; quando la Il problema dell’erogazione mensile del TFR. È stata sperimentata l’erogazione mensile del TFR, in via sperimentale negli anni fra il 2014 e il 2018. Durante tale periodo l’erogazione mensile era certamente legittima, prima e dopo tale parentesi, l’erogazione mensile presenta dubbi di legittimità. Secondo un’opinione interpretativa, infatti, il TFR non potrebbe essere anticipato mensilmente in busta paga per almeno due ordini di motivi: 1. Ragione di carattere, per così dire, testuale. Il TFR è un diritto che sorge in occasione “della cessazione del rapporto di lavoro” e la cessazione del rapporto di lavoro, dunque, rappresenta elemento costitutivo del diritto, in assenza del quale il diritto non è ancora sorto e, dunque, non può essere soddisfatto; 2. Perché l’anticipazione mensile del TFR entra in contrasto con la funzione di retribuzione differita con funzione previdenziale di questo istituto. Secondo altra opinione, invece, l’anticipazione mensile del TFR dovrebbe essere considerata legittima, perché la “cessazione del rapporto di lavoro” costituisce elemento costitutivo del diritto del lavoratore di pretendere il pagamento del TFR, ma non impedisce alle parti del contratto individuale di prevedere, quale condizione di migliore favore per il lavoratore, il riconoscimento al suo diritto di riscuotere mensilmente. Il trattamento fiscale e previdenziale del TFR. Sotto il profilo fiscale e previdenziale, il TFR viene trattato in modo diverso dalla normale retribuzione. In particolare: sotto il profilo previdenziale il TFR non è assoggettato a contribuzione e sotto il profilo fiscale il TFR non è assoggettato all’IRPEF ordinaria bensì a tassazione separata ai sensi dell’art. 17 TUIR. La tassazione separata sconta un aliquota fiscale media più vantaggiosa di quella ordinaria. L’indennità a causa di morte.Il TFR spetta in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro e, dunque, spetta in caso di morte. Anzi, in caso di morte il datore di lavoro è anche tenuto a corrispondere l’indennità sostitutiva del preavviso di cui all’art. 2118 cc. In tale ipotesi, l’individuazione dei soggetti che hanno diritto di riscuotere il TFR e l’indennità sostitutiva del preavviso deve essere effettuata alla stregua dell’art. 2122 cc che, in particolare, stabilisce che tali emolumenti spettano: Al coniuge e ai figli nonché, qualora convivevano con il lavoratore defunto, ai parenti entro il terzo grado e agli affini, ovvero in mancanza in accordo fra essi o in base al bisogno. Ai soggetti individuabili secondo le norme della successione legittima. Si discute in dottrina se il diritto dei soggetti di cui al primo comma sia un diritto jure proprio attribuito dalla norma (opinione prevalente) oppure di un diritto jure successionis che deroga alle normali regole successorie. In entrambi i casi, in ogni caso, la ripartizione fra i soggetti di cui al primo comma non avviene secondo le regole della successione legittima bensì in base all’accordo delle parti ovvero, in mancanza, in ragione del bisogno di ciascuno. Il diritto al trattamento economico delle opere dell’ingegno e delle invenzioni. Ai sensi dell’art. 2590 cc il prestatore di lavoro subordinato ha diritto di essere riconosciuto come autore delle invenzioni fatte nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro. In aggiunta a questa tutela, l’art. 64 D.Lgs n. 30/05 prevede tre distinte fattispecie. 1. L’invenzione di servizio: ossia l’invenzione fatta dal lavoratore nell’esecuzione di un rapporto di lavoro avente ad oggetto l’attività inventiva. In tale ipotesi, al prestatore di lavoro spetta soltanto il diritto di cui all’art. 2590 cc. (essere riconosciuto autore dell’invenzione). 2. L’invenzione d’azienda: ossia l’invenzione fatta dal lavoratore in costanza di un rapporto di lavoro ma non nell’ambito di un rapporto avente ad oggetto l’attività inventiva. In tale ipotesi il lavoratore, oltre al diritto ad essere riconosciuto come autore ai sensi dell’art. 2590 cc ha diritto ad un premio equo se, e soltanto se, il datore di lavoro conseguirà il brevetto relativo all’invenzione. 3. L’invenzione occasionale: ossia l’invenzione fatta dal lavoratore al di fuori dello svolgimento del rapporto di lavoro ma rientrante, però, nell’ambito di attività del datore di lavoro. In tal caso la legge riconosce al datore di lavoro un diritto di prelazione per l’uso dell’invenzione e per l’acquisto del brevetto. Il diritto di svolgere le mansioni. Lo svolgimento della prestazione lavorativa e, più in particolare, lo svolgimento diligente delle mansioni, rappresenta un obbligo del prestato di lavoro derivante dalla stipulazione del contratto. Tradizionalmente, pertanto, la dottrina configurava un diritto allo svolgimento della prestazione soltanto nei rapporti in cui l’esecuzione della prestazione lavorativa fosse funzionale alla conservazione e accrescimento della professionalità (apprendistato, lavoro sportivo, lavoro artistico). La giurisprudenza, però, muovendo dalla tutela della professionalità derivante dal diritto alle mansioni di cui all’art. 2103 cc, ha ricavato un vero e proprio diritto di tutti i lavoratori a svolgere le mansioni, con conseguente divieto allo svuotamento delle mansioni e alla riduzione del lavoratore in uno stato di inattività. Il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero. I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la propria opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della costituzione e delle norme della presente legge. Sono connessi alla libertà di opinione: 1. Il divieto di indagini sulle opinioni: art. 8 2. Il divieto di atti discriminatori art. 15 3. Il diritto di svolgere opera di proselitismo art. 26 Il diritto alla riservatezza. Il diritto alla riservatezza si ricava dal divieto di indagini sulle opinioni, oggi viene tutelato dalla normativa in tema di privacy. Il diritto all’integrità psicofisica. Art. 2087 cc “l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica siano necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. La violazione dell’obbligo di sicurezza incombe sul datore di lavoro in forza dell’art. 2087 cc è fonte di responsabilità contrattuale e non extracontrattuale, ne consegue che: 1. La possibilità del lavoratore di sollevare l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 e cioè di rifiutare la prestazione. 2. L’applicazione del regime della prescrizione decennale in luogo di quella quinquennale ex art. 2043 cc. Beni giuridici protetti dalla norma: integrità fisica (patrimonio anatomico e psichico), personalità morale (dignità della persona). I parametri dell’obbligo generale di sicurezza: 1. La particolarità del lavoro: impone di adottare misure in funzione dei rischi specifici connessi alla prestazione lavorativa resa in una data organizzazione aziendale. 2. L’esperienza impone di adottare misure in funzione degli incidenti già avvenuti e delle malattie professionali già verificatesi. 3. La tecnica impone di adottare misure comunque idonee in ragione del patrimonio tecnico-scientifico riferibile ad un determinato settore produttivo, in continuo aggiornamento. Ne consegue che il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le misure, sia tipiche (previste dalla normativa antinfortunistica) sia atipiche (richieste dai tre parametri legali). Il diritto all’integrità psicofisica. L’art. 2087 cc costituisce il fulcro del diritto all’integrità psicofisica e del correlativo obbligo del datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie per salvaguardare il diritto dei lavoratori. Tuttavia, accanto all’art. 2087 cc si colloca un’articolata disciplina di settore, anche di derivazione comunitaria, oggi contenuta nel T.U. sicurezza. Il trasferimento d’azienda. Il trasferimento d’azienda e gli effetti sul rapporto di lavoro. Il datore di lavoro è libero di cedere la propria azienda, di affittarla o, comunque, di trasferirla. Tale libertà, indubbiamente, rientra nelle facoltà della libertà di iniziativa economica sancita dall’art. 41 cost.. Le vicende traslative che coinvolgono l’azienda producono effetti sui rapporti di lavoro, dovendosi stabilire se ed a quali condizioni questi continuino con il cedente oppure con il cessionario. La nozione di azienda. L’azienda viene definita dall’art. 2555 cc come il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa. La nozione di azienda emergente dall’art. 2555 cc presenta una spiccata componente materiale poiché incentra la definizione della fattispecie sui beni. La nozione di azienda enunciata dall’art. 2555 cc differisce da quella enunciata dall’art. 2113 cc per delimitare il campo di applicazione della disciplina degli effetti del trasferimento d’azienda sui rapporti di lavoro. Il trasferimento d’azienda e di parte d’azienda. Art. 2112 c. 5 prima parte: “ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda.” La nozione di azienda enunciata dall’art. 2112 si incentra non sui beni materiali bensì sull’attività economica che è un bene immateriale, è una definizione dinamica, non statica come quella del 2555 cc. Requisiti dell’azione sono essere un attività economica con o senza scopo di lucro, preesistere e conservare la propria identità. La tipologia dell’operazione posta in essere è del tutto irrilevante, la disciplina vale anche per i trasferimenti temporanei. Il trasferimento di parte dell’azienda. Art. 2112 c. 5 seconda parte. “Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento.” La nozione pone un il problema della preesistenza e della conservazione della propria identità alla luce della possibilità di identificazione al momento del trasferimento. L’attività economica organizzata descritta nel suo complesso deve preesistere al trasferimento e conservare la sua identità nel trasferimento. 2 requisiti non ribaditi quando si parla di ramo d’azienda, il legislatore ci dice che la parte di azienda può essere identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento. Questo porta parte della dottrina a sostenere che il requisito della preesistenza e della conservazione della propria identità riguarda il trasferimento nel suo complesso e non anche il trasferimento di parte d’azienda potendo la parte d’azienda essere identificata al momento della cessione. Secondo altra parte, preferibile, in realtà al di la dell’apparenza iniziale anche la parte d’azienda è caratterizzata dal requisito della preesistenza e dal requisito della conservazione della identità nel trasferimento. Questo perché la parte di azienda è una articolazione funzionalmente autonoma di attività economica organizzata. Se è articolazione funzionalmente autonoma di attività economica organizzata altro non è che una articolazione funzionalmente autonoma di quell’attività economica organizzata rispetto alla quale vi è il mutamento della titolarità. Altre vicende soggettive. Nella pratica delle operazioni commerciali esistono una variegata ipotesi di vicende che non costituiscono trasferimento d’azienda e che, conseguentemente non sono assoggettate alla relativa disciplina. Le vicende societarie che non incidono sulla titolarità di azienda sono la trasformazione societaria, la cessione delle quote di partecipazione, la successione nell’appalto, ossia il subentro in un appalto da parte di un nuovo imprenditore; in questi casi non vi è alcun mutamento della titolarità. Le garanzie del lavoratore in occasione del trasferimento d’azienda. Art. 2112 c. 1 cc “ in caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed i lavoratore conserva tutti i diritti che ne conseguono”. In caso di trasferimento non accade nulla al lavoratore o al contratto. Avviene il trasferimento automatico in deroga all’art. 1406 e ss cc che regolano tutti i contratti in generale sulla cessione in cui deve esservi il consenso di cessionario, cedente e ceduto. La continuazione del rapporto quindi è una forma di garanzia per il lavoratore, è un effetto legale, previsto dal primo comma, che non richiede alcuna manifestazione di volontà negoziale e, dunque, neanche il consenso del lavoratore. È per effetto legale che, nel trasferimento di parte d’azienda, si produce solo nei confronti dei lavoratori addetti alla parte d’azienda trasferita. Il lavoratore con la continuazione del rapporto che subisce una modificazione del solo lato soggettivo del contratto mantiene fermo ogni altro aspetto quali, ad esempio, i trattamenti retributivi e normativi, eventuali condizioni di miglior favore, l’anzianità di servizio, un eventuale superminimo. Il lavoratore mantiene anche i diritti di credito a prescindere dalla loro iscrizione o meno a bilancio. Art. 2112 c. 2. “il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Con le procedure di cui agli articoli 410 e 411 del codice di procedura civile il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.”. Si tratta di una forma di garanzia del lavoratore nel caso in cui la cessione avvenga verso una società meno solida. I crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento sono assistiti da garanzia solidale di cedente e cessionario. Il lavoratore può liberare il cedente. Art. 2112 c. 4 “il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscano una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all’art. 2119 primo comma” ovvero il lavoratore può dimettersi senza preavviso e pretendere il pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso. Il legislatore riconosce al lavoratore il potere di dimettersi con gli effetti della giusta causa, non riconosce neanche nel trasferimento di parte d’azienda il diritto di opposizione. L’eventuale impugnazione del trasferimento individuale a seguito del trasferimento d’azienda, in quanto il lavoratore contesta di far parte del ramo d’azienda ceduto, è soggetto ai termini decadenziali ex art. 32 l. n. 183/2010, ovvero 60 giorni per impugnativa stragiudiziale e 180 giorni, decorrenti dalla prima, per l’impugnativa giudiziale. Garanzie collettive dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda. Art. 2112 c. 3 cc “Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. L’effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello.” La sostituzione con contratti collettivi applicabili all’azienda pone problemi interpretativi: l’effetto sostitutivo si produce soltanto fra contratti dello stesso livello ma ai fini della sostituzione è sufficiente che il cessionario applichi un differente contratto collettivo oppure se sia necessario, anche in presenza di tale differente contratto collettivo, applicare il contratto collettivo del cedente fino a scadenza, salvo che non vi sia un contratto collettivo di ingresso che giustifichi la immediata sostituzione. Le procedure di informazione e consultazione sindacale. L’art. 47 della l. n. 428/90 introduce una procedura di informazione e consultazione sindacale applicabile alle imprese con più di 15 dipendenti. Il cedente e il cessionario devono, almeno 25 gg prima che sia raggiunta un’intesa vincolante, comunicare per iscritto alle OO.SS. le seguenti informazioni: - La data del trasferimento; - I motivi del trasferimento; - Le conseguenze economiche, sociali e giuridiche per i lavoratori; - Le eventuali misure da adottare nei confronti di questi ultimi. Tale comunicazione è prodromica ad un esame congiunto: l’esame congiunto, se richiesto dall OO.SS., è esclusivamente espositivo in quanto non vi è un obbligo a trattare e partecipano, oltre alle OO.SS. anche il cedente ed il cessionario. La violazione dell’obbligo di avvio della procedura di informazione e consultazione sindacale in occasione del trasferimento d’azienda integra una violazione dell’art. 28 stat. lav. per comportamento antisindacale. Il trasferimento d’azienda e il licenziamento. “Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé autonomo motivo di licenziamento.” Ne consegue che la norma vieta il licenziamento per trasferimento d’azienda, ma non impedisce né al cedente né al cessionario di ricorrere al licenziamento ove ne ricorrano i presupposti di legge e la sua giustificazione non sia riconducibile al trasferimento d’azienda. Il trasferimento d’azienda in crisi. Se l’azienda è in crisi, il trasferimento dell’azienda è visto dal legislatore come uno strumento potenzialmente idoneo a salvaguardare i posti di lavoro attraverso il passaggio ad un imprenditore disposto ad effettuare il risanamento. Per questa ragione, il legislatore stabilisce che in caso di trasferimento d’azienda in crisi, previa stipulazione di un accordo collettivo, possano disapplicarsi tutte o parti delle garanzie poste dall’art. 2112 cc. Ipotesi di aziende in crisi: 1. Aziende di cui sia stato dichiarato lo stato di crisi con provvedimento amministrativo. 2. Aziende in amministrazione straordinaria con continuazione dell’attività. 3. Aziende in concordato preventivo. 4. Aziende con accordo di ristrutturazione debiti omologato. - Impossibilità sopravvenuta della prestazione (in generale tutti i contratti trova applicazione nel rapporto di lavoro con una precisazione: ricondurre ogni ipotesi di impossibilità al recesso. Quindi a seguito di impossibilità sopravvenuta servono dimissioni o licenziamento). I licenziamenti individuali: le fattispecie. L’evoluzione della normativa della disciplina dei licenziamenti individuali. Originariamente era prevista soltanto una disciplina omogenea per i licenziamenti e le dimissioni, ad nutum, ex art. 2118, e per giusta causa ai sensi dell’art. 2119. Dopo la II guerra mondiale comincia a mutare il contesto socio-economico e con esso la sensibilità della dottrina del tempo rispetto al contratto di lavoro subordinato nel nuovo contesto comincia ad affermarsi la consapevolezza che fra datore e lavoratore vi è una posizione contrattuale ben differente ed il lavoratore non può essere trattato alla stregua del datore di lavoro. Acquisita la consapevolezza si avvia una fase di riforma della disciplina sui licenziamenti con tappe principali. Inizia un accrescimento delle tutele previste per il lavoratore: 1. Legge 604/1996: pone limiti al recesso del datore di lavoro, introduce: a. limiti sostanziali (in particolare è necessaria l’esplicitazione del motivo del recesso). b. limiti formali (forma scritta, modalità della motivazione, onere probatorio). c. Tutela obbligatoria (tutela nel caso il licenziamento sia viziato nella forma o nella sostanza). 2. Legge 300/1970: introduce la tutela reale, diventa inefficace il licenziamento viziato. 3. Legge n. 108/1990: ridefinizione del campo di applicazione della l. n. 604/1966, legge la cui importanza spesso viene sottovalutata. È una legge fondamentale non solo modifica l’art.18 stat. lav. Ma ridefinisce il campo di applicazione della legge 604/66 che, alla sua promulgazione valeva soltanto per le imprese con più di 35 dipendenti. Il principio di necessaria giustificazione viene esteso a tutti salvo quelli nei quali continua ad applicarsi il licenziamento ad nutum. Successivamente, dal 2012, il cambiamento di contesto economico, l’economia globale, porta ad una inversione di tendenza ed a una riduzione delle tutele: 1. Legge 92/2012, (Monti-Fornero), depotenziamento dell’art. 18 stat. lav., riscrive totalmente l’art. 18 ed in luogo dell’unica tutela, la tutela reale vengono introdotti 4 tipi di tutela, la tutela reale viene relegata a ipotesi residuale ed eccezionale rispetto alla tutela indennitaria. 2. D. Lgs. N. 23/2015 (governo Renzi – c.d. jobs act), porta al superamento e la disapplicazione dell’art. 18, istituisce il c.d. “contratto a tutele crescenti”; il decreto contiene una disciplina organica della materia dei licenziamenti e supera l’art. 18, ma non lo abroga perché il D. Lgs 23/2015 trova applicazione soltanto per rapporti instaurati dal 07/03/2015. Le fattispecie di licenziamento individuale. I provvedimenti legislativi che si sono susseguiti nel tempo non hanno abrogato, se non parzialmente, i provvedimenti legislativi precedenti che sono tuttora vigenti. La materia dei licenziamenti è quindi contenuta in tutti i testi normativi citati. Lo stesso D.Lgs 23/2015 non ha abrogato la disciplina previgente che continua ad applicarsi ai rapporti instaurati prima del 7 marco 2015. Peraltro, dopo la legge n. 604/1966, nessun provvedimento è intervenuto sulla definizione delle fattispecie di licenziamento, con la conseguenza che le fattispecie di riferimento erano e continuano ad essere: - Licenziamento ad nutum, art. 2118 cc. - Licenziamento per giusta causa, art. 2119 cc. - Il licenziamento per giustificato motivo, soggettivo o oggettivo. Il licenziamento ad nutum. Il licenziamento ad nutum può essere intimato senza obbligo di motivazione ed è soggetto a preavviso: - Assenza dell’obbligo di motivazione. - Obbligo del preavviso nei termini e nei modi previsti dal contratto collettivo che si sostituisce alle norme corporative, agli usi e all’equità richiamati dall’art. 2118 cc. Il preavviso di licenziamento: - Ha la funzione di consentire al lavoratore di trovare una nuova occupazione. - Può essere sostituito dal pagamento di un’indennità, l’indennità sostitutiva del preavviso. Si tratta di un emolumento in denaro, lato lavoratore pari alla retribuzione che avrebbe percepito nel periodo svolgendo la prestazione lavorativa. L’obbligo del preavviso ha efficacia obbligatoria o reale? - Efficacia reale: questo significa che il preavviso produce sempre e comunque i suoi effetti al termine del preavviso, ciò anche nell’ipotesi in cui il datore corrisponda l’indennità questa è soggetta ad eventuali maggiorazioni, indennità o scatti di anzianità maturati nel periodo di preavviso. - Efficacia solamente obbligatoria (tesi maggioritaria). Il datore ha un potere, un diritto potestativo, quello di sostituire al preavviso l’indennità sostitutiva del preavviso. Ove corrisponda questa indennità il licenziamento produrrà effetti immediati. L’ambito di applicazione del licenziamento ad nutum ex art. 2118 è stato progressivamente ristretto fino al culmine della legge 108/90 che estende il principio della necessaria giustificazione a tutti i rapporti, sono esclusi casi residuali: Il lavoratore in prova, il lavoratore domestico, il lavoratore apprendista (al termine del periodo di formazione), il lavoratore sportivo, il lavoratore che abbia raggiunto i requisiti per la pensione, il lavoratore con qualifica di dirigente (con le tutele previste dal CCNL). Il licenziamento per giusta causa. Il licenziamento per giusta causa continua ad essere regolato dall’art. 2119 cc, che non è stato modificato dalla legislazione successiva. La nozione di giusta causa fornita dall’art. 2119 cc è la stessa con la quale ci siamo confrontati parlando delle dimissioni: giusta causa, dunque, è quella “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”. Il licenziamento per giusta causa è determinato da un inadempimento in senso tecnico del lavoratore subordinato agli obblighi contrattuali di una gravità tale che il datore di lavoro, in tal caso, risulta legittimato ad espellere il proprio dipendente in modo immediato. L’inadempimento costituente giusta causa di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 cc deve: - Essere gravissimo, ciò è ricavabile dal fatto che il licenziamento per giustificato motivo soggettivo è conseguenza di un notevole inadempimento quindi il licenziamento per giusta causa deve essere gravissimo. - Rivestire il carattere della grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro. - Determinare una lesione del vincolo fiduciario che deve necessariamente sussistere tra le parti contrattuali. La mancanza del lavoratore deve essere tale da incidere sulla legittima aspettativa del futuro corretto adempimento della prestazione lavorativa. L’accertamento sull’esistenza, o meno, della giusta causa di licenziamento deve essere effettuato tenendo conto: - Del grado di vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro. Ogni rapporto di lavoro è fondato su un vincolo fiduciario che varia in base al ruolo concretamente rivestito nell’organizzazione aziendale. Tendenzialmente più in alto nella piramide aziendale si trova il lavoratore più è intenso il vincolo fiduciario. - Di tutte le circostanze del caso concreto. Ogni comportamento deve essere calato nel caso concreto e un medesimo comportamento, in base a tutte le circostanze del caso concreto potrebbe avere un giudizio di gravità ex art. 2106 cc differente. Es. ritardo di un ora ad una riunione è un inadempimento in senso tecnico, è però un inadempimento che potrebbe giustificare una sanzione conservativa, diverse conclusioni si avrebbero se quella riunione a cui il dirigente ha fatto ritardo era una riunione fissata da tempo per concludere un affare importantissimo, affare saltato a causa del ritardo del dirigente. Il licenziamento per giusta causa può essere conseguenza anche di inadempimenti non in senso tecnico. La dottrina e la giurisprudenza riconducono alla fattispecie del licenziamento per giusta causa anche una serie di comportamenti estranei alla sfera del contratto e rientranti nella sfera privata del lavoratore, ossia comportamenti che non integrano un inadempimento in senso tecnico, Es. rapina in banca commessa da un bancario, acquisto, detenzione e uso di stupefacenti: 1. Secondo una parte della dottrina e secondo la giurisprudenza maggioritaria, tali comportamenti sebbene estranei alla sfera del contratto, giustificano il recesso in quanto lesivi del vincolo fiduciario. In tale prospettiva, dunque, anche in tale ipotesi il licenziamento per giusta causa è un licenziamento giustificato da un comportamento attribuibile al lavoratore in termini di colpa e richiede l’avvio di un procedimento disciplinare. 2. Altra parte della dottrina e dalla giurisprudenza, invece, ritiene che in tali ipotesi la giusta causa di recesso non sia riconducibile alla lesione del vincolo fiduciario quanto piuttosto alla sopravvenuta inidoneità di immagine e morale per l’espletamento delle mansioni. La differenza non è soltanto teorica, nel primo caso il licenziamento rivesta carattere disciplinare e dovrà seguire le disposizioni dell’art. 7 l. 300/70, nel secondo caso no. Una casistica, esplicativa del licenziamento per giusta causa può essere: 1. condotte lavorative: a. assenza ingiustificata, di norma in numero regolato dal CCNL. b. Furto e distruzione di beni aziendali. c. Falsificazione del registro presenza. 2. Condotte extralavorative: a. Acquisto, detenzione, uso e spaccio di sostanze stupefacenti. b. Possesso e uso di armi. c. Rapporti carnali con la moglie del titolare fuori dall’orario di lavoro. Il licenziamento per giustificato motivo, soggettivo e oggettivo. Disciplinato dall’art. 3 della l. 604/66: il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Il licenziamento per giustificato motivo è un licenziamento con preavviso e si articola in due diverse tipologie: 1. Giustificato motivo soggettivo: costituito da un notevole inadempimento. 2. Giustificato motivo oggettivo: costituito da ragioni oggettive inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Dall’art. 3 l. 604/66 si evince che il licenziamento per giustificato motivo soggettivo consiste in un notevole inadempimento degli obblighi gravanti sul prestatore di lavoro subordinato: dunque è sempre un licenziamento che ha come presupposto un inadempimento in senso tecnico e non può essere determinato da fatti estranei al contratto. Obbliga il datore di lavoro al preavviso essendo l’inadempimento meno grave della giusta causa e non idoneo a rendere impossibile la prosecuzione temporanea del rapporto. La distinzione fra GMS e GC è da ricercare nei seguenti elementi: - Sotto il profilo quantitativo: gravissimo inadempimento Vs notevole inadempimento. - Sotto il profilo qualitativo: perché i fatti estranei alla sfera del contratto non integrano mai un GMS. - Sotto il profilo degli effetti: perché la giusta causa interrompe immediatamente il rapporto mentre il GMS obbliga il datore di lavoro al preavviso. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Art. 3 della legge 604/66 ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Sono necessari 4 requisiti: 1. Modifica oggettiva dell’assetto organizzativo aziendale. (Es. esternalizzazione del servizio di vigilanza, chiusura di una sede o ufficio, redistribuzione delle mansioni). 2. Soppressione del posto di lavoro (non è necessaria la soppressione delle mansioni, può esserci redistribuzione). 3. Nesso di causalità fra modifica organizzativa e soppressione del posto di lavoro. 4. Obbligo di repechage (obbligo di ricollocare a mansioni equivalenti o anche inferiori, solo in assenza di tale possibilità si può procedere al licenziamento). Nell’individuazione dei lavoratori da licenziare deve essere rispettato il dovere di buona fede e correttezza nel caso i lavoratori licenziabili siano più di uno. (secondo parte della giurisprudenza applicabile l’art. 5 della l. 223/91 che contiene i criteri per la scelta dei lavoratori da licenziare in caso di licenziamenti collettivi). Controllo giudiziale del requisito della modifica degli assetti organizzativi. Insindacabilità ex art. 41 cost. delle ragioni organizzative poste alla base del licenziamento: il controllo del giudice deve arrestarsi entro i limiti di un sindacato di legittimità, volto ad accertare la sussistenza oggettiva della ragione organizzativa, e non può tradursi in un sindacato nel merito delle scelte imprenditoriali. Il sindacato giudiziale, dunque, deve accertare soltanto la modifica degli assetti organizzativi sia: 1. Effettiva, 2. Genuina. 3. Non pretestuosa. Parte della giurisprudenza, tuttavia, ha fatto derivare dai requisiti di effettività, genuinità e non pretestuosità un potere di controllo del giudice in grado di ingerirsi nelle scelte, insindacabili, dell’imprenditore e, dunque, in grado di superare i limiti di sindacabilità posti dall’art. 41 cost.. Caso emblematico dello sconfinamento del controllo giudiziale è rappresentato dall’orientamento giurisprudenziale (minoritario) secondo il quale una modifica organizzativa finalizzata ad un incremento di profitto non integra un GMO. L’orientamento giurisprudenziale maggioritario ritiene che l’andamento economico assume rilevanza se e solo se è posto, dall’imprenditore, alla base della riorganizzazione e quindi del licenziamento. L’obbligo di repechage. L’obbligo ha fonte giurisprudenziale, deve essere effettuato non soltanto per mangioni di pari livello ma anche per mansioni di livello inferiore alla luce dell’art. 2103 cc che introduce la mobilità verticale verso il basso. La sua natura è dibattuta, se lo si ritiene un elemento interno il datore deve allegare e provare in diritto l’assolvimento dell’obbligo. Se si ritiene un obbligo di natura esterna alla fattispecie allora è il lavoratore tenuto alla prova dell’inadempimento dell’obbligo da parte del datore. La tesi più convincente è che si tratti di un elemento interno ed ogni onere gravi sull’imprenditore. Il principio della necessaria giustificazione del licenziamento. Art. 1 l. 604/66 “Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, intercedente con datori di lavoro privati o con enti pubblici, ove la stabilità non sia assicurata da norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo o individuale, il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 cc o per giustificato motivo.” L’originario ambito di applicazione erano gli operai e gli impiegati obbligati in imprese con più di 35 dipendenti. L’attuale ambito di applicazione sono tutti i rapporti di lavoro, salvo le ipotesi residuali assoggettate al regime del licenziamento ad nutum ex art. 2219 cc. I licenziamenti individuali: modalità di intimazione e impugnazione. L’intimazione del licenziamento: autore del negozio. Il licenziamento è una manifestazione della volontà negoziale del datore di lavoro di sciogliere il contratto di lavoro. Pertanto, il relativo negozio giuridico deve provenire direttamente dal datore di lavoro. Al licenziamento, in quanto negozio giuridico, si applicano le regole generali del contratto con la conseguenza che il licenziamento può essere: - Intimato dal datore di lavoro; - Intimato da un rappresentante del datore di lavoro, fornito del relativo potere nell’ambito della concreta organizzazione aziendale; - Ratificato ai sensi dell’art. 1399 (rappresentanza), qualora intimato da un soggetto privo del relativo potere di rappresentanza. Il contratto stipulato dal c.d. falsus stipulator, soggetto sprovvisto del potere di rappresentanza ovvero da soggetto che pur provvisto dei poteri di rappresentanza li travalica nello stipulare quel contratto. In questo caso il contratto non è produttivo di effetti nei confronti del falsamente rappresentato il quale però può ratificarlo, perfezionarlo, sanandone il vizio. L’intimazione del licenziamento: forma. Come regola generale è prevista la forma scritta. Infatti l’art. 2 della l. n. 604/66 stabilisce che il licenziamento deve essere intimato in forma scritta. Tale vincolo di forma è applicabile a tutti i lavoratori, anche ai dirigenti, con alcune eccezioni: 1. Lavoratori domestici. 2. Lavoratori in prova. 2. Lavoratori ultrasessantenni che abbiano maturato il diritto alla pensione. La forma scritta è richiesta a pena di inefficacia del “Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.” La tutela obbligatoria art. 8 l. 604/66. Il datore di lavoro può scegliere fra la riassunzione entro 3 giorni costituendo un nuovo rapporto o il risarcimento del danno nella misura variabile normativamente prevista. L’alternatività fra le due sanzioni al datore di lavoro mette in evidenza che il licenziamento, ancorché illegittimo, è idoneo a risolvere il rapporto di lavoro, visto anche che si tratta di Riassunzione. L’ambito di applicazione è regolato attraverso un criterio dimensionale e temporale: i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 da imprese che non raggiungono il limite dimensionale ex art. 18 c. 8 stat. lav. Ovvero: 1. Imprese con più di 15 dipendenti nell’unità produttiva. 2. Imprese con più di 15 dipendenti nello stesso comune. 3. Imprese con più di 60 dipendenti 4. Il limite di 15 dipendenti è ridotto a 5 per le imprese agricole. L’art. 18 stat. lav. Come modificato dalla legge 92/2012. Fino alla legge n. 92 l’art. 18 stat. lav. prevedeva la tutela reale in tutte in tutte le ipotesi in cui il licenziamento intimato da un’azienda di dimensioni medio-grandi fosse illegittimo. Esisteva dunque un binomio inscindibile: licenziamento illegittimo = tutela reale. La tutela reale si componeva di due elementi: 1. Obbligo di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, poiché il licenziamento illegittimo nell’area coperta dalla tutela reale era inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro 2. Obbligo di risarcire i danni subiti dal lavoratore mediante la corresponsione della retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione. Con la riforma del 2012, in luogo dell’unico regime di tutela ne vengono introdotti quattro – tutela reale con effetti risarcitori pieno o limitati e tutela indennitaria con effetti risarcitori pieni o limitati – che trovano applicazione in ragione della diversa gravità del vizio che determina l’illegittimità del licenziamento. Viene conseguentemente meno il binomio inscindibile fra tutela e illegittimità del licenziamento. Nei primi 3 commi dell’art. 18 il legislatore stabilisce che il giudice, quando dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio, perché intimato in concomitanza con il matrimonio, perché intimato per causa di gravidanza, perché intimato per violazione del diritto del prestatore di lavoro subordinato di fruire dei congedi di paternità ovvero di maternità, perché determinato da motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 cc perché intimato in violazione dell’art. 2 c. 1 della legge 604/66 (forma orale) ovvero perché nullo per altri casi di nullità previsti dalla legge, quando dichiara la nullità ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore in servizio, indipendentemente dalle motivazioni addotte, indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa. Si applica questa disciplina anche ai dirigenti. 2° comma aggiunge che contestualmente il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno attraverso una indennità assoggettata a contribuzione assistenziale e commisurata all’ultima retribuzione di fatto e che va dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione detratte le somme percepite dal lavoratore attraverso altra attività lavorativa. Limite minimo 5 mensilità. La tutela obbligatoria art. 8 l. 604/66. Il datore di lavoro può scegliere fra la riassunzione entro 3 giorni costituendo un nuovo rapporto o il risarcimento del danno nella misura variabile normativamente prevista. L’alternatività fra le due sanzioni al datore di lavoro mette in evidenza che il licenziamento, ancorché illegittimo, è idoneo a risolvere il rapporto di lavoro, visto anche che si tratta di Riassunzione. L’ambito di applicazione è regolato attraverso un criterio dimensionale e temporale: i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 da imprese che non raggiungono il limite dimensionale ex art. 18 c. 8 stat. lav. Ovvero: 1. Imprese con più di 15 dipendenti nell’unità produttiva. 2. Imprese con più di 15 dipendenti nello stesso comune. 3. Imprese con più di 60 dipendenti 4. Il limite di 15 dipendenti è ridotto a 5 per le imprese agricole. L’art. 18 stat. lav. Come modificato dalla legge 92/2012. Fino alla legge n. 92 l’art. 18 stat. lav. prevedeva la tutela reale in tutte in tutte le ipotesi in cui il licenziamento intimato da un’azienda di dimensioni medio-grandi fosse illegittimo. Esisteva dunque un binomio inscindibile: licenziamento illegittimo = tutela reale. La tutela reale si componeva di due elementi: 1. Obbligo di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, poiché il licenziamento illegittimo nell’area coperta dalla tutela reale era inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro 2. Obbligo di risarcire i danni subiti dal lavoratore mediante la corresponsione della retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione. Con la riforma del 2012, in luogo dell’unico regime di tutela ne vengono introdotti quattro – tutela reale con effetti risarcitori pieno o limitati e tutela indennitaria con effetti risarcitori pieni o limitati – che trovano applicazione in ragione della diversa gravità del vizio che determina l’illegittimità del licenziamento. Viene conseguentemente meno il binomio inscindibile fra tutela e illegittimità del licenziamento. Nei primi 3 commi dell’art. 18 il legislatore stabilisce che il giudice, quando dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio, perché intimato in concomitanza con il matrimonio, perché intimato per causa di gravidanza, perché intimato per violazione del diritto del prestatore di lavoro subordinato di fruire dei congedi di paternità ovvero di maternità, perché determinato da motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 cc perché intimato in violazione dell’art. 2 c. 1 della legge 604/66 (forma orale) ovvero perché nullo per altri casi di nullità previsti dalla legge, quando dichiara la nullità ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore in servizio, indipendentemente dalle motivazioni addotte, indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa. Si applica questa disciplina anche ai dirigenti. 2° comma aggiunge che contestualmente il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno attraverso una indennità assoggettata a contribuzione assistenziale e commisurata all’ultima retribuzione di fatto e che va dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione detratte le somme percepite dal lavoratore attraverso altra attività lavorativa. Limite minimo 5 mensilità. La tutela reale con effetti risarcitori in misura piena. Art. 18 c. 1, 2 e 3 stat. lav. “Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell'articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell'articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all'articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale. Il giudice, con la sentenza di cui al primo comma, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell'indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.” Il terzo comma offre il diritto di opzione, sostanzialmente invariato, il lavoratore non è costretto a riprendere servizio, può optare per una ulteriore indennità che sostituisce la reintegrazione, questa indennità è pari a 15 mensilità e deve essere richiesta entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza. Le mensilità sono l’ultima retribuzione globale di fatto e non sono assoggettate a contribuzione previdenziale. La tutela si articola in due parti, la reintegrazione nel posto di lavoro, un fare infungibile non suscettibile di esecuzione forzata in forma specifica, tuttavia se il datore non riammette il lavoratore questo si trova nella condizione di vedere rifiutata la sua prestazione. Non è privo di tutela, in questa ipotesi il datore si trova in mora credendi e questo lo espone all’obbligo di corrispondere la retribuzione ed il risarcimento dei danni fino all’effettiva reintegrazione. Se il datore non reintegra è tenuto a corrispondere la retribuzione globale di fatto che è rimasta indefinita dal legislatore, per la dottrina e la giurisprudenza è l’insieme di qualsiasi emolumento che avrebbe percepito il lavoratore, comprensivo, quindi, di liberalità, premi ecc. Al lavoratore spetta altresì il risarcimento del danno, commisurato alla retribuzione globale di fatto, non vi è un limite massimo ed il limite minimo è di 5 mensilità. Può essere detratto soltanto l’aliunde perceptum; è dovuto il versamento contributivo. La tutela prescinde da limiti dimensionali e si applica anche ai dirigenti. L’ingiustificatezza è una ingiustificatezza qualificata: ha carattere eccezionale. Casi sono: - Licenziamento discriminatorio. - Licenziamento per causa di matrimonio e licenziamento per maternità. - Licenziamento per fruizione di congedi di maternità e paternità. - Licenziamento per motivo illecito dominante. - Licenziamento riconducibile ad altri casi di nullità previsti. - Licenziamento orale. L’indennità sostitutiva della reintegrazione prevista dall’art. 18 primi 3 commi ammonta a 15 mensilità, deve essere richiesta entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio se anteriore al deposito. La base di calcolo è la retribuzione globale di fatto. Non è assoggettata a trattamento contributivo. Se l’indennità non viene richiesta e non viene ripresa l’attività lavorativa il rapporto si intende definitivamente sciolto. La tutela reale a effetti risarcitori limitati. Art. 18 c. 4 “Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall'illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In quest'ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d'ufficio alla gestione corrispondente all'attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma.” Art. 18 c. 7 “Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell'indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo” La tutela si sostanzia nella opzione fra la reintegrazione nel posto di lavoro, fare infungibile e non suscettibile di esecuzione forzata, e la monetizzazione su richiesta del lavoratore più il risarcimento del danno, commisurato alla retribuzione globale di fatto, con il limite massimo di 12 mensilità e senza un limite minimo: non comprendere l’eventuale retribuzione dovuta a causa del mancato reinserimento in azienda. Può essere detratto l’aliunde percepiendum, oltre all’aliunde perceptum. È dovuto il versamento dei contributi. Ambito di applicazione: - Articolo 18 c. 8, ovvero 1. Imprese con più di 15 dipendenti nell’unità produttiva. 2. Imprese con più di 15 dipendenti nello stesso comune. 3. Imprese con più di 60 dipendenti. 4. Il limite di 15 dipendenti è ridotto a 5 per le imprese agricole. - Insussistenza del fatto contestato, ha dato adito ad un dibattito che può racchiudersi intorno a due posizioni contrapposte: o Il fatto storico deve essere inesistente. o Il fatto giuridico deve essere inesistente. - punibilità con la sola la sola sanzione conservativa. Il licenziamento per motivi oggettivi: - licenziamento nullo per violazione della l. 68/99 ovvero per violazione dell’art. 2110 cc. - manifesta insussistenza del fatto posto alla base del giustificato motivo oggettivo. Il testo di legge richiede degli approfondimento interpretativi: 1. se si prende la norma si legge “può applicare”, se facoltativa con qualche criterio? La giurisprudenza non ha dubbi sull’applicazione della tutela, il può in realtà è un deve. essere espressamente previsto non è la sanzione della nullità, bensì il mero divieto. In questo ordine di idee il licenziamento per trasferimento d’azienda sarebbe nullo ex art. 2112 c. 4 e riconducibile all’art. 2 del D. L.gs 23/15 Tutela reale con effetti risarcitori limitati nel decreto 23/15 del 07/03/2015 Art. 3 c. 2 e 3 “2. Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e successive modificazioni. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva. Al lavoratore è attribuita la facoltà di cui all'articolo 2, comma 3. 3. Al licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 1 non trova applicazione l'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni.” Al comma 3 viene espressamente previsto il superamento della procedura preventiva per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il contenuto della tutela è molto simile a quello delineato dall’art. 18 c. 4 e si compone di un doppio rimedio: reintegrazione e risarcimento dei danni commisurato all’ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR. Rimangono fermi il limite di 12 mensilità e la disciplina della indennità sostitutiva della reintegrazione. L’ambito di applicazione cambia invece davvero tanto, viene mantenuto il limite dimensionale dell’art. 18 c. 8 ma opera in un insieme di fattispecie sensibilmente più ristretto. Si applica, infatti, soltanto per i licenziamenti disciplinari in cui venga accertata l’insussistenza del fatto materiale contestato con totale irrilevanza del criterio di proporzionalità. Viene pertanto meno l’ipotesi della condotta punibile con la sola sanzione conservativa e tutte le ipotesi di motivi oggettivi e l’art. 2110 cc. Si è posto il problema interpretativo delle parole “fatto materiale contestato”. - 1° interpretazione: si valorizza la parola materiale, anche alla luce del dibattito che ha caratterizzato l’art. 18 c. 4 l. n. 300/70, si può sostenere che: il legislatore ha preso posizione a favore della tesi del fatto materiale e che quindi l’espressione “fatto materiale” vada intesa come mero accadimento fenomenico, senza alcuna valutazione giuridica dello stesso; come potrebbe confermare l’estraneità del giudizio di proporzionalità. - Se si valorizza la parola “contestato” si può invece continuare a sostenere, analogamente a quanto avvenuto con l’art. 18 c. 4 l. n. 300/70, che il fatto dalla cui insussistenza dipende l’applicazione di questo regime di tutela continua ad essere un fatto “disciplinarmente” rilevante. In tal modo, l’inconsistenza del fatto che si traduca nella sua completa irrilevanza disciplinare viene comunque attratto a questo regime di tutela. La giurisprudenza sembra orientarsi verso questa interpretazione, il fatto contestato, anche se materialmente accaduto, deve avere rilievo disciplinare. Tutela indennitaria in misura piena. I regimi della tutela reale fin qui illustrati trovano applicazione soltanto nelle ipotesi tassative previste dalla legge. In tutti gli altri casi trova invece applicazione il regime della tutela indennitaria. Il regime della tutela indennitaria delineato dall’art. 3 c. 1, infatti, si applica in tutti i “casi in cui risulta accertato che non ricorrano gli estremi del licenziamento per GMO o per GMS o per GC”. La tutela indennitaria, dunque, è il regime ordinario di tutela, mentre la tutela reale è un regime di carattere eccezionale applicabile solo nelle ipotesi più gravi, tassativamente individuate dalla legge. In questi casi il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore al pagamento di una indennità non assoggettata a contributo previdenziale di minimo 6 e massimo 36 mensilità parametrate all’ultima mensilità utile al calcolo del TFR. Art. 3 c. 1 “Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.” La parte in rosso è stata giudicata incostituzionale in quanto non consente al giudice di tenere conto di ulteriori criteri e pertanto l’indennità non è più collegata all’anzianità di servizio ma alla valutazione del giudice. Tutela indennitaria in misura limitata. Art. 4 “ Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all'articolo 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all'articolo 7 della legge n. 300 del 1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto.” L’indennità riguarda licenziamenti affetti da vizi procedurali o formali: - violazione del requisito della motivazione. - Violazione del procedimento disciplinare. - Violazione del procedimento preventivo di intimazione del licenziamento per GMO. I vizi formali e procedurali non sanano i vizi sostanziali, in presenza dei quali trova applicazione il corrispondente regime di tutela. In questa fattispecie non è previsto il vizio procedurale dovuto al mancato rispetto dell’art. 7 della l. 604/66 poiché l’art. 3 c. 3 supera tale procedura e pertanto essa non si applica ai lavoratori assunti dopo il 07/03/2015 e quindi essa non può essere violata. Tutele nelle piccole imprese. Art. 9 “Ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970, non si applica l'articolo 3, comma 2, e l'ammontare delle indennità e dell'importo previsti dall'articolo 3, comma 1, dall'articolo 4, comma 1 e dall'articolo 6, comma 1, è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità.” Tale regime di tutela si applica alle imprese prima assoggettate alla tutela obbligatoria ex art. 8 l. 604/66, prevede il dimezzamento delle indennità ed un limite massimo di sei mensilità. I licenziamenti collettivi: disciplina e tutele. Il licenziamento collettivo: la fattispecie. La normativa di riferimento è la legge 23/07/1991 n. 223 ed in essa vengono disciplinate due fattispecie di licenziamento collettivo. La prima è disciplinata dall’art. 4 c. 1 rubricato “procedura per la dichiarazione di mobilità”, c.d. licenziamento collettivo per messa in mobilità dei lavoratori. La seconda invece è disciplinata dall’art. 24 c. 1 rubricato “norme in materia di riduzione di personale”. Le due disposizioni sono strettamente connesse tra loro, tanto che, taluni interpreti, hanno in passato sollevato il rilievo che esiste una sola fattispecie di licenziamento collettivo, in luogo della distinzione di cui sopra. Il licenziamento collettivo: la fattispecie. Art. 4 c. 1 licenziamento per messa in mobilità “L'impresa che sia stata ammessa al trattamento straordinario di integrazione salariale, qualora nel corso di attuazione del programma di cui all'articolo 1 ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative, ha facoltà di avviare la procedura di licenziamento collettivo ai sensi del presente articolo.” Dunque la prima fattispecie riguarda l’impresa ammessa al trattamento straordinario di integrazione salariale (CIGS) che, nel corso di attuazione del programma di riorganizzazione aziendale, ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori (precedentemente interessati dalla CIGS) e di non poter adottare misure alternative al licenziamento dei lavoratori in esubero. Art. 24 c. 1 licenziamento collettivo per riduzione del personale “ Le disposizioni di cui all'articolo 4, commi da 2 a 12 e 15-bis, e all'articolo 5, commi da 1 a 5, si applicano alle imprese che occupino più di quindici dipendenti, compresi i dirigenti, e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell'arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell'ambito del territorio di una stessa provincia. Tali disposizioni si applicano per tutti i licenziamenti che, nello stesso arco di tempo e nello stesso ambito, siano comunque riconducibili alla medesima riduzione o trasformazione.” La seconda fattispecie riguarda l’impresa che, possedendo un organico di più di 15 dipendenti intenda procedere ad almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni come conseguenza di una riduzione o di una trasformazione di attività di lavoro. Non c’è crisi o cassa integrazione straordinaria. Le definizioni contenute negli artt. 4 e 24 permettono dunque di distinguere: - Fattispecie di licenziamento collettivo per messa in mobilità dei lavoratori: caratterizzata da un fatto sopravvenuto (l’impossibilità di reimpiego) in costanza di un intervento straordinario di sospensione del lavoro e di integrazione salariale (ad esempio, CINGS aperta a fronte di una crisi aziendale ma risulta insufficiente ai fine della ripresa dei volumi di lavoro, con conseguente necessità di espellere l’organico eccedente rispetto alla ridotta capacità produttiva dell’impresa. - Fattispecie del licenziamento collettivo per riduzione di personale caratterizzata dalla scelta imprenditoriale di ridurre o di trasferire l’attività od il lavoro; e condizionata dalla sussistenza di specifici requisiti soggettivi (impresa con più di 15 dipendenti) ed oggettivi (almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni). Le due fattispecie, ancorché assoggettate ad un iter procedurale identico, sono pertanto fra loro diverse, poiché sono diversi: - Il presupposto iniziale (crisi nella prima fattispecie, scelta imprenditoriale nella seconda). - I requisiti soggettivi (dimensione) ed oggettivi (scelta di riduzione o trasformazione). Le due fattispecie fino a qui considerate sono le due fattispecie fondamentali attorno a queste fattispecie gravitano altre ipotesi di cui si deve far menzione per avere un quadro completo dell’ambito di applicazione della procedura di licenziamento collettivo c. 2 e ss dell’art 4 e altre 2 ipotesi. Meritano menzione le due ipotesi particolari, alle quali si applica, per espressa previsione legale, la disciplina sul licenziamento collettivo, ossia: 1. Cessazione dell’attività imprenditoriale. art. 24 c. 2 “Le disposizioni richiamate nei commi 1, 1-bis e 1- quinquies si applicano anche quando le imprese o i privati datori di lavoro non imprenditori, di cui ai medesimi commi, intendano cessare l'attività.”. 2. Procedure concorsuali. Abrogato! La procedura di licenziamento collettivo. LA procedura di licenziamento collettivo è disciplinata ai commi da 2 a 12 dell’art. 4 e si divide in due fasi (fase sindacale, obbligatoria, e fase amministrativa eventuale nel caso non ci sia accordo nella prima fase). Attraverso il procedimento delineato dai commi da 2 a 12 la legge impone al datore di lavoro un limite legale alla libertà d’impresa ex art. 41 cost.. In particolare viene imposta l’effettuazione di una procedura complessa e a formazione progressiva, composta da una serie di atti in sequenza e che, se viziata, può comportare le conseguenze sanzionatorie di cui si parlerà in seguito. Il potere datoriale di recesso viene così interamente procedimentalizzato e vengono coinvolti altri soggetti (OO.SS. e pubblica amministrazione) con il tanto di svolgere una funzione di controllo per evitare abusi in danno dei lavoratori quanto di favorire un dialogo positivo per la ricerca di eventuali soluzioni alternative al licenziamento. Il primo passo di tale iter è rappresentato da una comunicazione proveniente dal datore di lavoro (commi 2, 3 e 4). La procedura di licenziamento collettivo si articola in una prima fase, obbligatoria, di informazione e consultazione sindacale che, a sua volta è suddivisa in: 1. Comunicazione preventiva (art. 4 c. 2 e 3). 2. Esame congiunto (art. 4 c. 5) rimesso alla richiesta dei sindacati. 3. Eventuale accordo. Segue una successiva fase, eventuale, di natura amministrativa. La comunicazione preventiva. La procedura di licenziamento collettivo si apre con una comunicazione preventiva che deve essere rivestita dalla forma scritta. Tale comunicazione preventiva apre la fase obbligatoria dell’informazione e consultazione sindacale. Destinatari sono le RSA e rispettive associazioni di categoria e, in caso di loro mancanza, associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale; in aggiunta anche ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, al fine di un controllo formale sulla fase di avvio della procedura. Il contenuto della comunicazione è analiticamente regolato dall’art. 4 c. 2 (motivi che determinano la situazione di eccedenza; motivi tecnici, organizzativi o produttivi che rendono necessario, e non evitabile, il licenziamento; numero, collocazione aziendale e profili professionali del personale eccedente e del personale abitualmente impiegato; tempi di attuazione; eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale; metodo di calcolo di tutte le attribuzioni patrimoniali diverse da quelle già previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva. L’omessa comunicazione preventiva oppure la comunicazione preventiva infedele (che omette informazioni essenziali per consentire alle OO.SS. di esaminare e controllare le scelte aziendali) integrano una condotta antisindacale reprimibile ai sensi dell’art. 28 l. 300/70 ma non incidono sulla validità dei successivi licenziamenti, il bene giuridico protetto è la libertà sindacale. L’esame congiunto. L’art. 4 c. 5 prevede che entro sette giorni dalla ricezione della comunicazione di avvio della procedura, le RSA e le associazioni di categoria a cui esse aderiscono possono richiedere al datore di lavoro di dare inizio all’esame congiunto, se questo non viene richiesto il datore di lavoro può procedere nei licenziamenti. Lo scopo di tale esame congiunto, eseguito in contraddittorio fra datore di lavoro e sindacati è: - Esaminare le cause che hanno contribuito a determinare l’eccedenza di personale e le possibilità di utilizzazione diversa di tale personale, o di una sua parte, nell’ambito della stessa impresa, anche mediante contratti di solidarietà e forme flessibili di gestione del tempo di lavoro. - Esaminare, in caso di inevitabilità della riduzione di personale, la possibilità di ricorrere a misure sociali di accompagnamento, volte, in particolare, a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziandi. L’art. 6 c. 6 prevede che l’esame congiunto deve esaurirsi entro un termine di 45 giorni (dal momento della ricezione della comunicazione di avvio da parte dei sindacati): non può essere uno strumento per procrastinare i licenziamenti. Il termine è posto infatti a tutela del datore di lavoro, sicchè, con il suo consenso, è possibile prorogarlo senza che si incorra in alcuna violazione di legge e senza che i successivi licenziamenti siano viziati. Prevede che l’esito del confronto tra sindacati ed impresa, durante l’esame congiunto, debba essere notificato all’ufficio provinciale del Il lavoro agile. La fattispecie del lavoro agile è stata introdotta e regolata dagli artt. 18-24 della legge 81/2017 che introdusse misure volte a favorire la flessibilizzazione dell’organizzazione del lavoro parasubordinato con riferimento a luoghi e tempi dell’esercizio della prestazione lavorativa. La definizione di lavoro agile è contenuta nell’art. 18 che presenta il lavoro agile come una “modalita' di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell'attivita' lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.” Dalla definizione di lavoro agile contenuta nell’art. 18 emerge, dunque, che il lavoro agile: - Non è una nuova tipologia contrattuale bensì una particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato. - Presuppone l’accordo delle parte sulla sua attivazione. - È caratterizzato dall’esecuzione della prestazione lavorativa, in parte, all’esterno dei locali dell’azienda. Inoltre dalla lettura dell’art. 18 emerge che il lavoro agile può essere caratterizzato: - Da una organizzazione del lavoro per fasi, cicli e obiettivi. - Dalla assenza di precisi vincoli di orario di lavoro, fermo il rispetto dei limiti di durata massima della prestazione lavorativa - Dal possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento della prestazione lavorativa. Disciplina del lavoro agile. Gli artt. 19 e ss contengono una disciplina del lavoro agile, rispetto alla quale, in tale lezione dobbiamo limitarci ad osservare soltanto gli aspetti principali. Il patto di lavoro agile (art. 19): - Rivestito della forma scritta richiesta ad probationem (valido in forma orale). - Deve regolare le forme di esercizio del potere direttivo. Rispetto al potere direttivo non si comprende però se quanto dispone nel patto di lavoro agile costituisce fonte esclusiva di disciplina del potere direttivo, che non potrà dunque essere esercitato al di fuori di quanto pattuito, oppure se quanto disposto nel patto di lavoro agile non pregiudichi l’unilateralità del potere direttivo nelle parti non espressamente regolate dal patto come appare preferibile. - Può essere a tempo determinato o a tempo indeterminato, con ripercussioni sul regime del recesso. Ci si riferisce alla durata dal patto e non del contratto. Nel patto di lavoro agile a tempo determinato è ammesso soltanto il recesso senza preavviso per giustificato motivo, nel patto a tempo indeterminato esiste un doppio regime di recesso: o Generale senza motivazione e con obbligo di preavviso di 30 gg (90 per il recesso datoriale nei confronti di lavoratore disabile). o Recesso senza preavviso purché ricorra un giustificato motivo di recesso, giustificato motivo che non deve essere confuso con quello per i licenziamenti, serve un giustificato motivo oggettivo che renda la volontà di recedere non arbitraria o ritorsiva. Il telelavoro. Il telelavoro, o lavoro a distanza, è una modalità di svolgimento della prestazione lavorativa nella quale il lavoratore esegue la prestazione da un luogo esterno all’azienda avvalendosi di un collegamento telematico. Il telelavoro nel settore privato, è privo di una regolamentazione legale e l’unica disciplina è rinvenibile in alcuni accordi collettivi che lo regolano senza richiamare una fattispecie negoziale di riferimento. Il telelavoro si distingue dal lavoro a domicilio, che non necessita di un collegamento telematico e dal lavoro agile perché: - Nel telelavoro il collegamento telematico è necessario, mentre nel lavoro agile è eventuale. - Nel lavoro agile una parte del lavoro deve essere svolta all’interno dell’azienda. - Solo nel lavoro agile l’autonomia privata individuale ha margini di regolamentazione che concernono l’esercizio dei poteri datoriali. Il lavoro a tempo parziale: definizione e forma del contratto. Il lavoro a tempo parziale, regolamentato nel tempo da fonti normative differenti, trova oggi la sua disciplina negli artt. Dal 4 al 12 del d.lgs n. 81/2015 e nella direttiva comunitaria 87/21/CE. Definizione (art. 4). Il lavoro a tempo parziale è una tipologia di lavoro flessibile che può essere a tempo indeterminato oppure a tempo determinato e che, in ogni caso, è caratterizzata da un orario ridotto rispetto all’orario a tempo pieno, come definito dall’art. 3 d.lgs n. 66/2033. Forma e contenuto del contratto (art. 5). Il contratto di lavoro a tempo parziale deve essere stipulato in forma scritta ad probationem, con indicazione sia della durata complessiva che della prestazione lavorativa (ad esempio 30 ore a settimana) sia della collocazione dell’orario di lavoro con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno (ad esempio, 30 ore settimanali distribuite in turni giornalieri di pari durata dal lunedì al sabato). Tali indicazioni possono essere effettuate anche attraverso il rinvio a turni programmati organizzati su fasce orarie prestabilite, ove l’organizzazione del lavoro è articolata a turni. I diversi tipi di lavoro a tempo parziale e le clausole elastiche. Sotto la vigenza della precedente disciplina era possibile distinguere fra: a) lavoro a tempo parziale di tipo verticale, orizzontale e misto. B) fra clausole elastiche e flessibili. L’attuale normativa semplifica la disciplina previgente e supera sia la distinzione per tipi (che comunque può essere mantenuta a fini descrittivi) sia la distinzione fra clausole elastiche e flessibili. Ai sensi della vigente normativa le clausole elastiche (le uniche rimaste) attribuiscono al datore di lavoro la facoltà sia di “variare la collocazione oraria della prestazione lavorativa” sia di variare la durata complessiva della prestazione lavorativa. Tali clausole, incidendo sulla possibilità del lavoratore di conciliare il lavoro con la vita familiare nonché di svolgere anche altri lavori per raggiungere una retribuzione equa sono assoggettate ad una disciplina limitativa: - La loro stipulazione è ammessa solo se le clausole elastiche sono espressamente previste e disciplinate dal contratto collettivo oppure, in mancanza, solo se siano stipulate innanzi alle commissioni di certificazione dei contratti di lavoro. - Il lavoratore ha diritto ad un preavviso di almeno due giorni. - Il lavoratore ha diritto, nell’ipotesi di clausole elastiche regolate dal contratto collettivo, a specifiche compensazioni secondo quanto stabilito dal contratto collettivo stesso; nell’ipotesi di stipulazione innanzi alle commissioni di certificazione, ha diritto ad una maggiorazione retributiva del 15% della retribuzione oraria globale di fatto. Il lavoro supplementare. Il lavoro supplementare è quello prestato oltre l’orario ridotto concordato. Il lavoro supplementare rappresenta, nel part-time ciò che rappresenta il lavoro straordinario nel full-time. Se attraverso la clausola elastica può essere stabilmente modificata la durata complessiva della prestazione lavorativa, attraverso lo strumento del lavoro supplementare il datore di lavoro può apportare la relativa modifica in via occasionale e per far fronte ad esigenze momentanee. Nel lavoro a tempo parziale è comunque consentito anche il ricorso al lavoro straordinario, quello cioè prestato oltre l’orario di lavoro straordinario, quello cioè prestato oltre l’orario normale di lavoro. Nella clausola elastica la variazione in aumento è tendenzialmente definitiva, certamente duratura, è ammessa una ulteriore modifica. Nel lavoro supplementare l’aumento è per definizione momentaneo, occasionale. Il legislatore rimette la disciplina delle modalità e delle condizioni del lavoro supplementare al contratto collettivo. Contestualmente, prevede una disciplina suppletiva che prevedere: - Il potere del datore di lavoro di richiedere lo svolgimento di lavoro supplementare entro il limite massimo del 25% delle ore settimanali concordate. - Il diritto del lavoratore di rifiutarsi per “comprovate” esigenze lavorative, familiari, di salute e formazione. - Il diritto del lavoratore ad una maggiorazione retributiva pari al 15% della retribuzione oraria globale di fatto. La disciplina del rapporto di lavoro a tempo parziale. Sotto il profilo della disciplina, il lavoro a tempo parziale è governato da due principi a) il divieto di discriminazione; b) il riproporzionamento del trattamento normativo ed economico. - in forza del principio di non discriminazione, espressamente sancito dal legislatore nell’art. 7 c. 1, il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole di un lavoratore a tempo pieno di pari inquadramento. - In forza del principio di riproporzionamento, però, il trattamento economico e normativo deve essere riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa. Dunque il principio di non discriminazione non significa, in concreto, parità di trattamento economico e normativo, bensì parità di condizioni alla luce della effettiva estensione della prestazione lavorativa. Così con riferimento all’art. 36 cost. il principio di riproprozionamento comporta che la giusta retribuzione ciò ambisce il lavoratore deve essere riproporzionata all’effettivo orario di lavoro. Questi principi, già in precedenza affermati dalla giurisprudenza, sono ora espressamente sanciti dall’art. 7, che estende espressamente quello del riproporzionamento ad istituti quali: la durata del periodo di prova, del periodo di preavviso, del periodo di comporto. La trasformazione del rapporto. Il rapporto di lavoro a tempo parziale può essere dalle parti trasformato in rapporto di lavoro a tempo pieno e, viceversa, il lavoro a tempo pieno può essere trasformato in lavoro a tempo parziale. Mentre nel primo caso non sono previsti requisiti di forma, nel secondo caso è richiesta la forma scritta e, pur nel silenzio della legge, l’indicazione delle informazioni prescritte dall’art. 5. Il rifiuto della trasformazione del rapporto di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento. Tuttavia la violazione del divieto, però, potrebbe essere assoggettata unicamente alla sanzione della tutela indennitaria in misura piena ex art. 3 c. 1 d.lgs 23/2015 poiché la tutela reale con effetti risarcitori pieni trova applicazione soltanto nei casi di nullità espressamente previsti dalla legge e, secondo l’interpretazione decisamente prevalente della quale abbiamo già parlato, ciò significa che la norma deve prevedere non solo il divieto ma anche la sanzione espressa della nullità. Il lavoro a tempo parziale: l’apparto sanzionatorio. La violazione del requisito della forma scritta e delle indicazioni delle informazioni prescritte dall’art. 5 c. 2 è sanzionata espressamente dal legislatore nell’art. 10 che prevede tre distinte casistiche: - Omessa la forma scritta dell’assunzione a tempo parziale. Il rapporto si converte in rapporto di lavoro a tempo pieno fin dalla data di costituzione del rapporto. Effetti ex tunc, per il periodo precedente la conversione il lavoratore avrà diritto soltanto alla retribuzione dovuta per il lavoro realmente svolto. - Risulta indicato in forma scritta che l’assunzione è avvenuta a tempo parziale ma senza precisazione della durata complessiva della prestazione. Il rapporto di lavoro a tempo parziale si converte in tempo pieno con effetto dalla pronuncia del giudice, ex nunc, il lavoratore ha diritto alla retribuzione delle sole prestazioni effettivamente rese ed un risarcimento del danno. - Omissione riguarda la sola collocazione della prestazione lavorativa (cioè viene indicato che il lavoratore è assunto a tempo parziale di 30 ore settimanali senza precisare la distribuzione effettiva di questo orario. Il lavoratore ha due diritti: o Diritto alla determinazione, da parte del giudice, della collocazione oraria tenuto conto dei parametri previsti dalla norma (esigenze del lavoratore e del datore). o Per il periodo antecedente la pronuncia, il lavoratore ha diritto, oltre alla retribuzione per le prestazioni effettivamente rese anche ad un ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno. Il lavoro intermittente: definizione, tipologie e forma. Il lavoro intermittente, detto anche lavoro a chiamata o job on call è una fattispecie regolata per la prima volta dal D.Lgs 276/03 e la cui disciplina, ora è contenuta negli artt. 13-18 del D.Lgs n. 81/2015. Analogamente al contratto di lavoro a tempo parziale il lavoro intermittente è una fattispecie che introduce una flessibilità tipologica sul versante della durata della prestazione lavorativa. Definizione: il contratto di lavoro intermittente è il contratto, anche a tempo determinato, con il quale una parte, il lavoratore, mette a disposizione le proprie energie lavorative affinché l’altra parte, il datore di lavoro, possa utilizzarle anche in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi. Tipologie: il lavoro intermittente può articolarsi in due distinte modalità: a) con obbligo di risposta alla chiamata, allorquando il lavoratore, con patto espresso, si obbliga a garantire la propria disponibilità per l’eventuale chiamata, percependo per tale disponibilità una apposita indennità detta di disponibilità; b) senza obbligo di risposta alla chiamata, allorquando il lavoratore, in caso di chiamata del datore di lavoro, è libero di accettare o rifiutare la stessa. Forma e contenuto del contratto. Il contratto di lavoro intermittente deve essere stipulato in forma scritta richiesta ai fini della prova e deve contenere l’indicazione degli elementi tassativamente indicati dalla norma alla quale si rinvia. Causali soggettive ed oggettive e limite massimo di utilizzo. Il contratto di lavoro intermittente è sempre ammesso, pur in assenza di causali oggettive, con giovani di età inferiore a 24 anni (perché il rapporto si concluda entro il compimento del 25° anno di età) e con lavoratori con più di 55 anni. Negli altri casi, il lavoro intermittente è ammesso soltanto al verificarsi di una delle causali oggettive individuate dai contratti collettivi oppure in mancanza da apposti decreto del ministero del lavoro e delle politiche sociali. Fatta eccezione per alcuni settori (turismo, pubblici esercizi, spettacolo), il ricorso al lavoro intermittente è ammesso entro la misura massima di 400 giornate di lavoro nell’arco di tre anni solari per il singolo contratto di lavoro intermittente, con trasformazione in un rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato in caso di violazione del suddetto limite. I divieti. Il lavoro intermittente è vietato: - Per la sostituzione dei lavoratori in sciopero (crumiraggio esterno). - Da parte di imprese che nei sei mesi precedenti hanno dato corso a licenziamenti collettivi o fatto ricorso alla cassa integrazione guadagni. - Da parte di imprese che non hanno predisposto il DURC (documento unico di regolarità contributiva). La disciplina del rapporto. Sotto il profilo della disciplina il rapporto di lavoro intermittente, è governato da due principi: a) il divieto di discriminazione; b) il riproporzionamento del trattamento normativo ed economico. In caso di lavoro intermittente con obbligo di risposta alla chiamata: - Il lavoratore ha diritto ad una indennità di disponibilità mensile assoggettata a contribuzione, non computabile sugli altri istituti contrattuali e legali. - In caso di inadempimento a rispondere alla chiamata, per malattia o per altro evento che rende impossibile la prestazione, il lavoratore deve darne tempestiva comunicazione al datore di lavoro. - In caso di rifiuto di rispondere alla chiamata, il lavoratore può essere licenziato e può perdere la quota parte di indennità relativa al periodo successivo alla chiamata rifiutata. Il lavoro a termine o a tempo determinato. Il contratto di lavoro a termine è un normale contratto di lavoro subordinato sul quale viene apposto un termine finale di durata, decorso il quale il rapporto di lavoro cessa senza necessità che nessuna delle parti intimi il recesso. Si tratta di una tipologia di lavoro flessibile nel quale la flessibilità è data dalla durata, limitata nel tempo, del rapporto di lavoro. Attraverso questa tipologia contrattuale, infatti, il datore di lavoro, spirato il termine pattuito, non dovrà intimare alcun licenziamento poiché il rapporto cesserà automaticamente. La disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato ha subito nel tempo una profonda evoluzione normativa: a) inizialmente veniva ammesso soltanto in ipotesi tassative tipizzate dal legislatore; b) successivamente è stato ammesso in presenza di causali giustificatrici di carattere generale; c) attualmente è ammesso in via generale per i primi 12 mesi di rapporto di lavoro ed in presenza di causali giustificatrici di carattere generale in caso di superamento del limite di 12 mesi. I presupposti per l’apposizione del termine al contratto di lavoro. La disciplina attualmente vigente è contenuta negli artt. 19-29 del D.Lgs 81/2015. La formulazione dell’art. 19, alla luce delle modifiche nel tempo apportate, introduce un doppio regime di legittima apposizione del termine in funzione della durata iniziale del rapporto di lavoro: - Per contratti di durata iniziale non superiore a 12 mesi, vige un regime di acausalità del termine (acausalità in senso atecnico, la causa esiste). Il termine può essere liberamente apposto senza necessità di giustificazione. - Per i contratti di durata superiore a 12 mesi, invece, vige un regime di causalità del termine. L’apposizione del termine, infatti, è ammessa (peraltro entro il limite massimo di durata di 24 mesi) soltanto in presenza di alcune cause giustificatrici di carattere generale indicate dalla legge: a) esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria - A tempo determinato, e in tal casoo si applica la disciplina del lavoro a tempo determinato, fatta eccezione per le norme espressamente escluse. Ne consegue che se il contratto individuale di lavoro sarà di durata inferiore a 12 mesi troverà applicazione la regola della acausalità. Negli altri casi, invece, dovranno essere specificate, per iscritto, le causali di cui all’art. 19 c.1. la difficoltà di riferire tali causali giustificatrici all’agenzia di somministrazione ha indotto il legislatore a chiarire che le causali giustificatrici devono riferirsi all’utilizzatore. I divieti. Il contratto di somministrazione di lavoro è vietato: - Come forma di crumiraggio esterno. - Da imprese che nei sei mesi precedenti hanno dato corso a licenziamenti collettivi o fatto ricorso alla cassa integrazione guadagni. - Da parte di imprese che non hanno predisposto il documento unico di regolarità contributiva (DURC). L’esercizio del potere direttivo, di controllo e disciplinare. La somministrazione di lavoro determina una scissione del vincolo di subordinazione ex art. 2094 cc perché il lavoratore lavora alle dipendenze dell’agenzia di somministrazione ma sotto la direzione ed il controllo dell’utilizzatore. I poteri direttivo e di controllo vengono attribuiti direttamente dal legislatore all’utilizzatore. Anche il potere di modificare la mansioni del lavoratore spetta all’utilizzatore, con onere, però, di tempestiva comunicazione all’agenzia di somministrazione. In mancanza, l’utilizzatore risponde delle conseguenze derivanti dall’esercizio dello jus variandi, sia sotto il profilo di eventuali differenze retributive sia sotto il profilo di eventuali risarcimenti dei danni. Il potere disciplinare invece, rimane in capo all’agenzia di somministrazione che, tuttavia, deve esercitarlo sulla base del codice disciplinare dell’impresa utilizzatrice e delle comunicazione dell’utilizzatore concernenti le infrazione che l’agenzia dovrà contestare. L’apparato sanzionatorio. - Somministrazione fraudolenta è quella posta in essere con l’intento di eludere l’applicazione di norme inderogabili di legge o di contratto collettivo. Si applica una mera sanzione pecuniaria. - Somministrazione irregolare: è quella posta in essere in violazione dei limiti di forma, di contenuto e quantitativi, in tale ipotesi: o Se viene violato il limite della forma scritta la somministrazione è nulla ed i lavoratori sono considerati alle dipendenze dell’utilizzatore. o Se vengono violati i limiti quantitativi, i divieti, o non vengono indicati gli elementi di cui alle lettere a) estremi dell’autorizzazione rilasciata al somministratore, b) numero di lavoratori da somministrare, c) indicazione di eventuali rischi per la salute e misure preventive adottate, d) data di inizio e durata della somministrazione, e) mansioni ed inquadramento, f) luogo, orario e trattamento economico, il lavoratore può chiedere la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore dall’inizio della somministrazione, salvo che l’utilizzatore non sia una pubblica amministrazione. In tali ipotesi:  Trova applicazione l’art. 6 l. 604/66 (60 gg stragiudiziale più 180 gg)con decorrenza del primo termine dalla data di cessazione dell’attività presso l’utilizzatore;  Il lavoratore, in caso di costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore, ha diritto alla stessa indennità risarcitoria prevista per il lavoro a termine, ovvero compresa fra le 2.5 e le 12 mensilità utili per il calcolo del TFR. L’apparato sanzionatorio. Il legislatore non disciplina espressamente l’ipotesi di stipulazione da parte dell’agenzia di somministrazione di un contratto individuale a tempo determinato lesivo dell’art. 19 c. 1 (illegittima apposizione del termine). Nel silenzio della legge si può ritenere che: 1. Le violazioni riconducibili al comportamento dell’agenzia di somministrazione determinano la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze dell’agenzia di somministrazione. 2. Le violazioni riconducibili alla responsabilità dell’utilizzatore, invece, determinano la costituzione di un rapporto a tempo indeterminato alle sue dipendenze. L’appalto. Il contratto di appalto, regolato dagli artt. 1965 e ss cc, può sovrapporsi alla somministrazione di lavoro ed intrecciarsi con il fenomeno del trasferimento d’azienda. Per tali ragioni, l’art. 29 D.Lgs 276/03 enuncia una disciplina specifica sulla quale è necessario posse l’attenzione. L’appalto si distingue dalla somministrazione per 2 elementi fondamentali: 1. L’organizzazione dei mezzi necessari e l’assunzione del rischio da parte dell’appaltatore. 2. Laddove l’appalto per essere eseguito non ha bisogno di particolari strumenti, beni strumentali, l’organizzazione dei mezzi necessari può risultare anche dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo rispetto ai lavoratori. La distinzione fra appalto e somministrazione. L’art. 29 c. 1 D.Lgs 276/03 stabilisce che: “ai fini della applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’art. 1655 cc, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, non chè per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa. Ne consegue che l’appalto si distingue dalla somministrazione: - Per l’organizzazione dei mezzi necessaria e per l’assunzione del rischio, giacché nella somministrazione l’agenzia si limita a fornire personale che sarà eterodiretto dall’utilizzatore. - Anche per il solo esercizio del potere direttivo ed organizzativo, quanto l’opera o il servizio connessi non richiedono un rilevante impiego di beni strumentali. La distinzione fra appalto e trasferimento d’azienda. L’art. 29 c. 3 D.Lgs n. 276/03 stabilisce che “l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto di appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda. La norma prende in considerazione il fenomeno della successione negli appalti, al quale avevamo fatto cenno nella lezione sul trasferimento d’azienda, per precisare che la successione in un appalto da parte di un impresa non configura trasferimento d’azienda neanche qualora vi sia acquisizione del persona dell’appaltatore uscente. Tutele dei lavoratori in caso di appalto. L’art. 29 D.Lgs n. 276/03 prevede due tutele a favore dei lavoratori impiegati nell’appalto: - La prima, alla quale avevamo già fatto cenno sempre nella lezione sul trasferimento d’azienda, è regolata dal c. 2 e concerne la responsabilità solidale fra committente e appaltante per tutti i diritti di natura retributiva e contributiva dei lavoratori. A differenza della responsabilità solidale nella somministrazione, in questa ipotesi il regime di solidarietà è soggetto ad un limite temporale (2 anni dalla cessazione dell’appalto). - La seconda è regolata dal c. 3 bis e concerne l’ipotesi dell’interposizione fittizia, che si realizza quando l’appalto di opere e servizi sia stipulato in violazione di quanto disposto dal c. 1 (dunque senza assunzione del rischio e/o dell’organizzazione dei mezzi necessari). In tale ipotesi, il lavoratore con ricorso notificato anche al solo committente può chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle sue dipendenze. Il contratto di apprendistato: definizione e tipologie. Art. 41 D.Lgs 81/2015 Il contratto di apprendistato è “un contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e alla occupazione dei giovani”. Il contratto di apprendistato è un contratto a causa mista, perché all’obbligo della retribuzione si aggiunge quella della formazione. Quest’ultima penetra nel e caratterizza il sinallagma contrattuale e giustifica una regola particolare, il sottoinquadramento: l’apprendista può essere inquadrato fino a 2 livelli inferiori a quello da conseguire alla fine dell’apprendistato. L’apprendistato tecnicamente è un contratto a tempo determinato con durata non superiore a 36 mesi, prorogabile, il periodo di formazione deve tuttavia avere un termine. Il legislatore intende sottolineare che, attraverso il contratto di apprendistato mira a far stabilire fra le parti un rapporto a tempo indeterminato. Quel contratto però si instaura solo se al termine del periodo di formazione una parte non recederà e il rapporto si convertirà. La disciplina dell’apprendistato. Sono obbligatori la forma scritta e il piano formativo individuale e la durata minima di 6 mesi. Recesso del contratto di apprendistato: - durante il periodo di formazione risponde alle norme generali. - Al termine del periodo di formazione recesso ad nutum. L’apparato sanzionatorio. La violazione dell’obbligo formativo da parte del datore di lavoro non è sanzionata con la conversione del contratto bensì unicamente con una sanzione di carattere pecuniario. Il datore di lavoro è tenuto a versare una somma pari al doppio della differenza fra contribuzione versata e contribuzione che sarebbe spettata al termine dell’apprendistato. Il lavoro subordinato in particolari rapporti. - Lavoro a domicilio - Lavoro domestico - Lavoro sportivo - Lavoro nautico - Lavoro dei detenuti - Lavoro alle dipendenze di una pubblica amministrazione.
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