Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Appunti "Vita" di Vittorio Alfieri, Appunti di Letteratura Italiana

Analisi dell'autobiografia di Alfieri, con particolare attenzione ad alcuni aspetti tematici quali il proemio, l'infanzia e il rapporto con la madre, i servitori e i cavalli, gli anni di ineducazione e i successivi studi, i viaggi, gli amori, la lingua e la scrittura.

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 08/08/2020

alesens
alesens 🇮🇹

4.3

(30)

9 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti "Vita" di Vittorio Alfieri e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! AUDIOLEZIONE 1 – PROEMIZZARE 2 Le righe di introduzione lette (pag 49) ci consentono già di osservare uno degli aspetti più caratteristici della scrittura, specialmente prosastica, di Alfieri, cioè l’inventività linguistica, fatta di neologismi, di alterazioni (specialmente superlativi) e di neoformazioni. Ne è frutto il memorabile “semipollo” che si incontrerà in una delle prossime lezioni, dopo averlo fuggevolmente incrociato nella prima lezione. Nel passo dell’intro si trova il superlativo dell’avverbio “principalmente”, “principalissimamente poi ai poeti...”. Un controllo delle concordanze elettroniche nella banca dati di Biblioteca Italiana gestita dall’università La Sapienza di Roma, che raccoglie la quasi totalità dei testi della letteratura italiana, conferma la rarità della forma alterata dell’avverbio ma ancora più rara, se non unica, un hapax legomenon, è l’occorrenza del verbo denominale “proemizzare”, fare un proemio, “senza proemizzare dunque più a lungo sui generali...”. L’unica altra attestazione di questo verbo, registrata dalla banca dati del tesoro della lingua italiana delle origini, risale al corredo paratestuale di un manoscritto trecentesco della “Commedia”, nella didascalia che introduce il “Paradiso”, I (sono le rubriche della “C” di scrittura fiorentina tra il 1321 e il 1355; canto I, nel cui principio l’autore proemizza alla seguente cantica). È impossibile che Alfieri abbia avuto per le mani questo manoscritto e se ne sia lasciato ispirare; avrà, dunque, di sua iniziativa creato il vb, combinando il sostantivo “proemio” con il suffisso grecizzante, o più probabilmente francesizzante, -izzare molto produttivo nel seicento, come oggi. Fare caso all’affollarsi di espressioni spregiative o almeno basse, concrete, che mirano a giustificare la preoccupazione dello scrittore (“un qualche libraio”, “cavare alcuni più soldi”, “una qualunque mia vita”, “fonti o dubbi o parziali”, “a soldo”, “stolto panegirico”, “smercio”, “mercanzia”). È un versione più risentita della motivazione garbatamente addotta da Carlo Goldoni nella prefazione ai suoi “Mémoires” → vedi slide; Goldoni era arrivato a questo passo attraverso un percorso molto particolare. Nel 1761, circa un anno prima della partenza per la Francia, era cominciato ad uscire presso lo stampatore veneziano Giambattista Pasquali una nuova raccolta delle commedie, prevista in una cinquantina di tomi; ciascun tomo accompagnato da una prefazione che prende spunto da un episodio della vita dell’autore, rappresentato nell’incisione dell’antiporta, cioè della carta che precede il frontespizio. Tali prefazioni costituiscono un vero e proprio racconto autobiografico che arriva fino al 1743, in corrispondenza del tomo diciassettesimo, quando, però, Pasquali, nel 1778, interrompe la pubblicazione. Ma Goldoni si era ormai affezionato all’idea e decise di redigere un’autobiografia completa come si è scritto. Anche Alfieri fa un rapido riferimento alla quantità delle proprie pubblicazioni, prima condizione di quella celebrità che genera curiosità; dice, infatti, “avendo io scritto molto”. Era, in particolare, reduce dall’impegnativa edizione delle “Tragedie”, Parigi , Didot, 1787-1789, ma non solo per motivi letterari la sua fama circolava nei salotti di tutta Europa, alimentata da solidi motivi. E a questa incontrollata circolazione di notizie e pettegolezzi andava sottratta ristabilendo una verità autorizzata. “Disappassionarmi” è un altro neologismo creato per certificare la sincerità delle intenzioni. Si tratta di un’istanza etica realizzata solo in pt sul piano dei sentimenti ma raggiunta, come si vedrà in conclusione sul piano della scrittura. “Non leggere quell’ultima pt” è un’esortazione che A ripeterà alla fine dell’epoca II. A tutti verrà in mente la sorniona autorizzazione che Manzoni, qualche decina di anni dopo, avrebbe elargito ai suoi venticinque lettori → vedi slide, “Promessi sposi”, cap XXII. Ci sono rimaste le testimonianze manoscritte dell’elaborazione della “Vita” di A, conservate presso la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze: il manoscritto XXIV che contiene una versione pronta per la stampa di quella che l’autore definisce “pt prima”, fino al cap XIX nell’epoca IV, e il manoscritto XIII che contiene la “pt seconda”, con la continuazione dell’epoca IV, cap XX-XXXI, ma anche una più antica redazione della pt prima. Quest’ultima consente di apprezzare il grande lavoro di revisione, operato da A sullo stile dell’opera. Una novità molto significativa portata al progetto definitivo è l’intro di sottotitoli che caratterizzano in funzione autocritica i primi venticinque anni della “Vita” e sottolineano, per contrasto, la svolta virtuosa della maturità: “Epoca prima-puerizia. Abbraccia nove anni di vegetazione”, “Epoca seconda-adolescenza. Abbraccia otto anni di ineducazione”, “Epoca terza-giovinezza. Abbraccia circa dieci anni di viaggi, e dissolutezze”, “Epoca quarta- virilità. Abbraccia trenta e più anni di composizioni, traduzioni, e studi diversi”. Elementi fondamentali per la strategia alferiana sono i materiali documentari: ce ne sono di esterni, i diari minuziosi da lui chiamati “giornali” che aveva tenuto per alcuni anni prima di accingersi all’autobiografia, con molte interruzioni fra il 1774 e il 1777 per eseguire “un salutare esame di me stesso” e che il suo archivio ci ha conservato, A stesso ne parla (“Vita”, epoca IV, cap II). Altre testimonianze documentarie sono, invece, interne al testo e sono costituite da alcune appendice distribuite in maniera irregolare nei cap, quando ritenute necessarie. Fra la stesura della prima pt e la revisione, continuazione, con la seconda pt intercorrono diversi anni: la lunga pausa è frutto di una precisa volontà che viene esplicitata nelle pag conclusive del cap XIX, ultimo della prima pt (epoca IV). Il lavoro riprese, infatti, nel 1798 e continuò fino al maggio del 1803; l’epoca V non fu realizzata. Si riprenda la lettura dell’intro. Torna, qui, la metafora della pianta per indicare l’uomo, metafora che A ha impiegato nel tradurre l’epigrafe da Pindaro. L’insistenza sulla naturalezza dello stile non è un topos della scrittura autobiografica ma la consapevolezza dei un risultato raggiunto, specialmente se si osserva la redazione definitiva, caratterizzata da una prosa bilanciata ed equilibrata e da un tono più largamente meditativo, più riposato e a volte palesemente ironico. Lo stesso A spiega il suo intento nella conclu della prima pt, “epoca IV”, cap XIX. L’opzione stilistica è condensata nella contrapposizione fra i due i due gerundi, il conclusivo, amichevole, “chiacchierando” e il precedente, severo, “taciteggiando”, altro espressivo neologismo alferiano con il significato di “scrivere imitando lo stile stringato e coinciso di Tacito”. Facendoci caso ci si accorge che lo studio dell’uomo in genere ha ceduto il passo alla riflessione intima (“su me medesimo, e di rimbalzo sugli uomini, chiacchierando”). AUDIOLEZIONE 2 – NOVE ANNI DI VEGETAZIONE 1 Epoca prima, capitolo I “Nascita, e parenti”, pag 52. Precisato che, come osservano tutti i biografi, Alfieri nacque, in realtà, il 16 gennaio (il 17 fu battezzato nel Duomo di Asti), ci si soffermi su quanto si è appena letto. “Filosofo” per A è del tutto intercambiabile con scrittore. Si tratta di considerazioni di tipo sociologico, apparentemente oggettive e razionali. In realtà, concorrono alla campagna di autogiustificazione del “parlar di sé”, che già si conosce e che ha precedenti illustri, come si sa, su fino al “Convivio” nel libro II del trattato primo, e che comprende anche il proposito, preannunciato nell’intro, del contenimento emotivo, il famoso “disappassionarsi”. Ma questo atteggiamento non dipende solo dall’attitudine personale di A, bensì appartiene all’intera classe aristocratica e a quella piemontese in particolare, educata ad un riserbo signorile e a una viva percezione del ridicolo; se ne vedranno subito gli effetti nel piccolo Vittorio. Questa genetica riservatezza, per quanto, in parte, coscientemente violata dal progetto alferiano, è incompatibile con la spudorata rivelazione del privato e con l’immediata effusione sentimentale dell’opera che, come si è detto, avrebbe potuto, per motivi cronologici e di prestigio, influenzare la scrittura autobiografica di A, e cioè le “Confessioni” di Rosseau, un autore, infatti, e, in definitiva, un uomo, verso il quale l’ammirazione del nostro poeta fu tiepida → lo anticipa, con un giudizio letterario, nel cap VII della terza epoca e poi senza mezzi termini, ancora nella terza epoca, al cap XII (vedi pag 140-141). Continuazione lettura del cap I. A sottolinea i “barbari cognomi” della madre, affrettandosi a precisare che la famiglia di lei già da gran tempo si era stabilita a Torino. La Francia e la lingua francese, la lingua corrente per la vita sociale nel Piemonte sabaudo e quindi quella appresa prima da A, diventeranno per lo scrittore idoli negativi, dai quali liberarsi in ogni modo. Il padre rappresenta l’applicazione pratica dei principi che si sono discussi prima: in particolare, il fatto di non aver avuto nessun impiego, cioè nessun incarico presso la corte, una sorte ambita, in genere, dai nobili, lo aveva dell’aggettivo nell’espressione “talare maestro”, cioè maestro-prete in abito talare, e con il participio denominale “inreticellato”, neologismo alferiano. Se l’ottima madre abbia durevolmente mitigato la sua intransigenza, si può agevolmente ricavare dalle storiette successive. AUDIOLEZIONE 3 – LIBERTÁ VIGILATA 1 (CALESSI E CAVALLI) C’è un disegno complessivo nella prima epoca. Gli eventi infantili rendono l’adulto immune da alcune inclinazioni peccaminose (non bugiardo, non ladro, non invidioso, ecc…); tuttavia il commento del narratore oscilla tra l’interesse per la psicologia dell’età evolutiva e l’excusatio non petita della svalutazione dei “fattarelli” e delle “storiette”. Per fortuna, prevale la prospettiva psicologica e lo scrittore può, così, esortare i suoi lettori: “or mira, o lettore, in me omiccino il ritratto e tuo e di quanti anche uomini sono stati o saranno; che tutti siam pur sempre, a ben prendere, bambini perpetui” (epoca prima, cap IV, pag 58). E poi può dichiarare serenamente, in chiusura della prima epoca, “questo primo squarcio di una vita (che tutta forse è inutilissima da sapersi) riuscirà certamente inutilissimo per tutti coloro, che stimandosi uomini si vanno scordando che l’uomo è una continuazione del bambino” (epoca prima, cap V, pag 64). E ancora, all’altro capo dell’opera, nell’ultimo cap che potrà scrivere, il XXXI della quarta epoca, giocherà, come si vedrà meglio, con una sua innocente, forse un po’ puerile, vanità (“ma per terminare oramai lietamente questa serie e filastrocche, e mostrare come già ho fatto il primo passo dell’epoca quinta [la vecchiaia] di rimbambinare, non nasconderò al lettore per farlo ridere, una mia ultima debolezza di questo presente anno 1803”. L’autoaccusa è già formulata nel torrenziale titolo del cap, “… Invanito poi bambinescamente dell’avere quasi che spuntata la difficoltà del greco, invento l’Ordine d’Omero, e me ne creo αύοχειρ (autocheir) [da me stesso] Cavaliero”. Si tornerà più avanti sui dettagli di questa ludica investitura. Intanto, si prenda nota di due numeri. L’epoca prima è costituita da cinque capitoli e comprende quasi nove anni di vita. Al termine della puerizia, si prepara per il giovanissimo Vittorio una prima svolta solo apparentemente epocale con il trasferimento a Torino per frequentare l’Accademia militare su sollecitazione dello zio Pellegrino Alfieri, suo tutore fin dalla morte del padre. La separazione da casa produce nel ragazzino eccitazione e dolore insieme, ma più la prima che il secondo perché la prospettiva del breve viaggio compensa ampiamente la nostalgia. Epoca prima, cap V, pag 64 → l’“ajo fattore” è il vecchio accompagnatore che doveva vigliare sul viaggio; quel colorito ed espressivo “achillesche” è un’acquisizione della redazione definitiva. Tutto lascerebbe presagire un ingresso trionfale nella seconda epoca che, però, sulla soglia ci avverte: “Abbraccia otto anni d’ineducazione”; ma per il momento si segua un’altra pista, quella della passione cavallina che comincia a manifestarsi nel bimbo Alfieri. Epoca seconda, cap I, pag 65, 1758. Cinque anni più tardi muore lo zio tutore, peraltro quasi sconosciuto a Vittorio. Epoca seconda, cap VII, pag 84- 85, 1763 → si noti che, qui e altrove, A tiene a sottolineare il suo rapp empatico con i cavalli. Poi pag 86 → “sotto l’ajo” → per ora, si dica “sotto le cure di un custode” (più avanti si spiegherà meglio questo termine); “scosso” → “solo”, “senza cavaliere”, è un termine toscano, in particolare vivo anche oggi a Siena, per la trad del palio. Il possesso del primo cavallo è una svolta così importante da dover essere menzionata nel titolo di un cap, il IX della seconda epoca. Epoca seconda, cap IX, pag 88-89 → questo “curatore” è l’amministratore dei beni del minore, come è spiegato nel cap VII quando A dice: “ le leggi del Piemonte all’età dei 14 anni liberano il pupillo dalla tutela. e lo sottopongono soltanto al curatore, che lasciando padrone delle entrate su annuali, non gli può impedire legalmente altra cosa che l’alienazione degli stabili” (Vittorio si trovava, come si sa, sotto la tutela dello zio paterno Pellegrino Alfieri fin quasi dalla nascita, dal momento che il padre era morto quando aveva meno di un anno). Il possesso, quasi compulsivo, di cavalli comincia a mescolarsi con un’idea di dissolutezza, in un’oscillazione che resterà fino a molto tardi, fra passione del cuore e compiacimento per la pompa esteriore. Si leggano le righe finali del cap IX, pag 90. Il lettore della “Vita” si imbatterà, perciò, costantemente in riferimenti equestri. I cavalli sono fra gli indicatori per valutare la qualità della vita in Inghilterra → epoca terza, cap VI, pag 110-111. I viaggi si svolgono in carrozze trainate da cavalli o direttamente in sella → epoca terza, cap IX, pag 124 poi pag 126 (di Elia si sentirà parlare nella prossima registrazione). E i viaggi sono anche occasioni per l’acquisto di cavalli → a Spa, località termale del Belgio(cap IX, pag 126) e anche in Spagna si effettuano acquisti (e terza, cap XII, pag 142 → poco prima A aveva detto che la lettura di Montaigne gli andava restituendo un “pocolino di senno e di coraggio e una qualche consolazione”; poi pag 148). Come si era già osservato, però, la passione sconfina talvolta nelle mollezze dell’illusoria vita guadente fino ad entrare potentemente in conflitto con l’ineluttabile maturazione che si manifesta prepotentemente a metà dell’opera → epoca terza, cap XIII, pag 151. SI avvicina, dunque, la svolta della moderazione. Epoca quarta, cap III, pag 199. Svolta della moderazione ma con, non pochi, colpi di coda, denunciati anche nei titoli dei capitoli→ -e quarta, cap IV, pag 201-202, titolo “… stolida pompa cavallina...”; -e quarta, cap XI, pag 237; -e quarta, cap XII, titolo “Terzo viaggio in Inghilterra, unicamente per comperarvi cavalli”, pag 238 e 239 → si osservi l’estensione del campo semantico equino alle azioni dell’io narrante (“recalcitrando contro gli ostacoli”, “incavallatomi”, anche “impeto e brio” perché “porsi in brio” detto dei cavalli significa imbizzarrirsi). Segue, in questo bellissimo cap, il resoconto di un viaggio epico con la traversata della Manica e poi il percorso attraverso Francia e Italia. Pag 241. Ancora un’ultima oscillazione fra i soliti due poli → epoca quarta, cap XVI, pag 255 ed epoca quarta, cap XXIV, pag 280. E, infine, la resa alla ragionevolezza nel penultimo cap dell’opera, il cap XXX a pag 309. AUDIOLEZIONE 3 – LIBERTÁ VIGILATA 2 (L’INFIDO ANDREA E IL FIDATO ELIA) La trasferta torinese del piccolo Vittorio comporta anche l’entrata in scena di un personaggio che non vi restava a lungo ma che, come sempre, produrrà nell’autore della “Vita” una riflessione autointrospettiva. Si torni a quella mattina di luglio del 1758 → epoca prima, cap V, pag 63-64. La figura professionale di questo Andrea e del suo successore Elia, che si imparerà a conoscere, è quella di cameriere factotum e di generico educatore, non di maestro precettore agli studi come era stato il buon don Ivaldi. Alfieri impiega, però, frequentemente il termine “ajo” o talvolta “semi-ajo”, scelta stilisticamente più alta e probabilmente non priva di una certo compiacimento aristocratico. Se si consulta la banca dati del Vocabolario degli Accademici della Crusca si trova, nella quinta edizione, la definizione della parola “ajo” → “colui che ha in custodia, o soprintende, all’educazione di qualificati giovinetti”. E nelle precedenti edizioni, terza e quarta, “custode, e soprintendente all’educazione di personaggio grande”. Un caso interessante di utilizzo del termine “ajo” è presente nella narrazione dell’uso strumentale della disponibilità di un accompagnatore inglese che godeva di ottimo grido, cioè di ottima fama e affidabilità, effettuato per strappare, diciassettenne, il permesso di viaggiare → e seconda, cap X, pag 92 → bisogna aggiungere, come fa A poco sotto, che nel piccolo regno piemontese il re non era propenso ai viaggi dei suoi nobili e che V dovette accettare qualche umiliante condizione per poter partire; il cognato era il marito della sorella che l’aveva sostenuto mentre il curatore era l’amministratore del quale si è già sentito parlare. La comitiva parte; un numero della Gazzetta Patria di Firenze registra l’ingresso in città, il 24 ottobre 1766, dei tre giovani nobili, fra i quali il “Conte Affieri Piemontese” (tutti i nomi sono trascritti approssimativamente), accompagnati da un cavaliere inglese. Ma presto V è inquieto. Epoca terza, cap I, pag 94. Finché si entra nel cap successivo; il titolo è “tutto un programma”, “Continuazione dei viaggi, liberatomi anche dell’ajo” → cap II, pag 97 poi pag 99. Si noti che il povero ajo diventa via via “vecchio” e “tardo” e più tardi, indirettamente, vecchio e “rimbambito” da “dignitosamente inglese e cattolico” che era. Ma si torni molto più indietro, all’ingresso di V novenne in Accademia. Epoca seconda, cap II, pag 67. Andrea centellinava anche le visite all’altro zio, l’architetto Benedetto del quale si sentirà parlare molto bene. Ep seconda, cap III, pag 70. Ep seconda, cap VI (anni quattordici), pag 79-80 → a quali principi tirannici illustri allude esattamente? Non si sa; la frase sibillina fu omessa, per prudenza, in varie edizioni, naturalmente tutte postume, della “Vita” ma non sarà inutile tenere presente che il primo libro del trattato “Del principe e delle lettere”, pubblicato nel 1789, è ironicamente dedicato ai “principi che non proteggono le lettere. Andrea esce di scena definitivamente alla morte dello zio tutore, evento del quale si è già parlato → epoca seconda, cap VII, pag 83-84. Da prima il ragazzo si adatta di buon grado al nuovo cameriere → ep seconda, cap VII, pag 84 (inizio pag) → “grosso” è un toscanismo, significa ignorante. Questo cameriere è quello che accetta di fare la parte del cervo nelle finte battute di caccia a cavallo dei ragazzini, come si è visto. Epoca seconda, cap VIII, pag 87 → Vittorio decide di voler uscire solo contro i divieti dell’accademia e tiene il punto con ostinata e metodica ostinazione, accettando di scontare lunghi periodi di punizione detentiva nella propria camera fino a diventare un vero “bruto bestia”. Alla fine la spunterà in occasione delle nozze della sorella con l’aiuto del nuovo cognato, del quale si è poco fa anticipato il futuro sostegno anche per il viaggio in Italia. L’intermezzo grigio e insignificante di questo cameriere senza nome prepara l’ingresso trionfale di Giovanni Antonio Francesco Elia, il “mio fidato Elia, “mio fidato e diletto” (epoca terza, cap III, pag 100 e 102), “fidato” (cap VI, pag 115), “fidato mio” (cap XI, pag 136), “non meno sagace che fido” (cap VI, pag 114), nato nel 1730 a Ferrere d’Asti dove ora gli è stata intitolata una via e che rimarrà al servizio di A fino al 1785. Epoca terza, cap I, pag 93. La tempra dell’uomo emerge soprattutto nelle difficoltà. Cap II, pag 97-98. Si noti, nuovamente, per la terza volta, l’insistenza sull’analogia, in positivo o in negativo, tra i comportamenti dei servitori e quelli dei principi e dei governi. Arnaldo di Benedetto e Vincenza Perdichizzi in “Alfieri” hanno ben sintetizzato i contorni letterari del rapp intercorso fra A ed Elia → “Elia, che ricopre la funzione narrativa di spalla del protagonista tipica di tanti romanzi dell’epoca, e in coppia col padrone sembra prestarsi al riecheggiamento di diversi testi letterari, ora quale doppio del «fido» Acate (definito da un aggettivo ricorrente che designa anche Elia) inseparabile compagno di Enea, ora quale novello Sancho Panza «sovra un muletto», intenti alla caccia di «conigli, lepri e uccelli» mentre il padrone avanza accanto al suo cavallo attraverso le torride pianure spagnole, allampanato e malinconico come un moderni don Chiosciotte”. Un capolavoro, il “Don Chiosciotte”, che proprio durante quel viaggio A si stava ingegnando a leggere in spagnolo. Eppure qcls cova sotto la cenere di quest’idillio → epoca terza, cap XII, pag 143-144-145 (ci si trova a Madrid, 1771, A ha dopo conosciuto un orologiaio spagnolo). Le cose non stanno mai esattamente come sembrano. Nel 1961 Lanfranco Caretti pubblica cinque lettere inedite dello stesso Francesco Elia, superstiti di un più vasto carteggio, che dimostrano come l’ajo, all’insaputa di V, riferisse regolarmente sul comportamento e la salute del padrone al cognato, Giacinto Canalis conte di Cumiana, marito di Giulia. Nella slide si trovano due indicazioni bibliografiche per chi desideri, in futuro approfondire la questione. Anche l’epistolario di A, peraltro, denuncia i malumori che la “Vita” ha del tutto oscurato: lo scrittore lamenta più volte la ciarlataneria del suo servitore. Lo si incontrerà ancora, parlando dei viaggi per l’Europa. Nel 1785, dopo vent’anni di convivenza, A licenziò Francesco Elia, che già l’anno precedente era incorso nella disapprovazione della contesa d’Albany, l’amatissima compagna dello scrittore. A fronte di tutti i deboli tentativi precedenti, la svolta portata dalla quarta epoca nei primi anni della virilità, cioè fra 1775 e 1777, è, dunque, una potente ventata che indirizza definitivamente A come lettore e come autore sul piano degli studi e di pari passo su quello della lingua, come si vedrà. Il senso dell’impresa titanica è racchiuso in una frase, di solito citata in modo scorretto, della lettera responsiva a Ranieri de’ Casalbigi che A scrisse da Siena il 6 settembre 1783 → “da questa sfacciata mia imprudenza di essermi in meno di sei mesi, di giovane dissipatissimo ch’io era, trasfigurato in autor tragico, ne ricavai pure un bene; poiché contrassi col pubblico, e con me stesso, ch’era assai più, un fortissimo impegno di tentare di divenir tale. Da quale giorno in poi (che fu in giugno del ‘75) volli, e volli sempre, e fortissimamente volli”. La circostanza specifica è la decisione di diventare autore di tragedia ma la nuova e orgogliosa determinazione si può estendere agli studi in generale e lo testimonia la climax di titoli di capitolo (“Ostinazione negli studi più ingrati”, “Caldi studi”, “Studi ripresi ardentemente”). L’apoteosi di questo sforzo prometeico, al limite del velleitario, consiste nella decisione di imparare il greco antico a 57 anni (quello moderno lo disprezzava come degenere, “un nitrir di cavalli più che un parlare del più armonico popolo che già vi fosse”-epoca quarta, cap XXV, pag 282). Non credo che nessuno abbia mai raccontato in modo più colorito la lotta di un apprendista con l’alfabeto greco → epoca quarta, cap XXV, pag 281. Inutile dire che, alla fine, l’ostinazione ha la meglio, come comunica l’autore in un tripudio di neologismi → pag 283. Giunto in porto dopo tanta fatica, A, scherzosamente ma non troppo, decide di meritare un premio, come si è visto nella terza lezione, cavaliere di un ordine d’Omero da lui creato ad hoc, ma solo dopo averne informato l’amico Abate di Caluso, suo colto consigliere. È sempre sottolineato, nel corso della “Vita”, l’effetto pigmalione prodotto dai dotti amici, il D’Acunha, per es, (ep terza, cap VI, pag 113) oppure il Gori (ep quarta, cap IV, pag 205) e, infine, l’Abate di Caluso (ep quarta, cap VII, pag 217). Alfieri ingaggia un autentico corpo a corpo con la letteratura, alimentato da un forte sentire etico e politico, come dimostra l’episodio del “Panegirico a Traiano” → epoca quarta, cap XV, pag 250-251. Per una veloce info sull’opera , si può consultare il dizionario Zanichelli al link indicato. La manifestazione, anche fisica, del furore, è paragonabile a quella prodotta dalla lettura di Plutarco, come si è anticipato nella prima lezione, ma di segno inverso: le vite dei grandi infiammano A per la vera grandezza dei celebrati, Plinio il Giovane lo disgusta per la piaggeria del suo panegirico. E la letteratura è vita, quando A, “giovenilmente plutarchizzando” (pag 119), giudica sdegnosamente il contegno cortigiano di Pietro Metastasio. La rarissima iuntura dell’avverbio “giovenilmente” con un gerundio richiama alla mente il “giovenilmente vezzeggiando” de “La vergine cuccia” di Parini (“Il mezzogiorno”). Non si esclude che A contasse, qui, sulla sensibilità aumentata dei lettori intendenti per suggerire un’autoironica analogia fra il proprio puntiglio altezzoso e il morso inane di una cagnolino viziata. AUDIOLEZIONE 5 – NESSUNA LINGUA La questione della lingua, della lingua da acquisire innanzitutto e dell’inventività linguistica poi, è un fil rouge che attraversa la vita e l’opera di A. L’elenco sintetico che si legge nella “Storia della lingua italiana” di Bruno Migliorini mette in evidenza quelli che Luigi Russo definì gli “alfierismi della vita”, i neologismi o composti o derivati. Una delle modalità di creazione che A condivide con il gusto del suo secolo è, in particolare, quella dei composti con prefisso, dei quali il “semipollo domenicale” resta uno degli es più riusciti. Il prefissoide riduttivo “semi” è usato molto di frequente, con o senza lineetta, (semi-aio, semi-zio, semi-pubblico, semipollo, semiaccesa, semilibertà, semibarbare, semiviaggio, semifrenetico, semiaccademia, semiservitù, semiriposo, semiletture, semifilosofi). In altri casi, A aggiunge alla prefissazione la derivazione denominale come nel caso dell’efficacissimo “spiemontizzarsi” → epoca quarta, cap VI, pag 210. In un saggio del 1981, Nicola Merola mette in luce la condizione di sradicato costantemente vissuta da A → “alla determinazione di «spiemontizzarsi», che è la prima e più importante mossa sulla strada dell’esilio volontario dalla realtà contemporanea, lo conducono ai «non-studi» di una «ineducazione» che, mentre lo preserva da qualsiasi contaminazione originaria, coinvolge, riassume e annichilisce, nella prospettiva finale dell’autobiografia […] i suoi rapporti culturali con la madre patria” (“Rileggere A: la tragedia della politica”). Ma la decisione fu presa anche per considerazioni oggettive delle quali informa lo stesso A. Epoca quarta, cap VI, pag 210-211 → non sarà sfuggito il peso semantico di quel “disvassallarmi”, “sottrarmi alla condizione di vassallo”, severo giudizio politico e storico sul regime sabaudo. La ricchezza lessicale della “Vita” è fatta non solo di formazioni ex novo ma anche di definizioni icastiche come quel “Torino città anfibia”, che si è già incontrato in relazione a considerazioni sulla lingua. Uno degli argomenti sui quali A insiste lungamente nell’opera è la propria carenza di radici linguistiche. Epoca seconda, cap VII, pag 85-86 → “non sapendo nessuna lingua bene” → questo è un concetto che A ripeterà ben oltre, quando dirà: “non possendo io allora nessuna lingua”. E si noti, nel passo che segue, (epoca terza, cap I, pag 94) l’effetto ossessivo della replicazione del lemma “francese” fino allo scioglimento liberatorio nell’epiteto ingiurioso, “linguaccia”. Come si ricorderà, proprio in quella Torino, città linguisticamente anfibia, il giovanissimo A aveva imparato ad apprezzare il “benedetto parlar toscano” dello zio Benedetto. Anche lui, nella “Vita”, talvolta toscaneggerà, come si è visto (il “cavallo scosso”, senza fantino; il servitore “grosso”, cioè ignorante; tornare “a bomba”, cioè ricondurre il discorso al suo primo argomento dopo la digressione sullo zio → “ma è tempo, ch’io ritorni a bomba” [ep seconda, cap III, pag 72], questa espressione nasce da giochi infantili come nascondino, guardie e ladri: bomba è la tana, il luogo al quale tornare). Si riprenda lo spoglio di Bruno Migliorini: questo curioso neologismo “vocaboliera”, nel senso di “esperta di vocaboli”, è riferito alla governante Nera Colomboli che lavorò fedelmente a Firenze in casa Alfieri e alla quale lo scrittore lasciò, per testamento, metà dei suoi abiti e una somma in denaro. Per lui era stata anche una miniera di info sul fiorentino dell’uso, come mostra la vivacità di questo dialoghetto (“Dialogo fra l’autore e Nera Colombini fiorentina”, “Che diavol fate voi, madonna Nera”) del 1796 (vedi slide). Lo spunto del sonetto, come si vede, è volutamente dimesso e famigliare: il poeta si lamenta di trovare le calze mal rammendate, con i buchi, e la governante sfoggia un inedito, sulle prime misterioso, vb “ragnare” che è costretta, poi, a spiegare con verve tutta toscana. Voci “vocaboliero” e “ragnare” del Dizionario Storico di Salvatore Battaglia, il grande dizionario della lingua italiana. Tutta la vicenda ricorda quello che avrebbe fatto, qualche decennio dopo, Manzoni, avvalendosi, nella sua ricerca linguistica, di una collaboratrice fiorentina, Emilia Luti. La risciacquatura alferiana ebbe una genesi molto tormentata: c’era già stato un primo soggiorno fiorentino, vent’anni prima della sistemazione definitiva, un “primo viaggio letterario in Toscana”, come recita il sottotitolo del cap II della quarta epoca, pag 194. Questa consapevolezza (che ci voleva molto tempo per disfrancesarsi”) era già un grande passo. Epoca terza, cap I, pag 95 → “nature” → riferimento caustico alla filosofia politica dell’illuminismo e, in particolare, all’idea dello stato di natura elaborata da Rousseau. Anche in questo caso, l’introspezione approda in riflessioni morali e politiche → ep terza, cap I, pag 96 e epoca terza, cap VIII, pag 121. Era, però, necessaria una soluzione radicale → lettura del racconto della remissione nel vortice grammatichevole raccontata nel cap di apertura dell’epoca quarta, pag 190. La forte determinazione che procede in parallelo con lo studio degli autori si commenta da sé. Il risultato è un solido e originale organismo linguistico che si ha sotto gli occhi nella “Vita” e che assume, via via, nelle altre opere un’adeguata modulazione; ne sintetizza le sfaccettature Monica Zanardo → “Alfieri sembrerebbe scindere fortemente l’aspetto lessicale da quello sintattico-grammaticale: mentre per gli aspetti sintattico-grammaticali si allinea alle posizioni di forza della Crusca, sul piano del lessico si mostra estremamente inclusivo, accettando tanto arcaismi e idiotismi, quanto il ricorso a termini del toscano vivo, e della lingua dell’uso; senza tralasciare, com’è noto, le potenzialità creative della lingua, che si concretizzano in neologismi e neoformazioni, che A rivendica e di cui riconosce le potenzialità espressive” (“Alfieri e i testi di lingua”). Alfieri non manca di esprimere il proprio giustificato orgoglio per i risultati raggiunti: ancora una volta la prospettiva culturale si salda strettamente con il credo politico. Epoca quarta, cap XVII, pag 260 → “sui nescia” → inconsapevole di sé stessa e quindi del suo valore. AUDIOLEZIONE 6 – VIAGGI 1 Si è già visto come il desiderio di viaggiare nasca precocemente nel giovanissimo Alfieri, di pari passo con il suo temperamento ribelle. Epoca seconda, cap X, pag 92 → si tratta del viaggio in Italia con l’ajo inglese. Se è vero che il ricorso ai sotterfugi, qui praticato in via eccezionale, è estraneo al suo carattere, è anche vero, come si ricorderà, che il ragazzo manifesta in modo irriflesso e ingenuo l’irriquietudine che sarà propria dell’uomo. La terza epoca comincia sotto auspici non tanto più gloriosi delle precedenti, all’insegna delle dissolutezze e soprattutto dell’ignoranza. Epoca terza, cap I, pag 94. Si sono già assaggiati i primi due capitoli con le visite ingloriose a Milano e Firenze, il tutto con molta nausea, senza nessun senso del bello; unica eccezione, ma fu solo una goccia di acqua nel mare, l’emozione davanti alla tomba di Michelangelo. Eppure, pian piano, le cose cambiano: il lettore si accorge che via via lo sguardo del viaggiatore va facendosi più critico anche se, per usare un’espressione che A riserva a sé stesso, “petulante”, arrogantemente censorio, una disposizione giudicante che resterà anche nell’età più matura. Epoca quarta, cap I, pag 183 e cap III, pag 199. Il giovane, poco più che ventenne, manifesta una fortissima avversione per “la maledetta genia soldatesca”, al potere in modo più o meno aperto in diversi paesi. La sua netta posizione antimilitarista si esprime con grande forza nel corso del viaggio del nord-est dell’Europa. Epoca terza, cap VIII, pag 120. Apparirà anni dopo, più sfumata, l’avversione, veicolata piuttosto come ideologica incompatibilità, nei confronti del re di Sardegna, Vittorio Amedeo III (attenzione all’errore nel numero ordinale, secondo anziché terzo, che è del testo e non degli editori). Epoca quarta, cap XIII, pag 243 → Alfieri aveva rifiutato, in un colloquio preliminare con un ministro del regno sabaudo, qualunque incarico presso la corte. Va tenuto presente che fino al 1773 sul trono sabaudo vi era stato Carlo Emanuele III (“sotto il cui regno io nacqui”), di ancor pi spiccata inclinazione autocratica e militarista. Le biografie lo mostrano come un uomo insicuro, probabilmente a causa della scarsa considerazione paterna, ma puntiglioso. Soprannominato “il laborioso”, trovò il suo riscatto nelle campagne militari che gli consentirono anche acquisizioni territoriali. È vero che, in precedenza, A lo aveva definito “il mio ottimo re Carlo Emanuele” ma se si legge il contesto allargato di questa affermazione ci si rende conto della gravità della critica che vi si annida. La circostanza è quella della visita al giovanissimo, sedicenne re Ferdinando IV di Borbone a Napoli. Epoca terza, cap II, pag 99. Visitando diversi paesi, dunque, il giovane A sviluppa conoscenze antropologiche e politiche ed esercita le proprie facoltà critiche. Epoca terza, cap III, pag 102-103. Nel viaggio del 1770 tra Prussia e Russia, la posizione velleitariamente antimonarchica matura in odio purissimo della tirannide in astratto in disprezzo nei confronti dei popoli ignavi che “sotto mentita faccia di uomini si lasciano più che bruti malmenare in tal guisa dai loro tiranni” (ep terza, cap IX, pag 125). Questo viaggio, “il più spiacevole, tedioso e oppressivo di quanti mai se ne possano fare; inclusive lo scendere all’Orco, che più buio e sgradito ed inospito non può esser mai” (idem), si chiude con la visita al campo di battaglia di Zorendorff, sul qual proprio gli eserciti russo e prussiano, vera carne da macello, s’erano scontrate tra il 24 e il 25 agosto 1758, durante la guerra dei sette anni (pag 125). Non sfuggirà la dura cupezza della riflessione, resa ancor più incisiva dalle spietate scelte lessicali (“armento”, “giogo”, “ossa”, “fosse”, “schiavi” e soprattutto “concio”); il grano cresce rigoglioso perché le migliaia di cadaveri concimano il terreno. AUDIOLEZIONE 7 – AMORI 1 Epoca terza, cap VI, pag 113. È una dichiarazione molto impegnativa che va connessa ad una precedente pagina introspettiva → epoca terza, cap II, pag 99-100. Tuttavia, fatta salva l’infatuazione platonica del ragazzo sedicenne per una giovane signora, narrata nei termini di una nobile passione petrarchesca nel cap X della seconda epoca (anno 1765), le reali esperienze amorose sono presentate nella prima metà della “Vita” come disavventure, reti, catene e intoppi, portatori di cocenti disinganni. Se ne dichiara salvo nel suo primo viaggio (epoca terza, cap II, pag 98) ma la rete di Amore lo attende, com’è naturale per un giovane di quasi vent’anni e lo coglie in Olanda. Epoca terza, cap VI, pag 11. Questa accensione di amore si accompagna con la nascita di una grande amicizia tra Alfieri e l’ambasciatore portoghese D’Acunha. I pochi ma profondissimi legami affettivi che lo scrittore strinse con degne personalità, oltre a D’Acunha, Francesco Gori Gardellini e Tommaso Valperga di Caluso, sono rappresentati nei termini di un sentimento altrettanto forte dell’amore. Ne fa fede, per es, un doc più privato della “Vita”, una lettera che A scrisse in occasione della morte di Gori Gandellini: “Io sempre l’ho negli occhi e lo vedo grave e morente, e penso e sento il dolore che avrà avuto di non vedermi ancora una volta, e dirmi i suoi ultimi pensieri. Oh Dio, io non so quello che mi dica, né faccia; sempre lo vedo e gli parlo, e ogni sua minima parola e pensiero e atto mi torna in mente, e mi dà delle continue e dolorosissime pugnalate nel core. Perdo un cosa che non si trova mai più: un amico vero, buono, ingegnoso, disinteressato e caldissimo. Il mondo perfido non li dà questi tali, ne ve li cerco […]. Io certo non vorrei sopravvivere: ché di tutte le cose del mondo sono sazio, e nessun’altra dolcezza vi può essere nella vita che lo sfogo sicuro e intero del core, reciproco e continuo” (A Mario Bianchi, da Colmar, 17/09/1784). Ma si torni alla vicenda olandese. Epoca terza, cap VI, pag 113. Come la storia vada a finire, lo si sa avendo letto la “Vita”. Del resto, la liaison è definita nel titolo del cap VI “Primo intoppo amoroso”, con espressione petrarchesca che tornerà a bollare la successiva storia (vedi sonetto Petrarca). In climax, la successiva vicenda erotica è catalogata nel titolo del cap X della terza epoca come “Secondo fierissimo intoppo amoroso a Londra” e preparata, alla fine del cap precedente con il preannunci odi alcuni frangenti straordinari e scabrosi. La storia dell’amore passionale per Penelope Pitt, del duello con il marito di lei, lord Ligonier e della successiva cocente delusione è uno degli episodi più noti dell’opera. Sul piano strutturale, il racconto ha caratteristiche proprie che ne fanno quasi un nucleo indipendente all’interno del testo. Come osserva Ivan Tassi, “la lunghezza dei due cap (X e XI) è anomala rispetto alla media registrabile nella “Vita”; il testo, dopo un rapido sfruttamento del frequentativo(qui Tassi si riferisce all’uso dei verbi all’imperfetto), si concentrerà su alcune giornate scelte: fino a dilatarsi nella scena particolareggiata di alcune ore precise”. E, infatti, lo scrittore stesso se ne scusa. Epoca terza, cap XI, pag 140. Come si ha già avuto modo di sottolineare in altre occasioni, la preoccupazione di fornire la propria versione dei fatti era fondatissima: la vicenda aveva, infatti, sollevato un grande scalpore, finendo sui giornali come ricorda lo stesso A (cap XI, pag 138) e come si apprende da una fonte molto particolare, le lettere che il fidato Elia spediva al cognato di Vittorio, conte di Cumiana. Eccone uno stralcio nel quale il servitore, nel suo italiano dialettale, narra l’effetto che la deposizione del palafreniere aveva prodotto sul giudice durante il processo: “ed il Giudice, sentendo questo, la penna ci tombò dalle mani di stupore; e tutto quanto sopra è pubblico in questa Capittale, e più ancora sopra le Gasette, che in questo paese insino a tutte le serve le legano tutti gli giorni, e ne dicano ancora molto di più di quanto sovra” (“Il «fidato» Elia e le altre note alferiane). Ancora tanti anni più tardi, Alessandro Verri, scrivendo da Roma al fratello Pietro, il 19 aprile del 1783, farò riferimento a quello scandalo noto a tutti i salotti europei. Il processo per adulterio intentato dal lord inglese si concluse con una pesante condanna pecuniaria per il giovane A, il quale, al probabile scopo di sottrarsi alla pena, abbandonò rapidamente l’Inghilterra. La vicenda costituì anche il sogg di un maligno pamphlet sotto forma di memoria di un sedicente conte piemontese, Asmodei, che fu pubblicato a Londra nello stesso 1781, “The generous husband”, nel quale comparivano, riconoscibili anche se sotto finto nome, lo stesso Asmodei alias Alfieri come imbroglione e stupratore, la donna come vittima e il lord ammirevole nella sua nobiltà ferita. Tornando all’episodio della “Vita”, va osservato che anche l’insolito ricorso al dialogo, come avviene per il racconto dell’uscita da Parigi alla barrière blanche, mira a conferire realismo alla rappresentazione drammatica. Al procedere incalzante dei fatti (epoca terza, cap X, pag 131), lo scrittore intreccia abilmente le proprie riflessioni di allora e il disagio crescente per la consapevolezza del proprio torto (seguito di pag 131 e 132). Quando, però, si tratta di ricostruire l’antefatto dell’indagine che aveva portato il marito alla scoperta dell’adulterio, la descrizione dell’aplomb britannico scatena un rovesciamento dei piani con una liberatoria dissoluzione della tensione → pag 134 → il marito si limitò a pretendere il divorzio. A onor del vero, bisogna aggiungere che lo scrittore si ricrederà, alla fine del cap, riconoscendo, seppur con una certa aria di sufficienza, la generosità del marito (cap XI, pag 139). Il rocambolesco romanzo di questa avventura ha un inatteso corollario a distanza di vent’anni, nel 1791, quando A, in procinto di imbarcarsi per tornare dall’Inghilterra in continente assieme con il suo definitivo amore Luisa Stolberg, vede sulla spiaggia di Douvres/Dover proprio Penelope Pitt. Epoca quarta, cap XXI, pag 271. La circostanza che A transitasse per quel luogo non è poi così fortuita: Dover e Calais sono passaggi obbligati per il passaggio via mare tra Inghilterra e Francia. L’incontro turbò moltissimo lo scrittore. Pag 272. Componendo la “Vita”, A volle trascrive la risposta di Penelope come appendice del cap XXI della quarta epoca (doc B2). La sua lettera, della quale rimpiange qui di non aver conservato una copia, è stata poi ritrovata in un numero di una rivista inglese ottocentesca da Eric Vincent e pubblicata a metà del novecento nel “Giornale storico della letteratura italiana”. È stata poi riprodotta nel secondo volume dell’edizione critica della “Vita” pubblicata nel 1951 da Luigi Fassò. La lettere di Penelope, in francese, smorza pacatamente il proclamato senso di colpa di A e, di conseguenza, anche la portata di quella vicenda, rivendicando orgogliosamente la felicità della sua nuova vita fra persone semplici e oneste, senza troppe pretese di genialità. Grazie a questo doc, si viene a conoscere anche un certo spessore culturale della donna che si dichiara appagata da libri, disegno e musica e che mostra di essere aggiornata sui successi letterari di Vittorio, benché solo per fama. Altro ci sarebbe da osservare ma ci si limiti a registrare l’acido e paternalistico giudizio di A. Epoca quarta, cap XXI, pag 272-273. AUDIOLEZIONE 7 – AMORI 2 Tornato a Torino nel 1773, “dove si allogò in una casa da lui magnificamente arredata in piazza S. Carlo (là dove oggi ha inizio la via Alfieri) e dove ebbe modo di distinguersi per la ricchezza, la prestanza fisica, - «bello come un Apollo» fu detto da una donna” (Mario Fubini), Alfieri incappò in una terza rete amorosa, anzi in un “tristo amore” per Gabriella Falletti. La terza rete non ha delle precedenti la forza passionale bensì una più insidiosa coazione all’abitudine come si legge sia nella prosa scarna della pg di diario, ancora scritta in francese 8”vorrei rompere del tutto questo legame, non mi sento tanto capace di farlo come quando m’avvicino al suo ogg, ma a man mano che ,e ne allontano, ne considero la fine come una sventura, la temo come tale, e non ne avrei mai coraggio di tentarla”), sia nel sollievo della rievocazione letteraria, a pericolo cessato. Epoca terza, cap XIII, pag 152 → la cometa interesserà, infatti, di più per la ricaduta indiretta sulla carriera drammaturgica di A, di cui si parlerà nella prossima lezione. Tre catene amorose si susseguono, dunque, tra 1768 e 1775. Tra queste e l’arrivo del “degno amore” per la contessa d’Albany, c’è un passaggio molto più borghese. Alfieri lo racconta con una certa enfasi nel cap IV della quarta epoca, anno 1777. Ma ora lo si legge nella forma più schietta dei diari o giornali: “Lunedì 2 giugno, Siena. In Pisa rividi una ragazza, con cui facea l’amore, l’anno scorso; non ne sono innamorato; ma la mi pare d’un indole ottima; e non fui mai così vicino ad ammogliarmi. Pensai, di mettere questa vocazione alla prova, coll’allontanarmi; perciò venni a Siena. La ragazza è piuttosto ricca; e questo, benché io n’arrabbi frame stesso, non mi dispiace. La tranquillità così necessaria al mio mestiere, mi parrebbe perfetta, avendo una moglie amorosa, e costumata: ma se non è? Questa costumata pare: innamorata di me lo pare: ha rifiutato altri partiti; in un anno di d’assenza, so che ha sempre cercato di me: senza ch’io non le avessi detto né anche una volta, ch’io l’amassi: quando son con lei, la veggo in quel contegnoso, e modesto impaccio, in cui si trova una ragazza, che ama, e non l’osa dire, ma vuol, che s’indovini. Finta finora non lo è: ma, ma, ma. Bisogna pensarci”. Non era la prima volta che Vittorio prendeva in considerazione il matrimonio, anzi aveva già sorpreso il lettore con l’affermazione “io, per natura, sarei stato inclinatissimo alla vita casereccia” (ep terza, cap VII, pag 116-117), narrando di una trattativa condotta da suo cognato per sistemarlo a Torino con una moglie e un incarico diplomatico, ma era spuntato un rivale e il progetto non era andato in porto (pag 117). “Addio muse” dice A… la volpe e l’uva? Di una proposta di matrimonio combinata da sua madre molti anni dopo, facendo l’autore incolpevole l’abate Caluso, si è già visto l’esito. Con la nascita del “degno amore” per Luisa Stolberg, contessa d’Albany dal 1777, epoca quarta, cap V, la percezione degli eventi concreti, e quindi del percorso narrativo, diventa quella di una coppia, fosse anche solo per registrare le forzate riparazioni inflitte dalle circostanze. Anche il viaggio in Inghilterra del 1791 che si conclude con l’incontro di Penelope a Dover, per fare un es, era stato effettuato per il desiderio della sua donna, cioè Luisa, di visitare l’Inghilterra, quella sola terra un po’ libera. Della loro storia, A racconta con molto rispetto solo quanto è necessario a riscattare completamente il comportamento di Luisa che aveva lasciato il marito, oppressa dalle sue vessazioni (ne parla, per es, sempre nella quarta epoca, nei cap VII e VIII, 1779-1780); una moglie che avrebbe meritato, invece, di essere amata. Anche in questa occasione, A non manca di assumere, almeno per un momento, il pt di vista dell’altro, riconoscendo che la propria assiduità in casa Stuart era discutibile → ep quarta, cap X, pag 229. Giunto, infine, all’annuncio della morte di Carlo Stuart, A non riesce a comprendere ma ammira la commozione di Luisa, come segno di grande sensibilità. Epoca quarta, cap XVIII, pag 264. AUDIOLEZIONE 8 – LE TRAGEDIE Si parlerà della produzione tragica di Alfieri solo nella prospettiva nella quale ne discute l’autore stesso nella “Vita” e e per questo si riparta dal “laberinto” del legame con Gabriella Falletti, una metafora che A usa più volte, nelle tragedie, per indicare le insidie della reggia in quanto sede del potere. Egli afferma di essersi gravemente ammalato proprio a causa del tormento prodotto dall’indegna relazione. Epoca terza, cap XIV, pag 153. Di segno opposto, e confacente all’arditissima ispirazione di A, si rivelò, invece, il degno amore per Luisa Stolberg come conferma una lettera inviata nel 1778 all’amico Arduino Tana: “Finora ho sempre amato donne, che malediva l’ora, in cui mi eran capitate fra’ piedi; di questa benedico il momento. Io ho intenzione di divenire poeta ottimo, o di morir nell’impresa, e tutti i miei pensieri riferiscono lì; e la donna che io amo, l’amo anco più perché non mi è di nessunissimo impedimento, anzi mi è di incitamento allo studio”. Questo atteggiamento prometeico, che si è già avuto modo di sottolineare altrove, è alla base dell’autoimposta vocazione tragica dello scrittore. Si riprenda, per es, la pag del giornale del 2 giugno 1777, che si è già vista in pt, ad altro proposito, e ne si confronti il tono con il corrispondente sviluppo narrativo della “Vita”: “Sbarcai; giunse molti giorni dopo la filucca (o feluca, è una piccola nave veloce) a Lerici, e venni a Pisa. Mi spiace sommamente di non aver scritto allora i pensieruzzi, che m’agitarono in quel frattempo. Un giorno solo ebbi di buono in Sarzana; e scrissi in quello la distribuzione della «Virginia»; tragedia, che spero col tempo di condurre a buon fine. Mi fece abbracciar questo sogg l’aver udito, ch’ella non si potesse fare; io vorrei sempre fare quel che non si può; e non faccio forse neppur quello che si può”. Si legga ora la rielaborazione nobilitante dello stesso episodio di Sarzana nella “Vita” → ep quarta, cap IV, pag 202.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved