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Archeologia e Storia Dell'Arte di Cina e Giappone, Sintesi del corso di Archeologia

Riassunti dei primi 7 capitoli del libro di Archeologia Giapponese di Miyeko Murase + una lista delle possibili domande che potrebbero essere fatte all'esame, sostenuto con la professoressa Chiara Visconti.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica Archeologia e Storia Dell'Arte di Cina e Giappone e più Sintesi del corso in PDF di Archeologia solo su Docsity! 1. L’INIZIO DELL’ARTE BUDDHISTA: IL PERIODO ASUKA (538-710) Per spiegare l’introduzione del Buddhismo in Giappone, bisogna innanzitutto spiegare il Buddhismo, religione fondata dal Buddha, l’illuminato, nato nel clan principesco dei Sakya verso il 563 a.C.. Il Buddha mortale è noto con il nome di Siddharta, oppure come Sakyamuni, “il saggio di Sakya). Durante la giovinezza, Siddharta divenne dolorosamente consapevole della sofferenza del genere umano e si risolse a trovare rimedio a tali mali. Dopo la sua fuga dalla Capitale, studiò sotto la guida di vari saggi brahmani, che sostenevano un ascetismo abbastanza estremizzato. Di conseguenza, insoddisfatto dei loro insegnamenti, vi rinunciò totalmente, e attraverso la pratica dello Yoga raggiunse la sua illuminazione, che avvenne sotto l’albero della bodhi, ovvero della saggezza. A partire da quel momento il Buddha si dedicò a condividere con altri i misteri dell’universo e a conquistare la salvezza per tutta l’umanità. Egli insegnava ai suoi discepoli che l’intera esistenza è sofferenza, e che la miseria umana trae origine dall’eccessivo attaccamento alla propria individualità e agli effimeri piaceri dei sensi. La cura per questa malattia universale risiede nell’annullamento dell’io e nella liberazione dalle reincarnazioni, ovvero dall’inesorabile ciclo di nascita, morte e rinascita a cui si credeva che tutti gli esseri senzienti fossero destinati, per raggiungere alla fine una liberazione permanente. Egli consigliava, inoltre, di raggiungere la salvezza seguendo l'ottuplice sentiero. Ad 80 anni il grande maestro entrò nel nirvana, ovvero nella morte, completando la sua liberazione dal ciclo delle reincarnazioni. Molto tempo dopo la sua morte, i suoi dogmi religiosi si diffusero al di là delle frontiere dell’India, e furono introdotti anche in Giappone. Il Buddhismo settentrionale, il Mahayana, permeò l’Estremo Oriente e si differenziò dall’Hinayana, presente in Asia Sud-Orientale, per la basilare credenza che il Buddha non fosse solo un maestro mortale, bensì un vero e proprio Dio. Il primo, inoltre, considera possibile la salvezza universale per tutti, mentre la seconda consente di perseguire la propria salvezza, il proprio nirvana, egoisticamente. Come mezzo indispensabile per il conseguimento della salvezza universale, il Mahayana introdusse la figura del Bodhisattva, un essere che, pur avendo conseguito l’illuminazione, vi ha rinunciato allo scopo di alleviare le sofferenze altrui. Il Buddhismo fu introdotto prima in Cina, attraverso le lunghe distese desertiche, e poi in Corea. Nel 538 il monarca del regno coreano di Paekche, convinto credente, mandò un messaggio all’imperatore giapponese, incitandolo ad abbracciare la fede indiana. I giapponesi si ritrovarono così divisi in due fazioni: i conservatori rifiutarono la nuova fede, preferendo le antiche credenze, mentre i progressisti favorirono la nuova religione, che secondo loro avrebbe offerto alla loro nazione dei vantaggi illimitati. I conflitti durarono quasi mezzo secolo, finché nel 587 vinsero i progressisti, a favore del Buddhismo, segnando per il Giappone la nascita di una nuova era. Per i giapponesi questa fu una grande scossa culturale, poiché abbracciare il Buddhismo significava infatti assumere un modo di vita totalmente differente. La base della nuova fede fu la civiltà cinese, che introdusse anche un vero e proprio sistema di scrittura che rivoluzionò la vita dei giapponesi, che non avevano mai posseduto un proprio linguaggio scritto. In Giappone era già presente lo Shintoismo, e lo è tutt’ora, dato che i primi Buddhisti giapponesi impararono a conciliare la nuova religione con i loro vecchi dei, ma anche perché lo Shintoismo non è una religione sistematica. Con l’introduzione del Buddhismo in Giappone si dà il via ad una nuova epoca, detta Periodo Asuka. Il primo tempio Buddhista fu quello di Hokoji, iniziato nel 588, che andò distrutto molti anni fa e l’unica superstite è una rovinatissima statua di un Buddha. I templi come quello di Hokoji erano modellati su prototipi cinesi. I recinti erano costruiti su un terreno piano e gli edifici erano realizzati sulla base di una pianta simmetrica, con l’orientazione a sud, direzione considerata propizia. L’accesso al grande complesso sacro era contrassegnato da una struttura denominata “grande portale meridionale” (nandaimon), collocata leggermente in disparte rispetto al complesso principale del tempio. L’area principale del tempo, delimitata da un corridoio coperto, è di forma approssimativamente rettangolare, e in essa penetra dal lato meridionale attraverso il portale mediano (chumon). A differenza dei santuari Shintoisti, questi templi erano fatti con materiali tali da permetterne la loro durata nel tempo, sebbene i loro colori siano ormai scoloriti. Inoltre, agli angoli dei cornicioni sono appese delle miniature di strumenti musicali, che emettono suoni quando mossi dal vento. I templi Buddhisti erano infatti mirati a ricreare sulla terra il paradiso del Buddha. Tutti gli antichi monasteri sono sfortunatamente andati distrutti; il più antico tempio superstite è l’Horyuji, nel distretto di Asuka. Si tratta di un tempio intimamente connesso con il principe Shotoku Taishi, accanito sostenitore del Buddhismo. Si crede che questo tempio sia stato eretto per la prima volta nel 607, e l’occasione della sua costruzione è enunciata in una iscrizione incisa sul rovescio dell’aureola del Buddha Yakushi, il Buddha della Guarigione, conservato nella sala d’oro. Questa iscrizione spiega che il padre di Shotoku si ammalò gravemente, e al principe fu richiesto di fondere una statua del Buddha della guarigione e di costruire un tempio per ospitarla. Il primo tempio Horyuji andò completamente distrutto in un incendio, dopo essere stato colpito da un fulmine nel 670. Fu poi ricostruito, leggermente più a Nord rispetto al primo. Durante questa ricostruzione, molti edifici furono aggiunti al nucleo originario, e alla sezione più antica fu attribuito il nome di Sai-in (Tempio Occidentale). Purtroppo questo tempio andò in contro ad una seconda disgrazia nel 1949, quando fu nuovamente distrutto dal fuoco, e nuovamente ricostruito, restando fedeli alla prima ricostruzione. La “sala d’oro” sorge su una doppia piattaforma in pietra. Sotto il tetto di tegole più elevato vi è una balaustra decorativa in legno che accompagna i quattro muri, mentre sotto il tetto di mezzo ve n'è un terzo posto sotto il passaggio esterno, detto mokoshi, che crea l’illusione di un edificio a tre piani e che fu probabilmente aggiunto per accrescere la protezione del muro intonacato contro la pioggia. Il doppio solaio del Kondo ed i cinque piani della Pagoda sono puramente ornamentali: servono semplicemente a dare l’illusione di un’altezza maggiore a quella reale. Tutti i tesori e le statue sono collocati sulla piattaforma principale del pianterreno del Kondo. La struttura non è abbastanza robusta per sostenere il peso delle tegole del tetto, perciò furono inseriti, nei quattro angoli, dei montanti in legno per conferire una maggiore solidità. L’edificio rappresenta un enorme reliquiario eretto per ospitare le spoglie mortali del Buddha, seppellite in questo edificio in una cavità scavata a circa 3 metri al di sotto di una piattaforma di pietra. Sopra la cavità della pagoda si trova l’alto sostegno centrale, che sostiene la cuspide a nove anelli, un’insegna reale che rappresenta un ombrello tenuto sulla testa del Buddha. Nonostante la sua altezza pari a quasi 35 m, la struttura appare stabile poiché l’ampiezza dei vari tetti diminuisce drasticamente man mano che si procede verso l’alto. La navata centrale del Kondo è completamente occupata da una grande piattaforma in legno, sui cui trovano molte statue. Le icone più importanti sono tre immagini del Buddha in bronzo dorato, ovvero: l’Amida (il Buddha della luce e del paradiso occidentale), appunto, ad occidente, lo Shaka (il Buddha storico) al centro, e lo Yakushi (il Buddha della guarigione) nella parte orientale. L’icona centrale è una triade composta dallo Shaka e dai due bodhisattva al suo servizio. Una iscrizione incisa sull’aureola afferma che il gruppo fu commissionato come offerta a favore del principe Shotoku e, nonostante la sua morte, fu portata a termine da un artista di nome Tori. I Buddha Yakushi e Shaka si somigliano molto: entrambi indossano vestiti simili a kimono, con maniche intere e lunghe sottane che scendono sul piedistallo con una cascata di pieghe curvilinee efficacemente schematizzate. può chiamare “cleristorio”, che furono rimossi durante la Seconda Guerra Mondiale, proprio per evitare che fossero distrutti. Nelle quattro grandi pitture parietali erano raffigurati i paradisi dello Shaka, dell’Amida, dello Yakushi e del Miroku. Le quattro scene paradisiache mostrano i Buddha con accanto due bodhisattva, a formare delle triadi. Attraverso le scene si distribuiscono delle figurine assise su boccioli di loto, che rappresentano le anime fortunate ammesse o rinate in quella terra di eterna beatitudine. Diversamente dalle astratte ed immobili sculture in bronzo o in legno, gli dei raffigurati su queste pareti creano l’illusione dell’esistenza corporea. All’ultima fase della ricostruzione del monastero di Horyuji risalgono un gruppo di insolite sculture in argilla, conservate al pianterreno della pagoda. Il sostegno centrale di questo edificio è circondato da quattro quadri plastici in argilla cruda. Vi sono infatti quasi un centinaio di statuette inserite in diverse scene narrative. Le storie rappresentate sono: a Nord il Nirvana, comprendente dei bodhisattva e dei discepoli del Buddha, tutti atteggiati a lutto; ad Ovest la distribuzione delle reliquie dello Shaka, con un grande scrigno posto al centro della scena; a Sud il paradiso del Miroku, un futuro Buddha che discenderà dal cielo per predicare la legge al termine del ciclo temporale. Queste tre scene sono teologicamente legate al tema della morte dello Shaka. Senza alcun rapporto con le altre scene è invece la storia ad Est, che illustra l’importante discussione teologica tra Monju Bosatsu e Yuima, uno studioso malato, ma dotato di acuta intelligenza. Le statuette in argilla richiamano da vicino la coppia di guardiani del tempio alloggiata nel “portale mediano” di Horyuji. Secondo i documenti del tempio, questa coppia di giganteschi Nio fu eseguita nel 711. Le statuetta in argilla della pagoda ed i Nio sono tra le opere che nella ricostruzione del monastero vennero completate per ultime. Rispetto alla Cina, il Giappone è meno ricco di testimonianze funerarie. Una rara eccezione è però costituita da una piccola tomba, la Takamatsu-zuka, rinvenuta nel distretto di Asuka nel 1973, la quale è decorata da pitture parietali ancora in buone condizioni. L’identità della persona sepolta in tale tomba è sconosciuta, ma apparteneva sicuramente ad un rango principesco. Le pitture qui rinvenute comprendono figure di animali e quattro gruppi di uomini e donne. Sulle pareti Nord, Est ed Ovest vi sono gli animali che nella cosmologia dell’Estremo Oriente simboleggiano comunemente i punti cardinali: una tartaruga con attorcigliato un serpente, un drago ed una tigre. La parete Sud è andata parzialmente distrutta e la pittura non è più riconoscibile, ma probabilmente mostrava una fenice. Al di sotto delle quattro figure di animali, vi sono quattro gruppi di figure umane, che sembrano procedere lentamente verso la porta. 2. BUDDHISMO COME RELIGIONE DI STATO - NARA (710-784) Nara fu la prima capitale permanente sul modello di Chang’an; poiché la corte fece vari tentativi per affermare il Buddhismo come religione di stato, molti templi di Asuka vennero trasferiti a Nara. Il più straordinario trasloco fu sicuramente quello del tempio Yakushi-Ji, dedicato appunto al Buddha Yakushi, il Buddha della guarigione. Si narra che nel 718 alcuni operai abbiano impiegato sette giorni per trasportare la gigantesca triade del Buddha Yakushi dalla vecchia alla nuova struttura. Il tempio presenta un Kondo, due pagode ed una sala di lettura. La sua pianta differisce da quella dello Horyuji poiché la sua enfasi è posta sul Kondo, una struttura a due piani con un mokoshi per tetto, visibile all’ingresso del tempio. Anche lo stile delle pagode è diverso rispetto a quelle dello Horyuji: i tre tetti della pagoda orientale si alternano con i tre tetti minori del mokoshi, creando l’illusione di una maggiore altezza; inoltre i muri bianchi del mokoshi accrescono la luminosità dell’edificio. La principale icona del kondo è la triade bronzea composta da Yakushi, affiancato da due Bodhisattva, a destra Nikko (luce solare), a sinistra Gakko (luce lunare), tutti di dimensioni colossali. La triade è in bronzo e le figure presentano ormai una patina nera, che contrasta con le aureole d’oro che nel periodo Edo hanno sostituito quelle danneggiate. Il colore attuale, ovvero quella patina nera che ricopre le statue, è dovuto ad una quantità di argento presente nel bronzo. La mano destra del Buddha Yakushi è in Vitarka Mudra, che indica la spiegazione della dottrina. La mano sinistra ha invece il palmo rivolto verso l’alto con le dita piegate, per reggere un vaso medicinale, ora andato perduto. Il piedistallo bronzeo è ornato con grappoli d’uva, di origine cinese. Sui quattro lati vi sono i simboli dei quattro punti cardinali e quattro gruppi di creature demoniache seminude. Sul petto, sulle mani e sulle piante dei piedi del Buddha vi sono i vari simboli del Buddha: la ruota della legge ed i raggi solari. Todaiji: l’imperatore Shomu, fervente buddhista, voleva instaurare l Buddhismo come religione di stato, così decretò la costruzione, in tutto il paese, di monasteri kokubunji e di conventi kokubun-niji provinciali, in onore del Buddha Shaka. Todaiji sarebbe stato il tempio principale e tutti gli altri sarebbero stati subordinati secondo il modello Tang, ma il progetto non fu mai portato completamente a termine. L’icona principale è il Buddha Rushana (il Buddha della luce suprema), fonte dell’interno cosmo, e ciò decretava la supremazia del Todaiji su tutti gli altri templi provinciali. Il Todaiji fu danneggiato ben due volte (1180 e 1567); nella pianta originale erano incluse due pagode a 7 piante alte 100 metri; il kondo si chiama daibutsuden (sala del grande Buddha) ed è il più grande edificio ligneo al mondo. Per il completamento del Buddha Rushana, di circa 15 metri, lavorarono oltre 900 mila operai, per oltre 11 anni. Il Buddha è assiso su un piedistallo bronzeo a forma di fiore di loto, composto da 48 petali, su ciascuno dei quali è incisa una scena raffigurante il cosmo Buddhista, con lo Shaka circondato da monaci e bodhisattva. Nel 752 ci fu la cerimonia dell’apertura degli occhi, alla quale parteciparono numerosi personaggi importanti. Fu lo stesso imperatore Shomu a dipingere le pupille. Durante il periodo Asuka l’adorazione del Buddha era destinata solo a pochi privilegiati, ma durante il periodo Nara la fede si estese all’intera popolazione, e anche le espressioni artistiche si differenziano, diventando molto più complesse e varie. All’interno dei Todaiji vi sono molti edifici, per lo più distrutti e poi ricostruiti. Un’eccezione originale e non ricostruita è rappresentata dallo Hokkedo, dove si compie il rito dedicato al Sutra del loto Hokke. L’icona principale è Shukongoshin, “latore di folgore”, una statua in argilla cruda, chiusa in una delle stanze all’estremità settentrionale del tempio. E’ esposta una sola volta all’anno e, proprio per questo, è ben conservata; presenta, infatti, ancora i colori verdi e rossi dell’armatura. L’argilla morbida era il materiale ideale per esprimere forti emozioni e le figure militari: le sopracciglia sono corrugate, la bocca è aperta per lasciar intravedere i denti e la lingua, le vene sulle braccia ed i pugni serrati esprimono forza. L’espressione di rabbia è intensificata dalle pietre nere che formano gli occhi. Nella camera meridionale la divinità principale è un Bodhisattva: Fuku Kensaku Kannon, con le sue otto braccia; un paio di braccia sul torace, nel mudra dell’adorazione, in un’altra mano mantiene delle funi, che servono a fermare il male. La statua fu realizzata con la nuova tecnica della lacca secca, preferita all’argilla cruda per il minor peso e la maggior durata. La testa di Kannon è squadrata, le spalle sono molto larghe e possenti, il volto è privo di sorriso e sulla fronte ha il terzo occhio, simbolo di potere e saggezza. L’elaborata corona in argento contiene centinaia di pietre preziose e in mezzo si trova una statuetta di Amida. La tecnica della lacca secca parte da un nucleo di argilla che viene poi ricoperto da numerosi strati di tela di lino imbevuta di succo di lacca. Una volta essiccati questi strati di lino, il nucleo di argilla viene rimosso e rimpiazzato da una serie di armature lignee, introdotte per sostenere la statua dall’interno. Accanto a Kannon vi è una coppia di statue in argilla più piccole e molto realistiche: si tratta dei Bodhisattva Nikko e Gakko, ai due lati della statua principale, in atteggiamento devoto. Hanno gli occhi semichiusi in contemplazione e le mani congiunte nella preghiera. Nella zona ad ovest della sala del Buddha, nel Kaidan-in, vi sono i 4 guardiani, le cui espressioni dei volti e movimenti dei corpi creano una forte tensione tra quiete ed azione. Zachoten, uno dei quattro guardiani, ha in mano una lunga lancia e poggia il piede destro sulla testa di un demone, che si contorce. Gli occhi sono intarsiati di pietre nere, la fronte è corrugata, la bocca è aperta per lasciar vedere i denti. L’armatura, in origine, era in lamina d’oro e dipinta di rosso, verde e blu. L’ultimo edificio nel recinto del Todaiji è lo Shosho-in (edificio dei tesori). Si trova a nord ovest della sala del grande Buddha ed è simile ad una capanna di legno; non è, dunque, molto diverso dai magazzini degli altri templi. La particolarità è che contiene i beni personali dell’imperatore Shomu e di sua moglie, donati al Todaiji dopo la morte dell’imperatore (756). Contiene anche gli arredi Buddhisti usati per la cerimonia dell’apertura degli occhi per la statua di Rushana. Molti oggetti erano cinesi o copie di oggetti cinesi, ma furono ritrovati addirittura oggetti provenienti dall’antica Persia. La collezione comprende anche un paravento pieghevole a 6 pannelli dipinto, in stile Tang. Ogni pannello ritrae una donna, tre sono stanti e tre sono assise, tutte in carne. Il paravento è rosa; gli abiti e gli elementi del paesaggio sono delineati solo ad inchiostro, anche se in origine erano ricoperti da piume. A Nara, una piccola pittura simile a questa, eseguita però su un abito religioso di canapa, ritrae Kichijoten, dea della bellezza, moglie di Vishnu, rappresentata secondo gli ideali di bellezza Tang, caratterizzata da un volto rotondo, le labbra a bocciolo di rosa e le mani piene che reggono un cintamani. A Kyoto, la più antica pittura sopravvissuta in rotolo è il Kako Genzai, E-Ingakyo, ovvero il “sutra illustrato del karma passato e presente”, che rappresenta la storia della vita del Buddha. I quattro rotoli superstiti appartengono tutti a quattro serie differenti composte da 8 rotoli l’una. La storia si svolge da destra a sinistra ed è divisa in illustrazioni sopra e testo in basso. La storia si divide in episodi e si pensa sia una riproduzione di modelli cinesi antichi. Kofukuji: risale alla prima metà dell’ottavo secolo e fu costruito come tempio privato della famiglia Fujiwara. Aveva tre sale Kondo, la sala di lettura, il deposito dei sutra, la torre campanaria, un refettorio e le abitazioni dei monaci. L’unica pagoda si trovava ad est, in una zona separata con il Kondo orientale; anche il Kondo occidentale si trovava fuori dal recinto principale. Nel 721 fu costruito un edificio ottagonale, che fungeva da deposito di reliquie, tra cui si sono conservati solo i “10 grandi discepoli di Shakyamuni” e gli “8 guardiani celesti”. Oggi, tra questi, rimangono solo 6 discepoli e 7 guardiani, chiamati ashura, che erano un tempo spiriti ostili divenuti semidei e protettori della legge del Buddha dopo la conversione. Toshodaiji: dopo l’arrivo del monaco cinese Ganjin nel 754 vi fu il primo rito di consacrazione di tutto il Giappone, che ebbe luogo davanti alla Daibutsuden del Todaiji. Nel 759 venne eretto per lui il tempio di Toshodaiji. La sua Sala del Buddha è la più grande sopravvissuta del periodo Nara sulla base del modello Tang; questa ha un solo piano, un Kongobuji. Lo schema adottato per la costruzione di questo monastero divenne il modello di altri templi Mikkyo. La pianta simboleggia l’ideologia Shingon, con i due mondi, Taizokai e Kongokai. Il tempio fu distrutto molte volte dal fuoco e ad oggi conserva l’aspetto originario solo nello schema. Kukai eresse la Sala delle Prediche, con alle spalle due pagode, simbolo dei due mandala. Queste sono diverse dalle tradizionali pagode poiché non ospitano le reliquie del Buddha, ma fungono semplicemente come sala delle prediche ed ospitano i % Buddha del Mikkyo. Dopo la morte di Saicho, a Kukai fu dato dalla corte il compito di completare un tempio nella capitale, che in realtà era già in costruzione da circa 30 anni, ovvero il Toji, ribattezzato ora Kyo Gokokuji, tempio protettore della nazione. La pianta adottata è tradizionale di Nara, ma le sue opere rivelano l’intento di Kukai di predicare il Mikkyo. Nella sala delle prediche troviamo, come già detto, i 5 Buddha del Mikkyo, con Dainichi in mezzo, che occupano il centro di un podio e sono circondati da quattro Bodhisattva, dai quattro guardiani dei punti cardinali, da cinque grandi Myoo (re luminosi, protettori della nazione) e da una coppia composta da Bonten e Taishaku Ten. Il Mikkyo assunse nel proprio pantheon molte divinità indiane soprannaturali dotate di teste, occhi ed arti supplementari, secondo il dogma Mikkyo del terrore come mezzo di insegnamento, per costringere, attraverso la paura, i non credenti a convertirsi. Tra i 5 Myoo, il più potente e famoso è il Fudo Myoo, l’inamovibile, in origine un modesto messaggero hindu a cui è assegnato il ruolo di fiero guardiano della legge del Buddha. Il volto è spaventoso, quasi terrificante, gli occhi sono sporgenti e di grandezza irregolare, superiore alla norma, ha delle zanne che sporgono dalla bocca e mordono il labbro inferiore. Nella mano sinistra ha un laccio, che serve per arrestare gli spiriti malvagi, nella destra una spada, che serve sempre ad aiutarlo nella sua lotta contro il mare. I lunghi capelli sono raccolti in diversi nodi, che indicano il numero delle reincarnazioni nelle quali sarà al servizio del Buddha. Le fiamme alle sue spalle invece simboleggiano l’eliminazione, e dunque la riduzione in cenere, delle malattie e dei desideri fisici. Databile molto più tardi rispetto a questo Fudo Myoo, il Fudo Blu di Shoren-in a Kyoto è un dipinto che, insieme ai due assistenti Sei Taka e Kongara, forma una tipica triade. L’ultima coppia del Toji è formata da Bonten e Taishaku Ten, che con il Mikkyo acquisiscono nuovi caratteri. Il suffisso “Ten” è il termine giapponese che indica gli dei indù prima che fossero ammessi nel pantheon buddhista come guardiani. Per l’induismo, Bonten era il creatore dell’universo e del cielo, assiso sulle oche con quattro braccia, quattro teste e tre occhi; Taishaku Ten era invece il dio dell’atmosfera e dei fulmini ed è rappresentato, anche lui con tre occhi, mentre cavalca un elefante bianco. Altre statue Mikkyo esprimono questo aspetto estetico, come ad esempio il Kannon ad 11 facce di Hokke Ji a Nara. E’ in legno, il suo torso è piccolo, ma pieno, le sue dita raccolgono la sciarpa con un timido gesto accentuato dal ginocchio sinistro piegato ed il piede sinistro allungato sul piedistallo. L’alluce sinistro è leggermente sollevato. Queste divinità sensuali erano efficaci per sedurre gli eretici. La tattica della persuasione per seduzione era collegata con gli influssi cinesi Tang, che ponevano l’accento sulla corporeità delle forme umane; infatti molte figure Mandala sono erotiche. La coppia di Ryokai Mandala a Jingo Ji è formata dai due più antichi Mandala esistenti in Giappone, che si crede siano stati copiati da un’opera importata dalla Cina da Kukai. La sensuale divinità in oro ed argento su seta color porpora sembra stare dietro un sottile velo che la separa dalla realtà. I Templi Mikkyo, come lo Enryakuji ed il Kongobuji, sono disseminati nelle zone più remote del paese, ed accessibili solo a chi aveva una forte determinazione. Il Daigoji, a sud est di Kyoto, fu costruito su una montagna e poi, gradualmente, fu esteso verso il basso, fino ai piedi della montagna, a formare il Daigo inferiore, dove fu poi aggiunta una pagoda. Il sostegno centrale della pagoda è ricoperto sui quattro lati da numerosi Buddha e Bodhisattva dei Mandala, gli 8 patriarchi Shingon, di cui 7 sono cinesi ed indiani, e solo Kukai giapponese. Kiyomizu Dera: la sala principale è costruita su una collina ad est di Kyoto. E’ una ricostruzione del 1633 dell’originale periodo Heian. E’ sostenuto da alte impalcature e ricoperto da un elegante tetto a due falde. Comprende, a valle, una pagoda a tre piani, a cui si accede tramite una scalinata. Il Muro Ji si trova nella catena montuosa a sud di Nara. E’ un tempio estraneo al Mikkyo, fondato alla fine del periodo Nara da un monaco che aveva voltato le spalle alla corruzione di Nara. La sala d’oro e la pagoda furono costruite in piccole radure raggiungibili tramite scalinate in pietra. E’ la più piccola pagoda del Giappone, nonostante abbia cinque piani. Gli edifici sono disseminati tra boschi e monti, fondendosi con la natura. All’interno troviamo il Buddha Shaka, in legno di cipresso giapponese, scolpita da un unico blocco di legno (Ichiboku Zukuri), con il volto pieno e marcato, il torace ampio che sporge in avanti, il ventre ricoperto da pesanti drappeggi hompa. Gli asceti Mikkyo erano chiamati Shugenja poiché praticavano il severo ascetismo Shugendo, che imponeva loro di viaggiare costantemente per le regioni montuose, scoprendo spesso molte aree già contrassegnate per gli dei shinto. La pacifica coesistenza fu vantaggiosa per entrambe le religioni. Il Muro Ji testimonia una notevole fusione di elementi architettonici indigeni e stranieri. Prima del Buddhismo la rappresentazione antropomorfa degli dei era ignota allo shintoismo. Questa fusione offrì la possibilità allo shinto di raffigurare finalmente i propri dei. La concezione Mikkyo dell’universo era così ampia da poter includere nel proprio pantheon anche gli dei shinto. La prima tradizione iconografica shinto si basò sullo stile buddista, ma anche dopo gli shintoisti non permisero mai al pubblico di osservare ed adorare direttamente queste immagini. Una delle primissime divinità assimilate fu Hachiman, che in origine era custode delle comunità agricole di una zona del nord molto vicina a Cina e Corea, ritenuta molto pericolosa. I sovrani giapponesi iniziarono a fare affidamento su questo dio per proteggersi dalle minacce esterne ed assunse, in questo modo, un ruolo militare. La statua di Hachiman dello Yakushi Ji a Nara, noto come Sogyo Hachiman, Dio guerriero nelle vesti di monaco buddista, rappresenta uno dei più complicati sforzi fatti dai giapponesi per amalgamare buddismo e shintoismo. Gli dei shinto furono paragonati ai Bodhisattva buddisti e, per raggiungere l’illuminazione, furono costretti ad entrare nel sacerdozio, che impose loro di radersi il capo ed indossare l’abito sacerdotale. Insieme all’imperatrice Jingu ed alla principessa Nakatsu, compone una triade. 4. PERIODO AMIDA - PERIODO FUJIWARA (TARDO HEIAN - 894-1185) Dopo l’894 il Giappone mise fine ai suoi rapporti commerciali con la Cina. Da questa data ha inizio il tardo periodo Heian, noto anche come periodo Fujiwara, che corrisponde ad un’epoca in cui i giapponesi riuscirono ad assimilare la cultura cinese e ad adattarla alla propria sensibilità. Durante il tardo Heian, il Mikkyo continuò ad essere praticato, ma la corte si dedicò totalmente al culto di Amida Buddha, il Buddha della luce sconfinata, che ammetteva i fedeli nel suo paradiso occidentale. Grazie al monaco Genshin, il culto si espanse molto nel 10° secolo grazie al Raigo, ovvero la discesa dell’Amida, che apriva la strada verso la salvezza nella maniera più facile di tutte le altre confessioni buddhiste. Gli unici requisiti erano la fede incrollabile e la pratica del nenbutsu, ovvero l’invocazione del nome del Buddha. Pian piano però questa pratica perse valore perché si arrivò addirittura a pensare che bastasse dirlo una volta al giorno per assicurarsi la salvezza eterna. In quest’epoca, inoltre, la morte non era considerata un evento temibile, ma una gradevole esperienza di squisita bellezza. A sostegno di queste credenze si eressero dei palazzi in cui l’architettura, la scultura, la pittura ed i giardini si uniscono, si combinano tra loro con lo scopo di ricreare sulla Terra il paradiso di Amida Buddha. Un paravento pieghevole di quest’epoca illustra un altro aspetto del raigo secondo il quale il devoto morente contempla l’arrivo dell’Amida, meditando sul sorgere della luna, dietro le colline e le montagne. L’Amida si trova nel pannello centrale, fiancheggiato da due Bodhisattva, Seishi a sinistra e Kannon a destra. Kannon ha un piedistallo a forma di loto su cui riceverà l’anima del defunto. Alle dita di Buddha sono attaccate delle corde di sera. Un uomo in punto di morte, afferrandosi alle corde di seta attaccate alle dita delle immagini dell’Amida, poteva assicurarsi la salvezza ed essere accolto in paradiso. I due pannelli laterali mostrano scene di paradiso ed inferno, mirate ad incentivare l’aiuto di Amida. Fujiwara Michinaga, nel 1022, dedicò all’Amida il tempio di Hojoji, poi distrutto da un incendio nel 1058. Sebbene ora risulti molto ridotto, il famoso Byodo-In sul fiume Uji a Kyoto, riecheggia sontuosamente. In origine era una residenza estiva, poi trasmessa al figlio Yorimichi, il quale nel 1052 fece erigere la sala dell’Amida, chiamata anche Hoodo, ovvero “sala della Fenice”, il cui stile è chiamato Shinden-Zukuri, ovvero “stile da camera da letto”, con corridoi e padiglioni, che rifletteva l’architettura domestica del periodo. Una componente essenziale della residenza era uno spazioso giardino, con colline artificiali, uno stagno ed un ruscello. Allo Shinden erano collegati corridoi a veranda, che portavano nelle stanze sussidiarie familiari. Le alte impalcature che sostengono i corridoi si fondono in armonia con la natura, rivelando l’influsso del gusto indigeno sull’architettura buddhista. Lo stile cinese è adesso modificato completamente in qualcosa di nuovo e dotato di un forte senso di leggerezza ed eleganza, precedentemente ignoto all’architettura buddhista giapponese. Nella sala centrale è ben visibile una grande statua dell’Amida in legno dorato, intagliata dal maestro Jocho. Il soffitto ed i pilastri della sala sono riccamente decorati da pitture ed intarsi in metallo e madreperla, la parte alta delle pareti è adorna di statuette di Bodhisattva e Monaci. Nella parte inferiore troviamo invece un gruppo di pitture del raigo dell’Amida in volo su fiumi e montagne. L’Amida di Jocho è assiso su un alto piedistallo sotto un elaborato baldacchino, e sullo sfondo abbiamo una grande aureola intagliata in legno dorato. Il volto è liscio e tondo, gli occhi sono semichiusi, le labbra piccole e carnose, le dita sono affusolate ed i ricci delicati. Le gambe sono invece ricoperte da un sottile abito con pieghe regolari a bassorilievo. La tecnica scultorea utilizzata per questa statua è la Yosegi-Zukuri, ovvero la tecnica a tasselli, secondo la quale, partendo da piccoli blocchi di legno scolpiti, si modellava l’esterno della statua, il cui interno rimaneva cavo, e poi univa i blocchi ricoprendoli di lacca ed oro. La tecnica è ideale per preservare le statue dal deterioramento del tempo e del clima, riduceva poi il peso ed accelerava la produzione, dato che consentiva a più artisti di collaborare alla stessa opera, lavorando a sezioni diverse. La statua all’interno rimaneva cava, poiché vi potevano essere riposti oggetti vari, sutra, pietre oppure documenti. In questa statua in particolare venne ritrovato un piedistallo in miniatura a forma di loto, inteso Buddhista. E’ un ulteriore esempio di armonia tra elementi nazionali, elementi stranieri e natura. I rotoli noti come Heike Nokyo presentano delle copertine eccezionali. Una rappresenta un episodio del capitolo 25 del sutra del loto: narra di un gruppo di marinai attratti da demoni con le sembianze di bellissime donne che chiedono l’aiuto di Kannon, che appare sotto le spoglie di un cavallo bianco e li porta in salvo. Il testo è su carta colorata ornata di kirikane d’oro e d’argento. Molti rotoli sono provvisti di rulli decorati e nastri colorati per legarli. 5. GUSTO NAZIONALE - PITTURE PROFANE E ROTOLI I segni tangibili della consapevolezza per il proprio valore culturale fu l’invenzione del kana e gli sviluppi letterari che ne conseguirono, come ad esempio la pubblicazione del Genji Monogatari, considerato un capolavoro. Il primo romanzo, il Taketori Monogatari, insieme alla prima antologia di poesie ufficiali nazionali waka, fissarono i modelli. Connessa a questa nuova consapevolezza fu la nascita della pittura profana denominata Yamato-E, ovvero la pittura giapponese, in contrapposizione al Kara-E, che corrispondeva alla pittura cinese. Questa distinzione era evidente nei soggetti e negli stili: la Yamato-E si applicava alle storie, appunto, nazionali, il Kara-E si applicava alle storie cinesi. Non possiamo, purtroppo, sapere le differenze stilistiche poiché sono sopravvissuti pochissimi esempi di Yamato-E, che poteva far riferimento sia ad un paesaggio che ad un dipinto narrativo, purché sia profano. I tipi di paesaggio che emergono dagli Yamato-E sono il Meisho-e, ovvero le immagini di famose località pittoresche, e lo Shiki-e, o Tsukinami-e, ovvero immagini di stagioni, o comunque di fenomeni naturali. Entrambi raffigurano anche le attività dell’uomo, tuttavia l’accento è sempre posto sulla natura, sullo sfondo naturale. Dipinti su paraventi, codici, rotoli e ventagli, posero le basi della pittura di paesaggio giapponese. I monumenti stagionali venivano anche inseriti sugli scenari delle pitture buddhiste, come quelle parietali dell’Hoodo raffiguranti episodi Raigo, come la discesa dell’Amida. Questi si sono poi mescolati all’iconografia buddhista esterna. Nel 10° secolo i giapponesi iniziarono a manifestare un interesse molto più vivo per le vicende umane. Lo Yamato-e è ritenuto sinonimo di pittura narrativa. E’ difficile datare con esattezza la comparsa della prima pittura narrativa giapponese, ma tra le prime opere illustrate c’è una biografia illustrata non più esistente del principe Shotoku, realizzata nella seconda metà dell’8° secolo per il tempio Shitennoji di Osaka, da lui stesso fondato. Questa è stata sicuramente influenzata dalle opere cinesi Tang. Nel 10° secolo Hata Chitei di Osaka ne dipinse una nuova versione appesa alle pareti dell’Edono, ovvero la sala delle pitture, di Horyuji e poi rimontata su paraventi pieghevoli, che rappresenta episodi di vita di Shotoku distribuiti in una composizione ampia ed affollata. Suddivisa in celle incorniciate da alberi, montagne ed edifici, è molto influenzata dall’originale. Uno stile paesaggistico più moderno della seconda metà dell’11° secolo è esemplificato da un paravento chiamato Senzui Byobu, ovvero “paravento con paesaggio”. I paraventi giapponesi possono essere suddivisi in tre tipi: Tsuitame: 1 pannello che si regge su due piedi, installato solitamente per separare in più parti un edificio o una stanza. Fusumuna: era un tipo di paravento scorrevole e divisorio semi permanente introdotto nell’antico periodo Heian, composto da strati di carta stesi su leggere porte in legno munite di griglie. Byobu: paraventi pieghevoli per decorare l’interno oppure per proteggersi dal vento. Solitamente si tratta di una coppia di paraventi a 6 pannelli, facile da richiudere e spostare. Il Senzui Byobu è uno dei più antichi pannelli Byobu esistenti, in cui ogni pannello era ricoperto di seta con il bordo in legno e venivano collegati alla sommità ed alla base da corde di cuoio o seta. Un’innovazione tecnica introdotta alla metà del 14° secolo diede la possibilità di realizzare composizioni più unitarie poiché i larghi bordi vennero sostituiti da una cornice visibile solo alla base, alla sommità e sui lati esterni. Le corde vennero poi abbandonate in favore di strisce di carta che formavano delle cerniere. Il Senzui presenta dei piccoli spazi vuoti nel secondo, terzo e sesto pannello, probabilmente destinati a poesie o saggi dove venivano spiegate le rappresentazioni pittoriche. Lo scenario è un vasto panorama con colline ondulate ed un’ampia distesa d’acqua, è un paesaggio aperto che differisce dagli ambienti affollati del paravento di Shotoku. Questo paravento in particolare testimonia uno stadio transitorio nella storia della pittura giapponese durante il quale lo Yamato-e ed il Kara-e non erano ancora ben distinti e separati. Tutti i romanzi vernacolari di moda all’epoca ed i diari di viaggio vennero abbelliti da illustrazioni pittoresche, dando inizio all’arte dell’illustrazione. Le pitture sono accompagnate sempre da due testi, uno in prosa e l’altro in poesia vernacolare. La poesia era scritta sul rovescio del rotolo, così quando questo veniva svolto, accanto alla scena comparivano i versi che vi si riferivano. La maggior parte delle pitture narrative ci è giunta sotto forma di rotoli chiamati Emaki oppure Emakimono, ovvero “rotoli dipinti”, poiché erano più resistenti rispetto ai paraventi ed avevano più possibilità di sopravvivenza. Se si esclude l’E-Ingakyo, che risale all’8° secolo, il più antico Emaki conosciuto è l’illustrazione realizzata all’inizio del 12° secolo per il Genji Monogatari, che simboleggia gli ideali della coltissima corte Heian ed è anche un valido documento storico, poiché al suo interno registra gli atteggiamenti ed i comportamenti dei contemporanei nei confronti dei costumi sociali. Le pitture degli Emaki del Genji si alternavano con citazioni prese dal testo, da destra a sinistra, e lo spettatore leggeva prima il testo e, svolgendo il rotolo con la mano sinistra e riavvolgendolo con la destra, capiva il significato dell’illustrazione successiva. Le singole illustrazioni sono abbastanza piccole ed il testo è in kana, su carta decorata in oro oppure argento. Una delle scene dipinte del capitolo di Kashiwagi (La quercia) tratta di un giovane che ha avuto una relazione con la moglie di Genji e sta ora morendo dal rimorso. Il figlio di Genji lo visita sul letto di morte, ascoltando la confessione e sono separati dalle donne di casa da alcuni paraventi ornati con pitture di paesaggio. La pittura è rigidamente stilizzata: uomini e donne sono privi di emozioni o caratterizzazione fisionomica; avvolti in strati di abiti fluttuanti con facce piccole e piene, gli occhi e le sopracciglia indicate da linee rette disegnate ad inchiostro, il naso è un semplice gancetto e la bocca ricorda un bocciolo. Questo stile è chiamato Hiki Me Kagi Hana (una lineetta per l’occhio, un gancetto per il naso) e fu un espediente delle illustrazioni dei romanzi sentimentali poiché permetteva l'identificazione dei lettori o degli osservatori nei personaggi, dato che questi risultavano anonimi. Un altro espediente è quello di mostrare la stanza dall’alto eliminando completamente il soffitto ed il tetto della casa, tecnica chiamata Fukinuki Yatai, ovvero “tetto scoperchiato”, che consente all’osservatore di guardare liberamente all’interno della scena, come se fosse stato invitato a partecipare agli eventi. Nella scena della confessione le linee orizzontali indicano serenità, quelle diagonali suggeriscono inquietudine e turbamento. Nella scena successiva Kashiwagi muore, lasciando il figlio neonato avuto con la moglie di Genji, che sarà presentato come il figlio di quest’ultimo. Il principe è dolorosamente consapevole dell’inganno, ma soffre in silenzio, poiché lui fece lo stesso con suo padre. Ora il Genji, sui 40 anni, vede finalmente gli aspetti ironici della vita, la moglie, tormentata dal rimorso, si tiene dietro una tenda, i cui bordi neri accrescono la drammaticità. La più sottile evocazione degli stati d’animo si trova nella scena di Suzumushi, dove l’imperatore invita Genji a palazzo e gli confessa di essere a conoscenza del segreto della sua nascita, ovvero che non è il fratellastro di Genji, bensì suo figlio, avuto con la moglie del padre. Genji non riconosce né nega la, limitandosi a sottili allusioni. I due uomini sono separati da una trave che sembrerebbe quasi impedire loro di dichiarare apertamente la loro parentela e le linee diagonali del tatami indicano proprio la precaria natura della loro relazione. La gamma cromatica di questa composizione è la più serena di tutte ed è chiamata Tsukuri-e, ovvero pittura costruita, dato che sopra al disegno ad inchiostro venivano applicati pesanti strati di verde carico, giallo, rosso ed arancio, e successivamente venivano aggiunti dei nuovi contorni ad inchiostro. Un’altra pratica tipica dell’età Fujiwara è quello della Uta-e, la pittura poetica, che consiste nel combinare parole, espressioni letterarie e pitture in rebus pittorici, come nel frontespizio del rotolo Kunojikyo, che mostra due aristocratici sotto un ombrello in un campo all’aperto, che allude all’amore di Buddha che, paragonato alla pioggia, cade su tutti gli esseri. Al contrario delle illustrazioni statiche del Genji, esistono illustrazioni per romanzi sentimentali più dinamiche, rappresentate in lunghe composizioni continue. In acuto contrasto con i rotoli del Genji abbiamo lo Shigisan Engi Emaki (leggenda dell’origine del monte shigi): dei tre rotoli, i primi due illustrano le gesta miracolose del monaco Myoren, fondatore del piccolo tempio sullo Shigi, il terzo narra invece i viaggi dell’anziana sorella di Myoren in cerca del fratello. Il loro incontro dopo quasi mezzo secolo è commovente. Il rotolo più famoso è sicuramente il primo, che narra tutto l’inizio della storia. Abbiamo Myoren che ogni giorno manda una ciotola di riso ad un ricco che ogni volta la manda indietro piena. Stavolta, tuttavia, il ricco, essendo molto avaro, si rifiuta di riempirla e la chiude nel suo magazzino. La ciotola, tuttavia, solleva l’intero magazzino, che si alza in volo ed inizia a muoversi. Tutte le figure dell’illustrazione sono rese più animate dall’esagerazione dei gesti e delle espressioni. I colori delle montagne sono molto pesanti e svaniti con il tempo. A differenza delle illustrazioni del Genji, dove i contorni ad inchiostro erano resi perfettamente, nello Shigisan sono molto forti ed espressive. Il testo è breve e poco frequente, tanto da sembrare, a volte, superfluo. Come accade dei moderni film, l’attenzione ed i punti di vista si spostano continuamente. Un episodio del secondo rotolo illustra i poteri magici impiegati da Myoren per curare l'imperatore. Manda al suo posto una sua fidata divinità guardiana che atterra dopo aver raggiunto in volo il palazzo. Svolgendo il rotolo si vede poi il giovane volare nel cielo. Un po’ come il moderno flashback, l’osservatore vede prima l’arrivo al palazzo e poi il lungo viaggio compiuto per raggiungerlo. Nel terzo ed ultimo rotolo è osservabile la raffigurazione della “Sala del Grande Buddha” di Todaiji, documento di valore in quanto riproduce fedelmente le sue condizioni prima del 1180, quando la facciata aveva ancora 11 intercolumni anziché i 9 della ricostruzione successiva alla guerra. Dalla metà del 12° secolo all’inizio del 13° è sopravvissuto un gruppo di emaki ricchi di intenso movimento, capaci di trasmettere con violenza e rapidità di movimento le emozioni provate dai personaggi illustrati. Uno di questi è il Ban Dainagon Ekotoba, che narra la vicenda dell’ufficiale Ban Dainagon e trae spunto da un evento reale, ovvero l’incendio che, nell’886, distrusse un portale del palazzo imperiale, chiamato Otenmon. Il primo dei tre rotoli mostra i cittadini di Kyoto sulla scena dell’incendio doloso, con Ban Dainagon che accusa il suo rivale politico. Dopo una serie di eventi straordinari ed profana, tendenza accelerata con il buddhismo zen: a Kamakura ebbero sede due dei più antichi templi zen del Giappone: il Kenchoji e lo Engakuji. I più durevoli contributi cinesi furono il principio e la tecnica della pittura monocroma ad inchiostro. La famiglia hojo nel tardo periodo Kamakura possedeva notevoli quantità di pitture cinesi che aprirono poi la strada alla fioritura della pittura monocroma ad inchiostro. Il più antico esempio di tale sperimentazione è una coppia di paraventi a 6 pannelli del tempio Toji di Kyoto, in cui Takuma Shoga raffigura i 12 deva, ovvero 12 divinità, ognuna su un lato di ogni pannello. Un altro esempio è il Butsugen-Butsumo (Madre di tutti i Buddha), conservato nel Kozanki. Il sacerdote e fondatore del tempio, Myoe, nutrì particolare devozione filiale per la dea, dipinta essenzialmente di bianco, con contorni rosso ed oro, e vesti e piedistallo in inchiostro dorato, simbolo di innocenza e purezza. Lo stesso Myoe è rappresentato in una pittura attribuita a Jonin, stretto collaboratore e devoto del monaco, che raffigura il monaco assiso su un albero, in meditazione, con piccoli uccelli che lo circondano. Queste due pitture di allontanano dalle tradizionali iconografie buddhiste per il loro tono intimo e poco formale, che suscita la sensazione della profondità degli affetti umani. A Myoe si deve anche la composizione del testo Kegon Engi Emaki, “leggenda dell’origine della setta Kegon”, conservato al Kozanji, che illustra la vita dei due patriarchi coreani della setta Kegon, Uisang e Wonhyo. I caratteri stilistici fanno pensare che Jonin sia almeno in parte responsabile della realizzazione. L’opera inizia con un episodio in cui i due giovani partono per la Cina per studiare. La scena mostra il pathos del momento in cui i due amici si separano. Uisang procede per la Cina, dove una ragazza si innamora di lui, e quando lui torna in patria lei si getta in mare, diventando un drago che salverà la nave durante il suo ritorno. Le figure e gli elementi di paesaggio, dipinti in tonalità leggere e con morbidi contorni ad inchiostro, sono liberi e leggeri. L’emaki richiama il ritratto di Myoe, ed anche il volto di Wonhyo somiglia a quello di Myoe. I rotoli sono sempre accompagnati da brevi testi o parole pronunciate dai personaggi di indubbia funzione. E’ possibile che venissero recitati al pubblico dal narratore. Il crudo realismo della struttura Kamakura era essenziale anche in molti emaki, come ad esempio nello Heiji Monogatari del 13° secolo, che rappresenta la battaglia di Heiji. Il rotolo più famoso, lungo 7 metri, rappresenta la scena iniziale della battaglia, ovvero l’attacco del palazzo Sanjo da parte dei Minamoto nel 1159. La battaglia terminò alcune settimane dopo con la vittoria dei Taira. La battaglia può essere paragonata ad una composizione sinfonica: parte dal caos, dominato sempre dalla paura, si eleva poi nel tumultuoso massacro delle fiamme vivaci che incendiano il palazzo, per poi scemare in un finale relativamente calmo, in cui è presente un solo soldato superstite. Come il combattimento, anche gli indumenti ed i dettagli architettonici sono resi con schietto realismo. Il ritmo veloce e lo straordinario ed impressionante realismo sono le caratteristiche dominanti in molte pitture del periodo, come l’Haya Raigo. L’apprezzamento per l’accurata descrizione della vita e della natura la troviamo in una biografia illustrata che narra la vita del sacerdote Ippen. L’autore di questi 12 emaki a colori su seta è E-Ni, un probabile discepolo di Ippen, la cui figura alta, esile e di pelle scura è molto realistica e riconoscibile in ogni episodio. I rotoli sono datati 10 anni dopo la morte di Ippen. E-Ni aveva un’ottima conoscenza della pittura monocroma, infatti applicava forti linee ad inchiostro sui tronchi degli alberi, alle gole delle montagne ed alle pareti rocciose, armonizzando le pennellate con colori caldi che aggiungevano profondità. Nel periodo Kamakura furono insolitamente prodotte una grande quantità di pitture e sculture naturaliste; infatti la natura e gli animali furono soggetto di opere di altissimo livello. Un esempio è una pittura raffigurante una veduta della cascata di Nachi, che costituisce un raro esempio di pittura shinto con realismo. La cascata fu meta di pellegrinaggio shinto popolare in questo periodo. Si vedono, alla base, una foresta di cipressi e gli edifici del santuario, dietro la montagna è invece ben visibile un sole dorato che sta tramontando. La posizione centrale della cascata, maestosa e di un bianco scintillante, la fa apparire come un essere divino, ed avvalora la tesi secondo cui ciò che sembrerebbe un’immagine profana era, in realtà, inteso come un’immagine da adorare. Il rinato interesse per il passato del Giappone rappresenta una nuova tendenza che influenzò tutte le attività socio- culturali della nazione. I motivi per questo improvviso risveglio all’interesse non sono ben chiari, i cortigiani di Kyoto privati dei loro poteri politici potrebbero averne avuto parte con la rinascita della letteratura sentimentale tipica del tardo Heian e delle illustrazioni con la tecnica dello Tsukuri-E. Le più antiche pitture superstiti sono frammenti di un Emaki, il Sumiyoshi Monogatari, un romanzo popolare del 10° secolo, che narrava di una bella principessa orfana di madre e maltrattata dalla matrigna, un po’ come la moderna Cenerentola. Le illustrazioni impiegano nuovamente la tecnica del Fukinuki Yatai (tetto scoperchiato), elemento chiave dei romanzi sentimentali Heian. La storia viene ora narrata senza ambiguità dalle pose e dai gesti dei personaggi. Il movimento culmine è dove il principe azzurro scopre la casa dove la principessa è tenuta nascosta e corre a salvarla. La scena è molto veloce. Queste pittura è un eccellente esempio di come la lenta andatura dello Tsukuri-E abbia potuto soddisfare anche i mecenati Kamakura, che apprezzavano la rapidità e la drammaticità dell’azione. Un altro esempio è senza dubbio il Murasaki Shikibu Nikki Emaki. In questo, i cortigiani, a prima vista, non sembrano molto diversi dai loro antenati del Genji Monogatari Emaki. Ma ad un’osservazione più attenta apparirà evidente che lo tsukuri-e è molto mutato: i personaggi alti e regali non sono più imprigionati nelle loro stanze, ma escono e si muovono liberamente. I volti sono ancora tondi, ma gli occhi hanno delle pupille ben distinte, non sono più delle semplici fessure. Anche gli scultori che si ispiravano al passato prendevano a modello le opere Asuka e Nara, poiché i maestri della scuola Kei erano stati educati proprio a Nara. Un esempio è il Buddha Amida realizzato per la sala d’oro dello Horyuji. Fuso in bronzo dorato da Kosho, è una chiara riaffermazione dello stile scultoreo di Tori, per quanto modificato dall’apporto di realismo marcato tipico di Kamakura, dove fu realizzato anche un altro Amida, noto come Daibutsu (Grande Buddha), che ora si trova all’aperto, ma un tempo era situato in una sala del Buddha andata poi distrutta e mai ricostruita. Questa statua fu realizzata in gran parte fondendo monete cinesi di epoca Song. Le pitture narrative post Kamakura (ovvero Muromachi), spesso eseguite semplicemente come appendici secondarie al testo, non raggiunsero mai gli elevati livelli artistici dello Shigisan Engi Emaki, Heiji Monogatari Emaki ed altri, talmente ricchi di immagini visive che anche solo le pitture sarebbero bastate a spiegare la storia anche in mancanza del testo. Molte pitture narrative post Kamakura illustrano opere di letteratura popolare, come ad esempio un rotolo realizzato da Tosa Hirokane, ovvero l’ Amewakahiko Zoshi, che narra l’idillio tra un principe celeste ed una principessa legata alle cose terrene. Altri rotoli sfruttano una vena di umorismo che scivola talvolta nella volgarità, come ad esempio il Fukutomi Zoshi, che racconta di un uomo impoverito ma avido, che cerca di approfittare del suo meteorismo esibendosi in pubblico. Significante, durante questo periodo, fu lo sviluppo della ceramica Kamakura, prodotta dalla profonda influenza della ceramica cinese importata in Giappone. 7. BUDDHISMO ZEN: MUROMACHI (1336-1573) Questi anni sono dominati dal clan militare degli Ashikaga, con sede a Muromachi. Urgente fu, in questo periodo, la necessità di instaurare una chiara politica amministrativa nei confronti della crescente fede Buddhista zen e dei suoi monaci. La meditazione contemplativa fu il nuovo metodo per conseguire l’illuminazione ponendo l’accento sulla fiducia in se stessi e sull’autodisciplina; inoltre, questa dottrina, non attribuiva valore a nulla, né alle scritture, né alle icone. Lo zen, con l’autodisciplina, esercitò un potere enorme su uomini d’azione bellicosi ed in costante pericolo di morte. Nella sua forma originaria non necessitava di istituzioni, scritture, templi od icone, ma si evolse in varie arti, come l’architettura e la pittura monocroma ad inchiostro. L’architettura procurava dei luoghi dove rifugiarsi per poter meditare silenziosamente oppure per eseguire delle pitture che mostravano lo stato mentale nei momenti di illuminazione. L’arte zen si basava su spontaneità, semplicità e moderazione. Si svilupparono anche arti ausiliarie, come la cerimonia del tè, la danza No e l’intero codice Zen, che ancora oggi caratterizzano lo stile di vita del popolo giapponese. I templi Zen calcavano i modelli cinesi di epoca Song: erano ampi recinti su un asse rigorosamente rettilineo lungo il quale si ergevano, su un’unica fila, portali sale e strutture. Il Kenchoji di Kamakura, fondato dal monaco cinese Dao Long, fu il primo tempio Song in Giappone. Anche lo Engakuji di Kamakura, fondato da Zuyuan, con la sua “sala delle reliquie” (shariden), è il più antico esempio conosciuto dello stile architettonico Karayo (stile cinese) o Zenshuyo (stile Zen), che poneva l’accento sulle intelaiature delle finestre a forma di cuspide, le mensole molto ravvicinate all’interno e all’esterno, le delicate assicelle sulle porte e sulle pareti sopra le finestre. Questi tipici elementi Zen vennero accostati a tradizionali giapponesi, come il tetto ricoperto di paglia, dando vita ad un nuovo stile ibrido. Un esempio di ciò è il Kinkaku (Padiglione d’oro), eretto dal terzo Shogun Ashikaga Yoshimitsu. La costruzione ha tre piani, i primi due sono di dimensioni uguali e fungevano da residenza, separati all’esterno da un’ampia veranda dotata di balaustre, che danno l’impressione di un’altezza superiore a quella reale. La parte superiore, di dimensioni minori, ne differisce radicalmente per stile e funzione: fu usata per scopi religiosi e progettata nel più formale stile Zen con le finestre a cuspide; all’esterno e all’interno tutti i pavimenti sono ricoperti in foglia d’oro Shokokuji divenne centro della cultura Zen, nonché residenza di molti monaci studiosi e pittori. Le ricerche estetiche di Yoshimitsu furono eguagliate solo da quelle dell’ottavo shogun Ashikaga, Yoshimasa, che causò il declino del clan. Egli investì enormi somme in progetti edili, uno dei quali fu la costruzione della sua Villa di Higashiyama, che dopo la sua morte venne trasformata in un tempio Ji Shoji. Inizialmente comprendeva molti edifici distribuiti in giardino, ma ad oggi rimangono solo la Sala del Buddha e la cappella privata di Yoshimasa, il Togudo. La Sala del Buddha è chiamata Ginkaku (padiglione d’argento) e la parte superiore era una sala buddhista con architettura Zen. Il Togudo, invece, comprende una piccola stanza quadrata, chiamata Dojinsai, che costituisce il più antico esempio di Shoin (studiolo), destinato a diventare il punto focale degli edifici residenziali nei periodi successivi. A differenza del Kinkakuji, il Ginkakuji presenta meno opulenza, e ciò può essere interpretato sia come indice del declino economico e politico del clan degli Ashikaga, sia Fino al 15° secolo i pittori collocavano le figure umane nel vuoto. Con la famosa pittura Hyonen Zu (pesce gatto e zucca) si abbandona questa convenzione. Questa pittura, dipinta dal monaco Josetsu, rappresenta al centro un trasandato pescatore con una zucca e, come a volerlo prendere in giro dei suoi enormi sforzi, un pescegatto sproporzionatamente grosso che sembra sul punto di scappare e mettersi in salvo. Josetsu interpretò il rapporto pescatore-natura in modo più naturalistico di quanto non fosse mai stato fatto nelle pitture Zen. Il suo successore fu Shubun, che compose molte opere simili note con il nome di “Shigajiku” (rotoli di poesia e pittura). Si tratta di rotoli verticali con paesaggio in basso e poesie in alto in stile cinese, fatti da molti uomini eruditi che tendevano sempre di più al modello cinese e si comportavano come uomini di stato laici. Questi funzionari cinesi volevano fuggire dal mondo di tutti i giorni per abbracciare una vita indisturbata fatta di meditazione nella natura, perciò incaricavano gli artisti di eseguire dipinti che raffigurassero perfetti scenari dove la mente potesse spaziare libera dai doveri mondani. Un dipinto di Shubun mostra uno scenario simile, con una capanna nascosta in un bosco di bambù. Dopo Shubun, i pittori che godettero di prestigio erano tutti accomunati dal suffisso “ami”: Noami, Geiami, Soami e così via, che appartenevano al gruppo Ami della setta buddhista Jinshu, fondata da Ippen. Soami in particolare influenzò il gusto del periodo e secondo alcuni fu proprio lui a rendere popolare lo stile brumoso e morbido della pittura ad inchiostro. Un esempio di questo nuovo stile è una coppia di paraventi che mostra un paesaggio silenzioso ed impregnato di mistero, articolato nelle quattro stagioni, primavera ed estate su quello di destra, autunno ed inverno su quello di sinistra. E’ un raffinato esempio di pittura ad inchiostro che combina morbidi colpi di pennello con tenui sfumature di colore. Usando solo inchiostro diluito, Soami seppe creare un’immagine personale di un paesaggio osservato da uno stato d’animo contemplativo. Sesshu liberò invece l’arte della pittura ad inchiostro dalle restrizioni dei monasteri Zen, sollevandola ad un livello più alto, poiché godette di un grado di libertà artistica negato a tutti i pittori prima di allora. Fu allievo di Shubun e, ad un certo punto della sua vita, gli venne offerta l’occasione di accompagnare una missione commerciale in Cina, dove trascorse più di un anno, traendo notevoli benefici dall’osservazione diretta della natura e dell’arte cinese. La maggioranza delle sue opere, come “Paesaggi autunnali ed invernali”, una serie di quattro rotoli da appendere, è caratterizzata da una equilibrata composizione architettonica data dalla solidità delle masse, da un’interazione di linee diagonali e verticali e dalla forza ed evidenza dei contorni. Molto simile è il celebre rotolo della collezione Mori, noto come “rotolo lungo”, che raffigura i cambiamenti climatici della quattro stagioni, dalla primavera all’inverno, senza mai perdere la solidità della struttura, la semplicità e la chiarezza della forma. Le pitture di Sesshu non sono subordinate a nulla, non esprimono intenti filosofici e non vi è nessun testo. Fu il primo artista a liberarsi dalla religione e a diventare indipendente, infatti firmava le sue opere e vi apponeva i suoi sigilli. Lo stile pittorico paesista dell’inchiostro spruzzato è una tecnica estremamente sintetica che prevede l’applicazione di inchiostro scuro su uno più chiaro, ancora umido, ottenendo un effetto morbido e confuso. Un’opera di Sesshu ha un significato particolare, la diede al suo allievo Soen come diploma, come ricompensa per i suoi progressi. Il Colophon (testo) non è un semplice componimento poetico, ma è un lungo resoconto personale della vita e delle convinzioni di Sesshu, quasi un’autobiografia, in cui dice che la pittura deve trarre ispirazione solo ed esclusivamente dalla natura. La tradizionale rappresentazione di fiori ed uccelli su paraventi pieghevoli rappresentanti le quattro stagioni sono una formula fissata da Sesshu, che sopravvisse per molti secoli. Quando nel 16° secolo tramontò il potere degli Ashikaga, anche il prestigio della capitale come centro culturale svanì. Tra gli allievi di Sesshu, Soen era di Kamakura e anche Shugetsu veniva dalle province, così la pittura ad inchiostro si diffuse anche nelle province meridionali e settentrionali, portando alla formazione di scuole. Una figura di particolare importanza in questa periodo fu Sesson Shukei, le cui pitture testimoniano una visione delle cose molto personale, come ad esempio il paesaggio illuminato dalla luna, dove l’inchiostro scuro contrasta nettamente con le zone bianche non dipinte. In un’altra pittura è rappresentato l’immortale taoista Lu Dongping (Ryo Douhin in giapponese), riverito patriarca Zen, raffigurato come un bizzarro eccentrico. L’ultimo pittore ufficiale Ashikaga fu Kano Masanobu, fondatore dell’omonima scuola Kano, che durò senza interruzioni per 400 anni. Non aveva una grande istruzione Zen, essendo educato a dipingere icone e ritratti buddhisti tradizionali con la tecnica policroma. Nel 1483 fu incaricato di decorare gli interni della villa di Higashiyama di Yoshimasa. Lo spirito di questa nuova stirpe di artisti si manifesta eloquentemente nel ritratto di Hotei, di Masanobu, un popolare eccentrico Zen, trasformato in una figura laica simile a quella di un funzionario. Il figlio di Masanobu, Motonobu, ugualmente dotato, ereditò dal padre la capacità di sopravvivere nella volubile politica del tempo e di alternare i soggetti cinesi e giapponesi. Un’altra chiave di successo fu l’aver trasformato la pittura ad inchiostro Zen in uno stile decorativo che incontrava anche i gusti dei non religiosi. Si crede abbia sposato una donna Tosa, che erano i custodi della tradizionale pittura Yamato-E, e questa alleanza gli permise di imparare a padroneggiare questo stile e ad includerlo nella pittura ad inchiostro. La cerimonia del tè, inoltre, diede un forte impulso allo sviluppo di varie attività artigianali, poiché per servire il tè erano necessari oggetti in ceramica, lacca, legno, bambù e metallo.
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