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Argomenti di diritto processuale civile (Paolo Biavati), Dispense di Diritto Processuale Civile

Capitolo II (Le condizioni di svolgimento del processo)

Tipologia: Dispense

2020/2021

In vendita dal 20/10/2021

MattiaAntonio.Salerno
MattiaAntonio.Salerno 🇮🇹

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Scarica Argomenti di diritto processuale civile (Paolo Biavati) e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! CAPITOLO Il LE CONDIZIONI DI SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. 19. La questione di giurisdizione. Il regolamento di giurisdizione. LA QUESTIONE DI GIURISDIZIONE Si ha questione di giurisdizione quando, nel corso del processo, sorge un contrasto tra le parti o si manifesta un diverso punto di vista del giudice, circa la sussistenza o no della giurisdizione in capo all'organo adito. La giurisdizione è — in senso logico — il primo presupposto processuale, nel senso che il giudice per cominciare a prendere in considerazione il caso, deve verificare di avere il potere di deciderlo. Occorre chiarire, però, che si tratta di una priorità logica, non temporale. In base all’art. 37 c.p.c., la questione di giurisdizione può sorgere in ogni stato e grado del processo, e può essere sollevata dalle parti o d'ufficio dal giudice. L'espressione “in ogni stato e grado” allude ad ogni istanza e fase processuale, e quindi tale questione può essere sollevata anche in sede d'appello o di giudizio di Cassazione. Le Sezioni Unite della Cassazione hanno però affermato che ogni pronuncia di merito — anche se non accompagnata da nessuna espressa statuizione sulla giurisdizione — implica di regola la preventiva verifica della potestas iudicandi da parte del giudice che l’ha emessa. Dunque, ad esempio, la mancata proposizione in appello della questione di giurisdizione viene valutata come acquiescenza, e si suppone così la formazione del giudicato sul punto della giurisdizione, precludendone la proponibilità e la rilevabilità d'ufficio in Cassazione. La cassazione, correggendo l’interpretazione dell'art. 37 c.p.c., ha affermato che la rilevabilità del difetto di giurisdizione deve tenere conto dei principi (costituzionali) di economia processuale e di ragionevole durata del processo, con una serie di conseguenze, fra le quali quella che permette il rilievo d'ufficio della giurisdizione solo fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato, anche implicito. Colui che ha il potere di risolvere la questione di giurisdizione è anzitutto il giudice. Infatti ogni giudice di merito ha il potere di decidere sulla propria giurisdizione, ma, se sorgono conflitti — positivi o negativi— di giurisdizione, la decisione deve spettare ad un solo organo, ossia la Cassazione a Sezioni Unite. La questione di giurisdizione può sorgere in diversi ambiti — per via dei diversi limiti al potere giurisdizionale del giudice ordinario: ® ambito interno, e quindi dei rapporti fra giudice ordinario e speciale o dei conflitti di attribuzione fra il giudiziario e la P.A.; ® ambito internazionale, in relazione alle diverse sfere di potere dei sistemi giudiziari nazionale, di quello dei rapporti con ordinamenti speciali, sia di sistemi non statuali. La questione di giurisdizione può essere risolta o attraverso la trafila delle impugnazioni ordinarie, o invia anticipata: ® Impugnazioni ordinarie: il giudice — chiamato a decidere la causa — statuisce (sempre implicitamente, talvolta esplicitamente) sulla sussistenza della propria giurisdizione. 1. se il giudice ha esplicitamente stabilito la sussistenza della propria giurisdizione e le parti sono d'accordo e non impugnano, sul punto si forma il giudicato e non se ne può più discutere. Contro la decisione esplicita è comunque in ogni caso possibile proporre l'appello e il ricorso in cassazione; 2. se invece il giudice ha implicitamente stabilito la sussistenza della propria giurisdizione, e le parti non propongono appello, l’art. 37 c.p.c. consentiva al giudice dell’impugnazione di sollevare la questione d'ufficio, ma la cassazione tende invece a ritenere che solo un’espressa iniziativa di parte possa permettere l’intervento del giudice. ® A causa dei lunghi tempi per compiere l’ordinario percorso delle impugnazioni, il legislatore ha previsto la risoluzione in via anticipata della questione di giurisdizione, attraverso il regolamento preventivo di giurisdizione (art. 41 comma 1c.p.c.). Il regolamento può essere proposto, dall'attore o dal convenuto, solo prima che sia stata emessa una decisione di merito o di rito — anche non definitiva — su una qualsiasi parte della materia del contendere (infatti il regolamento preventivo non è un mezzo di impugnazione), e questo perché se il giudice si è pronunciato significa che ha implicitamente stabilito di avere il potere di giudicare sul punto. Il regolamento ha come obiettivo investire le Sezioni Unite della Cassazione della decisione sul punto della giurisdizione in rapporto alla singola causa. Si propone con ricorso e si sviluppa in modo molto simile al comune ricorso in cassazione. Va precisato che la decisione assume le forme dell’ordinanza resa in camera di consiglio (art. 375 c.p.c.). In particolare, il presidente della Corte richiede al pubblico ministero le sue conclusioni scritte. Le conclusioni e il decreto del presidente che fissa l'adunanza sono notificati almeno 20 giorni prima, agli avvocati delle parti - che possono presentare memorie non oltre 5 giorni prima, ma non possono chiedere di essere sentiti (art. 380-ter c.p.c.). Nella precedente legislazione, il regolamento di giurisdizione aveva effetto automaticamente sospensivo del giudizio di primo grado da cui derivava. Purtroppo, a causa di una prassi abusiva — in cui le parti allo scopo di allungare i tempi di decisione del processo proponevano regolamenti di giurisdizione infondati — nel 1990 è stato ritenuto necessario modificare l'art. 367 c.p.c. Il quale — ora — consente al giudice di sospendere il processo solo se non ritiene l'istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata. Ovviamente in questo modo si corre il rischio che il giudice decida di proseguire la causa ed emettere una decisione che verrà in seguito travolta se le sezioni unite dovessero negare la sua giurisdizione. Se il processo viene sospeso, le parti dovranno poi riassumerlo nel caso in cui le sezioni unite dichiarino la giurisdizione del giudice ordinario. Art. 3 comma 2__il quale rinvia alle disposizioni della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, stabilendo che esse vengano assunte solo come modalità strumentale di individuazione della competenza giurisdizionale. Dunque, vi è giurisdizione italiana nei confronti di un convenuto domiciliato ovunque nel mondo quando sussista uno dei criteri delle sezioni 2, 3 e 4 del titolo Il della convenzione (risulta attribuita la giurisdizione ai giudici italiani quando — ad esempio — l'obbligazione dedotta in giudizio debba essere eseguita in Italia). L’art. 3, fra le norme della convenzione (e ora del regolamento), richiama tutte quelle che contengono forme di tutela per l’effettività della difesa delle parti ritenute più deboli, ossia i lavoratori dipendenti, i consumatori, gli assicurati. Una caratteristica comune di tutte queste norme è quella di individuare come competente la giurisdizione del luogo in cui è domiciliata la parte più debole, anche se è essa l'attrice. L’ultima parte dell'art. 3 comma 2 contiene poi una norma di chiusura, che fa riferimento ai criteri interni di determinazione della competenza per territorio rispetto a tutte le materie non incluse nel campo di applicazione della Convenzione, affermando che rispetto ad altre materie la giurisdizione sussiste anche in base ai criteri stabiliti per la competenza per territorio. La norma è protettiva nei confronti dell'attore italiano perché attraverso il richiamo all’art. 18 comma 2 c.p.c. permette di attirare in Italia molte controversie. Infatti la legge, mentre nella materia contrattuale e commerciale attua una politica di ampia apertura alle giurisdizioni straniere e tende a svincolare la giurisdizione dal legame con il territorio, nella materia dei diritti indisponibili mantiene un atteggiamento di conservazione della giurisdizione nazionale, con un più forte vincolo sia al territorio che al criterio della cittadinanza. DEROGA E ACCETTAZIONE CONVENZIONALI DELLA GIURISDIZIONE La L. n.218/1995 prevede un secondo criterio positivo di giurisdizione, con funzione apparentemente sussidiaria, ma in realtà prevalente. Si tratta del criterio dell’accettazione e della deroga convenzionali alla giurisdizione italiana, stabilito dall'art. 4, che pone come criterio normale quello della derogabilità pattizia della giurisdizione, che prevale, in linea di massima, sui criteri generali oggettivi dell’art. 3. Art. 4 comma 1_ estende l'ambito della giurisdizione nazionale come criterio generale a tutte le situazioni in cui essa sia stata convenzionalmente accettata dalle parti (purché se ne possa dare prova scritta), ovvero che il convenuto compaia nel processo senza eccepire il difetto di giurisdizione nel primo atto difensivo. Nello spazio applicativo di questa norma possono rientrare ipotesi come le liti tra cittadini italiani residenti all’estero, relative ad un rapporto obbligatorio sorto e da eseguirsi fuori dall’Italia, o le liti tra due cittadini stranieri; Art. 4 comma 2_ nel primo coma la norma allarga il campo di applicazione della giurisdizione nazionale, in questo caso invece si lascia piena libertà a coloro che dovrebbero essere sottoposti alla giurisdizione italiana, di scegliere un giudice di un altro Stato o un arbitro straniero. Prevede quindi che una controversia italiana o internazionale venga attribuita alla cognizione di un’autorità giurisdizionale straniera. Questo accordo obbligatorio deve però avere forma scritta, e riguardare un diritto disponibile; ® Art.4comma3_ dispone che la deroga è inefficace se il giudice o gli arbitri indicati declinano la giurisdizione o non possono conoscere la causa. Pertanto i litiganti potranno ritornare in un secondo momento alla giurisdizione italiana (anche nel caso in cui una delle parti non dovesse essere d'accordo). I CRITERI SPECIALI DI GIURISDIZIONE INTERNAZIONALE Inoltre, altre norme istituiscono criteri speciali di giurisdizione: e Art.5_poneuncriterio negativo o limitativo, escludendo in ogni caso la giurisdizione italiana rispetto alle azioni reali aventi ad oggetto beni immobili situati all’estero; ® Art. 10. stabilisce che la giurisdizione italiana sussiste quando il provvedimento deve essere eseguito in Italia o quando il giudice italiano ha giurisdizione nel merito; ® Art.9_ prevedendo la giurisdizione volontaria, recupera il criterio della cittadinanza. Dunque la giurisdizione italiana sussiste quando il provvedimento richiesto concerne un cittadino italiano o una persona residente in Italia o quando riguarda situazioni o rapporti ai quali è applicabile la legge italiana. Il sistema si completa con le norme sul riconoscimento delle sentenze straniere, che escludono il riesame nel merito e limitano i casi di non riconoscimento a situazioni di gravi violazioni di regole processuali fondamentali e/o diritti umani. Per quanto riguarda la questione di giurisdizione nei confronti di giurisdizioni straniere, il combinato disposto degli artt. 4 e 11 della L. n.218/1995 va interpretato nel senso che, mentre nella materia a protezione elevata il difetto di giurisdizione è rilevabile in ogni stato e grado, nella materia a protezione ridotta (civile e contrattuale), il contenuto deve sollevare l'eccezione nella prima difesa, eccetto pochi casi rilevabili d’ufficio. IL FORUM NECESSITATIS Per forum necessitatis si intende che la fondata prognosi di una violazione grave dei diritti di difesa nello Stato estero può consentire al giudice italiano senza giurisdizione di accettare la causa, per rendere una decisione non coercibile nel paese formalmente dotato di giurisdizione, ma opponibile negli altri paesi. Il forum necessitatis trova spazio anche nel diritto processuale europeo, precisamente all'art. 7 del Regolamento n. 4/2009 in materia di obbligazioni alimentari e all’art. 15 del Regolamento n. 650/2012 in materia successioni 21. Il sistema della competenza. NOZIONE E CRITERI DI COMPETENZA La competenza può essere definita come la porzione di giurisdizione che appartiene ad un singolo organo giudiziario. La giurisdizione riguarda tutti i giudici-organo di un comparto giurisdizionale — rispetto ai quali opera una presunzione di pari tutela giurisdizionale — la competenza viene ripartita per esigenze organizzative (in modo da avere una migliore distribuzione dei giudici sul territorio; impedire alle parti di sottrarsi al giudice naturale). Come la giurisdizione anche la competenza è un presupposto processuale, infatti il giudice dopo avere accertato la propria giurisdizione deve anche verificarne la propria competenza. I criteri di ripartizione della competenza servono a stabilire quale sia il giudice designato dalla legge a decidere quella determinata causa, con quelle parti, quell'oggetto e quel titolo. I criteri di competenza sono 3 e per determinare l'organo giudiziario chiamato a decidere quella controversia si applicano esattamente in quest'ordine: 1. per materia; 2. per valore; 3. per territorio. La competenza, almeno inizialmente, viene fissata dall’attore: quindi è chi propone la domanda a dover per primo esaminare le norme per individuare il giudice al quale indirizzarla. Il momento determinativo della competenza è disciplinato dall'art. 5 c.p.c., in base al quale la giurisdizione e la competenza si determinano con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della proposizione della domanda, e sono irrilevanti i mutamenti successivi. In tal caso è opportuno accennare il fenomeno del forum shopping, secondo cui chi comincia la causa sceglie il foro: e chegligarantisce le maggiori probabilità di successo (scelta unilaterale); e più comodo logisticamente o con meno costi processuali o fiscali (scelta consensuale tra le parti). Per altro verso, per l'attore sostanziale è più adatto il foro che garantisce la decisione in tempi più rapidi, mentre per il convenuto sostanziale è più adatto il foro che comporta tempi processuali più lunghi. LA COMPETENZA PER MATERIA E PER VALORE La competenza per materia fa riferimento all'oggetto della controversia ed attribuisce a un dato organo giudiziario il compito di conoscere le cause che riguardano specifici settori. Normalmente il giudice al quale si propongono le domande è il tribunale (art. 9 c.p.c.), salvo i casi di competenza per materia del giudice di pace, elencati dall’art. 7 c.p.c.— precisamente forme di piccolo contenzioso come le cause relative ad apposizione di termini e osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai regolamenti o dagli usi riguardo al pianamente di alberi o siepi; cause relative alla misura e alle modalità d’uso dei servizi di condominio di case; cause relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti ad abitazione in materia di immissioni di fumo, ALTRI PROFILI Oltre ai tipi di competenza delineati, si parla anche di competenza funzionale, quando essa viene attribuita essenzialmente con riguardo ad una funzione. La più classica ipotesi è quella della competenza per gradi, che governa il sistema delle impugnazioni. Se ad esempio è competente in primo grado il Tribunale di Modena, per il grado di appello è competente la Corte D’appello di Bologna. La competenza funzionale è sempre inderogabile. Una particolare forma di competenza — per materia e per territorio — inderogabile e rilevabile d'ufficio, è la competenza collegata alle sezioni specializzate per l'impresa. Infatti, nelle materie assegnate a queste sezioni, è competente solo il Tribunale (o la Corte D'appello) in cui è costituita la sezione Così l’impugnazione di una delibera di un'assemblea di S.p.a. con sede in un circondario di tribunale che non è sede di sezione specializzata va proposta dinanzi al tribunale dove si trova la sezione. Ad esempio, se la S.p.a. ha sede a Ravenna, il giudizio va radicato dinanzi al Tribunale di Bologna — individuato dalla legge come sede della sezione specializzata per le imprese nella regione Emilia-Romagna. Con la L. n.9/2014, il legislatore al fine di favorire gli investitori esteri che si trovino ad avere un contenzioso societario in Italia, ha stabilito che essi possano difendersi in un numero limitato di fori. 1. In primo luogo è stata creata una competenza basata: e daunlato su un criterio meramente soggettivo (vale a dire, la natura di società con sede all’estero di una delle parti); ® dall’altro lato su un criterio per materia (ossia, la materia assegnata alle sezioni di tribunale per le imprese). 2. In secondo luogo, non attribuisce questo compito a tutti i tribunali per le imprese, ma solo ad alcuni di esse (elencazione dei fori competenti) — creando di fatto dei nuovi bacini di competenza. Per comprendere le vaste dimensioni di questi nuovi bacini, si pensi che le controversie che ricadono nel distretto della Corte d'Appello di Bologna sono attribuite al Tribunale di Genova e quelle che ricadono nel distretto della Corte d'Appello di Firenze sono attribuite al Tribunale di Roma. Resta però ferma la competenza territoriale ordinaria per le cause in cui è parte una società con sede all’estero, in materia diversa da quella attribuita alle sezioni specializzate per l'impresa. Queste forma di competenza funzionale si incrociano con la libertà delle parti di individuare liberamente il foro competente. La libertà rimane, ma alla fine esse devono rivolgersi al tribunale per le imprese nel cui bacino rientra il foro prescelto. Ad esempio, due società — una delle quali con sede all’estero — stipulano un patto di deroga della competenza fissando quella del foro di Ravenna, l'eventuale controversia in materia societaria fra loro insorta dove essere radicata dinanzi al Tribunale di Genova. 22. Le modifiche alla competenza per ragioni di pregiudizialità e connessione. L’accertamento incidentale. PREGIUDIZIALITÀ E CONNESSIONE COME CAUSE MODIFICATRICI DELLA COMPETENZA. Le regole finora analizzate consentono di determinare il giudice-organo competente. Talvolta, però, queste regole subiscono una modifica per effetto dei rapporti che una singola causa ha con altre cause. Si possono — pertanto — avere degli spostamenti della competenza dovuti a pregiudizialità o connessione tra cause. e Connessionetra cause: è un legame strutturale tra azioni diverse, che suggerisce abitualmente la trattazione comune; ® Pregiudizialità: quando un certo passaggio logico-giuridico è oggetto di diverse vedute tra le parti o fra le parti e il giudice, sorge una questione pregiudiziale, ossia una questione che va decisa prima che il giudice possa proseguire l’iter decisionale. Vi è però anche una pregiudizialità di tipo sostanziale o pregiudizialità-dipendenza, quando un certo rapporto giuridico è costituito da una fattispecie complessa, uno degli elementi della quale è pregiudiziale rispetto al rapporto che si configura da esso dipendente. In questi casi, non vi è soltanto un criterio di successione logico-giuridica nel ragionamento del giudice, ma è la stessa struttura del diritto fatto valere che genera una particolare relazione. Questa pregiudizialità-dipendenza può avere diversi effetti, e tra questi vi è anche la modifica della competenza. L’ACCERTAMENTO INCIDENTALE L'art. 34 c.p.c. dispone che “// giudice, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui”. ® Accertamento incidentale, questo caso riguarda l'ipotesi di un accertamento che va compiuto con effetto di pregiudizialità su un altro all’interno del medesimo processo. Ad esempio, la sussistenza di un certo rapporto familiare di parentela per l'accoglimento di una domanda di alimenti. In linea di massima al giudice è sufficiente accertare il rapporto pregiudiziale, nei limiti di quanto necessario per la decisione della causa. ® Talvolta però — per volontà delle parti o per legge — il giudice è tenuto a decidere anche il rapporto pregiudiziale con efficacia di giudicato, c.d. Accertamento con efficacia di giudicato. In questo caso il giudice, se non è competente ad accertare anche il rapporto pregiudiziale, deve spogliarsi della competenza a decidere quello pregiudicato, facendo trasferire l’intero processo al giudice competente a conoscere il rapporto pregiudiziale. Per distinguere l'accertamento incidentale da quello che acquisisce efficacia di giudicato bisogna risalire al principio della domanda, secondo il quale il giudice deve accertare solo e soltanto ciò che le parti hanno chiesto, e dunque ogni diverso profilo - anche se pregiudiziale — rimane estraneo all'accertamento: quindi il giudice lo verifica solo in quanto necessario per statuire sulla domanda principale. Se A chiede la condanna di B a pagare la rata di un contratto a prestazioni periodiche e B eccepisce la nullità del contratto, al fine di evitare il pagamento della rata ma senza chiedere al giudice di decidere sull’efficacia del contratto, la decisione del giudice sarà semplicemente di condannare o no B al pagamento. Se invece B per difendersi domanda al giudice di pronunciarsi anche sulla nullità, l'oggetto del processo sarà l'accertamento della nullità del contratto e, se il contratto sarà ritenuto valido, l'obbligo o no di pagamento della rata (si avrà un'estensione del giudicato). A volte può anche essere la legge stessa ad imporre l'accertamento con efficacia di giudicato. Ciò accade, ad esempio nei rapporti di stato: se la parentela è necessaria per stabilire l'obbligo o no di versare gli alimenti, non è possibile esaminarla solo incidentalmente. In questo caso, la pregiudizialità comporta che la domanda (la corresponsione degli alimenti) presupponga necessariamente la dimostrazione del rapporto di parentela. COMPENSAZIONE E DOMANDA RICONVENZIONALE L'art. 35 c.p.c. riguarda invece la compensazione, e dispone che “Quando è opposto in compensazione un credito che è contestato ed eccede la competenza per valore del giudice adito, egli rimette di norma tutta la causa al giudice superiore — applicando il meccanismo dell'art. 34 —. Nel caso in cui la domanda originaria sia fondata su un titolo non controverso o facilmente accertabile, potrà decidere la causa e rimettere le parti al giudice competente per l’esame della sola eccezione di compensazione”. L’ art. 36 c.p.c. prevede il meccanismo della domanda riconvenzionale — analogo a quello dell’accertamento incidentale — secondo il quale se il convenuto spiega una domanda riconvenzionale, connessa per l'oggetto o per il titolo alla domanda principale dell’attore che deve essere decisa, per materia o valore da un altro giudice, l’intera materia del contendere viene portata davanti a quest’ultimo (giudice superiore). L'effetto di spostamento della competenza è un effetto solo eventuale della domanda riconvenzionale, normalmente l’effetto di questa domanda è solo quello di ampliare la materia del contendere. CONNESSIONE E CUMULO DI CAUSE Tra gli effetti modificativi della connessione sulla competenza, si devono considerare gli artt. 31, 32, 33, 40 e 103 c.p.c. (connessione oggettiva e cumulo soggettivo) e 104 e 10 c.p.c. (connessione soggettiva e cumulo oggettivo): 1. l’art.31c.p.c. dispone che “La domanda accessoria può essere proposta al giudice territorialmente competente per la domanda principale affinché sia decisa nello stesso processo, osservata, quanto alla competenza per valore, la disposizione dell’art. 10 comma ordinanza è limitata al concreto processo in cui è emanata e non si riferisce ad eventuali futuri processi che dovessero riguardare la stessa causa (c.d. efficacia endo-processuale). Pertanto se il processo si estingue e viene successivamente ricominciato, il giudice non è vincolato dalla pronuncia precedente. Le pronunce PURE sulla competenza — ossia che decidono solo sulla competenza — possono essere affermative o negative della competenza. Tuttavia il giudice può però decidere insieme su competenza e merito, ma in questo caso la pronuncia può essere soltanto una pronuncia affermativa della competenza, in quanto se non fosse competente non potrebbe decidere sul merito. Nel caso in cui l'ordinanza del giudice sia negativa della competenza (ossia l'organo giudiziario adito si dichiara incompetente) — ex art. 44 c.p.c. — egli deve indicare anche l'organo giudiziario competente e assegnare un termine per riassumere il processo dinnanzi al nuovo giudice. Se la riassunzione davanti al giudice dichiarato competente avviene entro il termine fissato nell'ordinanza, e in mancanza di un termine entro 3 mesi dalla comunicazione dell'ordinanza negativa, il processo continua davanti al nuovo giudice, altrimenti il processo si estingue per mancanza del necessario impulso di parte (art. 50 c.p.c.). Se l'ordinanza negativa di competenza che indica un altro organo giudiziario come competente, non viene impugnata con l'istanza di regolamento e se la causa viene riassunta nei termini di fronte al nuovo giudice, l’incompetenza dichiarata e la competenza affermata del nuovo giudice rimane incontestabile all’interno di quel concreto processo. Ne segue che il nuovo giudice non può dichiararsi anch'egli incompetente (neppure se avesse un fondato motivo di ritenere che il primo giudice abbia sbagliato). Un’eccezione riguarda però il caso in cui la sentenza negativa sulla competenza riguardi la competenza per materia o per territorio inderogabile, nella cui ipotesi resta salva la possibilità per il giudice a cui la causa è pervenuta di sollevare d'ufficio il regolamento di competenza. Naturalmente, la decisione del giudice sulla competenza può essere impugnata: attraverso le normali impugnazioni (appello e ricorso in cassazione) o con un apposito mezzo di impugnazione ordinario il c.d. regolamento di competenza. Il regolamento di giurisdizione è un mezzo di controllo preventivo, esperibile prima che il giudice abbia deciso sulla giurisdizione; mentre il regolamento di competenza è un vero e proprio mezzo di impugnazione, proponibile alla Corte di Cassazione (la quale si esprime non solo sull’individuazione del giudice competente ma anche sulla correttezza delle modalità processuali con le quali la questione è sollevata). LA QUESTIONE DI LITISPENDENZA, CONTINENZA O CONNESSIONE TRA CAUSE Distinta dalla questione di competenza è quella che riguarda la litispendenza, continenza o connessione di cause. Tuttavia anche in queste ipotesi l'organo giudiziario deve comunque stabilire se una certa causa sarà trattata dinnanzi a lui o ad un altro giudice. In queste ipotesi vi sono delle cause identiche o connesse, che vengono proposte davanti ad organi giudiziari diversi (quando vengono proposte allo stesso organo si procede con la riunione delle cause). 1. Perquanto riguarda la pendenza, l'art. 39 comma 1 c.p.c. dispone che se una stessa causa — quindi con parti, oggetto identici — viene proposta a giudici diversi, dal momento che vige il principio del ne bis in idem, il giudice adito successivamente, dichiara con ordinanza, anche d'ufficio e in qualunque stato e grado del processo, la litispendenza e dispone sempre con ordinanza la cancellazione della causa. Occorre precisare che il giudice adito successivamente è tenuto a dichiarare la litispendenza anche se la prima causa è già in sede di impugnazione. Dunque la giurisdizione non può essere esercitata due volte sulla stessa controversia. Rispetto all’eccezione di competenza, quella di litispendenza non è soggetta ai ristretti limiti di esercizio posti dall'art. 38. Esempio, A cita B per ottenere la condanna al pagamento di una determinata somma, successivamente però B cita A per ottenere l'accertamento negativo del debito. In tal caso per stabilire quale dei due processi — sulla medesima controversia — debba essere eliminato, il codice utilizza il criterio temporale della prevenzione, ossia la causa iniziata per prima prosegue, quella iniziata dopo si estingue. 2. Per quanto concerne la continenza, l'art. 39 comma 2 c.p.c. sancisce che se il giudice adito per primo è competente anche per la causa proposta dopo, il giudice della seconda causa dichiara con ordinanza la continenza e fissa un termine perentorio entro il quale le parti devono riassumere la causa di fronte al primo giudice. Se poi il primo giudice non è competente anche per la causa successivamente proposta, spetta a lui dichiarare la continenza e fissare il termine per la riassunzione davanti all’altro giudice. 3. La connessione, invece, sussiste quando le azioni hanno in comune alcuni, ma non tutti gli elementi identificativi. In questo caso entra in gioco oltre al criterio della prevenzione, anche quello dell'attrazione, nel senso che la causa principale attira quella dipendente. La connessione non può essere eccepita dalle parti né rilevata d’ufficio dopo la prima udienza. L'art. 40 c.p.c. dispone che: ® In primo luogo, se vengono proposte a giudici diversi più cause connesse, che possono essere decise in un solo processo, il giudice fissa con ordinanza alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria davanti al giudice della causa principale, e negli altri casi davanti a quello preventivamente adito. L'accessorietà è regolata dall'art. 31, le altre ipotesi di connessione sono invece disciplinate in base alla prevenzione; ® la connessione suggerisce, ma non obbliga necessariamente la trattazione congiunta delle cause. Infatti l’art. 40 permette di rilevare la connessione solo nella fase iniziale del processo, e precisa anche che la rimessione ad altro giudice non può avvenire quando lo stato della causa principale o proposta preventivamente non consente l’esauriente trattazione e decisione delle cause connesse. ® Sele cause connesse, oltre ad essere pendenti di fronte a giudici diversi, sono assoggettate a riti diversi, allora il rito ordinario deve prevalere sui riti speciali, a meno che non si tratti del processo del lavoro, e se le cause connesse sono soggette a diversi riti speciali, allora vanno trattate con il rito previsto per quella tra esse in ragione della quale viene determinata la competenza o con il rito previsto per la causa di maggior valore. 24. Il giudice-organo. Cenni di ordinamento giudiziario. GLI ORGANI GIUDIZIARI CIVILI La scienza dell’ordinamento giudizi è una disciplina che studia la struttura organizzativa del sistema, e dunque anche gli organi giudiziali (o giudici-organo) civili nel sistema italiano, i quali sono indicati dall'art. 1 del r.d. n. 12/1941 sull'ordinamento giudiziario. Essi sono: ® Giudice di pace; ® Tribunale ordinario; ® Tribunale peri minorenni; e Corte d'appello; e Corte di Cassazione. I giudici di pace sono magistrati onorari; sono magistrati di carriera, invece, i componenti degli altri uffici giudiziari. Tutti i magistrati vengono reclutati attraverso concorso, i cui vincitori diventano magistrati ordinari tirocinanti, pertanto prima di essere assegnati alle funzioni — giudicanti o requirenti — in una determinata sede, sono tenuti a seguire un periodo di tirocinio. GIUDICE MONOCRATICO E GIUDICE COLLEGIALE I giudici-organo possono avere: e composizione monocratica (quando decide un solo giudice); e composizione collegiale (quando decidono più giudici, anche se le funzioni preparatorie della decisione possono essere affidate ad uno di essi). La scelta fra il modello del giudice monocratico o del giudice speciale è difficile: 1. Sotto il profilo teorico, il giudice collegiale offre maggiore garanzia dato che la decisione è frutto di un dibattito fra più persone. Tuttavia ciò richiede un impegno di più giudici per una sola controversia. 2. Il giudice monocratico, invece, è più esposto al rischio di errori, ma assicura maggiore efficienza (decisioni in un tempo minore e minor impiego di giudici per la stessa controversia). Il codice di rito del 1942 prevedeva la seguente articolazione: e giudici monocratici per le controversie di minore valore (uno onorario — come il giudice di pace; e uno togato — come il pretore); e iltribunale e la corte d'appello operavano collegialmente. | due organi collegiali avevano inoltre la figura del giudice istruttore, ossia un magistrato singolo a cui era affidata la trattazione della causa, che poi ritornava sul tavolo del collegio per la decisione finale. pace. Con i decreti entrati in vigore nel 2012, sono stati soppressi molti tribunali minori, tutte le sezioni distaccate di tribunale e molti uffici del giudice di pace. ORGANIZZAZIONE E RISORSE DELLA GIUSTIZIA CIVILE Secondo l’opinione prevalente la crisi della giustizia civile non dipende — se non in misura ridotta — dalle regole processuali. Ciò è confermato dal fatto che in altri paesi europei, con disposizioni di rito non colto diverse, la durata delle cause è molto minore. Risultano invece decisivi gli aspetti strutturali ed organizzativi: il numero dei giudici, degli avvocati, la funzionalità degli apparati. Si è cercato recentemente di: ® impiegare maggiormente gli strumenti informatici attraverso il c.d. processo civile telematico; e dotarei magistrati di collaboratori che — sotto la loro direzione — possano aiutarli. In questo senso, sono stata emanate infatti diverse Leggi: 2011, 2013 e 2014. In particolare il legislatore del 2014 ha istituito l'ufficio per il processo. Tuttavia la norma che ha istituito l'ufficio per il processo non chiarisce però esattamente cosa sia e cosa debba fare questo istituto, ma si limita a dire che vi fanno parte le figure di giudici non togati (i giudici onorari di pace dinanzi ai tribunali, i giudici ausiliari dinanzi alle corti d'appello) e i tirocinanti. 25. | magistrati onorari. Il Pubblico Ministero. Il cancelliere. L'ufficio I MAGISTRATI ONORARI La giustizia civile è caratterizzata dai: ® giudici in carriera che in senso proprio costituiscono la magistratura; e giudici non di carriera (c.d. onorari). La differenza tra i giudici di carriera e quelli onorari sta nel fatto che questi ultimi accedono alle funzioni giudiziarie per nomina e non per concorso, senza che si instauri un rapporto di servizio di pubblico impiego. I giudici onorari fanno quindi parte dell'ordine giudiziario — ma non rientrano nella struttura burocratica-gerarchica cui appartengono i magistrati di carriera — ed esercitano le funzioni giudiziarie in via non esclusiva e a tempo determinato. L'art. 106 comma 2 Cost. dispone che la legge sull'ordinamento giudiziario può ammettere la nomina — anche elettiva — di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite ai singoli giudici. L'art. 4 comma 2 ord.giud. prevede la nozione di giudice onorario, affermando che in ambito civile sono giudici onorari i giudici di pace, i giudici onorari di tribunale e della sezione di corte d'appello per i minorenni e gli esperti del tribunale e della magistratura del lavoro nell’esercizio delle loro funzioni giudiziarie. Alla fine sono giudici onorari in senso proprio solo i giudici di pace e quelli onorari di tribunale. Le altre figure svolgono solo occasionalmente le funzioni giudiziarie. I giudici onorari vanno comunque distinti dagli altri soggetti laici che partecipano all'esercizio delle funzioni giurisdizionali, si tratta delle ipotesi contemplate dall’art. 102 Cost.: e comma2_ ossia i cittadini che fanno parte delle sezioni specializzate (come gli esperti del tribunale per i minorenni); e comma3_ casi di partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia (come i giudici popolari presso la corte d’assise d'appello). AI fine di contrastare l’alto numero di contenziosi da risolvere sono stata introdotte nuove figure di giudici onorari, in particolare: 1. nel 1997 furono istituiti i giudici onorari aggregati (Goa); 2. nel 1998 i giudici onorari di tribunale — ancora operativi; 3. nel 2013 giudici ausiliari — ossia magistrati a riposo ed altri profili professionali (docenti universitari, notai, avvocati) destinati a restare in servizio per 5 anni prorogabili, e che collaborano con le corti d'appello; 4. nel 2017 è stato istituito il giudice onorario di pace, che comprende le precedenti figure del giudice di pace e del giudice onorario di tribunale. Il giudice onorario di pace riveste un duplice ruolo: e ricopre l'ufficio di quello specifico organo giudiziario che è il giudice di pace; ® svolge le funzioni affidare ai giudici onorari di tribunale, partecipando all’ufficio per il processo, collaborando con i magistrati non togati per singole attività ed al verificarsi di specifiche condizioni — ossia carenza di personale o eccesso di controversie nel tribunale — possono entrare a far parte di collegi giudicanti. I giudici onorari di pace devono avere almeno 27 anni e la laurea magistrale in giurisprudenza: aver esercitato la professione forense è solo un titolo preferenziale. Inoltre non viene considerata incompatibile l'esercizio della professione forense, purché la si eserciti in un circondario di tribunale diverso da quello della propria funzione di giudice di pace. I giudici onorari di pace sono nominati con decreto del Ministero di giustizia, previa deliberazione del Csm e dopo un articolato procedimento di valutazione e un periodo di tirocinio: quindi né mediante concorso (come i magistrati di carriera) né attraverso elezione. L'incarico dura 4 anni e può essere prorogato solo per altri quattro. Con il raggiungimento dei sessantacinque anni di età è prevista la cessazione delle funzioni. Il giudice onorario di pace, infine, è retribuito con un’indennità — in parte fissa e in parte variabile — collegata ai risultati conseguiti. Il PUBBLICO MINISTERO Il ruolo del Pubblico Ministero in sede civile è marginale, in particolare: 1. art. 69 c.p.c. _ esercita l’azione civile — nel ruolo di parte — nei casi previsti dalla legge; 2. art.70c.p.c. _ deve obbligatoriamente intervenire — a pena di nullità, rilevabile d'ufficio — in alcune cause (cause matrimoniali; quelle che egli stesso potrebbe proporre; quelle riguardanti lo stato e la capacità delle persone, e gli altri casi previsti da specifiche norme di legge). L'intervento obbligatorio si ha anche in Cassazione nelle udienze davanti alle sezioni unite e nelle udienze pubbliche davanti alle sezioni semplici escluse quelle davanti alla “sezione filtro”; 3. altre forme di partecipazione previste dalle norme speciali. L’intervento del P.M. — reso possibile da una comunicazione ricevuta dal giudice (art. 71 c.p.c.)— non ha un contributo incisivo alla causa, ma spesso si limita all'espressione di un parere. L'art. 72 c.p.c. specifica che il P.M. nelle cause che può proporre, ha gli stessi poteri delle parti e li esercita nelle forme che la legge stabilisce per queste ultime. Nei casi di intervento, in cui non avrebbe potuto proporre la causa, il P.M. può attivarsi solo nei limiti delle domande proposte dalle parti. L'art. 73 c.p.c. sancisce che i magistrati del pubblico ministero, infine, posso astenersi, ma non possono essere ricusati. GLI AUSILIARI DEL GIUDICE Per ausiliari del giudice si intende quei soggetti che come — il cancelliere e l'ufficiale giudiziario — sono stabilmente chiamati a svolgere specifiche funzioni a fianco di quelle propriamente giurisdizionali dei magistrati. Questi soggetti in realtà ricevono compiti direttamente dalla legge, e dunque appare più corretto definire ausiliari quelle figure che cooperano con il giudice episodicamente: ossia custodi, consulenti tecnici, traduttori e interpreti. Qui, la nomina viene solitamente compiuta dal giudice in relazione a specifici incarichi. IL CANCELLIERE Il cancelliere è il primo e principale collaboratore del giudice. Le funzioni del cancelliere sono riassunte dal codice in due norme generali, ossia gli artt. 57 e 58 c.p.c. Il cancelliere: e documenta- nei casi e nei modi previsti dalla legge — le attività proprie e quelle degli organi giudiziari e delle parti; ® assiste il giudice in tutti gli atti in cui deve essere formato un processo verbale; e quando il giudice provvede per iscritto — se la legge non dispone diversamente — il cancelliere stende la scrittura e vi appone la sua sottoscrizione dopo quella del giudice; ® attendeal rilascio di copie ed estratti autentici dei documenti prodotti, all'iscrizione delle cause a ruolo, alla formazione del fascicolo d’ufficio e alla conservazione di quelli delle parti, alle comunicazioni e alle notificazioni prescritti dalla legge o dal giudice e alle altre incombenze che la legge gli attribuisce. L’UFFICIALE GIUDIZIARIO L'ufficiale giudiziario è ausiliario del giudice per tutte le funzioni in cui occorre mettere in atto la forza coercitiva dello Stato: basti pensare alle notificazioni e all’attività di esecuzione forzata. L'art. 59 c.p.c. menziona le sue funzioni, e dispone che egli: ® assiste il giudice in udienza; 3. se eglistesso o il coniuge ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei difensori; 4. se ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha deposto in essa come testimone, o ne ha conosciuto come giudice in altro grado del processo o come arbitrio o vi ha prestato assistenza come consulente tecnico; 5. se è tutore, curatore, amministratore di sostegno, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti o se è amministratore o gerente di un ente, di un’associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di una società o stabilimento che ha interesse nella causa. L’art. 51 comma2 c.p.c. sancisce che in tutti gli altri casi— non citati dal comma 1- in cui vi siano gravi ragi i convenienza, il giudice può astenersi, chiedendone l'autorizzazione al capo dell'ufficio. L'autorizzazione viene richiesta per mediare tra le esigenze del magistrato e il buon andamento dell'ufficio giudiziario. Per i giudici onorari, oltre a quelle già citate, vi sono ulteriori ipotesi di astensione: ad esempio per il giudice onorario di pace l’aver avuto o avere rapporti di lavoro autonomo o di collaborazione con una delle parti. I motivi qui elencati sono tassativi e non suscettibili di interpretazione estensiva, nemmeno se analogica. Va comunque notato che queste ipotesi di obbligatoria astensione: e nonrispondono del tutto alle esigenze di una società moderna, infatti alcune condizioni — come l’inimicizia, i rapporti di debito o credito — descrivono meglio la vita di un borgo agricolo del secolo scorso e non sembrano in sintonia con le moderne megalopoli urbane; e nonesiste un generale dovere del giudice di dichiarare eventuali situazioni che possano far sospettare la sua mancanza di imparzialità. Infatti ai giudici non viene esteso l'obbligo della disclosure che viene previsto nella prassi per gli arbitri privati. Nei casi dell’art.51 comma 1 c.p.c. la dichiarazione del giudice di volersi astenere è necessaria e sufficiente, produce un effetto automatico, non è sindacabile e non può costituire motivo di impugnazione della sentenza. Il dovere di astensione del giudice non viene sanzionato se non sul piano deontologico e disciplinare. LA RICUSAZIONE AI dovere di astensione da parte del giudice corrisponde il potere di ricusazione in capo a ciascuna delle parti. Attraverso l'istanza di ricusazione la parte — allegando una temuta situazione di non imparzialità del giudice — chiede che quella singola persona fisica sia sostituita da altra, nell’ambito del medesimo ufficio giudiziario. Tuttavia, la ricusazione è possibile soltanto nei casi in cui il giudice si trovi in una delle ipotesi espressamente menzionate dall’art. 51 comma 1 c.p.c., che presenta diversi limiti. Manca la possibilità di ricusare sulla base di una clausola elastica. La ricusazione inoltre — a differenza dell’astensione che ha effetto automatico — suppone un subprocedimento (art. 52 c.p.c.), che prende vita dall'apposita istanza, in cui il ricusante deve non solo indicare i motivi della sua iniziativa, ma anche esporre le prove che la sostengono. Un ulteriore punto — non favorevole alla parte — consiste nel fatto che l’istanza di ricusazione viene esaminata dai colleghi del ricusando. Infatti secondo l’art. 53 c.p.c., sulla ricusazione decide il Presidente del tribunale se è ricusato un giudice di pace ma decide il collegio (di quella sezione) se è ricusato un giudice del tribunale o della corte d’appello. Inoltre, nel procedimento viene ascoltato il giudice e vengono assunte le prove, senza però che la parte possa essere sentita. È evidente che la ricusazione comporti alti rischi per la parte che l'istanza venga respinta e che la causa venga così decisa da un giudice che, dopo la ricusazione da parte di uno dei contendenti, non sia più di certo imparziale. Per questi motivi nella prassi è rara la ricusazione del giudice. LA RESPONSABILITÀ CIVILE DEL GIUDICE Il cittadino leso da un comportamento illecito del magistrato nell’esercizio dei suoi doveri deve essere risarcito (c.d. Responsabilità civile del giudice). Tuttavia è necessario comunque tutelare la liberta del giudice, il quale deve decidere senza pressioni o minacce di un’azione legale. La L. n.18/2015 attribuisce al cittadino, che ritenga di essere stato ingiustamente danneggiato da comportamenti, atti o provvedimenti giudiziari posti in essere con dolo o colpa grave dal giudice nell’esercizio delle sue funzioni o per effetto di un diniego di giustizia un’azione per consequire il risarcimento dei danni, da proporre non contro il giudice, ma nei confronti dello Stato, che si rivarrà in sequito verso il magistrato responsabile. L'art. 2 della L. ritiene che si ha colpa grave quando vi è: e violazione manifesta della legge italiana o europea; ® il travisamento del fatto o delle prove; ® l’affermazione di un fatto la cui esistenza è esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta dagli atti del procedimento o ancora l'emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge o senza motivazione. L’art. 3 della L. stabilisce che il diniego di giustizia sussiste in caso di rifiuto, omissione o ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio, quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell'atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono inutilmente e senza giustificato motivo decorsi 30 giorni dalla data di deposito in cancelleria. Va inoltre detto che l’azione risarcitoria per colpa del magistrato è proponibile solo dopo l'esperimento di tutti i mezzi ordinari di impugnazione, e decade dopo tre anni dal momento in cui l’azione è esperibile. Inoltre, la competenza a conoscere la domanda di risarcimento spetta al tribunale in composizione collegiale nella sede della Corte d'Appello del distretto più vicino a quello in cui è compreso l'ufficio giudiziario in cui operava il magistrato al momento del fatto. 27. Il difensore e la deontologia forense. IL DIFENSORE: PROFILI GENERALI L'ordinamento prevede che le parti — dinanzi al giudice civile - normalmente non svolgano in proprio la difesa, ma si avvalgano di un (necessario) ausilio tecnico: il difensore. La difesa tecnica è diversa dalla rappresentanza processuale, perché con quest’ultima nel processo agisce un soggetto diverso da quello nella cui sfera giuridica ricadono gli effetti della decisione, mentre la difesa tecnica comporta che la parte agisca nel processo ma con l’intermediazione di un difensore. L'art. 82 comma 3 c.p.c. dispone la regola di base (detta divieto dello jus postulandi) secondo la quale salvi i casi in cui la legge stabilisce diversamente, davanti al tribunale e alla corte d'appello le parti devono stare in giudizio con il ministero di un procuratore legalmente esercente e davanti alla Corte di Cassazione con il ministero di un avvocato iscritto nell'apposito albo. La parte, insomma, non può difendersi da sola davanti al giudice, ma deve farsi assistere da un intermediario tecnico: ossia l'avvocato. L'obbligo di farsi difendere risponde ad un'esigenza di protezione della parte, che non sarebbe tecnicamente in grado di rispettare tutte le regole che condizionano l’esercizio e la tutela dei suoi diritti, e verrebbe così, a causa del principio dell’ignorantia legis non excusat, penalizzata. La legge specifica però alcuni casi nei quali la parte può difendersi da sola: 1. davanti ai giudici di pace se il valore della controversia non va oltre i 1.100 euro o se il giudice di pace espressamente autorizza l’auto-difesa (art. 82 c.p.c.); 2. nel rito del lavoro in primo grado se la causa non eccede il valore di 129,11 euro (art. 417 c.p.c.); 3. quando di tratta di una persona che ha la qualità necessaria per esercitare l'ufficio di difensore con procura presso l'organo giudiziario che tratta la causa. Tuttavia difendersi da soli — anche quando è consentito dalla legge — non è consigliabile, perché è necessario un distacco tra il difensore e il difeso. L'art. 84 c.p.c. indica i poteri dei difensori, che consistono nel: ® potere compiere e ricevere — nell’interesse della parte — tutti gli atti del processo che non sono ad essa espressamente riservati; ® sottoscrivere gli atti processuali di parte (art. 125 c.p.c.); ® mera assistenza nei casi in cui la parte è chiamata ad esercitare nel processo poteri dispositivi o negoziali (confessione, giuramento, conciliazione) o a riferire personalmente al giudice (interrogatorio libero). Il codice distingue due funzioni del difensore, ossia: 1. compimento degli atti processuali dinanzi al giudice in rappresentanza della parte — in questo caso si parla di procuratore; 2. lo studio del caso e l’assistenza alla parte — in questo caso si parla di avvocato. Tali funzioni, possono però essere attribuite anche alla stessa persona, in quanto è venuta meno la distinzione tra procuratore ed avvocato. L'INCARICO AL DIFENSORE La designazione del difensore avviene attraverso uno specifico negozio, ossia la procura alle liti. Mediante la procura alle liti, viene conferito dalla parte al procuratore il compito di rappresentarla e difenderla nel processo, ma la parte è legata al difensore anche da un contratto d'opera professionale. Si parla di complex litigation tutte le volte in cui — per via del numero dei soggetti coinvolti — la gestione del processo assuma caratteristiche particolari (si pensi all’ arbitrato multi-parti). La pluralità di parti nel processo può essere: * pluralità di parti ORIGINARIA: si parla di litisconsorzio, precisamente quando il processo nasce o deve nascere con più parti; «pluralità di parti SUCCESSIVA: si parla di intervento di terzi o litisconsorzio successivo, nel cui caso le parti aumentano a processo già iniziato. IL LITISCONSORZIO NECESSARIO E FACOLTATIVO Il litisconsorzio può essere: 1. NECESSARIO _ secondo l’art. 102 c.p.c. il litisconsorzio è necessario guando oggetto della causa è un unico rapporto sostanziale con più parti. Infatti l’attività giurisdizionale deve regolare la lite, con effetti su tutto il rapporto sostanziale e nei confronti di tutte le parti di quel rapporto. L'individuazione dei casi in cui devono necessariamente essere presenti nel processo più di due parti deriva: e daldiritto sostanziale: si pensi al giudizio di divisione di una comunione ereditaria con più di due coeredì. L'azione è una sola, la causa anche, e uno solo sarà il processo e la sentenza che lo decide. ® dalla legge stessa: un esempio di litisconsorzio necessario di legge si trova nella L. del 2017 in tema di responsabilità medica (art.12). La norma stabilisce che se il soggetto danneggiato agisce direttamente contro l'assicurazione della struttura sanitaria o del medico, per ottenere il risarcimento dei danni subiti, la struttura o il professionista sono litisconsorti necessari litisconsorzio. La giurisprudenza è orientata a ritenere che al di fuori dei casi di legge, vi sia litisconsorzio necessario solo quando la situazione sostanziale portata in giudizio debba essere decisa necessariamente in modo unitario nei confronti di tutti i soggetti che ne sono partecipi. Ciò avviene soprattutto quando la domanda tende alla costituzione o alla modifica di un rapporto plurisoggettivo unico, o all'adempimento di una prestazione inscindibile comune a più soggetti. La mancata presenza di un litisconsorte necessario rende totalmente inesistente il rapporto processuale. Se il fondo X appartiene in comunione ad A, B e C, una divisione fra i soli A e B sarebbe priva di qualsiasi efficacia, non solo nei confronti di D ma anche nei rapporti interni fra i primi due soggetti. Un processo in cui manca un litisconsorte necessario è come un processo a due parti in cui manca il convenuto. Se il giudice rileva questa mancanza, ordina l'integrazione del contraddittorio nei confronti della parte dimenticata (c.d. litisconsorte pretermesso). In altre parole dispone che vengano chiamati in giudizio tutti quelli che devono parteciparvi per ottenere un risultato utile. Tuttavia solo una parte può provvedere a dare luogo all'integrazione (cioè ad avviare il processo). Fino a che tutti i litisconsorzi necessari non sono stati correttamente chiamati in giudizio il processo non può utilmente avviarsi (anzi, fino a quel momento esso non esiste), e per questo l'ordine di integrazione deve essere dato possibilmente all’inizio del processo, ma può in realtà essere dato in ogni momento successivo. Se nessuna delle parti provvede il giudice dichiara immediatamente l'estinzione (anche se il processo in realtà non è mai nato). Se non emerge l'esigenza di integrare il contraddittorio e la sentenza passa in giudicato senza che sia rilevata la mancanza di qualche litisconsorte necessario, il risultato del processo è solo apparente, e si dice dunque che il giudicato è in questo caso inesistente o inutiliter datum, e il litisconsorte pretermesso può dare vita ad un nuovo accertamento di cognizione attraverso: e un'opposizione di terzo (perché si ha una sentenza pronunciata tra altri soggetti che pregiudica un suo diritto); e un'azione di accertamento negativo. In caso di litisconsorzio necessario la pluralità di parti permane in tutti i gradi del processo. Inoltre, il codice prevede forme di litisconsorzio necessario c.d. processuale in sede di impugnazione, in cui da un legame non necessario in primo grado lo diventa nelle fasi successive (art. 331 c.p.c.). 2. FACOLTATIVO__ l’art. 103 c.p.c. prevede che il litisconsorzio facoltativo è /egato ad ipotesi di connessione tra azioni, e dunque tra azioni diverse ma che hanno un elemento — parti, titolo, oggetto — in comune. Le parti possono scegliere, invece che avere tanti processi quante sono le azioni, di favorire la trattazione comune delle cause, e questo ad esempio per ragioni di risparmio di energie processuali o per l'opportunità di evitare che si arrivi a giudicati contraddittori. A differenza del litisconsorzio necessario, dunque, in quello facoltativo non si ha una sola causa, ma molteplici. L'art. 103 comma 1 c.p.c. nello specifico sancisce che più parti possono agire o essere convenute nello stesso processo, quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l'oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la decisione dipende totalmente o parzialmente dalla risoluzione di identiche questioni. Classica ipotesi di litisconsorzio facoltativo sono le obbligazioni solidali: il creditore può agire contro tutti i debitori insieme, ma potrebbe proporre la domanda contro uno soltanto di essi o convenirli tutti in giudizio in distinti processi. Va inoltre ricordata la distinzione tra: e CumuloOggettivo (art. 104 c.p.c.) _lo stesso attore o attori propongono contro la stessa parte nello stesso processo più domande anche non eventualmente connesse purché si rispetti l'art. 10 comma 2 c.p.c. — in base al quale il valore delle singole domande si somma, per stabilire il valore della controversia. Il cumulo è oggettivo perché a sommarsi sono le domande; e Cumulo Soggettivo (art. 33 c.p.c.) _ si hanno più cause oggettivamente connesse contro più parti che possono essere proposte di fronte allo stesso foro, in deroga alle norme sulla competenza per territorio. Il cumulo è soggettivo perché a sommarsi sono più azioni contro parti diverse. L'art. 103 c.p.c. si estende anche al caso della c.d. connessione impropria, in cui il legame tra le cause non è sostanziale (sono tutte diverse), ma richiede solo la decisione di identiche questioni giuridiche, evitando così il contrasto di giurisprudenza e favorendo l'economia processuale. Gli effetti del litisconsorzio facoltativo si producono essenzialmente sulla competenza territoriale, che può essere modificata rispetto ai criteri originari. Infatti secondo l’art. 33 c.p.c., le cause che in base alle norme sul foro del convenuto dovrebbero essere proposte dinanzi ad organi giudiziari diversi, se sono connesse per l'oggetto o per il titolo, possono essere proposte dinanzi al giudice del luogo di residenza o domicilio di una di esse. Si parla di litisconsorzio UNITARIO (0 quasi necessario) quando vi sono domande che nonostante siano proponibili in modo autonomo da diversi soggetti, non possono dare vita a decisioni in contrasto fra loro. Si pensi alle impugnazioni di delibere — assembleari o sociali - da parte di alcuni soggetti lesi. LA SEPARAZIONE DELLE CAUSE L'inserimento di più cause e più azioni all’interno dello stesso processo non è — nel caso del litisconsorzio facoltativo un elemento strutturale, ma solo una circostanza eventuale. Nel litisconsorzio necessario l’azione è unica, mentre in quello facoltativo le azioni e le cause sono molteplici e conservano una loro autonomia, tanto che le cause possono anche essere separate attraverso un provvedimento del giudice ex art. 103 comma 2 c.p.c., quando: e nel corso dell’istruzione o nella decisione vi è istanza di tutte le parti; ® lacontinuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe il processo più gravoso. Il giudice può anche spezzare il cumulo oggettivo realizzato dall'attore: ad esempio contro lo stesso convenuto sono proposte una semplice domanda di pagamento di denaro e una più complessa richiesta di accertamento di una servitù, separando le cause il giudice può rimettere ad un magistrato inferiore la causa di sua competenza. Le parti in appello possono essere meno numerose rispetto al primo grado, in quanto la sentenza può essere impugnata anche nei confronti di alcune soltanto delle parti (artt. 326 e 332 c.p.c.). In caso di litisconsorzio unitario non è possibile separare le cause (ovviamente una volta proposte insieme o successivamente riunite). LE AZIONI COLLETTIVE: PROFILI GENERALI L'obiettivo delle azioni collettive o di classe è quello di riportare all’interno del processo civile domande che ne resterebbero altrimenti fuori, per l'incapacità dei singoli interessati di fronteggiare da soli procedure particolarmente complesse. Sul piano politico, le azioni di classe dipendono dalle politiche a favore dei consumatori, e dunque attualmente si può dire che vi sia una grande varietà di soluzioni, le quali spesso sono però inefficaci. | due grandi problemi da risolvere sono: - quello della legittimazione attiva; - quello degli effetti del giudicato nei confronti di chi non è stato parte del processo. È opportuno anche collegare la problematica delle azioni di classe con quella del governo di concorrenza, infatti si pone il problema dei processi intentati dai singoli consumatori a seguito di decisioni delle autorità garanti della concorrenza. Con la direttiva n. 104 del 2014 sono state fissate regole comuni per le azioni di risarcimento del danno, proposte all’interno dei singoli paesi Il terzo propone una domanda autonoma, che avrebbe potuto presentare anche in un altro processo. Ad esempio, sorge una controversia tra A e B relativa alla proprietà di un fondo X, interviene C affermando di essere a sua volta proprietario, nei confronti sia da A che di B. Intervento litisconsortile (adesivo autonomo) — il più frequente nella prassi — nel quale il terzo interviene nel processo facendo valere una domanda autonoma, ma collegata a quella di una delle parti e contrastante con quella dell’altra. Ad esempio, il socio A impugna la delibera assembleare della società B, ritenendola nulla; il socio C, invece di proporre un giudizio autonomo, interviene in quello già iniziato da A, domandando - nel rispetto dei termini stabiliti — a sua volta la nullità della stessa delibera. Intervento adesivo (adesivo dipendente) — poco frequente nella prassi — nel quale il terzo non è titolare di un autonomo diritto soggettivo, ma ha interesse che vinca una delle parti e quindi interviene per sostenerla ma senza proporre una propria domanda. La domanda non può essere autonoma, in quanto si esplica in un mero interesse. Ad esempio, A è proprietario di un immobile che ha concesso in locazione a B, il quale a sua volta lo ha concesso in sublocazione a C. Nel caso in A dovesse agire contro B per ottenere lo sfratto, C ovviamente subirebbe le conseguenze dell’accoglimento della domanda, pertanto potrà intervenire per sostenere le ragioni di B. Nelle ipotesi di interventi adesivi, la domanda del terzo affianca quella principale, mentre nell'intervento principale assume una posizione di scontro con entrambe le parti. L'INTERVENTO COATTO SU ISTANZA DI PARTE E PER ORDINE DEL GIUDICE L'intervento coatto può verificarsi: 1 su istanza di parte_ nel caso di intervento coatto su istanza di parte, vi è un legame di diritto sostanziale tra il rapporto giuridico dedotto in giudizio e un altro rapporto giuridico che intercorre tra convenuto o attore e un terzo, onde il convenuto o l’attore hanno interesse a chiedere l'estensione del giudizio al terzo (solitamente è il convenuto). L'art. 106 c.p.c. contempla due ipotesi di intervento coatto su istanza di parte, ossia: Chiamata in garanzia: si ha quando il convenuto pretende di essere garantito da un terzo nei confronti della domanda dell’attore, come nel caso della fideiussione o del contratto di assicurazione. Il danneggiato A chiede il risarcimento dei danni subiti al responsabile B: questi chiama a garanzia la società assicurativa C perché, in forza del contratto di assicurazione stipulato, paghi A al suo posto. È necessario distinguere tra: = Garanzia propria: che si ha quando la causa principale e quella accessoria hanno in comune lo stesso titolo e anche quando ricorre una connessione oggettiva tra i titoli delle due domande (nel cui caso la domanda dell'attore si estende automaticamente al garante quando viene chiamato in causa); = Garanzia impropria: che si ha quando il convenuto tende a scaricare le conseguenze del proprio inadempimento su un terzo in base ad un titolo diverso da quello dedotto con la domanda principale o in base ad un titolo connesso al rapporto principale solo in via occasionale (nel cui caso l'attore chiede la condanna del convenuto, e il convenuto deve chiedere che il giudice condanni il garante). e Comunanza di causa: si ha quando vi è una relazione giuridicamente rilevante — ma diversa dalla garanzia — tra le posizioni sostanziali della parte e del terzo. Si pensi al caso del proprietario di un appartamento che subisce infiltrazione e che pertanto chiama in giudizio un vicino per ottenere la condanna al risarcimento dei danni. Però risulta essere incerta la causa del danno lamentato — se dipende da un guasto nell’immobile adiacente o dalla cattiva manutenzione dei beni condominiali pertanto sia il convenuto che l’attore possono avere interesse a chiedere la chiamata in causa di soggetti inizialmente estranei rispettivamente al fine di evitare il pagamento o di individuare almeno un responsabile. 2. per ordine del giudice _ l’art. 107 c.p.c. disciplina invece l'intervento coatto per ordine del giudice, ossia l'ipotesi in cui il giudice, ritenendo la causa comune ad un terzo, ne ordina la chiamata in causa. In questo caso è il giudice che decide chi deve essere parte del processo, oltre la volontà delle parti, e ciò comporta il grave onere per le parti di chiamare in causa un terzo che nessuna delle due aveva intenzione di coinvolgere (e nel caso in cui nessuna delle due dovesse provvedervi il giudice potrebbe ordinare la cancellazione della causa dal ruolo). Occorre però precisare che le parti originarie rimangono libere di determinare il contenuto delle loro domande nei confronti del terzo, e anche di non proporre alcuna domanda, se ritengono che il giudice abbia sbagliato nella sua valutazione in proposito. Questo istituto va ad assicurare le norme costituzionali sul giusto processo e la ragionevole durata, in quanto nell'ipotesi in cui il giudice dovesse: - ravvisare un collegamento tra le posizioni di una delle parti e un terzo; - prevedere l’ipotesi di future cause o di contrasto pratico tra giudicati sarà tenuto a chiamare il terzo per trattare insieme le diverse questioni. 30. Gli atti processuali. LA NOZIONE DI ATTO PROCESSUALE. IL CONTENUTO-FORMA DEGLI ATTI L'atto processuale è ogni atto — ossia comportamento umano volontario — compiuto nel processo da soggetti del processo e con efficacia sul processo. Le caratteristiche dell'atto processuale sono: ® Volontarietà: nell'atto processuale, a differenza di ciò che accade nel diritto sostanziale, non viene richiesta la volontà degli effetti (c.d. negozialità), ma solo la volontà dell’azione (ossia la c.d. volontarietà) e gli effetti sono predeterminati dalla legge. Non si verificano i vizi del volere caratteristici del diritto civile (violenza, dolo, errore). Eccezionalmente vi possono essere atti processuali — che comportano anche disposizione di diritti — i quali assumono le caratteristiche della negoziabilità. Tra questi vi è ad esempio la confessione, che può venire revocata se determinata da errore di fatto o violenza. e Forma:nell’atto processuale assume una caratteristica connotazione di forma-contenuto. Infatti ogni atto processuale ha una funzione oggettiva, per adempiere a questa funzione deve avere un contenuto determinato e oggettivo, che si specifica poi nelle dimensioni concrete di ogni singola controversia. La forma degli atti processuali è allo stesso tempo libera e strumentale allo scopo oggettivo dell’atto. Secondo l’art. 121 c.p.c., gli atti del processo peri i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo (libertà di forme). | vincoli formali sono soltanto quelli che la legge prevede (in tal caso si ha tassatività delle forme). LA LINGUA DEGLI ATTI PROCESSUALI Nel nostro ordinamento vi è un rigido monolinguismo, sia processuale sia organizzativo. L'uso della lingua italiana è previsto — in sede civile — per tutto il processo (art. 122 comma 1 c.p.c.) e l'utilizzo di traduttori e interpreti è limitato al piano probatorio, quando si deve acquisire una determinata posizione orale (art. 122 commi 2 e 3 c.p.c.) o di tradurre documenti (art. 123 c.p.c.). Per quanto riguarda le minoranze linguistiche in Trentino Alto Adige e Bolzano è consentito lo svolgimento del processo civile in forma mona-lingua o bilingue, lasciando ad ogni parte la piena libertà di scegliere la lingua per la redazione dei propri atti processuali. Se entrambe le parti — nei rispettivi atti introduttivi — usano la stessa lingua, il processo si svolgerà in quella lingua. Se invece, esse scelgono due lingue diverse (italiano e tedesco) si avrà un processo bilingue: ® latrattazione orale viene contestualmente verbalizzata nelle due lingue; e gliatti vengonotradotti nell'altra lingua a richiesta del destinatario; ® itestimoni sono interrogati e rispondono nella loro madrelingua; e lasentenzae gli altri provvedimenti del giudice vengono redatti nelle due lingue. Nel caso invece, ad esempio, della Val d'Aosta, il francese è consentito nel processo, ma le sentenze e gli atti giudiziali devono sempre essere redatti in italiano. TIPOLOGIE DI ATTI PROCESSUALI: GLI ATTI DI PARTE Gli atti processuali si dividono in: 1. attiscritti; 2. attiora Gli atti orali, specie quelli compiuti in udienza — vale a dire il momento di incontro delle parti con il giudice (artt. 127 ss. c.p.c.) vengono tradotti in forma scritta nel processo verbale (art. 126 c.p.c.). Si distingue anche tra: 1. attidiparte (art. 125 c.p.c.), i quali a loro volta si distinguono in: ® Attiintroduttivi: che presentano la domanda — come la citazione e il ricorso — o la difesa della controparte — come la comparsa di risposta e il controricorso; lustrativi di difese: come memorie, comparse; ® Attidi istanza: con cui si chiede al giudice o a un suo ausiliario il compimento di qualche specifica attività. l'indicazione del giudice che l’ha pronunciata; l'indicazione delle parti e dei loro difensori; le conclusioni del P.M. e quelle delle parti; la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione; BWN 5. il dispositivo, la data della delegazione e la sottoscrizione del giudice. Le parti essenziali della sentenza sono dunque: l’intestazione; la motivazione; il dispositivo; la sottoscrizione. La sottoscrizione esprime la provenienza della sentenza dal giudice — ossia da un organo dotato di giurisdizione. Per tale ragione la mancata sottoscrizione del giudice comporta l'inesistenza della sentenza. La sentenza emessa da giudice collegiale è sottoscritta soltanto dal Presidente e dal giudice estensore (ossia che la emette). Se il Presidente non può sottoscrivere per morte o per altro impedimento, la sentenza viene sottoscritta dal componente più anziano del collegio, purché prima della sottoscrizione sia indicato l’impedimento; se il giudice estensore non può sottoscrivere per morte o per altro impedimento, è sufficiente la sottoscrizione del solo Presidente. LA MOTIVAZIONE E DISPOSITIVO DELLA SENTENZA La motivazione risponde ad un'esigenza di civiltà giuridica, sia per l’impugnazione, sia per il controllo sociale del cittadino; per questo motivo, la sentenza non o incongruamente motivata è nulla, e dunque impugnabile ma non esistente. In base all’art. 118 c.p.c., la motivazione consiste nell'esposizione dei fatti più rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione (perché il giudice ha deciso così). L'orientamento italiano favorisce una motivazione estremamente elaborata — tali da trasformare la sentenza in una specie di saggio al fine di esaltare la preparazione e la cultura del magistrato — a differenza ad esempio dalla motivazione tipica francese, nella quale sono solo indicati i passaggi logico-giuridici seguiti dal giudice per giungere alla definizione. L'idea di semplificare le motivazioni è connessa al tentativo di risparmiare energie giudiziarie, ma in tal caso si corre il rischio di “svuotare” la motivazione. La concisione e la semplicità devono essere caratteristiche non solo del difensore, ma anche del giudice; ciò impone uno sforzo di sintesi, che tuttavia non può significare l’elusione del dovere del giudice di spiegare perché è giunto ad una data decisione. Il dispositivo è la parte della sentenza in cui si trova la volontà determinativa del giudice, e dunque il cuore della sentenza (tanto che, se manca, la sentenza è inesistente). Il dispositivo deve comprendere tutta la materia del contendere, ed esso dovrebbe riassumere efficacemente la volontà del giudice e concentrare in sé ogni aspetto decisorio. Può anche succedere che motivazione e dispositivo non siano perfettamente coordinati. LE SENTENZE DEFINITIVE E NON DEFINITIVE. LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI Le sentenze possono essere definitive o non definitive: + Sentenze definitive: quelle che chiudono per sempre quella fase del giudizio. Sono definitive le sentenze che decidono nel merito su tutta la materia del contendere, o che decidono negativamente su presupposti processuali o condizioni dell’azione; * Sentenze non definitive: quelle che decidono solo su uno o più capi della materia del contendere, e non esauriscono così il giudizio. Il giudice può quindi separare i capi del contendere e farne oggetto di sentenza non definitiva. La legge (art. 187 c.p.c.) stabilisce cosa si può isolare o meno, il giudice può decidere su tutta la causa o decidere separatamente le questioni di merito aventi carattere preliminare o le questioni pregiudiziali di rito. Questi tipi di questioni, preliminari o pregiudiziali, sono quelle che devono logicamente essere risolte per prime, o in realtà che è soltanto più opportuno risolvere per prime. La pregiudizialità vera e propria costituisce uno sbarramento all'attività del giudice: ostacolo legittimo e talvolta doveroso, che però comprime/limita il lavoro dei giudici e allunga il tempo della decisione. Per tale ragione si tende a rileggere la pregiudizialità alla luce del principio costituzionale di ragionevole durata del processo. Il criterio che caratterizza la pregiudizialità è quello dell’interesse alla decisione. La pregiudizialità è pertanto un effettivo impedimento — logico o giuridico — per il giudice di decidere la questione pregiudicata, senza che sia stata decisa (dallo stesso giudice o da altro) la questione pregiudiziale. e seilgiudice— chiamato ad affrontare questioni preliminari o pregiudiziali — le risolve in senso affermativo (cioè consente di procedere), pronuncia una sentenza non definitiva; ® seilgiudice le risolve in senso negativo (ossia non consente di procedere), pronuncia una sentenza definitiva con cui chiude il processo. In realtà il giudice non è sempre tenuto a pronunciare sentenza non definitiva, quando afferma l’esistenza di un presupposto processuale, infatti in questa sede opera il principio della ragione più liquida, secondo il quale si decide prima una questione logicamente più a valle, se questa decisione è più agevole e se risolve nello stesso senso la materia del contendere. 32. La nullità degli atti processuali. NULLITÀ E INESISTENZA DEGLI ATTI PROCESSUALI. Gli atti processuali sono caratterizzati da requisiti di contenuto-forma, finalizzati allo scopo che ogni atto assume all’interno del processo. Può accadere che un atto non rispetti questi requisiti, pertanto la legge processuale interviene a disciplinare queste situazioni per garantire la correttezza del processo, impedendo che atti non regolari alterino l'equilibrio tra le parti. ® Unprimolivello di vizio dell'atto è dato dalla semplice Irregolarità, ossia da una situazione di non conformità alla legge, ma non produttiva di conseguenze. Basti pensare all’omessa indicazione del codice fiscale delle parti nell'atto di citazione; e SihaNullità quando l’atto presenta caratteri gravemente diversi dai requisiti di contenuto- forma che la legge prescrive o caratteri non idonei a consentire all'atto il raggiungimento dello scopo a cui è destinato. La principale caratteristica dell’atto nullo è che non è idoneo a produrre effetti. In base all’art. 156 c.p.c. vigono i due principi: 1. Tassatività delle nullità: non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è stabilita dalla legge; 2. Nullità degli atti che non raggiungono lo scopo: la nullità può essere pronunciata quando l’atto manca dei requisiti formali essenziali per il raggiungimento dello scopo. Viceversa, se l'atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato, non può esserne mai pronunciata la nullità. Esempio, è nullo l’atto di citazione che non indica la data dell'udienza, per espressa previsione di legge. Tuttavia la nullità è sanata se il convenuto si costituisce, in quanto in tal modo si instaura il contraddittorio (che è esattamente lo scopo a cui l’atto di citazione tende). e Siha, invece, Inesistenza quando l’atto è totalmente privo dei requisiti minimi che lo riconducano alla tipologia legale. Si pensi alla sentenza priva del dispositivo o della sottoscrizione. L'inesistenza è sempre insanabile e può dunque essere dedotta con un’autonoma azione di accertamento anche dopo che la sentenza sia passata in giudicato, mentre la nullità non può più essere eccepita dopo il passaggio in giudicato della sentenza. IL RILIEVO DELLA NULLITÀ NEL PROCESSO Le nullità possono essere: 1. Relative, possono essere eccepite solo dalla parte a cui tutela sono poste le relative regole; 2. Assolute, possono essere rilevate anche d'ufficio dal giudice. L’art. 157 c.p.c. precisa che se la legge non dispone che la nullità sia pronunciata d'ufficio, essa non può pronunciarsi senza istanza di parte: ne deriva che la regola è la nullità relativa. Inoltre, solo la parte — nel cui interesse è stabilito un requisito — può eccepire la nullità dell’atto per la mancanza di quel requisito, e la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, né da quella che vi ha rinunciato (anche tacitamente). L'art. 158 c.p.c. dispone che la nullità derivante da vizi relativi alla costituzione del giudice o all'intervento del P.M. è insanabile, e va rilevata d’ufficio, a meno che non si tratti di un'ipotesi ancora più grave di inesistenza. Normalmente le nullità relative devono essere sollevate nell'udienza successiva o comunque nella prima istanza o difesa successiva all’atto o alla notizia di esso. Di norma le nullità assolute possono essere sollevate in ogni stato e grado del procedimento. L'art. 159 c.p.c. stabilisce che l’atto nullo non produce effetti, e l’esistenza di una nullità comporta un vizio destinato a travolgere tutti gli atti successivi che sono dipendenti da quello precedente nullo (art. 159 c.p.c.). Si pensi ad un’udienza che si svolga senza una parte, la quale non viene correttamente informata della data di svolgimento: tutti gli atti compiuti in quell’udienza e i provvedimenti presi dal giudice sono nulli — per violazione del contraddittorio. Se si svolgono altre udienze senza quella parte, la nullità si diffonde a tutte le attività successive, fino alla sentenza. e cercando di favorire la notificazione diretta; e permettendo al notificante di avvalersi di determinate presunzioni — nel senso che al termine di determinate attività si presume che il destinatario abbia potuto conoscere il contenuto dell’atto; ® affidando l’attività notificatoria ad un soggetto abilitato a dare pubblica fede all’avvenuto compimento della notificazione: ossia l'ufficiale giudiziario (ex art. 137 c.p.c.). La notificazione è dunque un atto complesso, in quanto è: ® atto della parte dato che è lei ad attivarsi per portare a conoscenza dell’altra quei contenuti; ® atto dell'ufficiale giudiziario perché lui soltanto ha il potere di effettuare una comunicazione con gli effetti legali specifici. LA DISCIPLINA POSITIVA DELLE NOTIFICAZIONI L'art. 137 c.p.c. — allo scopo di garantire la prova dell'attività svolta — prevede che l’ufficiale giudiziario esegua la notificazione mediante consegna al destinatario di copia conforme all'originale dell'atto da notificarsi. L'art. 138 c.p.c. stabilisce che una volta consegnata una copia ad ogni destinatario, l'ufficiale giudiziario certifica l’eseguita notificazione attraverso una breve relazione — da lui datata e sottoscritta — apposta in fondo all'originale e alla copia dell'atto. La relazione indica la persona alla quale è consegnata la copia e le sue qualità (ad esempio, il rapporto che ha con il destinatario), ma anche il luogo della consegna oppure le ricerche — anche anagrafiche — fatte dall'ufficiale giudiziario, i motivi della mancata consegna e le notizie raccolte sulla reperibilità del destinatario. Occorre precisare che la legge stabilisce, inoltre, che in caso di mancata consegna le copie degli atti notificati devono essere inserite in buste chiuse — per garantire la riservatezza. L'art. 147 c.p.c. stabilisce che le notificazioni possono essere effettuate solo tra le 7 e le 21. Se possibile, l'atto da notificare va consegnato direttamente al destinatario (c.d. notificazione in mani proprie), da effettuarsi in casa o sul luogo di lavoro o eccezionalmente per strada o in qualsiasi altro luogo, purché all’interno della circoscrizione cui l'ufficiale è addetto (art. 138 c.p.c.). Tuttavia è possibile che l'ufficiale non incontri il destinatario. Pertanto il codice consente la possibilità di notificare l’atto — nel luogo di residenza, domicilio o lavoro del destinatario — attraverso la consegna della copia a persone che si ritiene che la consegneranno all'interessato (art. 139 c.p.c.), ossia persone di famiglia, addette alla casa, all’ufficio o all'azienda, o anche ad un vicino di casa o al portiere (nei cui casi il destinatario ne deve però essere avvertito con lettere raccomandata) — purché non minore di 14 anni. Se l’atto viene involontariamente smarrito dal ricevente, o se il ricevente omette o si dimentica di consegnarlo all'interessato, l’effetto giuridico della notificazione si è comunque realizzato. Se il destinatario è una persona giuridica, la notificazione si esegue negli stessi modi, presso la sede della persona giuridica, con consegna della copia al legale rappresentate o ad un’altra persona addetta alla sede (art. 145 c.p.c.). È anche possibile notificare l’atto alla persona fisica che rappresenta l’ente, a condizione che nell’atto da notificare ne siano indicati la qualità e il recapito (si pensi al caso di una società in crisi la cui sede risulti chiusa). Nel caso in cui i/ destinatario non si trovi nella sua residenza e nessuno degli individui ex art. 139 c.p.c. accetti di ricevere l'atto, in base all'art. 140 c.p.c. si può ritenere eseguita una notificazione con il mero compimento di alcune formalità, senza alcuna garanzia che l’atto sia effettivamente arrivato nelle mani del destinatario. Infatti l'ufficiale giudiziario: e deposita la copia in un apposito ufficio/casa del comune — in cui va eseguita la notificazione; ® affigge un avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell'abitazione, ufficio o azienda del destinatario; e dànotizia all'interessato attraverso raccomandata con avviso di ricevimento. Nel caso in cui non si conosca alcun indirizzo del destinatario (c.d. notificazione all’irreperibile ex art. 143 c.p.c.): in tale ipotesi l'ufficiale giudiziario esegue la notificazione depositando una copia dell’atto nell'apposito ufficio del comune dell'ultima residenza, 0, se questa è ignota, in quella del luogo di nascita del destinatario. Se non sono conosciute entrambe, consegna una copia dell’atto al pubblico ministero, e la notificazione si considera eseguita nel ventesimo giorno successivo a quello in cui si sono compiute queste operazioni. Con queste norme sembra che venga compromessa la posizione di colui che deve ricevere la notificazione, ma in realtà le norme vogliono soltanto evitare che qualcuno possa sottrarsi alla giustizia nascondendosi (inoltre tutti hanno l'obbligo di organizzarsi in modo da poter essere reperibili, e se qualcuno non adempie a questo obbligo, allora ne subisce le conseguenze). L'art. 138 c.p.c. dispone che, nel caso in cui il destinatario rifiuti di ricevere l’atto, il rifiuto deve equivalere alla notificazione in mani proprie. L'art. 141 c.p.c. precisa che la notificazione degli atti a chi ha eletto domicilio presso una persona o un ufficio può essere fatta con consegna di copia alla persona o al capo dell'ufficio in qualità di domiciliatario, nel luogo indicato nell’elezione. Vi sono infine disposizioni specifiche che si applicano in casi particolari come quello della notificazione alle amministrazioni dello Stato (art. 144 c.p.c.) o a militari in servizio (art. 146 c.p.c.). I VIZI DELLA NOTIFICAZIONE La Sent. della Corte costituzionale n.477/2002 è molto importante, perché ha introdotto nel sistema italiano il principio della scissione degli effetti dell’atto. Nonostante la notificazione si perfeziona con la consegna effettiva al destinatario dell’atto o — nel caso in cui questo non sia possibile — secondo le altre modalità stabilite dalla legge, la Corte ha precisato che per il rispetto dei termini, la notificazione si perfeziona per il notificante al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario. L'art. 149 c.p.c. specifica, per la notificazione a mezzo del servizio postale, che la notifica si perfeziona per: e ilsoggetto notificante al momento della consegna del plico all'ufficiale giudiziario; e ildestinatario al momento in cui ottiene legale conoscenza dell'atto. La notificazione è nulla se viene effettuata in modi che pregiudichino gravemente la possibilità del notificando (destinatario) di essere informato, ed è infatti nulla — a norma dell’art.160 c.p.c. — la notificazione se non vengono osservate le disposizioni sulla persona a cui va consegnata la copia, o se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta o sulla data in cui è avvenuta. Come ogni atto nullo, la notificazione può essere rinnovata. È invece inesistente la notificazione che viene effettuata a soggetto diverso dal notificando. FORME DIVERSE DI NOTIFICAZIONE Le forme di notificazione da parte dell'ufficiale giudiziario solo diverse: e notificazione a mani; ® notificazione per posta; ® notificazione per pubblici proclami; e notificazione a mezzo di più moderni sistemi di comunicazione (come fax e pec). L’art.149 c.p.c. disciplina la notificazione a mezzo del servizio postale, in particolare stabilisce che l'ufficiale giudiziario scrive la relazione di notificazione sull’originale e sulla copia dell'atto, indicando l’ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia al destinatario in piego raccomandato con avviso di ricevimento. Quest'ultimo è allegato all'originale. Questo metodo è molto importante perché gli ufficiali giudiziari possono notificare atti solo all’interno del territorio in cui sono applicati, mentre con la posta possono effettuarle in tutto il territorio nazionale e non, purché riferite a giudizi avanzati di fronte ad organi inclusi nella loro area geografica di competenza. L'art. 150 c.p.c. prevede la notificazione per pubblici proclami, la quale è un meccanismo notificatorio presuntivo, che può essere autorizzato dal Presidente dell'organo giudiziario davanti al quale si procede, quando la notificazione nei modi ordinari è particolarmente difficile per il rilevante numero dei destinatari o per la difficoltà di identificarli tutti. Dopo aver sentito il P.M., il giudice indica i modi ritenuti più opportuni per raggiungere i destinatari (un esempio potrebbe essere la pubblicazione di un annuncio sui quotidiani più diffusi). In ogni caso viene depositata presso l'ufficio del Comune del luogo in cui ha sede l’ufficio giudiziario in oggetto una copia dell'atto, e ne viene inserito un estratto nella Gazzetta ufficiale. Si considera avvenuta la notificazione quando l’ufficiale giudiziario deposita una copia dell’atto nella cancelleria dell'organo giudiziario. LA NOTIFICAZIONE TELEMATICA L'art. 151 c.p.c. prevede la possibilità per il giudice di consentire — attraverso un decreto redatto in fondo all’atto da notificare — che la notificazione venga eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge (ad esempio con fax, pec, o telegramma), quando lo suggeriscono circostanze particolari o esigenze di celerità, riservatezza o tutela della dignità. un attivo svolgimento delle difese all’interno degli spazi temporali che la legge o il giudice hanno attribuito a ciascuna di esse. Dunque, ogni parte ha interesse ad avere un termine congruo, ma la controparte ha un contrario interesse a verificare che l’attività di cui si tratta sia compiuta esattamente in quell’ambito. Inoltre, anche il giudice può perdere un potere per effetto dell’inutile corso di un termine, come avviene ad esempio nel caso delle questioni di competenza o connessione, che il giudice non può più rilevare dopo la prima udienza di trattazione. TERMINI ACCELERATORI E DILATORI. IL CALCOLO DEI TERMINI I termini si distinguono in: 1. Termini Acceleratori (o finali) _ quelli che specificano il momento temporale entro il quale e non oltre il quale va compiuta l’attività in oggetto (ad esempio, il termine per impugnare una sentenza). Solo i termini acceleratori si dividono in termini ordinatori e perentori; 2. Termini Dilatatori_ quelli che fissano uno spazio temporale, non prima del quale può compiersi una certa attività (ad esempio, il termine per fissare l'udienza di prima comparizione ex art. 163-bis c.p.c.). (art. 155 c.p.c.) Itermini si calcolano in: ® Ore:nel cui caso, seppure raro, non si conta l’ora di partenza ma si conta quella in cui scade il termine; ® Giorni: se il termine è espresso in giorni vale la regola secondo cui non si conta il giorno in cui prende avvio lo spazio temporale incluso nel termine ma si conta il giorno in cui questo periodo viene a concludersi; ® Mesi: se il termine è espresso in mesi esso scade nel giorno che porta la stessa data del mese corrispondente. Il mese poi si determina contando il numero di mesi indicato nel termine, escludendo il mese di partenza ma considerando quello di arrivo. Qualora il mese di partenza abbia un numero di giorni maggiore del mese di scadenza e il giorno da cui ha inizio il conteggio prende un numero non presente nel mese di scadenza, il termine scade nell’ultimo giorno di calendario del mese di scadenza. N.B. il termine di un mese pertanto non sempre coincide con un termine di 30 giorni, così come il termine di un anno non sempre corrisponde a 365 giorni. ® Anni:seiltermine è espresso in anni, esso scade nel giorno e nel mese che hanno la stessa data del momento di inizio, utilizzando le stesse modalità di computo analizzate nei termini computati in mesi. Queste modalità di calcolo valgono anche quando il termine è al ritroso (ad esempio, 20 giorni prima dell'udienza). Vi sono dei casi in cui si deve escludere dal calcolo dei termini non solo il dies a quo (giorno di partenza), ma anche il dies a quem (giorno di scadenza) è il caso dei termini liberi. L'art. 155 comma 4 c.p.c. sancisce che se il termine scade in un giorno festivo, la scadenza viene prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo. Inoltre, dato che la società considera il sabato come una giornata assimilabile ai giorni festivi, l'art. 155 comma 5 c.p.c. stabilisce che la proroga della scadenza al primo giorno feriale seguente, si applica anche ai termini per il compimento di atti processuali svolti fuori dall’udienza che scadono nella giornata di sabato. Occorre precisare che in questo vale solo per la scadenza di atti e non per tutta l’attività processuale. Per quanto riguarda i casi di scadenza dei termini quando il compimento di certe attività processuali avviene in via telematica, non si deve tenere conto dell'orario di chiusura delle cancellerie giudiziarie, infatti le attività compiute in via telematica sono tempestive se la ricevuta elettronica di avvenuta consegna al sistema avviene entro le 24 ore del giorno di scadenza. LA SOSPENSIONE FERIALE DEI TERMINI La L. n.742/1969, modificata dalla L. n.162/2014, prevede /a sospensione feriale dei termini. In altre parole dispone la sospensione di diritto del decorso dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie e amministrative durante un periodo che va dall’1 agosto al 31 agosto di ogni anno. Il conteggio del termine, quindi si arresta il 31 luglio e riprende a decorrere solo dall’1 settembre in poi. Questo vale sia per i termini che scadono all’interno del periodo feriale, sia per quelli che non scadono in tale periodo. Inoltre se un termine inizia a decorrere all’interno del periodo feriale, il relativo inizio è differito al 1 settembre. I termini per i quali vale la sospensione feriale sono quelli direttamente correlati all’attività dei giudici e dei difensori delle parti, e dunque relativi ad attività defensionali interne al processo. La sospensione non si applica alle situazioni collegate all'esercizio di determinati diritti sostanziali. Ad esempio, se una prescrizione decennale cade durante il periodo feriale, la parte interessata dovrà rispettare il termine del diritto sostanziale. Quando si afferma che la sospensione feriale riguarda i termini interni al processo, non ci si limita alle sole attività racchiuse in una singola istanza, ma anche a tutte quelle volte a dare vita ad: e un’istanza successiva — come le impugnazioni; ® una nuova fase dello stesso grado — come le riassunzioni. La sospensione feriale dei termini non vale però per le materie caratterizzate da una speciale urgenza nella trattazione, vale a dire: le cause relative ad alimenti, procedimenti cautelari, procedimenti in materia di amministrazione di sostegno, di interdizione, di inabilitazione, di ordini di protezione contro gli abusi familiari, procedimenti di sfratto, cause di opposizione all'esecuzione e cause di dichiarazione e revoca dei fallimenti, nonché la materia delle cause di lavoro e previdenza. È opportuno precisare che le norme che pongono eccezioni alla sospensione dei termini vanno interpretate in senso stretto, e dunque in caso dubbio il termine è sospeso; mentre, la decisione di svolgere attività giudiziaria durante il periodo feriale può avere un’interpretazione elastica. Vi possono inoltre essere situazioni eccezionali in cui i termini processuali risultano sospesi o prorogati, come ad esempio calamità naturali, di epidemie e di grave disservizio della P.A. In questi casi, sospensione e proroga non possono essere presunte, ma devono risultare da un apposito provvedimento. 35. Il tempo nel processo. La rimessione in termini. PROFILI GENERALI DELLA RIMESSIONE IN TERMINI L'art. 153 c.p.c. disciplina il fenomeno della rimessione in termini, in particolare la parte che dimostra di non aver potuto rispettare la scadenza di un termine per causa a lei non imputabile, può chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini. Questa norma si applica sia: e nel corso di un procedimento valido; ® quandositratta di riaprire una nuova fase processuale o di riassumere il giudizio. La possibilità di recuperare un termine, e quindi di potere esercitare nel processo la tutela di un diritto — altrimenti perduta o compromessa — è collegata alla nozione di causa non imputabile, che comprende sia: 1. ilcaso fortuito e la forza maggiore; 2. le ipotesi che non presuppongono la mancanza di diligenza ordinaria richiesta alla parte. Viene, in questo modo, premiato il principio di responsabi ossia la parte che non è riuscita a compiere una data attività entro uno specifico termini a causa di un fatto che non ha potuto evitare — pur utilizzando ogni mezzo per riuscirvi — ha la possibilità di esprimere in pieno la propria difesa. Nello stesso tempo, la rimessione in termini copre tutte le situazioni in cui un documento o una prova siano venuti alla luce al termine delle preclusioni (ossia dell’impedimento a compiere quel determinato atto/attività). Il codice del 1942 riservava la rimessione in termini a poche ipotesi tassative, ma con la riforma del 1990-95 è stato introdotto l’art. 184 bis c.p.c., che ha immesso nel nostro ordinamento una facoltà generale di rimessione in term Questa norma non si applicava però alle impugnazioni e alle riassunzioni. Tuttavia con la modifica apportata dalla riforma del 2009 è possibile dire che la rimessione in termini è un istituto applicabile a qualsiasi attività processuale, senza eccezioni. La concreta portata dell’istituto della rimessione in termini viene lasciata all’interpretazione giurisprudenziale, ed essa può essere letta in modo da considerare anche l'atteggiamento della controparte al fine di valutare la colpevolezza (di una parte). La norma non comprende solo le ipotesi di caso fortuito e forza maggiore, ma anche quelle dello ius superveniens e del fatto nuovo. Si può ritenere che — al verificarsi di una di queste fattispecie — la parte che invoca la remissione in termini non la può conseguire se la controparte ha nel frattempo compiuto una qualche attività processuale che già tenga conto del profilo innovativo. Da ciò si intuisce che la diligente iniziativa di una parte può valere a sottolineare, quasi per contrasto la colpevolezza nel ritardo in cui è caduta l’altra. In altre parole, mentre il caso fortuito e la forza maggiore incidono in maniera soggettiva su una sola delle parti, lo ius superveniens e il fatto nuovo sono elementi comuni anche all’altra parte. E se quest’ultima si è tempestivamente attivata — compiendo atti processuali che tengono conto di tali fattori sopravvenuti — la decadenza della parte inattiva dovrà essere giudicata come imputabile e quindi non suscettibile di ottenere la rimessione in termini. LA RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO Il processo civile non può avere una dimensione istantanea e deve confrontarsi con il fattore tempo, sotto il profilo della durata. Si ritiene però che questa durata non possa superare normalmente un certo periodo; che non debba essere eccessiva. In altre parole deve essere ragionevole. L’art. 1 della L. costituzionale n.2/1999 ha inserito all’art. 111 Cost. un comma2 in base al quale “Ogni processo si svolge nel contraddittorio fra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. La ragionevole durata del processo è ora divenuta un principio di rango costituzionale. Essa viene tutelata anche dall'art. 6 Cedu e dall'art. 47 della Carta dei diritti. Si è anche già notato che il principale impatto del principio di ragionevole durata è la rilettura — costituzionalmente orientata — di tutte le norme del processo civile. Tuttavia, non va dimenticato che la ragionevole durata è anche il parametro per un profilo indennitario a favore del cittadino che attende per troppo una decisione. LA VIOLAZIONE DELLA RAGIONEVOLE DURATA: LA TUTELA EUROPEA Ragionevole durata del processo è, in ogni caso, una nozione elastica, non suscettibile di una precisa quantificazione. Nonostante questo la Corte europea per i diritti dell’uomo ha indicato in 3 anni lo standard medio, oltre il quale si può presumere che il processo abbia durata eccessiva. La durata eccessiva riguarda, ovviamente, l’intero processo e non le singole istanze o fasi attraverso cui si sviluppa. Le parti coinvolte nel processo subiscono un pregiudizio quando la durata dello stesso sia eccessiva, pertanto è previsto un diritto al risarcimento (equa riparazione) da addebitarsi allo Stato. Tale diritto trova un duplice livello di protezione: europeo e nazionale. L'art. 34 Cedu dispone che la Corte di Strasburgo “può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati” che lamentino la violazione, da parte di uno Stato contraente (della convenzione), dei diritti in essa riconosciuti, tra i quali anche quello della ragionevole durata del processo. Se la Corte accerti una violazione della Convenzione, al termine del procedimento può accordare un equo risarcimento alla parte lese da parte dello Stato. L'art. 35 Cedu dispone che è possibile ricorrere alla Corte europea solo dopo aver esaurito tutte le vie di ricorso interne ed entro 6 mesi dalla data della decisione interna definitiva. LA VIOLAZIONE DELLA RAGIONEVOLE DURATA: LA TUTELA INTERNA In Italia questa materia è stata regolata con la L. n.89/2001 (c.d. legge Pinto), che ha tentato di rispondere alle numerose condanne subite dall’Italia a Strasburgo. In realtà la legge Pinto non ha prodotto particolari effetti positivi, in quanto ha determinato una grave spesa per lo Stato e un incremento dei contenziosi, senza garantire una velocizzazione dei processi. Per tale ragione la L. n.208/2015 ha modificato - profondamente — il testo della legge Pinto in senso restrittivo, sia per quanto riguarda: e le condizioni di ammissione al beneficio dell'indennità; e ilprocedimento. La legge odierna prevede che chi ha subito un danno patrimoniale o non — per effetto di una violazione della ragionevole durata del processo, ex art. 6 Cedu — ha diritto ad un'equa riparazione (artt. 1 e 2). Il giudice per accertare la violazione è tenuto a considerare l'oggetto del procedimento, la complessità del caso, il comportamento delle parti, del giudice e di ogni altro soggetto chiamato in causa. La giurisprudenza ha negli anni chiarito che: 1. nonè necessario che il richiedente abbia ottenuto giustizia per chiedere un indennizzo per il ritardo — si può trattare anche di un procedimento che abbia dato esito negativo per la parte. Ne deriva che il presupposto per la sussistenza del diritto all’indennizzo è il semplice fatto dell’eccessiva durata del processo; 2. nonsiha equa riparazione in situazioni che, per la loro complessità giuridica o fattuale ovvero per le condizioni di lavoro in cui hanno operato il giudice e i suoi ausiliari, rendano scusabile il ritardo nella trattazione della causa; 3. deve inoltre sussistere un nesso di causalità tra la violazione lamentata e il pregiudizio subito (c.d. danno conseguenza) La legge fissa dei tempi di definizione standard dei giudizi, il cui rispetto obbliga a definire il processo di ragionevole durata, con conseguente esclusione dell'indennizzo: e 3anni per il giudizio di primo grado; ® 2anni per l'appello; e lanno per il giudizio di legittimità; In generale è di ragionevole durata se il processo viene definito in modo irrevocabile entro 6 anni (non si computa mai il tempo in cui il processo è rimasto sospeso o interrotto). La legge ha poi introdotto un limite di ammis ità della domanda di indennizzo, individuato nel comportamento processuale delle parti, con previsioni diverse a seconda che si tratti di processo civile o di altri processi. Non viene accolta la domanda e pertanto non viene riconosciuto l'indennizzo: e sele parti non attuano le scelte procedurali o le attività d’impulso (le parti hanno infatti un onere di iniziativa) ® inunaserie di situazioni, caratterizzate dall’esercizio abusivo della facoltà di difesa; e nelcasoin cuilo sviluppo della causa mostri una mancanza di interesse della parte al contenuto della pronuncia di merito e dunque la non sussistenza di un reale pregiudizio (che si presume in caso di contumacia della parte, estinzione del processo, carattere irrisorio della pretesa o del valore della causa) Se il giudice accerta la violazione della ragionevole durata, dispone un'equa riparazione. Non si tratta di un risarcimento del danno — perché il ritardo non costituisce di per sé un illecito — ma di un’attribuzione indennitaria come conseguenza di un inefficiente funzionamento dell’amministrazione della giustizia. Vi è la possibilità di riparare il danno non patrimoniale non solo con il denaro ma anche con la pubblicazione dell'avvenuta violazione. L’indennizzo oscilla fra i 400 e gli 800 euro per ogni anno di durata eccessiva del processo. IL PROCEDIMENTO INTERNO Il procedimento per equa riparazione viene disciplinato dagli artt. 3 e 4 della L. n. 89/2001. La domanda di equa riparazione non presuppone che si accerti la responsabilità del giudice o di altre autorità coinvolte nel procedimento (esempio, ufficiale giudiziario). Il processo può aver superato la ragionevole durata per circostanze del tutto diverse. L'art. 3 — modificato nel 2015 — dispone che la domanda si propone di fronte alla Corte d'Appello del distretto in cui ha sede il giudice del primo grado del processo per cui si domanda l’indennizzo. La domanda, inoltre, va sempre rivolta nei confronti dello Stato, ma con legittimazioni passive diverse, a seconda dell’autorità giudiziaria, ordinaria o speciale coinvolta nel ritardo. Il ricorso è posto nei confronti: e del ministro della giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario; e delministro della difesa quando si tratta di procedimenti del giudice militare; e del ministro dell'economia quando si tratta di procedimenti dei giudici tributari, amministrativi e contabili. L'art. 4 sancisce che la domanda va proposta — a pena di decadenza — entro 6 mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva, anche in pendenza del giudizio presupposto quando questo sia già andato oltre i limiti della ragionevole durata. La domanda si propone con ricorso — rispettando i requisiti dell’art. 125 c.p.c. ai quali si aggiunge la necessità di depositare copia autentica di tutti gli atti, i verbali e i provvedimenti del giudizio. Se la corte d’appello — in composizione monocratica: 1. accoglie la domanda, il provvedimento emanato diventa immediatamente esecutivo. Tuttavia, ricorso e decreto devono essere notificati al ministero legittimato passivo e attraverso questo all’avvocatura dello Stato entro 30 giorni dal deposito in cancelleria del provvedimento. Se la notificazione non è eseguita, il decreto diventa inefficace e la domanda — che era stata accolta — non potrà più essere riproposta. 2. respinge la domanda, essa non può più essere riproposta. Tuttavia entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento o dalla sua notificazione si può proporre un'opposizione alla stessa corte d'appello che ha emesso il decreto. L'opposizione è regolata dall'art. 5-ter secondo cui la corte provvede, nella consueta composizione collegiale, nelle forme del procedimento in camera di consiglio. Se ricorrono gravi motivi, la corte può sospendere l'efficacia esecutiva del provvedimento. La corte decide con decreto, immediatamente esecutivo, ricorribile per Cassazione. Infine, il giudice che si trovi di fronte ad una domanda inammissibile o manifestamente infondata, può condannare il ricorrente a versare una somma di denaro a favore della cassa delle ammende, e quindi all’erario. 37. I costi del processo. I COSTI NEL PROCESSO E LA LORO ANTICIPAZIONE Per lo svolgimento del processo è necessario l'utilizzo di mezzi materiali ed organizzativi: quindi il processo “costa”. Il cittadino al quale viene leso un diritto, se vuole ottenere giustizia, deve porre in essere una complessa attività — che oltre ad essere lunga e non agevole — è anche costosa.
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