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Argomenti di diritto processuale civile (Paolo Biavati), Dispense di Diritto Processuale Civile

Capitolo III (Il processo di cognizione secondo il rito ordinario)

Tipologia: Dispense

2020/2021

In vendita dal 20/10/2021

MattiaAntonio.Salerno
MattiaAntonio.Salerno 🇮🇹

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Scarica Argomenti di diritto processuale civile (Paolo Biavati) e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! CAPITOLO III IL PROCESSO DI COGNIZIONE SECONDO IL RITO ORDINARIO. 38. Il rito ordinario di cognizione. | modelli processuali. Il problema delle risorse. L’atto di citazione. LA STRUTTURA SCHEMATICA DEL PROCESSO DI COGNIZIONE Il processo ordinario di cognizione è articolato in 3 fasi essenziali: 1. fase di Introduzione, che inizia con la proposizione della domanda e con le difese delle parti, fino al momento in cui si determina in modo definitivo la materia del contendere; 2. fase della Trattazione, ha luogo la trattazione sostanziale degli argomenti oggetto di contesa — in base ad un programma stabilito dalla legge processuale o fissato dal giudice. Essa comprende la fase istruttoria, in cui si raccoglie il materiale probatorio (le prove) necessario all'accertamento dei fatti; 3. fase Decisoria, in cui le parti completano le loro difese e il giudice decide. Tuttavia, la distinzione tra le fasi non è netta e vi sono vari momenti di sovrapposizione. Ad esempio scritti difensivi — seppur di natura diversa — si distribuiscono in tutte le fasi. I due principali modelli alternativi sono quelli del: ® Processo del lavoro, nel quale vi sono di solito solo due atti introduttivi — ossia il ricorso e la memoria difensiva — i quali contengono tutte le allegazioni in fatto e tutte le richieste istruttorie. La trattazione dovrebbe svolgersi in una sola udienza, al termine della quale, dopo la discussione orale, il giudice pronuncia il dispositivo della sentenza; e Processo sommario, in cui sostanzialmente il processo del lavoro viene adattato a controversie relative a fattispecie semplici. I MODELLI PROCESSUALI Originariamente — nel sistema della codificazione — era previsto un rito ordinario, perché meglio organizzato in relazione alle esigenze dell’amministrazione della giustizia. Successivamente si è, però, cercato di predisporre riti diversi in base alle tipologie di controversie sostanziali, secondo la nozione di tutela giurisdizionale differenziata — elaborata in dottrina. Sono stati così introdotti, ad esempio: - il processo per la materia del lavoro nel 1973; - per le controversie societarie nel 2003. Tuttavia questo orientamento non sempre ha offerto buoni risultati, ed ha al contrario generato incertezze applicative. Pertanto si può dire che sia preferibile, costruire un processo unitario sotto il profilo delle tipologie di controversie sostanziali, ma con elementi elastici che permettano di adeguare il rito alle diverse situazioni (guindi un rito unitario flessibile — per rispondere alle esigenze del caso concreto). Non a casa con la L. n.69/2009 è stato abolito il processo societario e nello stesso tempo è stato delegato al governo il compito di riunire i riti in alcune materie speciali — estranee al codice di procedura civile — intorno a tre modelli principali: ® Rito del lavoro, sono stati sottoposti al rito del lavoro i processi in cui sono prevalenti caratteri di concentrazione processuale o di officiosità dell'istruzione; e Rito sommario, sono stati sottoposti al rito sommario i processi in cui sono prevalenti caratteri di semplificazione della trattazione o dell'istruzione della causa; ® Rito ordinario, sono stati sottoposti al rito ordinario tutti gli altri processi. Va precisato che sono rimaste fuori dalla previsione normativa molte materie importanti — quali le procedure concorsuali, la famiglia, i minori, la proprietà industriale — che rimangono disciplinate dai riti speciali in vigore. Occorre aggiungere che in base all’art. 54 della L., restano fermi i criteri di attribuzione di competenza per materia, valore e territorio, nonché i criteri di composizione dell’organo giudicante. Molti dei riti che sono stati riunificati in questi tre modelli mantengono però grandi peculiarità: sia il rito del lavoro, sia il rito sommario presentano variazioni notevoli che li distinguono dalla forma ordinaria. Oggi esistono riti diversi anche all’interno del processo ordinario. Ma la base è quella del processo di fronte al tribunale in composizione monocratica (art. 50-ter c.p.c.), mentre la composizione collegiale del tribunale ex art. 50-bis c.p.c. vi è soltanto per i casi previsti da disposizioni speciali di legge. Vi sono poche differenze tra rito del tribunale monocratico e rito del tribunale collegiale, ed esse si riducono ad aspetti relativi alla fase decisoria e al più ampio potere del giudice monocratico di ammettere testimoni d'ufficio. La vera differenza consiste nel fatto che nella composizione collegiale il giudice istruttore segue la fase della trattazione, mentre le decisioni vengono assunte dal collegio. Questo porta all'esistenza di una serie di passaggi in cui può sussistere una differenza di opinioni fra l'istruttore e la maggioranza del collegio. L’ATTO DI CITAZIONE. I modi per avviare un processo davanti al Tribunale sono essenzialmente 2, precisamente: 1. Atto di citazione, mediante il quale viene proposta la domanda giudiziale (ex art. 163 c.p.c.). Con la citazione l'attore espone la domanda ed invita il convenuto a presentarsi davanti al giudice ad udienza fissa. 2. Ricorso, con il ricorso l'attore propone la domanda e chiede al giudice di fissare un’udienza a cui sarà chiamato a partecipare il convenuto. Da ciò si intuisce che con la citazione il contatto si ha fra le parti e solo dopo viene coinvolto l’organo giudiziario; mentre con il ricorso viene prima richiesto l’intervento del giudice e poi il coinvolgimento della controparte. Il ricorso è più rispettoso delle modalità organizzative dell’ufficio giudiziario, non a caso è il modello europeo prevalente. La citazione rimane, però, la forma storicamente preferita dal diritto processuale italiano. L’atto di citazione ha, come contenuto — sulla base dell'art. 163 commi 3 e 4 c.p.c.: 1. una parte di intestazione, in cui sono indicati: = iltribunale davanti al quale la domanda è proposta; = ilnome, il cognome, il codice fiscale e la residenza (o domicilio) delle parti — attore e convenuto — e delle persone che rispettivamente li rappresentano. ® Tuttavia l'attore che ritiene di non potere aspettare così a lungo per ottenere un giudizio, in virtù dell’art. 163-bis commi 2 e 3 c.p.c. può chiedere al Presidente del tribunale di abbreviare iltermine di comparizione. Il presidente può accogliere l'istanza e disporre con decreto scritto sull’atto di citazione — sia nell’originale che nelle copie da notificare — che il termine venga ridotto fino alla metà (cd. abbreviazione dei termini). e Seviceversa l'attore vuole “prendere tempo” e fissa un’udienza molto lontana, e il convenuto vuole invece una soluzione rapida, allora, costituendosi prima del decorso del termine minimo, può chiedere al Presidente del tribunale che l'udienza venga anticipata. In caso di accoglimento dell’istanza, il Presidente provvede ad anticipare l'udienza attraverso decreto che viene comunicato all'attore. Queste richieste vengono raramente effettuate, poiché nel nostro sistema i processi sono lunghi anni, e dunque anticipare di pochi giorni la prima comparizione non fa guadagnare molto. L’atto di citazione produce effetti dal momento in cui viene notificato al convenuto — è necessario quindi che la domanda sia portata a conoscenza di colui contro il quale viene proposta. La notificazione viene solitamente attuata dall'ufficiale giudiziario su istanza di parte o del suo procuratore: in concreto, la parte consegna all'ufficiale giudiziario l'originale della citazione e tante copie quanti sono i destinatari. L'ufficiale esegue la notificazione e riconsegna all'attore l'originale con l'attestazione delle avvenute notifiche. È bene chiarire che — in base alla regola della scissione degli effetti — rispetto all'attore, sarà sufficiente aver consegnato la citazione per la notificazione all'ufficiale giudiziario per evitare decadenze, mentre per il convenuto occorre che la notifica si perfezioni con l'effettivo ricevimento. Perciò l'attore per stabilire la prima data dell'udienza deve tener conto oltre al termine dilatorio di legge, anche il tempo che intercorre fra la consegna della citazione all'ufficiale giudiziario notificante e l'effettiva ricezione da parte del convenuto. 39. Gli effetti dell’atto di citazione. La nullità dell’atto di citazione. GLI EFFETTI PROCESSUALI E SOSTANZIALI DELL'ATTO DI CITAZIONE L’atto di citazione ha effetti: ® Processuali sul piano processuale, la notificazione dell'atto di citazione al convenuto: 1. dà inizio al processo e da questo momento si può parlare di giudizio pendente. Dunque la notificazione della citazione crea litispendenza, ossia esistenza della lite. Se l’atto di citazione è notificato a più convenuti — che lo ricevono in momenti successivi — si ha litispendenza al momento della prima notificazione. 2. fa instaurare il contradittorio: il convenuto viene a conoscenza della domanda e decide se e come difendersi. 3. può anche dare luogo a prevenzione, cioè può servire a stabilire — in caso di due giudizi identici o connessi — quale sia stato avviato per primo (pertanto per stabilire quale sia il processo più remoto si tiene conto della notificazione dell'atto di citazione). L'effetto di prevenzione si ha anche in caso di contenzioso europeo, infatti l'art. 32 del Regolamento n.1215/12 stabilisce che in caso vi siano più competenze alternative e legittimamente vengano iniziati due processi di contenuto identico o connesso di fronte a giudici di Paesi diversi, per determinare quale processo sia iniziato per primo si considera: = incaso di giudizi avviati per citazione, il momento della consegna dell’atto per la notificazione; = in caso di giudizi che cominciano con ricorso, il ricorso depositato per primo. Sostanziali l'atto di citazione validamente notificato interrompe la prescrizione, ed in forza dell'art. 2945 c.c. la prescrizione interrotta tramite un atto giudiziario si sospende fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio (cd. effetto interruttivo protratto/permanente). Ad esempio, Tizio titolare di un diritto di credito — il quale si prescrive in 10 anni — cita in giudizio il proprio debitore Caio. L'atto di citazione viene notificato il 2 gennaio 2021 e da quel momento si interrompe la prescrizione. La causa dura 5 anni pertanto il diritto si prescriverà nel 2036 (5 anni la durata del processo + 10 anni prescrizione del diritto). Se invece dopo la notifica della citazione non si continua il giudizio o il giudizio si estingue non sarà calcolata la durata del processo (in quanto il processo nel primo caso non è stato realizzato, nel secondo caso è come se non si fosse mai celebrato), rimane di fatto solo l’effetto interruttivo provocato dalla notifica della citazione (il diritto si prescriverà nel 2031). LA NULLITÀ DELL'ATTO DI CITAZIONE. L’art. 164 c.p.c. (Nullità della citazione) sancisce che “La citazione è nulla se è omesso o risulta assolutamente incerto qualcuno dei requisiti stabiliti nei numeri 1) e 2) dell'articolo 163, se manca l'indicazione della data dell'udienza di comparizione, se è stato assegnato un termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge ovvero se manca l'avvertimento previsto dal numero 7)”. Tuttavia, la costituzione del convenuto sana i vizi dell'atto di citazione perché esso ha raggiunto il suo scopo. In ogni caso, se il giudice ritiene che vi sia una nullità non sanata, dispone la rinnovazione della citazione. I vizi dell'atto di citazione si distinguono in: vizi MENO gravi — collegati a difetti della vocatio in ius — sono previsti dai primi tre commi dell’art.164 c.p.c. Si verificano quando: 1. viene omessa o risulta totalmente incerta l'indicazione del tribunale competente o delle parti; 2. se manca completamente l'indicazione della data dell’udienza di comparizione; 3. se è stato assegnato un termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge; 4. se manca l’avvertimento relativo alle decadenze in cui può incorrere il convenuto. In questi casi, la nullità può essere sanata: = mediante la costituzione del convenuto; = seilconvenutononsi costituisce, mediante la rinnovazione della citazione ordinata dal giudice ordina, entro un termine perentorio. In entrambi i casi gli effetti — sostanziali e processuali — retroagiscono al momento della notificazione della citazione nulla. = seilconvenuto- pur costituendosi — rileva l'inosservanza dei termini a comparire o la mancanza dell’avvertimento di cui al n.7 dell’art. 163 c.p.c. il giudice sarà tenuto a fissare una nuova udienza nel rispetto dei termini. Occorre aggiungere che — in forza dell’art. 307 comma 3 c.p.c. — se la rinnovazione ordinata dal giudice non viene eseguita, il giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo e il processo si estingue per inattività. e vizi PIÙ gravi — relativi alla editio actionis — sono contemplati dagli ultimi tre commi dell’art.164 c.p.c. Si verificano quando: 1. viene omessa o risulta assolutamente incerta la determinazione della cosa oggetto della domanda; 2. se manca l’esposizione dei fatti. In questi casi, il giudice — rilevata la nullità — fissa un termine perentorio entro il quale l'attore potrà: = rinnovare la citazione, se il convenuto non si è costituito; = integrare la domanda se il convenuto si è costituito. Ma restano ferme le decadenze maturate e restano salvi i diritti richiesti anteriormente alla rinnovazione o all'integrazione. Va aggiunto che in caso di integrazione, il giudice fissa una nuova udienza di trattazione, ai sensi dell’art. 183 comma2 c.p.c. Il diverso regime delle decadenze provoca diverse conseguenze per l'attore. Tra la notifica della citazione nulla e quella della citazione valida decorre un certo tempo — spesso si può trattare mesi — durante il quale alcuni profili sostanziali potrebbero mutare, come ad esempio la decorrenza della prescrizione. Se la citazione nulla può essere sanata o rinnovata con effetti retroattivi, l'eventuale decorso del termine è irrilevante per l'attore; ma se gli effetti sostanziali della citazione si producono solo al momento della citazione rinnovata, il convenuto potrà difendersi eccependo (dichiarando) il decorso della prescrizione. L’atto di citazione, con cui si propone la domanda giudiziale, non è soggetto a nessuna preclusione poiché è il primo atto del processo e deve consentire alle parti di difendersi correttamente. Per assicurare a ciascuna parte la propria difesa il legislatore — in caso di atto di citazione non conforme alle norme — ha preferito di sanzionare con la nullità l'atto invece di prevedere decadenze per l’attore. Va notato infine che l’art. 164 c.p.c. non si applica alla citazione: ® inesistente nonidoneaa dare luogo al processo; e nulla pertotale mancanza di volontarietà. non deve indagare, e quindi essi si considerano ammessi. La contestazione deve essere specifica e non generica e può comunque essere esercitata durante tutta la durata del processo in cui si viene a formare la materia del contendere. Per quanto riguarda la domanda riconvenzionale, si possono presentare dei profili di nullità analoghi a quelli riguardanti la editio actionis della citazione: infatti può essere omesso o risultare assolutamente incerto l’oggetto o il titolo della domanda. Non possono, tuttavia, sussistere i vizi della vocatio in ius contenuta nella citazione, perché in questo caso il contraddittorio si è già costituito. Questi vizi sono della stessa natura di quelli più gravi dell'art. 164 c.p.c. e per questo hanno lo stesso trattamento, nel senso che il giudice in prima udienza fissa al convenuto un termine per integrare l’atto, ma a favore dell'attore restano ferme le decadenze maturate e salvi i diritti acquisiti prima dell’integrazione. ECCEZIONI PROPONIBILI SU ISTANZA DI PARTE E RILEVABILI D'UFFICIO Non vi è un criterio sempre valido per distinguere le eccezioni: e proponibili solo su istanza di parte (le quali se non sollevate nella comparsa di risposta tempestivamente depositata, non potranno più essere proposte); e rilevabili d'ufficio. Pertanto occorre tener conto — caso per caso — la legge e gli orientamenti della giurisprudenza e quindi fare riferimento al diritto sostanziale. In quanto le singole norme stabiliscono che: 1. anche il giudice può rilevare di sua iniziativa — quindi d'ufficio — l'assenza di un determinato presupposto processuale qualificato dalla legge come elemento essenziale; 2. l’assenza di presupposti processuali non considerati come elementi essenziali non potranno essere rilevati dal giudice, ma solo ed esclusivamente dalle parti. Ad esempio alcune nullità sono assolute e quindi possono essere rilevate anche dal giudice; altre sono relative ed è solo la parte che è stata pregiudicata dall'atto nullo a decidere se sia il caso di sollevare l'eccezione oppure no. Il giudice può rilevare d'ufficio tutte le ragioni che portano all'eventuale rifiuto della domanda, e si deve arrestare solo nelle ipotesi in cui vi siano disposizioni — sostanziali o procedurali — che vadano a limitare tale potere. Per questo motivo, la seconda parte dell'art. 112 c.p.c. vieta al giudice di pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere sollevate solo dalle parti. Questo significa che l’art. 167 c.p.c., quando parla di decadenza, si riferisce soltanto alle eccezioni per cui la legge prevede il monopolio delle parti, mentre tutte le altre eccezioni possono sollevarsi anche in un momento successivo. LA PLURALITÀ DI CONVENUTI La difesa del convenuto può assumere forme caratteristiche: e nelcaso di processo a pluralità di parti; e neicasi di litisconsorzio facoltativo. Quando l’autore propone domande nei confronti di più convenuti, può effettuare scelte diverse, come ad esempio domandarne: — la condannain solido — nel senso che chiede al giudice la condanna di tutti i convenuti, in questi casi le difese dei quest'ultimi saranno ovviamente dirette a negare il fatto costitutivo o le conseguenze giuridicamente pregiudizievoli che discendono da quel fatto; — la condannainvia alternativa — nel senso che chiede al giudice anche di individuare chi fra i diversi convenuti vada condannato o di stabilire in quali diverse porzioni ciascuno di essi deve essere condannato. In tal caso la difese possono essere di tante tipologie diverse, come la contestazione del fatto costitutivo o la richiesta di condannare altri convenuti ad adempiere nei confronti dell'attore o che altri convenuti siano chiamati a prestare garanzia in caso di condanna. Se però, un convenuto non si limita a difendersi o proporre domande riconvenzionali nei confronti dell'attore, ma propone a sua volta domande nei confronti di altri convenuti, cd. domande trasversali (ex art. 106 c.p.c.), non si aggiunge una nuova parte al processo (perché egli, dopo la notificazione dell’atto di citazione dell’attore, è già parte), ma il quadro della materia del contendere si complica, perché si vanno ad includere anche domande proposte da un convenuto contro l’altro. Il termine entro cui è possibile proporre tali domande (c.d. trasversali) coincide con la tempestiva costituzione in giudizio e il deposito della comparsa di risposta, quindi almeno 20 giorni prima della prima udienza. La parte contro cui queste domande vengono proposte può difendersi attraverso la proposizione in prima udienza delle domande e delle eccezioni che si rendono necessarie a seguito delle difese della controparte (art. 106 comma 5 c.p.c.). TARDIVA O MANCATA COSTITUZIONE DELLE PARTI Potrebbe accadere che nessuna delle parti si costituisca nei tempi stabiliti — ossia l'attore entro 10 giorni dall'ultima notifica, e il convenuto almeno 20 giorni prima dell'udienza. In tal caso il processo si estingue per evidente inattività, a meno che non venga riassunto da chi vi ha interesse entro 3 mesi (artt. 171 e 307 c.p.c.). Se invece almeno una delle parti si è costituita, l’altra parte può costituirsi più tardi, fino alla prima udienza. In questa ipotesi: — l’attore non subisce conseguenze; — mentre il convenuto subisce le decadenze di cui all'art. 167c.p.c., e dunque non potrà più sollevare eccezioni di incompetenza, proporre domande riconvenzionali, chiamare in causa terzi o sollevare eccezioni di rito o di merito che non siano rilevabili d'ufficio. Se la parte non si costituisce nemmeno alla prima udienza, essa viene dichiarata contumace. LE COMUNICAZIONI DOPO LA COSTITUZIONE IN GIUDIZIO La costituzione in giudizio — necessariamente attraverso il difensore — comporta un nuovo modo di comunicare per le parti e il giudice. Infatti secondo l'art. 170 c.p.c., dopo la costituzione in giudizio, tutte le notificazioni e le comunicazioni si fanno di regola al procuratore costituito (inoltre la comunicazione può sempre avvenire attraverso pec). Le comparse e le memorie consentite dal giudice si comunicano mediante deposito in cancelleria o con notificazione o attraverso scambio documentato, con l'apposizione sull’originale — in calce o in margine — del visto della parte o del procuratore. Per questi atti processuali, oggi, è solitamente previsto il deposito telematico, che porta l’atto automaticamente a conoscenza non solo della cancelleria, ma anche della controparte. 41. La trattazione della causa. La prima udienza. L’UDIENZA E IL GOVERNO DEL GIUDICE SUL PROCESSO Le parti fissano la materia del contendere e delimitano il compito decisorio del giudice, ma è il giudice che ha il compito di esercitare tutti i poteri che servono per un rapido e leale svolgimento del processo — ex art. 175 c.p.c. È il giudice a stabilire le date delle udienze e la loro scansione temporale; in molti casi a fissare i termini entro cui le parti devono compiere gli atti. Tuttavia, il giudice deve farlo nei limiti del proprio carico di lavoro, pertanto la distanza temporale tra le varie attività dipende non dalle regole dei codici bensì dall’organizzazione degli uffici giudiziari. Le parti e il giudice si incontrano al momento dell’udienza, alla quale possono partecipare i difensori delle parti i quali possono interloquire con il giudice e le parti che invece rimangono in silenzio, salvo che il giudice non li autorizzi ad intervenire (infatti le udienze di trattazione davanti al giudice — a differenza delle udienze di discussione — non sono pubbliche). Dell’udienza viene redatto un processo verbale che sarà l’unico riferimento documentale per stabilire cosa è avvenuto, e con l'autorizzazione del giudice le parti possono dettare nel processo verbale le loro deduzioni. L'IMPIEGO DELLE ORDINANZE Il tipico provvedimento con cui il giudice gestisce lo svolgimento del processo, prima di giungere alla decisione, è l'ordinanza (ex art. 177 c.p.c.). Le ordinanze possono essere pronunciate in udienza, dunque alla presenza delle parti: in tal caso non occorre comunicarle in quanto si ritengono conosciute sia dalle parti presenti sia da quelle che avrebbero dovuto esserlo. Il giudice può, però, voler disporre di un tempo di riflessione dopo l'udienza al fine di analizzare con calma il fascicolo (art. 176 c.p.c.) ed in questo caso egli si riserva di pronunciare l'ordinanza fuori udienza. Pertanto l'ordinanza dovrà essere comunicata alle parti della cancelleria (di solito attraverso pec) — cd. riserva dell'ordinanza. L'ordinanza — dal momento che è uno strumento di gestione del processo — non può mai pregiudicare la decisione della causa. Anche se è vero che a volte può essere fortemente rappresentativa dell’orientamento del giudice in vista della decisione di merito. In quanto, ad esempio il giudice con ordinanza è tenuto ad ammettere i mezzi di prova ritenuti IL PROGRESSIVO COMPLETAMENTO DELLA MATERIA DEL CONTENDERE La materia del contendere dovrebbe essere completa già all'udienza di trattazione, ma in realtà il completamento avviene durante e dopo l'udienza. Infatti, l’art.183 comma 5 c.p.c. stabilisce che l'attore: — può proporre in udienza domande ed eccezioni nuove, che siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni del convenuto; — può chiedere di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo se le difese del convenuto lo hanno reso necessario; — edilconvenuto possono precisare e modificare domande, eccezioni e conclusioni, anche a prescindere dalle difese della controparte. Ciò che non si può fare — anche successivamente — è introdurre nuove domande che vanno oltre la materia già introdotta in giudizio, e ciò per questioni non logiche, ma organizzative. Tale divieto è diretto ad indurre chi chiede tutela a concentrare tutte le domande — per quanto alternative o cumulate esse siano — fino all'atto di esordio. LA MODIFICAZIONE DELLE DOMANDE E DELLE ECCEZIONI Per quanto concerne il problema della modificazione o precisazione della domanda e delle eccezioni e l'introduzione di nuove domande, si ravvisano due soluzioni: 1. La prima consiste nel fissare una volta per tutte la domanda nell’atto introduttivo, semplificando così la difesa del convenuto e la decisione del giudice. Questa soluzione ha però il difetto di non tenere conto i possibili errori commessi nell’impostazione della causa, ma anche dei fatti nuovi e delle evoluzioni della realtà, causando così una moltiplicazione esponenziale del numero delle cause — in quanto tutto ciò che rimane fuori dalla cognizione del giudice verrebbe portato davanti ad altri giudici. 2. La seconda è invece quella che permette alle parti di modificare costantemente l'oggetto del processo. Questa soluzione — rispetto alla precedente — ha come difetto quello di rendere impossibile l'individuazione effettiva della materia del contendere, rendendo così complicato portare a termine il processo. Poiché nessuna delle due soluzioni appare perfetta, gli ordinamenti optano per soluzioni mediane (intermedie), infatti il codice italiano vieta la proposizione di domande nuove, ma consente la modificazione di quelle proposte. La parte attraverso la domanda e le eccezioni porta al giudice un fatto che concretizza una sua pretesa in diritto — ne consegue che la domanda e l'eccezione formano la materia del contendere. L’introduzione di nuovi fatti in giudizio comporta di per sé un ampliamento della materia del contendere. Pertanto si ritiene che: e seilfatto nuovo è la base per una pretesa giuridica diversa da quella proposta inizialmente in causa e comporta una richiesta diversa nei confronti della controparte — si ha una domanda nuova. e seilfatto non è nuovo, ma ne viene meglio definitiva la dimensione — si ha una precisazione. Tuttavia vi sono numerose e diverse ipotesi intermedie, che danno luogo alla modificazione della domanda. Quindi individuare quale sia una domanda modificata o precisata (emendatio libelli) e quale sia una domanda nuova (mutatio libelli) non è affatto semplice. Emergono inoltre dei problemi in quanto: — sesiqualifica troppo facilmente la domanda come nuova e perciò inammissibile nello stesso processo, la parte se la vuole fare valere dovrà iniziare un nuovo processo; — mentre se vengono ammesse nuove domande con molta facilità si rischia di compromettere il diritto di difesa della controparte. In conclusione si può dire che le domande solitamente vengono ammesse quando non comportano un allargamento sostanziale della materia del contendere. La Cassazione, però, ritiene che debbano essere ammesse le domande — che seppur fondate su una causa petendi oggettivamente diversa — non introducono nuovi fatti e tendono al medesimo effetto della domanda originaria. LE MEMORIE SUCCESSIVE ALL'UDIENZA DI TRATTAZIONE L’art. 183 comma 6 c.p.c. sancisce che su richiesta — anche di una sola parte — il giudice può concedere alle parti, i seguenti termini perentori: 1. un termine di ulteriori 30 giorni per il deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte. Ciò allo scopo di determinare defi 2. un termine di ulteriori 30 giorni per replicare/rispondere alle domande ed eccezioni nuove itivamente la materia del contendere; o modificate dall'altra parte: ® per proporre eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni eventualmente apportate dalla controparte; ® perl’indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali; 3. un termine di ulteriori 20 giorni per le sole indicazioni di prove contrarie a quelle i dalla controparte. Per “prove contrarie” si intende i mezzi di prova diversi da quelli indicati icate e richiesti dalla controparte, relativi agli stessi fatti, e tendenti ad accreditarne una versione opposta. Ad esempio, una parte chiede che sia sentito un testimone per dimostrare un fatto, l’altra parte indica un altro testimone che smentirà il primo. La richiesta delle memorie è facoltativa, come è facoltativa la produzione di uno o più degli scritti difensivi, infatti ogni memoria ha una sua finalità e le parti possono scegliere se e quali richiedere in funzione della loro strategia (in quanto autonome l’una dall'altra). Nella prassi, le memorie istruttorie contengono spesso deduzioni o affermazioni di diritto del tutto inopportune, le quali appesantiscono il lavoro del giudice e costringono l'avversario a replicare, aumentando di fatto il fascicolo del processo. Il difensore deve porsi la questione strategica del momento in cui svolgere le difese, quando le regole del rito permettono di rinviarle in tempi successivi. Il decorso dei termini per le deduzioni istruttorie comporta che cada la preclusione per ogni deduzione diversa e non effettuata. In relazione a questo profilo è necessario che le prove vengano non solo richieste, ma anche richieste con le modalità previste per ciascuna di esse. Le preclusioni possono essere rilevate dalle parti nei confronti della controparte, ma ci si chiede se lo possa fare d'ufficio anche il giudice: e sesiritiene che prevalga un profilo conflittuale nel processo, e dunque che le preclusioni siano nell’interesse delle parti, si deve rispondere di no; ® se invece si considera che esse assicurino un ordinato svolgimento del processo, si deve rispondere di sì, ed è questa la lettura preferibile. 42. Lo svolgimento dell'istruttoria. | mezzi di prova. LE DECISIONI DEL GIUDICE SULLO SVOLGIMENTO DELL’ISTRUTTORIA Alla fine dell'udienza di trattazione e decorsi i successivi termini di cui all’art.183 comma 6 c.p.c., il giudice viene a piena conoscenza della materia del contendere e delle richieste di indagini istruttorie formulate delle parti. Rimane possibile l'applicazione dell’art. 153 c.p.c. sulla rimessione in termini, ma tutte le istanze delle parti sono comunque “sul tavolo”. Il giudice ora si trova dinanzi 2 possibili scelte, ossia: 1. ritenere che la causa sia già pronta per una decisione. In tal caso (applica l'art. 187 c.p.c.) invita le parti ad indicare le conclusioni e si prepara a decidere. Ciò avviene solitamente quando la questione è di puro diritto o non c'è bisogno di prove costituende — ossia per le prove che necessitano di un procedimento di assunzione (il giudice evita quindi la fase della trattazione probatoria); 2. ritenere che la causa necessiti invece di un accertamento dei fatti, che non si può esaurire con il semplice esame delle prove documentali. In tal caso il giudice apre la fase istruttoria in base agli artt. 183 commi 7-10 e 184 c.p.c. L’art. 183 comma 7 c.p.c. stabilisce che il giudice — decorsi gli eventuali termini dell’art. 183 comma 6 c.p.c. — provvede sulle richieste istruttorie fissando un’apposita udienza per l'assunzione dei mezzi di prova ritenuti ammissibili e rilevanti. In questa udienza il giudice procede all'assunzione delle prove, salvo la possibilità di fissare un calendario più articolato (cioè indicare successive udienze), qualora non fosse possibile concludere tale attività — assunzione delle prove — in un’unica udienza — art. 184 c.p.c. Solitamente il giudice non ammette le prove direttamente nell'udienza ma si riserva la possibilità di decidere fuori udienza, e dunque nell’udienza (di cui all’art. 184 c.p.c.) o con l'ordinanza riservata fuori udienza, il giudice indica le prove che intende assumere e: ® fissa un'ulteriore udienza per questo scopo — ossia ammettere le prove; ® ostabilisce il calendario del processo se il caso è più complesso. Occorre precisare che le parti — nel formulare le rispettive richieste istruttorie - seguono precisi percorsi argomentativi: la tesi dell'attore viene normalmente contrastata dal convenuto, che ne propone una diversa. Il contraddittorio tra le parti si realizza: — nello scambio delle memorie; — nella discussione orale di fronte al giudice nell’udienza ex art. 184. Eccezionalmente si ammette che tali prove siano raccolte fuori e prima del processo e, se le modalità sono coerenti con quelle che tale indagine avrebbe avuto all’interno del processo. IL DIRITTO ALLA PROVA Dal momento che i fatti che fondano il diritto che si vuole fare valere devono anche essere provati, il diritto alla prova è uno dei profili irrinunciabili del diritto di difesa e del giusto processo. In questo senso, dunque, la parte che l'onere di provare determinati fatti, ne ha anche il diritto. Inoltre, sui medesimi fatti, si possono verificare versioni confliggenti, in quanto: l’attore ha il diritto alla prova — cioè provare che il fatto si sia svolto secondo date modalità; — ilconvenutoa sua volta ha il diritto alla prova contraria — cioè di dimostrare che il fatto: = non può essersi svolto perché incompatibile con altri fatti che intende provare; = si sia svolto ma con modalità differenti. Ogni parte può contrastare la tesi dell'altra, portando al giudice delle prove dirette a dimostrare l'opposto. Tuttavia il sistema istruttorio italiano, non consente alla parte di dimostrare i fatti in qualsiasi modo, ma la obbliga ad utilizzare determinati strumenti, seguendo specifiche modalità ed entro certi tempi. Ovviamente per la parte che possiede o può facilmente procurarsi i documenti a sostegno della prova, non sarà complicato rispettare tali modalità stabilite dalla legge; mentre per la parte che non può ottenere la fonte della prova (ad esempio perché quei documenti sono posseduti da terzi) sarà difficile rispettarle. Pertanto, se il processo fosse pienamente ispirato al principio della verità materiale, allora si dovrebbe parlare di un pieno diritto alla prova, e di conseguenza la parte dovrebbe essere assistita dal potere giudiziario nella ricerca delle fonti fi prova — documenti volti a provare un fatto. Ma in realtà, il nostro ordinamento sostiene questa ricerca in modo molto debole, infatti a questo scopo sono in parte destinati mezzi come l'esibizione, la richiesta di informazioni alla P.A. e l'ispezione; si tratta però di mezzi ampiamente imperfetti. 43. Ammissibilità, rilevanza e valutazione delle prove. AMMISSIBILITÀ E RILEVANZA DEI MEZZI DI PROVA In materia di prove, il giudice è tenuto ad intervenire al fine di determinare i mezzi istruttori ammissibili e rilevanti. Nel processo non è possibile ogni indagine e i principali limiti sono due: di metodo_ vale a dire se un certo mezzo di prova può essere legittimamente introdotto in giudizio. Rispetto a tale limite, si ha un giudizio di ammissibilità del mezzo di prova sulla base delle regole del codice civile e in misura minore del codice di procedura civile. Il giudice — a cui le parti chiedono di compiere una data indagine istruttoria — è tenuto quindi innanzitutto a verificare che il mezzo di prova richiesto sia ammissibile. Ad esempio, il codice civile prevede che la prova testimoniale deve essere provata attraverso documenti scritti e la esclude quando la prova scritta sia richiesta ad probationem (ossia per provare l’esistenza di quel negozio, il quale è comunque valido indipendentemente dalla forma) o ad substantiam (ossia per dimostrare la validità del negozio). ite di utilità_ vale a dire se un certo mezzo di prova, astrattamente ammissibile, deve essere anche in concreto utile, rispetto alle circostanze di quel processo. Rispetto a tale limite, si ha un giudizio di rilevanza, volto a stabilire se quel mezzo di prova sia in concreto utile rispetto alle circostanze del processo e all'oggetto della materia del contendere. La rilevanza va valutata tenendo conto: — della tesi di ognuna delle parti e di quella che il giudice comincia a formarsi; — degli altri mezzi di prova indicati. Ad esempio, se esiste una prova documentale diretta a dimostrare un fatto, la prova testimoniale che tende a provare lo stesso fatto non risulta rilevante. La valutazione di ammissibilità e rilevanza si realizza per tutti i mezzi di prova: 1. sia per quelli che necessitano di un'attività processuale per la loro formazione (c.d. mezzi di prova costituendi); 2. sia per quelli che invece devono essere soltanto materialmente inseriti nel fascicolo (c.d. mezzi di prova precostituiti). Occorre precisare che per i mezzi precostituiti la valutazione avviene ex post (in quanto vengono inseriti nel fascicolo e poi il giudice dovrà decidere se utilizzarli o meno per la decisione); mentre peri mezzi costituendi la valutazione avviene ex ante. La valutazione di ammissibilità e rilevanza deve essere compiuta sia per le richieste istruttorie presentate dalle parti, sia per i mezzi di prova che il giudice pensa di assumere d'ufficio. Infine, va tenuto presente, che il giudice decide sull’ammissione delle prove senza sapere se l'utilizzo in concreto di quel mezzo contribuirà o no, ed eventualmente in quale senso, alla decisione della controversia. Per tale ragione è tenuto a scegliere con molta cautela, ammettendo talvolta anche le prove contrarie. L’ordinanza che decide sulle prove deve essere motivata, cioè il giudice in modo sintetico deve giustificare le sue scelte. L’ASSUNZIONE DEI MEZZI DI PROVA Per l'assunzione della prova il codice detta una serie di regole specifiche, in quanto i mezzi andrebbero attuati di fronte allo stesso giudice e in un lasso temporale ristretto. L’art. 202 c.p.c. intende che i mezzi di prova siano assunti nella stessa udienza in cui vengono ammessi, e, se ciò non è possibile, il giudice stabilisce il tempo, il luogo e il modo dell’assunzione. Se la raccolta delle prove non si esaurisce nell’udienza fissata, il giudice ne rimanda la prosecuzione ad un giorno prossimo. In Italia si ha normalmente una rilevante dilatazione/estensione dei termini. Quando le prove vanno assunte al di fuori della circoscrizione del tribunale — si pensi ad un testimone che abita molto lontano oppure ad un'ispezione di luoghi che si trovino in un’altra sede — il giudice potrebbe trasferirsi personalmente, ma dato che un eventuale trasferimento potrebbe determinare ostacoli organizzativi, può essere ammessa l'assunzione diretta del mezzo di prova se entrambe le parti lo richiedono e il Presidente del tribunale lo consente. Di solito — però — in questi casi l'assunzione della prova viene affidata ad un altro magistrato della circoscrizione (c.d. magistrato delegato), cui la delega viene affidata con un’ordinanza del giudice ex art. 203 c.p.c., nella quale viene indicata: la prova valutare; un termine entro il quale deve essere assunta e la data della successiva udienza per la prosecuzione del processo. Il magistrato delegato — su istanza di parte interessata — procede all'assunzione del mezzo di prova e d'ufficio trasmette il processo verbale al giudice delegante prima dell'udienza fissata per la prosecuzione del giudizio. Le parti possono — tramite istanza — eventualmente richiedere la proroga del termine. ASSUNZIONE DELLE PROVE ALL'ESTERO La questione si complica quando la prova deve essere assunta al di fuori del territorio italiano. In quanto si tratta di svolgere un'attività giurisdizionale — ossia l'assunzione della prova — nella sfera di sovranità di un altro Stato. Per questo la materia è regolata da: — convenzioni internazionali multilaterali, la cui più importante è quella dell’Aia del 1970; — convenzioni bilaterali concluse tra due Stati a Stato; — dal Regolamento Europeo n. 1206 del 2001. L'attività con cui il giudice italiano richiede la collaborazione di un giudice straniero prende il nome di rogatoria, ed è disciplinata dall'art. 204 c.p.c. In base al regolamento n. 1206 del 2001, ognuna delle parti è autorizzata ad essere presente, anche di fronte all'autorità giudiziaria di un Paese diverso da quello in cui si svolge il processo; e che il giudice di ogni Stato può recarsi nel territorio di un diverso Stato dell’U.E. per raccogliere personalmente la prova. Nonostante le disposizioni siano per certi versi innovative, esse sono comunque limitate nella pratica da problemi di tempi e di costi, che rendono spesso preferibile affidare la raccolta al giudice straniero. PROFILI PROCEDURALI DELL'ASSUNZIONE DEI MEZZI DI PROVA Ogni mezzo di prova viene raccolto in modo diverso, ma sempre sotto il controllo del giudice, che, in base all’art. 205 c.p.c., ha il potere di risolvere con ordinanza tutte le questioni che possono sorgere nel corso dell’assunzione. La prova, inoltre, viene normalmente assunta nel contraddittorio delle parti. Può succedere che un mezzo di prova venga ammesso ma poi non sia assunto, come ad esempio un testimone risulti irreperibile. In tal caso ha un ruolo molto importante il principio dell'impulso di parte, infatti secondo l’art. 208 c.p.c. se la parte che ha domandato l'assunzione o la prosecuzione di una prova non compare all’udienza, il giudice istruttore dichiara estinto il diritto di far assumere la prova, salvo che l’altra parte non ne chieda l'assunzione. La parte interessata — nell'udienza successiva — può chiedere al giudice di revocare l'ordinanza attraverso la quale è stato estinto il diritto di assumere la prova, e il giudice revoca la decadenza Questo significa che non si possono indicare in modo generico le persone a conoscenza dei fatti di causa, ma occorre indicare su quali fatti si chiede che venga ascoltato il testimone e stabilire un preciso collegamento tra fatti e testimoni. Questa correlazione è una garanzia del diritto di difesa dell'altra parte. Una prova testimoniale dedotta in modo non corretto, comporta la decadenza dalla possibilità di ottenerne l'assunzione; se poi la prova venisse assunta in violazione delle regole, ne deriverebbe la nullità del mezzo istruttorio. Il testimone anche se indicato da una sola delle parti, diventa comune anche alle altre. L'art. 245 comma 2 c.p.c. chiarisce che la rinuncia fatta da una parte all'esame dei testimoni da essa indicati non ha effetto se le altre non vi aderiscono e se il giudice non vi consente. Al giudice — in materia di prova per testimoni — sono attribuiti significativi poteri d'ufficio: l'art. 281-ter c.p.c. stabilisce che il giudice monocratico può disporre d'ufficio la prova testimoniale, formulandone egli stesso i capitoli, quando le parti nell'esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità. In ogni caso — quindi anche nei casi di composizione collegiale — se qualcuno dei testimoni si riferisce per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice istruttore può disporre d'ufficio che esse siano chiamate a deporre (cd. testimone di riferimento - art. 257 c.p.c.). Inoltre il giudice, oltre ad escludere i testimoni che non possono essere sentiti per legge (ad esempio, perchè incapaci a deporre avendo interesse nella causa), può ridurre le liste dei testimoni sovrabbondanti (art. 245 c.p.c.). AI tempo stesso può anche ordinare successivamente che siano sentiti i testimoni dei quali, in un primo tempo, ha ritenuto inutile l'esame, o dei quali ha consentito la rinuncia; e può disporre che siano nuovamente esaminati i testi già interrogati, al fine di chiarire la loro deposizione o di correggere irregolarità che siano avvenute nel precedente esame. LA TESTIMONIANZA SCRITTA La riforma del 2009 ha introdotto la possibilità di raccogliere la testimonianza non solo oralmente — attraverso le modalità appena descritte — ma anche per iscritto. Tuttavia, per evitare di ledere il contraddittorio nell'assunzione della prova (visto che il testimone prepara la sua risposta nella quiete domestica), sono stati previsti dei limiti a questa facoltà, che rendono però inefficace l'innovazione. Secondo l'art. 257-bis c.p.c. il giudice — su accordo delle parti — tenuto conto della natura della causa, e di ogni altra circostanza, può disporre di assumere la deposizione chiedendo al testimone di fornire, per iscritto e in un termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato. Il giudice con il provvedimento di ammissione, dispone che la parte che ha richiesto l'assunzione prepari l'apposito modello di testimonianza e lo faccia notificare al testimone. Il testimone, rende la deposizione compilando il modello di testimonianza in ogni sua parte, con risposta separata a ciascuno dei quesiti, e precisa quali sono quelli cui non è in grado di rispondere, indicandone la ragione. Poi sottoscrive la deposizione apponendo la propria firma autenticata su ciascuna delle facciate del foglio di testimonianza, che spedisce in busta chiusa con plico raccomandato o consegna alla cancelleria del giudice. Quando la testimonianza abbia ad oggetto la mera conferma di documenti di spesa già depositati dalle parti (ad esempio, il teste conferma la veridicità di una fattura che egli ha emesso), questa può essere resa mediante dichiarazione sottoscritta dal testimone e trasmessa al difensore della parte nel cui interesse la prova è stata ammessa, senza il ricorso al modello. In ogni caso, il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui. N.B. A differenza della Francia e della Germania, in Italia tale modello non è molto utilizzato. ASSUNZIONE E VALUTAZIONE DELLA PROVA TESTIMONIALE Il testimone è un terzo che con la sua dichiarazione di scienza e verità, su fatti di cui è al corrente, per averli appresi direttamente, adempie ad un dovere civico di solidarietà. Perciò, egli deve essere intimato — su istanza di parte — a comparire davanti al giudice e la sua mancata presenza deve essere sanzionata. L'intimazione avviene secondo modalità regolate dall'art. 250 c.p.c. Di regola è l'ufficiale giudiziario che — su richiesta della parte interessata — intima ai testimoni ammessi dal giudice istruttore di comparire nel luogo, nel giorno e nell'ora fissati, indicando il giudice che assume la prova e la causa nella quale devono essere sentiti. Tuttavia per semplificare le modalità è stato previsto che l'intimazione al testimone a comparire in udienza possa essere effettuata anche dal difensore, con lettera raccomandata con avviso di ricevimento o attraverso fax o pec. Dovrà poi essere data al giudice prova dell'effettivo invio e della ricezione dell'intimazione. Chiamare il testimone a deporre in causa è onere delle parti, pertanto se la parte — senza giusto motivo — non fa chiamare i testimoni davanti al giudice, questi la dichiara decaduta dalla prova anche d'ufficio, salvo che l'altra parte dichiari di avere interesse all'esame del testimone: in tal caso l'onere di intimare il testimone si sposta sulla controparte (art. 104 disp. att. c.c.). Se il giudice riconosce giustificata l'omissione, fissa una nuova udienza per l'assunzione della prova. L'intimazione va inviata al testimone almeno 7 giorni prima dell'udienza; la presenza fisica del teste all'udienza, sana comunque ogni irregolarità al riguardo. L'art 251 c.p.c. stabilisce che il giudice avverte il testimone sull'obbligo di dire la verità e sulle conseguenze penali delle dichiarazioni false o reticenti. L'art. 255 c.p.c. dispone che se il testimone non compare senza giustificato motivo, il giudice può disporne l'accompagnamento coattivo e infliggergli una sanzione pecuniaria. Può accadere, inoltre, che il teste si presenti ma si rifiuti di deporre senza una ragionevole motivazione, oppure il giudice può sospettare che il testimone non abbia detto la verità o sia stato reticente: in questi casi ilteste può essere denunciato penalmente. Nel nostro sistema, i testimoni non sono interrogati dagli avvocati delle parti ma dal giudice, e non in modo generico ma sulle specifiche questioni che le parti hanno indicato ed il giudice ha ammesso. L’art.253 c.p.c. stabilisce che gli avvocati possono chiedere che il giudice rivolga al teste domande e richieste di chiarimenti e il giudice può farlo anche di propria iniziativa (art. 253 c.p.c.). Di solito l'ascolto dei testimoni avviene separatamente, e solo in via eccezionale può essere disposto il confronto di più testi (ad esempio, perché le versioni date sono completamente differenti). L’attività più difficile consiste nella traduzione di ciò che il testimone riferisce oralmente in un testo scritto che figura nel verbale di udienza e che costituirà l'unica traccia storica della deposizione (in quanto spesso i testimoni riportano i fatti non in modo ordinato). La testimonianza non è sempre efficace o decisiva: il giudice deve valutarne liberamente l'esito. Può anche accadere che di fronte a testimonianze discordanti, il giudice ritenga di non aver raggiunto alcuna prova: con la conseguenza che la parte su cui ricadeva l'onere di provare un dato fatto sopporterà le relative conseguenze. 45. La consulenza tecnica. Gli altri mezzi di prova costituendi. LA CONSULENZA TECNICA Spesso nel processo po' essere necessario accertare fatti di notevole complessità tecnico- scientifica, in ambiti in cui il giudice non è in grado di avere conoscenze approfondite (quali potrebbero essere la medicina, l'ingegneria, la contabilità). Il codice di procedura civile pertanto prevede la possibilità per il giudice di farsi assistere da un consulente tecnico d'ufficio (CTU — così denominato perché chiamato d'ufficio dal giudice). Il consulente tecnico d'ufficio: — èuntecnico esperto in una data materia, scelto in appositi albi; — èun ausiliario del giudice, che quindi opera sotto il controllo del giudice e deve rendere conto a questi della sua attività; — deve essere imparziale. L'art 62 c.p.c. stabilisce che il consulente esegue le indagini che gli sono affidate dal giudice sui fatti della causa e fornisce in udienza gli opportuni chiarimenti, rispondendo alle specifiche domande tecniche poste dal giudice. L'art 63 c.p.c. precisa che il consulente scelto tra quelli iscritti in un albo ha l'obbligo di prestare il suo servizio, tranne nel caso in cui il giudice riconosca che ricorre un giusto motivo di astensione. Il consulente può essere ricusato dalle parti per i motivi indicati dall'art. 51 c.p.c. Quanto alla sua responsabilità, l'art. 64 c.p.c. prevede che si applicano le disposizioni del codice penale relativo ai periti. Non vi è dubbio che la consulenza tecnica sia un mezzo di prova, anzi in molti casi diventa la prova decisiva. Tuttavia: ® inteoria, il giudice non è vincolato da quello che il CTU riferisce; ® nella pratica, però, egli non ha la competenza tecnica necessaria per smentire o discostarsi dall'aiuto del consulente. Si parla così di prova scientifica per intendere tutti quei casi in cui l'accertamento del fatto è possibile attraverso un particolare tipo di indagine che richiede una competenza tecnico-scientifica specifica. La giurisprudenza distingue tra: 1. Consulenza tecnica PERCIPIENTE_ il CTU, avrebbe il compito di far emergere fatti rilevabili solo con il ricorso a determinate conoscenze tecniche, e sarebbe quindi mezzo di prova; L’ISPEZIONE Una delle prove più efficaci — anche se non sempre realizzabile — è quella de/ contatto visivo tra il giudice e i luoghi/persone/cose a cui si riferisce la controversia: questo contatto prende il nome di ispezione, che può essere: — reale,se riferita a luoghi, cose; — personale, se riferita a persone (da realizzare attraverso opportune cautele in modo da garantire il rispetto della persona). In base all'art. 118 c.p.c. il giudice può ordinare alle parti e ai terzi di consentire sulla loro persona o sulle cose in loro possesso le ispezioni che appaiano indispensabili per conoscere i fatti della causa, purchè ciò possa compiersi: e senzagrave danno per la parte o per il terzo; e senzacostringerli a violare uno dei segreti tutelati nel codice di procedura penale agli artt. 351 e 352. Se la parte rifiuta di eseguire l'ordine senza giusto motivo, il giudice può da questo rifiuto desumere argomenti di prova; se invece il rifiuto viene dal terzo, questo può solo essere condannato ad una pena pecuniaria. Il codice regola le modalità di svolgimento dell'ispezione agli art. 258-262. L’art.258 c.p.c. sancisce che l'ispezione di luoghi, persone o cose è disposta dal giudice istruttore, il quale fissa iltempo, il luogo e il modo dell’ispezione. L’art. 259 c.p.c. stabilisce che all’ispezione procede personalmente il giudice istruttore, assistito — quando occorre — da un consulente tecnico, anche se l'ispezione deve svolgersi fuori dalla circoscrizione del tribunale. Tuttavia se esigenze di servizio non gli consentono di allontanarsi dalla sede, sarà tenuto a delegare tale compito al giudice istruttore del luogo. L’art. 260 c.p.c. sancisce che il giudice istruttore può astenersi dal partecipare all’ispezione corporale e affidarla al consulente tecnico. L’art. 262 c.p.c. dispone che il giudice può ordinare che siano eseguiti rilievi, calchi e riproduzioni — anche fotografiche — di oggetti/documenti/luoghi e, quando occorre riprese video. Inoltre, per accertare se un fatto sia o possa essersi verificato in un dato modo, il giudice può ordinare l'esperimento (giudiziale). A differenza dell’ispezione — che si limita a descrivere staticamente lo status attuale di una cosa/persona/luogo — l'esperimento è una ricostruzione dinamica di un avvenimento (effettuato allo scopo di stabilire come esso si sia svolto). Durante l'ispezione o l'esperimento, il giudice può: — sentire testimoni per informazioni; — darei provvedimenti necessari per l'esibizione della cosa o per accedere alla località; — disporre l'accesso in luoghi appartenenti a terzi, dopo averli sentiti e prendendo in ogni caso le cautele necessarie alla tutela dei loro interessi. L'ESIBIZIONE Molto comune e realizzabile è l'esibizione, mezzo istruttorio che serve ad acquisire al processo materiale documentale. L'art. 210 c.p.c. sancisce che negli stessi limiti entro i quali può essere ordinata l’ispezione di cose in possesso di una parte o di un terzo (art. 118 c.p.c.), il giudice — su istanza di parte — può ordinare all'altra parte o a un terzo di esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l'acquisizione al processo. Nell'ordinare l'esibizione, il giudice fissa il tempo, luogo, modo dell'esibizione. In tal caso, è opportuno analizzare 2 punti delicati di questo mezzo di prova (che emergono anche nell’ispezione): 1. il primo visto dal lato della parte che chiede l'esibizione — riguarda l'effettività della prova, dato che la controparte o i terzi potrebbero ostacolare l'acquisizione al processo del materiale richiesto. Il nostro c.p.c. fornisce una protezione alle situazioni di segreto professionale, d’ufficio e di stato — rispettivamente artt. 200, 201 e 202. In particolare, queste norme coprono molte situazioni ed esonerano dal deporre — in qualità di testimoni — coloro che abbiano conosciuto i fatti per ragioni del loro ufficio (si pensi a ministri del culto, avvocati, notai, medici); 2. ilsecondo visto dal lato del soggetto a cui viene richiesto di produrre i documenti, è quello del rispetto dei diritti del terzo con riguardo soprattutto alla riservatezza (professionale, commerciale). Infatti, l'art 211 c.p.c. prevede che quando l'esibizione è ordinata ad un terzo, il giudice deve cercare di conciliare — nel miglior modo - l'interesse della giustizia con i diritti del terzo, tanto che prima di ordinare l'esibizione può disporre che il terzo sia citato in giudizio, assegnando alla parte istante un termine per provvedervi. Il terzo può sempre fare opposizione contro l'ordinanza di esibizione, intervenendo nel giudizio prima della scadenza del termine assegnatogli. Un'altra limitazione è dettata dall'art. 2711 c.c. secondo cui il giudice può ordinare la comunicazione integrale dei libri, delle scritture contabili e della corrispondenza dell'imprenditore solo nelle controversie relative allo scioglimento della società, alla comunione dei beni e alla successione per causa di morte. Negli altri casi il giudice, d’ufficio, può ordinare l'esibizione dei libri solo per estrarre le registrazioni riguardanti la controversia e può ordinare l’esibizione di singole scritture contabili, telegrammi, fatture sempre relative alla causa. In sostituzione dell'originale, possono essere esibite copie o estratti. Oggi si può disporre della documentazione riprodotta su supporto informatico. LA RICHIESTA DI INFORMAZIONI ALLA PA Altro mezzo istruttorio è la richiesta d'informazioni alla P.A. Essa è regolata dall'art. 213 c.p.c., secondo cui il giudice può sempre richiedere anche d'ufficio che la P.A. — intesa in senso ampio — fornisca informazioni scritte relative ad atti e documenti appartenenti all'amministrazione interessata, che è necessario acquisire al processo. 46. La confessione e il giuramento. LA CONFESSIONE E | SUOI EFFETTI La confessione secondo l'art 2730 c.c. è /a dichiarazione che una parte fa della verità dei fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all'altra parte, è: — Giudiziale quando è resa davanti al giudice; — Stragiu La confessione forma piena prova contro colui che l'ha fatta, purchè non verta su fatti relativi a ale quando è effettuata al di fuori del processo. diritti non disponibili. L'ordinamento non si occupa di stabilire se ciò che la parte ha dichiarato — in senso a sé sfavorevole — sia oggettivamente vero, ma ne fa la base per un accertamento di rapporti, che: e la parte dichiarante non può contestare in quanto provenienti da essa stessa; ® lacontroparte non può negare, dato che non ne avrebbe interesse. Ne consegue che le dichiarazioni confessorie risultano avere un'efficacia molto forte: costituiscono infatti prove legali, nel senso che il giudice è vincolato a ritenerle vere senza poterle valutare con il suo apprezzamento (art. 2733 c.c.). Dato che la confessione è un atto dispositivo — ex art. 2731 c.c.— per essere efficace deve: ® provenire da chi è capace di disporre del diritto; ® riguardare diritti disponibili; ® essere effettuata con volontà libera (pertanto se inficiata da errore di fatto o violenza, può essere revocata). La confessione — anche se compiuta nel processo — ha un valore negoziale e la si definisce negozio processuale. A differenza della confessione giudiziale, quella stragiudiziale deve essere introdotta nel giudizio attraverso un altro mezzo di prova: un documento o una testimonianza. In questo caso, l'art. 2735 c.c. prevede delle cautele: — mentre la confessione stragiudiziale fatta alla parte o a chi la rappresenta ha la stessa efficacia probatoria di quella giudiziale (anche se occorre darne prova), la confessione fatta ad un terzo o contenuta in un testamento è liberamente apprezzata dal giudice; — laconfessione stragiudiziale non può provarsi per testimoni se verte su un oggetto per il quale la prova testimoniale non è ammessa dalla legge. LA CONFESSIONE GIUDIZIALE E L’INTERROGATORIO FORMALE L’art. 228 c.p.c. stabilisce che la confessione giudiziale può essere spontanea o prodotta mediante interrogatorio formale. 1. Confessione Spontanea_ può essere contenuta in un qualsiasi atto processuale, purchè firmato dalla parte personalmente, o può avvenire in udienza (art. 229c.p.c.). Solitamente, però è una delle parti che cerca di stimolare la confessione della controparte mediante il c.d. interrogatorio formale; 2. Confessione prodotta attraverso Interrogatorio formale _a differenza dell'interrogatorio libero, con cui il giudice ottiene un diretto colloquio con le parti e che oltre a favorire la conciliazione, serve a migliorare la comprensione della controversia, l'interrogatorio formale è il mezzo con cui una parte sottopone all'altra veri quesiti, stimolandone la conferma o la negazione. L’art. 230 c.p.c. stabilisce che l'interrogatorio formale deve essere dedotto per articoli separati e specifici. Il giudice istruttore procede all'assunzione dell'interrogatorio nei modi e termini stabiliti nell'ordinanza che lo ammette. riferito (art. 239 c.p.c.). Tuttavia, se il giudice ritiene giustificata la mancata comparizione della parte che deve prestare il giuramento, può disporne l'assunzione anche al difuori della sede giudiziaria. ASSUNZIONE DEL GIURAMENTO L’art. 233 c.p.c. sancisce che il giuramento decisorio — data la sua natura dispositiva del diritto — pur avendo efficacia probatoria, è sottratto alla disciplina delle preclusioni e può essere deferito in qualunque stato della causa davanti al giudice, con dichiarazione fatta all'udienza dalla parte o dal procuratore munito di mandato speciale o con atto sottoscritto dalla parte. Spetta al giudice dirimere le contestazioni sull'ammissibilità del giuramento (esempio, perchè deferito su fatti estranei all'ambito dell'art. 2736 c.c.) e l'ordinanza ammissiva è notificata alla parte personalmente. Deferire il giuramento significa invitare la controparte a giurare sulla verità di un dato fatto, la cui dimensione è formulata in articoli separati. La parte che deferisce il giuramento afferma un fatto e sfida l'altra parte a negarlo con la formula "giuro, e giurando nego che...". Finché non abbia dichiarato di essere pronta a giurare, la parte a cui il giuramento è deferito può a sua volta deferirlo alla controparte (art. 234 c.p.c. — si parla di giuramento riferito) e nessuna delle due può revocare il giuramento se l'altra si è dichiarata pronta a prestarlo (art. 235 c.p.c.) a meno che il giudice modifichi la formula di giuramento che è stata proposta (art. 236 c.p.c.). Queste disposizioni sono molto lontane dalla moderna giustizia civile. Oggi, dopo l'intervento della Corte Costituzionale, il giuramento perdendo ogni connotazione religiosa si riduce ad una solenne dichiarazione personale, effettuata dalla parte dinanzi al giudice (art. 238 c.p.c.) la cui falsità può avere conseguenze penali — ciò ha però reso tale istituto inopportuno e poco utilizzato. Quanto al giuramento suppletorio, l'art. 240 c.p.c. si limita a riservarne il deferimento al collegio, quando la causa deve essere trattata in composizione collegiale. È proprio perchè deferito d'ufficio e utile a confermare il convincimento già in parte acquisito, il giuramento suppletorio non può essere riferito all'altra parte. Quanto al giuramento estimatorio, l'art 241 c.p.c. precisa che può essere deferito dal collegio a una delle parti, soltanto se non è possibile accertare altrimenti il valore della cosa. In questo caso il collegio deve anche determinare la somma fino a concorrenza della quale il giuramento avrà efficacia. 47. Le prove documentali. ASPETTI GENERALI DELLA PROVA DOCUMENTALE La nozione di documento comprende ogni forma di rappresentazione materiale della realtà. AI classico documento scritto — si pensi ad un contratto, lettera, atto amministrativo — si aggiungono il documento fotografico, quello informatico ed ogni altra possibilità che la tecnica moderna consenta di realizzare. Il diritto sostanziale assegna al documento un valore di credibilità maggiore rispetto alla oralità. Vi sono casi in cui determinati rapporti: — sono validi solo se attuati attraverso modalità documentali (esempio, i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili). In queste ipotesi, la forma scritta è un requisito di validità dell’atto (ad substantiam); pertanto la prova del rapporto può essere data solo attraverso un documento dato che senza lo scritto l’atto è invalido. — possono essere provati solo per iscritto (esempio, la transazione). In tale ipotesi, la forma scritta non è un requisito di validità dell'atto ma è una condizione essenziale per poterne dimostrare l'esistenza (ad probationem). L’ATTO PUBBLICO E LA SCRITTURA PRIVATA L'ordinamento attribuisce a determinate prove documentali — precisamente l'atto pubblico e la scrittura privata — l'efficacia di prova legale, in quanto le modalità di formazione di tali documenti portano ad attribuirgli una forte credibilità. 1. L'atto pubblico: — viene definito dall'art. 2699 c.c. come il documento redatto — attraverso formalità richieste — da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato. — aisensi dell'art. 2700 c.c. fa’ piena prova — fino a querela di falso: = della provenienza del documento (in quanto si tratta di un atto formato da un pubblico ufficiale); = delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. Ovviamente non fa piena prova della veridicità delle affermazioni delle parti (in quanto ad esempio le parti possono aver fatto credere che si trattasse di una compravendita quando in realtà era una donazione). Perciò contro le risultanze di un atto pubblico è possibile esperire un'azione di simulazione — assoluta o relativa — senza che il giudice sia obbligato a ritenere vero ciò che le parti hanno dichiarato nell'atto. Può accadere che una parte individui nell'atto circostanze non rispondenti al vero (ad esempio, la data indicata è diversa). Se la contestazione riguarda aspetti che fanno piena prova, si rende necessario richiedere l'intervento dell'autorità giurisdizionale, che deve accertare la falsità della circostanza. Pertanto occorre instaurare un apposito procedimento, che prende il nome di querela di falso. — Rappresenta una prova legale, pertanto il giudice ne è vincolato, e non può discostarsi in base al suo libero convincimento. 2. La scrittura privata: — èogniatto formato e proveniente da un soggetto privato; — èunacategoria molto ampia che comprende ad esempio i contratti che non vengono stipulati dinanzi ad un pubblico ufficiale. — comedispone l'art. 2702 c.c. fa’ piena prova — fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritta, in due casi: se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione; Il riconoscimento della sottoscrizione nel processo può avvenire in vari modi: — Esplicito: quando la parte produce la scrittura, affermandola come propria; — Implicito: ciò accade quando l'altra parte produce in giudizio la scrittura e la parte, a cui la provenienza della scrittura è attribuita, non la disconosce. A tal proposito, l'art. 214 c.p.c. stabilisce che colui contro il quale è prodotta una scrittura privata, se intende disconoscerla, è tenuto a negare formalmente la propria scrittura o la propria sottoscrizione (mentre gli eredi o aventi causa possono limitarsi a dichiarare di non conoscere la scrittura o la sottoscrizione del loro dante causa). È opportuno precisare che il disconoscimento deve avvenire non appena la parte ha potuto esaminare la scrittura e quindi la parte comparsa deve effettuare il disconoscimento nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione. se questa è legalmente considerata come riconosciuta. Si considera riconosciuta la sottoscrizione autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato a ciò. L'autenticazione consiste nell'attestazione da parte del pubblico ufficiale che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza. Il pubblico ufficiale deve — prima della sottoscrizione — accertare l'identità della persona. Il documento formato da un pubblico ufficiale incompetente o incapace ovvero senza osservare le formalità prescritte, se è stato sottoscritto dalle parti, ha la stessa efficacia probatoria della scrittura privata. In questo caso, l'efficacia probatoria riguarda la provenienza della scrittura dall'autore e non il suo contenuto. fa’ piena prova della provenienza del suo autore — oltre alle ipotesi in cui è riconosciuta o autenticata — anche quando è verificata giudizialmente. l'art. 2704 c.c. disciplina l'efficacia nei confronti dei terzi delle scritture private non autenticate. In molte situazioni, l'efficacia o l'esistenza di un diritto dipende dalla collocazione temporale di una data scrittura; pertanto: se la sottoscrizione è autenticata, si presume che data dell'autenticazione e data del documento coincidano; se la sottoscrizione non è autenticata, la data non potrà essere ritenuta efficace/certa. In particolare, la data della scrittura non autentica è certa solo in presenza di alcuni fattori esterni, ossia dal giorno: in cui la scrittura è stata registrata; Per stabilire se una data sottoscrizione provenga dal soggetto — vivente o defunto — a cui è attribuita, si mette a confronto la scrittura contestata con altre scritture (cd. scritture di comparazione) che la parte istante ha l'onere di fornire. L’art. 219 c.p.c. sancisce che il giudice può ordinare alla parte — che ha disconosciuto la scrittura privata — di scrivere sotto dettatura, anche alla presenza di un consulente tecnico, allo scopo di svolgere una perizia calligrafica. Se la parte invitata a comparire personalmente non si presenta o si rifiuta di scrivere senza giustificato motivo, la scrittura si può ritenere riconosciuta. ALTRE DISPOSIZIONI IN TEMA DI PROVA SCRITTA: IL DOCUMENTO INFORMATICO Oltre alla scrittura privata e all'atto pubblico, rientrano nel concetto di “prova scritta” altri tipi di documenti, la cui efficacia nel processo è subordinata a quanto stabilito dal codice civile: 1. telegrammi (art. 2705-2706 c.c.); 2. carte e registri domestici (art. 2707 c.c.); 3. tacche di contrassegno (art. 2713 c.c.), ormai tutte di rara applicazione. Resta rilevante l'art. 2712 c.c. rubricato “riproduzioni meccaniche”, il quale si riferisce a ogni rappresentazione meccanica di fatti e cose: quindi fotocopie, fotografie, riproduzioni informatiche o cinematografiche, registrazioni fonografiche. Tutte queste fanno piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità/validità. Ne deriva che anche le copie fotografiche di scritture hanno la stessa efficacia di quelle autentiche, se la loro conformità con l'originale è attestata da un pubblico ufficiale competente o non è espressamente disconosciuta. Sono di interesse anche le disposizioni che si riferiscono alle scritture contabili obbligatorie degli imprenditori. In sintesi, gli artt. 2709 e 2710 c.c. prevedono che: — le scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l'imprenditore, ma chi se ne avvale non può scindere il contenuto; — le scritture regolarmente tenute possono far prova tra imprenditori per i rapporti interni all'esercizio dell'impresa (in quanto vi dovrebbe essere corrispondenza fra le reciproche scritture). Il documento informatico è definito come ogni atto e documento formato con strumenti informatici o telematici o come ogni contratto stipulato nelle medesime forme. Il documento informatico sottoscritto con firma digitale, redatto in conformità alle regole tecniche, soddisfa, a seconda delle modalità di certificazione, il requisito legale della forma scritta e ha efficacia probatoria ai sensi dell'art. 2712 c.c. o di scrittura privata ai sensi dell'art. 2702. 48. Le modalità dell'intervento dei terzi. La riunione di cause. LE FORME DELL’INTERVENTO VOLONTARIO L’intervento è il fenomeno attraverso il quale, il c.d. terzo interveniente subentra in un processo già pendente tra le parti processuali, acquistando così egli stesso la qualifica giuridica di “parte”. L’intervento può classificarsi in: ® Intervento Coatto_in tal caso il terzo — a prescindere dalla sua volontà — subentra nel processo su istanza di una delle parti già in causa o previa determinazione del giudice; ® Intervento Volontario__in tal caso il terzo subentra nel processo pendente spontaneamente. Tale forma di intervento a sua volta si distingue in: 1. Intervento Principale (o autonomo), si ha quando il terzo interviene al fine di contrastare o per far escludere i diritti fatti valere da entrambe le parti in lite; 2. Intervento Litisconsortile (o adesivo autonomo), si ha quando il terzo vuole far valere un diritto autonomo, ma che lo pone in una posizione uguale o parallela a quella di una delle parti; 3. Intervento Semplice (o adesivo dipendente), si ha quando il terzo interviene al fine di sostenere le ragioni di una delle parti in causa, per un proprio interesse. L’interveniente volontario, si presenta in un processo già formato, perciò si comporta come il convenuto: nel senso che si costituisce presentando in udienza o depositando in cancelleria una comparsa (formata nel rispetto dell'art. 167 c.p.c.), con le copie per le altre parti, i documenti e la procura. Il cancelliere dà notizia dell'intervento alle parti, se la costituzione del terzo non è avvenuta in udienza (art. 267 c.p.c.). Occorre precisare che quella presentata dall'interveniente volontario (principale, adesivo autonomo o adesivo dipendente) è sì una comparsa, ma non una comparsa di risposta. Il suo contenuto dipende dalla posizione che il terzo assume. Quanto ai termini per l'intervento, l'art. 268 c.p.c. sancisce che l'intervento può avvenire fin quando non vengono precisate le conclusioni. Tuttavia, il terzo non può compiere atti che — nel momento dell'intervento — non sono più consentiti a nessuna altra parte, salvo che compaia volontariamente per l'integrazione necessaria del contraddittorio (che è una fattispecie totalmente diversa). Il terzo non è obbligato a partecipare ad un giudizio, in quanto può — se titolare di un diritto — instaurarne uno autonomo, per tale ragione quest’ultim — deve accettare il processo in statu ac terminis (cioè nella situazione in cui si trova); — non gode di maggiori diritti rispetto alle parti originarie. LE REGOLE PROCESSUALI PER LA CHIAMATA IN CAUSA DI TERZI Come già accennato il terzo — oltre che spontaneamente — può intervenire in un giudizio già instaurato su istanza di parte o per ordine del giudice. L'art. 269 c.p.c. stabilisce che il convenuto che intenda chiamare un terzo in causa deve — a pena di decadenza — farne dichiarazione nella comparsa di risposta e al contempo chiedere al giudice lo spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini di cui all'art. 163-bis c.p.c. (alterzo va lasciato un termine a difesa uguale a quello del convenuto). Il giudice istruttore entro 5 giorni dalla richiesta, provvede con decreto a fissare la data della nuova udienza. Il decreto è comunicato dal cancelliere alle parti costituite. La citazione è notificata al terzo a cura del convenuto. Si discute se il giudice abbia o no il potere di escludere la chiamata del terzo: si pensi al caso in cui il convenuto chieda di chiamare un terzo totalmente estraneo alla controversia. In realtà, in questa fase del processo, il giudice non ha alcun potere di verifica preventiva: può e deve solo fissare la nuova udienza, altrimenti si rischierebbe di ledere il diritto di difesa e del giusto processo. L'atto di citazione per chiamata del terzo deve essere strutturato in modo da informare il terzo di tutto ciò che è accaduto fino a quel momento, cioè: — della domanda dell'attore; — della difesa del convenuto; — del provvedimento del giudice. La editio actionis, insomma deve far comprendere al terzo con chiarezza perchè viene coinvolto nella controversia: nella prassi si usa riportare integralmente i testi dell'atto di citazione e quello della comparsa di costituzione e risposta. Per quanto riguarda la vocatio in ius — come per l'atto di citazione — ilterzo è chiamato a difendersi ad una udienza, che non è stabilita in modo autonomo dall'attore, ma è quella che il giudice ha fissato nel suo decreto. Tra la notificazione dell'atto di chiamata e l'udienza deve trascorrere un termine uguale a quello dell'art. 163-bis c.c., e quindi non meno di 90 giorni. Il terzo chiamato deve costituirsi con le stesse modalità del convenuto rispetto alla citazione ricevuta dall'attore: presenta quindi una comparsa di costituzione entro i 20 giorni anteriori all'udienza, con gli stessi oneri e poteri del convenuto per quanto concerne le eccezioni da sollevare a pena di decadenza (art. 271 c.p.c.). Ne consegue che il terzo può, a sua volta: — presentare una domanda riconvenzionale contro il convenuto; — proporre la chiamata a rilievo di un altro soggetto. Solitamente la chiamata del terzo avviene per iniziativa del convenuto, ma talvolta può essere anche l’attore a richiederla. Ciò può accadere nell'ipotesi convenuto inducono l'attore ad ampliare soggettivamente la propria domanda nei confronti di un terzo. L'art. 269 c.p.c. prende in considerazione questa possibilità, e prevede che l'attore — a pena causa comune, quando le difese del di decadenza — può avanzare la richiesta di chiamata del terzo nella prima udienza di trattazione. In questo caso, però, il ruolo del giudice è diverso, dato che l'attore non chiama direttamente il terzo, ma chiede in prima udienza al giudice l'autorizzazione a chiamarlo. Il giudice quindi potrebbe non concedere questa autorizzazione quando risultano insussistenti i presupposti sostanziali della partecipazione del terzo. La ragionevole durata del processo non è violata in quanto, se l'autorizzazione è negata, l'attore potrà comunque sempre citare il terzo (come convenuto) in un giudizio autonomo e puntare poi alla riunione dei processi. Se invece l'autorizzazione è concessa, il giudice fissa una nuova udienza per consentire la citazione del terzo, la quale è notificata allo stesso — a cura dell'attore — entro il termine perentorio stabilito dal giudice. Le due non identiche modalità di chiamata del terzo si ripercuotono sulle attività da svolgere in prima udienza: 1. Chiamata del terzo da parte del convenuto: nulla cambia, se non la data in cui si svolge l'udienza; Codice del Consuma, bensì dal c.p.c. all’interno del quale è stato introdotto il Titolo VIII-bis del Libro Quarto (in materia di azione di classe). La domanda per l’azione di classe — artt. 840-bis e ss. c.p.c. — si propone con ricorso (non più con citazione) esclusivamente davanti alla sezione specializzata del Tribunale in materia d'impresa, competente per il luogo in cui ha sede la parte resistente. Se però la domanda si fonda sulla violazione della normativa antitrust, la competenza è attribuita a una delle 3 sezioni specializzate individuate dal d.lgs. n.3/2017, cioè quelle presso i Tribunali di Milano, Roma e Napoli. Il ricorso, insieme al decreto del Tribunale che fissa la prima udienza, è notificato alla controparte ed è pubblicato — dalla cancelleria entro 10 giorni dal deposito — nel portale dei servizi telematici gestito dal Ministro della giustizia al fine di consentire agli interessati di valutare l'eventuale convenienza dell'adesione. Il procedimento è regolato dal rito c.d. sommario di cognizione — senza possibilità di passaggio al rito ordinario — ed è deciso con sentenza. Il Tribunale tratta la causa in composizione collegiale e non è più previsto l'intervento facoltativo del P.M. LE DUE FASI DEL GIUDIZIO Il giudizio si articola in 2 fasi: 1. sull'ammissibilità della domanda__ il Tribunale, entro il termine di 30 giorni dalla prima udienza, decide con ordinanza sull'ammissibilità della domanda, ma può sospendere il giudizio quando sui fatti rilevanti alla decisione è in corso un'istruttoria davanti ad una autorità indipendente ovvero un giudizio davanti al giudice amministrativo. L’ordinanza che decide sull’ammissibilità è pubblicata sul portale dei servizi telematici entro 15 giorni dalla pronuncia. La domanda è dichiarata inammissibile, quando: — è manifestamente infondata; — sussiste un conflitto di interessi; — ilgiudice non ravvisa l'omogeneità dei diritti individuali tutelabili; — il proponente non appare in grado di curare l'interesse della classe. L'ordinanza che decide sull'ammissibilità è reclamabile davanti alla Corte d'Appello nel termine perentorio di 30 giorni dalla sua comunicazione o notificazione, se anteriore. Sul reclamo la Corte d'Appello decide con ordinanza in camera di consiglio, non oltre 40 giorni dal deposito del ricorso. Il reclamo dell'ordinanza ammissiva non sospende il procedimento davanti al tribunale. 2. sulmerito_ una volta dichiarata l'ammissibilità dell’azione, inizia il giudizio sul merito. Il Tribunale: — omettendo ogni formalità non essenziale al contraddittorio procede — nel modo che ritiene più opportuno — agli atti di istruzione probatoria rilevanti; — quando è nominato un consulente tecnico d'ufficio, pone a carico del convenuto l’anticipazione delle spese e dell'acconto sul compenso di quest’ultimo; — perl’accertamento della responsabilità del resistente, potrà avvalersi di dati statistici e di presunzioni semplici; — su istanza motivata del ricorrente potrà ordinare al resistente di esibire documenti/prove rilevanti che rientrano nella sua disponibilità (in caso di inottemperanza può ritenere provato il fatto a cui la prova si riferisce). LA DECISIONE E I SUOI EFFETTI Il Tribunale accoglie o rigetta nel merito la domanda con sentenza che sarà pubblicata nell’area pubblica del portale dei servizi telematici entro 15 giorni dal deposito. Il rigetto della domanda impedisce nuove azioni di classe, sui medesimi fatti, contro la stessa parte. Se, invece, la domanda viene accolta il Tribunale è tenuto a compiere una serie di attività essenziali: — quando l’azione è stata proposta da un soggetto diverso da un’organizzazione o da un'associazione, decide nel merito delle domande risarcitorie o restitutorie proposte dal ricorrente; — accerta quale lesione è stata recata ai singoli componenti (della classe) dal resistente attraverso la condotta contestata dal ricorrente e stabilisce i requisiti che devono sussistere affinché un soggetto possa ritenersi incluso nella classe; — indica, inoltre, la documentazione che dovrà essere eventualmente prodotta per fornire prova della titolarità dei diritti individuali omogenei; — apre la procedura di adesione: i componenti della classe che non abbiano ancora aderito durante il giudizio possono farlo in questo momento e chi ha già espresso la propria adesione può integrare e completare la documentazione necessaria. La procedura di adesione è regolata in modo molto severo: viene nominato un giudice delegato tenuto a gestirla e agli aderenti è indicato un rappresentante comune, che ha il ruolo di pubblico ufficiale. L'adesione all’azione di classe viene attuata attraverso una domanda - inserita nel fascicolo telematico della procedura — che ha gli effetti di una vera e propria domanda giudiziale (compresa, quindi l'interruzione della prescrizione). In particolare la domanda deve contenere: ® l’indicazione del Tribunale e i dati relativi all’azione di classe a cui il soggetto chiede di aderire; ® i dati identificativi dell’aderente; ® l’indirizzo di peco il servizio elettronico di recapito certificato qualificato; ® il petitum (vale a dire la determinazione della cosa oggetto della domanda); ® la causa petendi (ossia l'esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda di adesione); ® l’indice dei documenti probatori eventualmente prodotti; ® l’attestazione dei dati e dei fatti esposti nella domanda e nei documenti prodotti; e il conferimento al rappresentante comune degli aderenti del potere di rappresentanza; e idati necessari per l'accredito delle somme che verranno eventualmente riconosciute; ® la dichiarazione di aver provveduto al versamento del fondo spese. Non è necessaria l’assistenza di un difensore. Il resistente: e scaduto iltermine per la presentazione delle domande di adesione, deposita — entro i successivi 120 giorni — una memoria difensiva, in cui prende posizione non sulla sussistenza della responsabilità (la quale è già stata accertata) ma sulla sussistenza dei requisiti in capo a ciascuno dei singoli aderenti; e hal’onere di proporre tutte e eccezioni relative ai diritti fatti valere dai singoli aderenti. Il rappresentante comune degli aderenti — lette le osservazioni del resistente — presenta un progetto comune, specificando chi sono gli aderenti legittimati e quale risarcimento spetta a ciascuno. Infine il giudice delegato con decreto motivato che costituisce titolo esecutivo — condanna il resistente al pagamento: e diquanto dovuto ad ogni singolo aderente; e delrappresentante comune degli aderenti; e deidifensori del soggetto ricorrente. LE IMPUGNAZIONI La sentenza che decide sulla sussistenza o no della responsabilità del resistente può essere impugnata nelle forme ordinare entro il lungo termine previsto dall’art. 327 c.p.c., sia dal resistente sia da chi ha proposto l’azione di classe — ma non dai singoli aderenti (i quali, nei casi previsti dall’art. 395 c.p.c., possono esperire solo la revocazione ordinaria o straordinaria). Può essere impugnato anche il decreto pronunciato al termine della fase di adesione, sia da parte del resistente sia da parte del rappresentante comune degli aderenti - ma non dai singoli aderenti, i quali possono revocare l'adesione fin quando il decreto non diviene definitivo. L’impugnazione si propone con ricorso dinanzi al Tribunale competente — ossia quello che ha pronunciato sull'azione di classe. Il ricorso non sospende l’esecuzione del decreto — a meno che il tribunale non decida diversamente, su istanza di parte, in presenza di gravi e fondati motivi. 50. La fase decisoria del processo. Le difese finali. L’UDIENZA DI PRECISAZIONE DELLE CONCLUSIONI Quando la fase di trattazione si esaurisce, il giudice fissa l'udienza di precisazione delle conclusioni. Le norme che disciplinano questi aspetti sono: ® l’art. 188 c.p.c., il quale stabilisce che il giudice provvede all'assunzione dei mezzi di prova; ® l’art. 189 c.p.c., secondo il quale il giudice quando tutte le attività dirette ad accertare i fatti si sono compiute — cioè esaurita l'istruzione — invita le parti a precisare le conclusioni, ossia ad indicare definitivamente le domande con cui si presentano alla decisione. Con la precisazione delle conclusioni termina la trattazione. È opportuno sottolineare che la precisazione delle conclusioni può avvenire in un’udienza fissata appositamente, ma anche in un’udienza fissata per altri motivi, come risulta dall’art. 80-bis c.p.c. dunque, il giudice istruttore, se ritiene di seguire il percorso della trattazione orale, può rimettere la causa al collegio in un’udienza per la precisazione delle conclusioni e la discussione. La discussione orale comporta alcune differenze rispetto alle difese scritte, infatti gli avvocati hanno meno tempo a disposizione e devono concentrarsi solo sui punti essenziali della controversia. D'altronde il dibattito orale si svolge dinanzi ad un giudice che conosce la causa ed al quale non va ripetuto ciò che risulta chiaramente dagli atti scritti. Al momento della decisione emergono eventuali errori nell’assegnazione di una certa causa al giudice monocratico anziché al collegio (o viceversa). L’art. 281 septies c.p.c. sancisce che il collegio, quando rileva che una causa rimessa davanti ad esso deve essere decisa in composizione monocratica, rimette la causa dinanzi al giudice istruttore con ordinanza non impugnabile. L’art. 281 octies c.p.c. stabilisce che il giudice, quando rileva che una causa ad esso riservata, deve essere decisa dal tribunale in composizione collegiale, provvede a rimettere il giudizio davanti al collegio. L’art. 281 novies c.p.c. infine, regola il caso di connessione tra cause che devono essere decise dal tribunale in composizione collegiale e cause che devono essere decise in composizione monocratica, e in questa ipotesi il giudice istruttore ne ordina la riunione e — all'esito dell’istruttoria — le rimette al collegio, il quale pronuncia su tutte le domande a meno che disponga la separazione. Infine l’art. 50 quater, precisa che l'inosservanza delle disposizioni sulla ripartizione di attribuzioni tra tribunale collegiale e monocratico dà luogo a nullità, che può costituire motivo d’impugnazione della sentenza, ma che è coperta da giudicato. 51. La fase decisoria del processo. La deliberazione. IL SILLOGISMO GIUDIZIALE. LA DECISIONE SECONDO DIRITTO L’ art. 113 c.p.c. sancisce che nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme del diritto (cioè applicando la legge italiana), salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità. Lo schema attraverso il quale viene — solitamente — presa la decisione è quello del sillogismo giudiziale. Nel senso che il giudice, dopo aver esaminato e accertato i fatti, li inquadra nell’ambito di una fattispecie legale: — lanormacostituisce la premessa maggiore; — il fatto accertato costituisce la premessa minore; — il giudizio risulta dalla conclusione del sillogismo. Ad esempio, il termine per denunciare i vizi della cosa è 8 giorni dalla scoperta; l’attore ha denunciato i vizi dopo 15 giorni, pertanto la domanda dell'attore deve essere respinta. Il giudice: 1. accertaifatti attraverso ciò che è stato allegato e provato nel processo; 2. inquadra tali fatti nell’ambito di una fattispecie legale grazie alla sua conoscenza del diritto — questo esonera le parti dall’esatta individuazione della norma da applicare. Il principio del monopolio della tutela giurisdizionale attribuito alle parti: vieta al giudice di procedere d’ufficio, ma anche di basarsi su fatti che le parti hanno evitato di allegare. | fatti che scelgono invece di allegare devono essere provati, e pertanto il giudice — in forza del principio inquisitorio — entro certi limiti può svolgere delle indagini istruttorie per giungere alla verità. In ogni caso il giudice non può utilizzare ciò che conosce al di fuori del processo — vale a dire ciò che il giudice conosce non come giurista, ma come cittadino qualsiasi di media cultura — (è il divieto di utilizzare la c.d. scienza privata), a meno che non si tratti di: — fattinotori, cioè episodi storici (come l'attentato alle Torri Gemelle ebbe luogo l'11 settembre del 2001); — o massime di esperienza, ossia situazioni di carattere fisico/scientifico (come l’acqua bolle a cento gradi). Le leggi che il giudice prende in considerazione sono: la Costituzione e quelle citate dall’art. 1 delle disposizioni sulla legge in generale — ossia Leggi, Atti aventi forza di Legge, Regolamenti e Consuetudini. LA DECISIONE SECONDO EQUITÀ In via residuale il giudice ha la possibilità di decidere secondo equità. L’equità rimanda ad un sistema di valori che non è identico a quello del diritto positivo e che ad esso in parte si: 1. affianca in questo caso l'equità è una semplice integrazione della norma (ad esempio il giudice, applicando la legge, sancisce l’esistenza di un danno ma, per determinalo, si affida ad una valutazione equitativa). 2. colloca in alternativa quando è alternativa alla norma di diritto, l'equità è sostitutiva, e si colloca cioè al posto della norma (ad esempio il giudice, nonostante sia passato il termine legale, decide di consentire ad un acquirente di far valere il vizio di una cosa acquistata, in ragione al fatto che l’attore è anziano/inesperto/straniero.. Le norme che emergono sono due: ® L'art. 113 c.p.c., permette la decisione secondo equità nei casi in cui singole norme attribuiscono al giudice il relativo potere; ® L'art. 114 c.p.c., permette alle parti — in materia di diritti disponibili — di comune accordo, di chiedere al giudice di decidere secondo equità. APPLICAZIONE DEL DIRITTO EUROPEO E DEL DIRITTO STRANIERO Il giudice italiano deve conoscere ed applicare il diritto dell’Unione Europea. Infatti il principio di supremazia ed il principio di applicazione diretta del diritto europeo rendono il giudice nazionale il primo e il più comune applicatore del diritto dell’Unione Europea. Le norme europee — in particolare le disposizioni di carattere sostanziale: e sonoin molti casi direttamente applicabili negli ordinamenti giuridici degli Stati Membri; ® prevalgono rispetto ad eventuali norme nazionali difformi (quindi contrastanti). La diretta applicabilità è garantita alle: 1. norme dei trattati che riconoscono in modo immediato posizioni soggettive di vantaggio ai soggetti dell'ordinamento (si pensi alle regole sulla libera circolazione delle merci); 3. 4. norme contenute all’interno dei regolamenti (che hanno portata generale e sono direttamente applicabili in ciascun Stato Membro); decisioni; direttive, in una certa misura. Ne deriva che le regole processuali non possono essere strutturate in modo da rendere più difficile l'applicazione del diritto europeo. Dunque, la conoscenza del diritto straniero è un compito che rientra nel dovere decisorio del giudice (iura novit curia) e non è un fatto che le parti devono provare. Ciò viene sancito dalla L. n.218/1995: all’art. 14 che dispone che il giudice compie d'ufficio l'accertamento della legge straniera, potendosi avvalere di esperti o istituzioni specializzate; all’art. 15, il quale sancisce che la legge straniera viene applicata secondo i propri criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo. IL RIFERIMENTO ALLA GIURISPRUDENZA Alle fonti di origine legislativa, si affianca in modo sempre più rilevante la giurisprudenza — la quale viene ritenuta da più di un autore una fonte di fatto. IL PROVVEDIMENTO CHE DEFINISCE IL GIUDIZIO I provvedimenti attraverso i quali il giudice può definire il giudizio sono: 1. Ordinanza_ il giudice qualora dovesse individuare qualche incompletezza nella trattazione della causa (ad esempio il giudice esclude un mezzo di prova ritenendolo non rilevante, ma in seguito alla luce di un'attenta verifica ritiene di doverlo assumere) — e più in generale in tutti i casi in cui il giudice voglia disporre/ordinare la prosecuzione del giudizio — non emette una sentenza ma un'ordinanza. Infatti l'art. 279 comma 1 c.p.c. precisa che “Il giudice pronuncia ordinanza quando provvede soltanto su questioni relative all'istruzione della causa, senza definire il giudizio, nonché quando decide soltanto questioni di competenza. In tal caso, se non definisce il giudizio, impartisce con la stessa ordinanza i provvedimenti per l'ulteriore istruzione della Sentenza non definitiva_ si ha invece quando il giudice risolve una questione preliminare o pregiudiziale — di rito o di merito — che non comporta l'esaurimento della causa. In concreto il giudice pronuncia una sentenza non defi itiva quando la domanda avanzata: e serisolta negativamente, chiuderebbe il giudizio; ® maserisolta positivamente ne impone la prosecuzione. L’art. 187 commi 2 e 3 c.p.c. precisa che la materia del contendere può essere divisa solo quando la decisione separata di una questione di merito avente carattere preliminare o di questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali; può definire il giudizio. In particolare la “decisione separata” può definire il giudizio se la non sussistenza (assenza) di un presupposto o di una condizione dell’azione comporta l'impossibilità di procedere comando. Questo significa che il cittadino che agisce in base alla sentenza, agisce in conformità alla legge e in buona fede. ESECUTORIETÀ IMMEDIATA DELLA SENTENZA Secondo l’art. 282 c.p.c., la sentenza di condanna di primo grado è provvisoriamente esecutiva — a differenza del passato in cui erano esecutive solo dopo il secondo grado di giudizio. Tuttavia il legislatore ha previsto la possibilità — per la parte soccombente — di chiedere al giudice dell’impugnazione che l’esecutorietà venga sospesa fino alla conclusione del giudizio di appello (ipotesi di inibitoria). L'efficacia esecutiva è attribuita solo alle sentenze di condanna. Ne deriva che le sentenze di mero accertamento — incluse quelle che respingono nel merito una domanda di condanna — e le sentenze costitutive in senso proprio producono il proprio effetto automaticamente con la decisione (in quanto non vi è nessuna ragione di forzare la parte soccombente ad attribuire l’utilità — oggetto dell’accertamento — a chi ne ha diritto). Invece, le sentenze di condanna suppongono che il soccombente debba eseguire un'attività che — se non prestata spontaneamente — deve essere ottenuta in modo coercitivo. Gran parte della dottrina ritiene, però, che si debba estendere la provvisoria esecutorietà anche alle sentenze non di condanna, al fine di non ritardare gli effetti della sentenza al momento — spesso troppo lontano — del passaggio in giudicato. Diverso è il problema dell’esecutorietà di disposizioni di condanna accessorie ad una sentenza costitutiva o di mero accertamento: si pensi alla sentenza di primo grado che rigetta la domanda dell’attore e lo condanna a ricoprire le spese a favore del convenuto. L'orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene la clausola delle spese provvisoriamente esecutiva, e ciò è coerente con il privilegio dell’effettività delle pronunce che il legislatore ha sancito con la riforma del 1990. ESECUZIONE INDIRETTA Una delle più grandi difficoltà nell’attuazione della decisione del giudice sta nell’incoercibilità di alcuni obblighi: in particolare quelli di fare infungibile e di non fare. Il codice prevede una particolare forma di esecuzione forzata — c.d. esecuzione in forma specifica — ma alcune situazioni non riescono ad essere forzate nemmeno dall'ordinamento. Si pensi al caso in cui il pittore A, dopo aver assunto l’obbligo, si rifiuta di fare un ritratto al committente B. In questo caso nessuno sarà in grado di forzare A ad eseguire il dipinto. Così pure il problema si ripropone per le condanne inibitorie, il cui oggetto è il divieto per un soggetto di porre in essere determinati comportamenti, tuttavia nella pratica è difficile applicare questo divieto. A questo proposito sono state introdotte misure a carattere economico e sanzionatorio (dette astreintes in Francia), che se non raggiungono direttamente lo scopo, possono perlomeno indurre l’obbligato ad adeguarsi. Ad esempio — ritornando all'esempio precedente — il pittore A potrebbe essere condannato a pagare una certa somma di denaro per ogni giorno in cui ci si rifiuta di porre in essere il comportamento dovuto, fin quando questa pressione diventi economicamente insostenibile e lo induca ad adempiere. Nell'ordinamento erano già presenti alcune misure settoriali, che collegano una sanzione pecuniaria al rifiuto di adempiere. Nel 2009 è stata poi introdotta una norma generale — precisamente l'art. 614 bis c.p.c. — che nel suo testo originario era strettamente limitata al caso degli obblighi di fare infungibile e di non fare. Con la L. n.132/2015 l'applicazione di tale disposizione è stata estesa a tutte le ipotesi di pronunce di condanna, eccetto quelle che riguardano il pagamento di somme di denaro. L’art. 614-bis c.p.c. prevede che “Con il provvedimento di condanna all'adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro, il giudice — salvo che ciò sia manifestamente iniquo — su richiesta della parte (quindi è la parte a doversi attivare per domandare al giudice di condannare la controparte) fissa la somma di denaro dovuta all’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento”. “Il giudice determina l'ammontare della somma tenendo conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile”. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Quindi, l'esecuzione forzata — impossibile o comunque più difficile in via diretta — si trasforma in un’espropriazione pecuniaria. LA CORREZIONE DELLA SENTENZA L’impugnazione è un'attività della parte soccombente, volta a criticare la sentenza e a rimuoverne gli effetti. Distinta dall’impugnazione è l’ipotesi in cui la sentenza o l'ordinanza decisoria contenga non errori di diritto, ma semplici dimenticanze, omissioni, errori materiali o di calcolo, senza che ciò dipenda da una valutazione giuridica (ad esempio il giudice sbaglia in modo evidente il risultato di un’addizione o sbaglia il nome del soccombente B — correttamente indicato nelle motivazioni). In questi casi le sentenze e le ordinanze non revocabili — su ricorso di parte — possono essere corrette dallo stesso giudice che le ha pronunciate (ex art. 287 c.p.c.). Si tratta dello stesso giudice, in quanto non viene messa in discussione la valutazione in diritto. Tuttavia, se la correzione viene richiesta solo da una parte e non da tutte, il giudice convoca tutte le parti in udienza e — previo contraddittorio — decide con ordinanza, che viene annotata sull’originale del provvedimento (ex art. 288 c.p.c.). Se permane il contrasto tra le parti, vi può essere un’impugnazione relativamente alla parte di decisione corretta. 53. | provvedimenti anticipatori di condanna. L'ORDINANZA DI PAGAMENTO DI SOMME NON CONTESTATE Durante la trattazione è possibile l'emanazione di provvedimenti anticipatori di condanna. Il legislatore infatti al fine di rendere più rapido i/ conseguimento di un titolo esecutivo, ha cercato di individuare delle soluzioni alternativa (rinunciando a perseguire un pieno accertamento). All'interno del processo ordinario di cognizione, questo obiettivo viene perseguito attraverso tre istituti le cui caratteristiche comuni sono le seguenti: e dannovitaa provvedimenti provvisori, che non decidono definitivamente il merito; ® questi provvedimenti tendono a diventare esecutivi; e sono pronunciati quando non è ancora definita la fase decisoria e a volte neanche quella della trattazione. Il primo istituto è l'ordinanza di pagamento di somme non contestate disciplinato dall'art. 186-bis c.p.c. Il presupposto è che la causa riguardi un’azione di condanna, al pagamento di una somma di denaro, in particolare: — ilcomma1 sancisce che “Se il convenuto — costituito e non contumace — abbia contestato solo parzialmente la pretesa dell'attore, il giudice (su istanza dell'attore) può disporre attraverso ordinanza — fino al momento della precisazione delle conclusioni — il pagamento delle somme non contestate. In tali ipotesi ovviamente il processo continua per la parte contestata”. Tuttavia, nella prassi è frequente che il convenuto contesti tutta la pretesa dell'attore, quindi la norma è di scarsa applicazione. L'istanza della parte richiedente può essere proposta in udienza, da quella della trattazione in avanti, o fuori udienza, con atto depositato in cancelleria. L'ordinanza non ha funzione di accertamento del diritto, ma ordina solo il pagamento: quindi non passa in giudicato. Ciò costituisce un'eccezione al sistema, perchè il giudice condanna senza aver accertato. — ilcomma2 prevede che “L'ordinanza costituisce titolo esecutivo e conserva la sua efficacia in caso di estinzione del processo: quindi se il processo giunge a conclusione senza aver deciso sul merito, il titolo esecutivo rimane in essere, nonostante non vi sia stato accertamento”. La sentenza finale che riguarda tutta la materia del contendere, si sostituisce all'ordinanza, costituendo titolo esecutivo per l'intero; se però la parte oggetto dell'ordinanza è già stata pagata, l'esecuzione può riguardare solo la parte restante. L'ordinanza segue le regole previste per le ordinanze revocabili ed è quindi soggetta non solo a revisione in sede di sentenza, ma anche a revoca o modifica da parte del giudice che l'ha emessa. L'ORDINANZA - INGIUNZIONE L'ordinanza-ingiunzione è disciplinata dall'art 186-ter c.p.c. Questa fattispecie riguarda: — ilpagamento di somme; — o la consegna di cose fungibili (ipotesi in cui l'attore avrebbe potuto chiedere il decreto ingiuntivo). Qualora — cominciato un procedimento ordinario — sussistano le condizioni per cui l'attore potrebbe richiedere un provvedimento di ingiunzione secondo il rito speciale, egli può ottenere un provvedimento di condanna in forma di ordinanza. Infatti l'art 186-ter c.p.c. prevede che Nel corso del giudizio — fino all'udienza di precisazione delle conclusioni — una parte possa chiedere al giudice di pronunciare un’ordinanza con condanna al Il gruppo di ipotesi di sospensione più rilevante è quello che ruota intorno alla pregiudiz diun altro processo, che deve essere deciso da un altro giudice, rispetto al processo in corso. Ciò significa che una data questione o una data causa — necessaria per il giudice al fine di risolvere la controversia — deve essere decisa da altro giudice. Per tale ragione il processo va sospeso in attesa di questa decisione: in questo senso, si parla di causa/questione pregiudiziale e di causa pregiudicata. L'art 295 c.p.c. afferma che il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa pregiudiziale (tale norma si riferisce alle ipotesi in cui causa pregiudiziale e causa pregiudicata non possono essere riunite). Tuttavia, l'art. 295 c.p.c. non è però l'unica norma sulla sospensione per pregiudizialità: ad esempio l'art. 337 comma 2 c.p.c. “in materia di impugnazioni” prevede che quando in un processo è invocata l'autorità di una sentenza, se questa è impugnata, il giudice può — e non deve — sospendere il processo. Casi emblematici sono quelli della sospensione del processo per pregiudizialità costituzionale o europea. La pregiudizialità può, però, anche essere civile, penale, amministrativa. Alla radice della sospensione sta una esigenza di coordinamento tra attribuzione giurisdizionali diverse, spesso per evitare un contrasto tra giudicati. Nei rapporti con il giudizio penale — dopo la riforma del codice di procedura penale del 1988 — il principio è quello dell'autonomia di ciascun processo e della piena cognizione, da parte di ogni giudice, delle questioni giuridiche e di accertamento dei fatti rilevanti ai fini della propria decisione. La pregiudizialità impone la sospensione necessaria solo nelle ipotesi, tassative e limitate dall'art. 75 comma 3 c.p.p., vale a dire: e neicasi di azione civile promossa in sede civile dopo la costituzione di parte civile nel processo penale; e odopola sentenza di primo grado. AI di fuori di questi casi, il processo civile prosegue il suo corso senza essere influenzato dal processo penale e il giudice civile deve procedere aa accertare autonomamente i fatti. Vi sono norme che valorizzano la sospensione come strumento di buona amministrazione della giustizia, al fine di prevenire lo svolgimento di attività processuali inutili - come l’art. 7 della L. n.218/1995 o gli artt. 30 e 31 del Regolamento n.1215/2012. Il provvedimento sulla sospensione è assunto con ordinanza dal giudice nella sua composizione decisoria ed è impugnabile con il regolamento di competenza (istituto che riceve qui un ampliamento rispetto al suo ambito classico). L'esigenza di un controllo rispetto alla decisione del giudice è chiara: soprattutto nei casi in cui la verifica della pregiudizialità è affidata ad una valutazione di fatto, si corre il rischio di un arresto ingiustificato della trattazione. Tuttavia, la soluzione di affidare il controllo sulla sospensione alla Corte di Cassazione mediante il regolamento (art. 42 c.p.c.) è spesso inefficace: perciò un reclamo — dal giudice istruttore alla sezione o dal tribunale alla Corte d'appello — sarebbe un metodo più opportuno. L’art. 298 c.p.c. prevede che durante il tempo in cui il processo è sospeso, non possono essere compiuti atti del procedimento. La sospensione interrompe i termini in corso, i quali ricominciano a decorrere dal giorno della nuova udienza fissata nel provvedimento di sospensione o nel decreto con cui si riavvia il processo. Per la ripresa del processo — dopo una sospensione — vale la regola dell'impulso di parte. Infatti l'art. 297 c.p.c. prevede che se con il provvedimento di sospensione non è stata fissata l'udienza in cui il processo deve proseguire, le parti hanno l'onere di chiederne la fissazione entro iltermine perentorio di tre mesi dalla loro conoscenza della cessazione della causa di sospensione. L'istanza si propone con ricorso al giudice istruttore o, in mancanza, al Presidente del tribunale. Il ricorso, col decreto che fissa l'udienza, è notificato a cura dell'istante alle altre parti nel termine stabilito dal giudice. Il mancato rispetto del termine di tre mesi comporta l'estinzione del processo. Per evitare la decadenza basta che entro il termine sia stata depositata l'istanza. LA SOSPENSIONE PER PREGIUDIZIALITÀ COSTITUZIONALE Può accadere che nello svolgimento di un processo — su istanza di una delle parti o d'ufficio — venga sollevata l'eccezione di incostituzionalità di una norma. Il controllo di conformità alla Costituzione di una norma — applicabile nel processo — non solo è fondamentale ai fini della soluzione della controversia, ma impone anche la sospensione del processo (il giudice civile non può pronunciarsi su una materia riservata alla Corte Costituzionale). AI riguardo la L. n. 87/1953 agli artt. 23 e 24, precisa che nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorità giurisdizionale una delle parti o il P.M. possono sollevare questione di legittimità costituzionale mediante apposita istanza indicando: — le disposizioni della legge o dell'atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione, che si assumono viziate da illegittimità costituzionale; — le disposizioni della Costituzione o leggi costituzionali che si assumono violate. È importante sottolineare che la questione può essere sollevata senza sottostare a preclusioni e che può anche essere sollevata d'ufficio dal giudice. L'autorità giurisdizionale deve: 1. verificare se sussista effettivamente un nesso di pregi lità e di giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di levanza: se, cioè, il legittimità costituzionale; 2. (poi) compiere una delibazione dell'eccezione: quindi verificare che la questione sollevata non sia manifestamente infondata. Se entrambi i requisiti sussistono il giudice — nella composizione con cui deciderebbe la lite — 3. emette ordinanza, con la quale rimette gli atti alla Corte Costituzionale, motivando le ragioni per le quali ritiene rilevante l'applicazione della norma nel giudizio in corso e — soprattutto — quelle per cui dubita della conformità di tale norma alla costituzione. Con tale ordinanza, il giudice sospende il giudizio. L'ordinanza che, invece, respinge l'eccezione di illegittimità per manifesta irrilevanza o infondatezza, deve essere adeguatamente motivata. L'eccezione può essere riproposta all'inizio di ogni grado ulteriore del processo. Dinanzi alla Consulta si svolge un apposito procedimento, all'esito del quale la Corte potrà dichiarare la norma totalmente o parzialmente incostituzionale, ovvero ritenerla costituzionale ove interpretata in una certa materia (cd. pronunce additive); ovvero potrà ritenere la questione inammissibile o infondata. In ogni caso, il giudizio ripartirà su iniziativa delle parti e il giudice deciderà la fattispecie oggetto di controversia alla luce della pronuncia della Corte. L'INTERRUZIONE DEL PROCESSO L'art. 304 c.p.c. sancisce che gli effetti dell’interruzione sono del tutto analoghi a quelli della sospensione. Tuttavia, i presupposti sono diversi, poiché è disposta in tutte /e ipotesi nelle quali viene meno la regolarità della costituzione della parte o del suo difensore, evitando così la lesione del contraddittorio. L'interruzione è: — una sosta del processo determinata da una pluralità di eventi, il cui elemento comune è il fatto che viene colpita la capacità a stare in giudizio di una parte (morte, incapacità, fallimento, estinzione di persona giuridica, morte o radiazione del difensore); — postaa tutela della parte colpita dall'evento, la quale si trova priva della possibilità di difendersi nel modo più opportuno. Per questo comporta due conseguenze: 1. in primo luogo, l'interruzione si applica solo agli eventi involontari (ad esempio, non si ha interruzione in caso di fusione societaria), perchè quelli volontari non suppongono nessuna diminuzione di protezione; 2. in secondo luogo, l'interruzione opera in modo automatico, proprio perché non si può chiedere ad una parte indebolita nella sua operatività di attivarsi. Tuttavia, quando la parte colpita è in grado — direttamente o attraverso il proprio difensore — di valutare la possibilità di portare o no a conoscenza del giudice il ice solo quando verificarsi della situazione, l'interruzione viene dichiarata dal gi l'evento è espressamente dichiarato dalla parte che vi ha interesse. Dato che in questo caso la parte è pienamente in grado di determinarsi, per cui l'esigenza di protezione viene meno. Il codice di procedura civile agli artt. 299, 300 e 301 — con riguardo alle modalità di efficacia dell'evento interruttivo — prevede che: — sel'evento interruttivo colpisce la parte prima della costituzione in giudizio (perciò quando non c'è ancora un difensore), l'interruzione è automatica; — sel'evento colpisce la parte costituita, il processo si interrompe solo se dell'evento è data comunicazione formale, con dichiarazione in udienza o notificazione alle altre parti, ad opera del difensore; — incasodievento che incide sulla capacità del difensore di assistere la parte per morte, radiazione o sospensione, l'interruzione è automatica (ma non sono però cause d'interruzione, episodi volontari come la revoca della procura o la rinuncia ad essa). Una volta dichiarata l'interruzione, non possono essere compiuti atti processuali. Il processo poi riprende su istanza di una delle parti, in applicazione del principio generale Questa lettura non tiene però conto che la pronuncia della Corte non è una mera esercitazione giuridica, ma proprio per il suo carattere pregiudiziale — rispetto al processo nazionale — costituisce la premessa vincolante alla regolazione di interessi (ossia alla risoluzione della controversia). Tuttavia se è vero che solo la giurisdizione nazionale può trasmettere un quesito pregiudiziale alla Corte, è altrettanto vero che sono le parti a sollevare la questione e che per la parte interessata, il rinvio è necessario ai fini dell'accoglimento della domanda proposta al giudice interno. Per questo, il procedimento pregiudiziale è in realtà la parentesi europea di un giudizio nazionale contenzioso, che non muta la propria natura, con la conseguenza che deve essere rispettato il contraddittorio tra i contendenti. Così pure, non è inadeguato definire domanda la richiesta di una parte ad ottenere una interpretazione del diritto europeo. Infatti sia pure percorrendo tutti i gradi del processo interno e a condizione che la giurisdizione di ultima istanza rispetti il trattato, ogni litigante ha un diritto a portare la sua pretesa interpretativa sul tavolo della Corte di giustizia. L'OGGETTO DEL RINVIO PREGIUDIZIALE EUROPEO Oggetto del rinvio pregiudiziale è il diritto europeo, quindi: — trattati; — le fonti secondarie (regolamenti, direttive e decisioni); — i principi generali dell'ordinamento; — le situazioni in cui determinate norme nazionali abbiano utilizzato il diritto dell'UE per conformare la normativa interna. Il quesito da porre alla Corte è un quesito riferito all'interpretazione di una o più norme di diritto dell'UE ovvero alla validità di uno o più atti, in collegamento con la materia di una determinata controversia nazionale. Non è invece possibile — da parte del giudice nazionale e degli avvocati — formulare un quesito di conformità di aleune norme nazionali con il diritto europeo. La Corte di giustizia emette una pronuncia che definisce il diritto vivente in rapporto agli ordinamenti di tutti i paesi dell'UE. Infine, la giurisprudenza prevalente della Corte di giustizia ha esteso l'ammissibilità di quesiti pregiudiziali anche nei confronti di norme nazionali, quando queste riproducono norme di diritto dell'UE. GLI ORGANI ABILITATI AD EFFETTUARE IL RINVIO PREGIUDIZIALE Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia spetta alla giurisdizione nazionale. La Corte — in successive pronunce — ha definito le caratteristiche in base alle quali un organo può definirsi giurisdizione (e quindi abilitato ad effettuare il rinvio), ai sensi dell'art. 267 Tfue. Queste caratteristiche sono: — l'indipendenza; — l'origine legale; — ilcarattere permanente (cioè stabile inserimento nell'organizzazione statale); — l'obbligatorietà della sua giurisdizione; — l'applicazione di regole di diritto; — lanatura contraddittoria del procedimento. La Corte ha delineato un concetto di giurisdizione, per certi versi, più ampio e per altri più ristretto di quello del diritto italiano. In molti casi sono stati considerati giurisdizione organi amministrativi dotati di funzione decisoria. Dall'altro canto sono stati esclusi sia i collegi arbitrali privati e gli stessi organi giudiziari che non svolgano funzioni strettamente giurisdizionali. Inoltre la Corte ha chiarito che sono obbligate al rinvio pregiudiziale quelle giurisdizioni che costituiscono l'ultima istanza di giudizio in una data controversia concreta, a prescindere dal fatto che in altre situazioni, le loro pronunce siano soggette ad impugnazione. RAPPORTI TRA IL GIUDICE NAZIONALE E LA CORTE DI GIUSTIZIA La giurisdizione nazionale abilitata ad effettuare il rinvio pregiudiziale è tenuta a redigere il quesito ed inoltrarlo alla Corte di giustizia. In Italia, la decisione sul rinvio (facoltativa per tutte le giurisdizioni non di ultima istanza) va assunta con ordinanza, nella composizione con cui il singolo organo è chiamato a statuire/decidere sulla causa. Con il medesimo provvedimento, il processo viene sospeso e dovrà essere riassunto al venir meno della causa di sospensione e quindi dopo la pronuncia della Corte. Dal 1993 la Corte ha ritenuto di potere rispondere ai quesiti pregiudiziali solo qualora essi rispettino il requisito della chiarezza: è chiaro — secondo la Corte — il quesito che, mettendo bene in luce il contesto di fatto e di diritto nel quale si colloca la rilevanza di una o più norme europee rispetto alla controversia concreta, permette ai giudici di Lussemburgo di dare una risposta utile al giudice nazionale e a tutti i soggetti interessati al procedimento di formulare le loro osservazioni con consapevolezza. Così sono escluse le richieste interpretative confuse o esplorative ed inoltre — grazie ad uno strumento di selezione dei casi — i giudici di Lussemburgo spesso hanno scartato quesiti su materie politicamente delicate. Il giudice interno dovrebbe trasmettere alla Corte non solo l'ordinanza con il quesito, ma anche una copia integrale del fascicolo del processo nazionale. Tuttavia, per evitare di sprecare tempo nella traduzione del fascicolo, si ritiene che il giudice nazionale debba redigere un'ordinanza articolata in modo che la Corte sia messa in condizione di rispondere leggendo solo le poche pagine scritte dal giudice. Inoltre la Corte può chiedere informazioni al giudice nazionale per integrare gli elementi mancanti. Uno dei punti di maggiore criticità è quello della c.d. leale applicazione della pregiudizialità europea da parte dei giudici nazionali di ultima istanza. Un omesso rinvio alla Corte di giustizia impedisce infatti al cittadino qualsiasi ulteriore tutela in sede interna. La Corte di giustizia ha ritenuto inadempiente ai trattati lo Stato la cui Corte suprema (in Italia, la Cassazione) mantenga un'interpretazione di norme nazionali tale da ostacolare l'esercizio dei diritti discendenti dal diritto dell'UE. Tuttavia, dato che i singoli possono richiedere allo Stato il risarcimento dei danni per l'inadempimento al diritto europeo anche provocato da un organo giurisdizionale, è evidente che si va a profilare una protezione indiretta. La Corte di Giustizia nel 2008 ha introdotto il c.d. procedimento pregiudiziale d’urgenza che consente di velocizzare la decisione sulla questione pregiudiziale. L'applicazione di tale procedimento è, però limitato ai settori: — della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale; — dello spazio di giustizia, libertà e sicurezza in materia civile. La richiesta di trattazione urgente deve provenire dal giudice nazionale, il quale è tenuto ad indicare le ragioni che giustificano l'applicazione di un rito più rapido e ma anche di indicare la soluzione che l'organo rimettente propone alle questioni pregiudiziali. GLI EFFETTI DELLE PRONUNCE PREGIUDIZIALI All'esito del procedimento pregiudiziale, la Corte di giustizia — qualora non abbia ritenuto irrevocabile il quesito (che può essere riproposto) — statuisce con sentenza o con ordinanza enunciando, in modo espresso o per relationem, l'esatta interpretazione del punto controverso di diritto dell'Unione o accertando la validità o l'invalidità dell'atto oggetto della sua decisione. La decisione pregiudiziale della Corte di Giustizia: — nonhaefficacia di giudicato sostanziale, perchè non statuisce sulla controversia, che sarà poi decisa dal giudice nazionale. Occorre precisare che la Corte solitamente cerca di non discostarsi dai propri precedenti, ma la medesima questione può essere riproposta a partire da un altro processo nazionale e i giudici di Lussemburgo potrebbero anche cambiare orientamento. — è vincolante per il giudice nazionale del processo da cui il rinvio è sorto. Nel caso delle pronunce sulla validità, l'atto ritenuto non valido non viene eliminato dall'ordinamento, ma risulta inapplicabile nella controversia da cui è scaturita la questione pregiudiziale. — definisce un punto di diritto europeo, consentendo di determinare il diritto vivente per tutti gli operatori dell'ordinamento. Ne consegue che le pronunce pregiudiziali hanno effetti non solo per le parti del processo nazionale, ma anche per i terzi. — (offrendola corretta interpretazione del diritto dell'UE) hanno efficacia retroattiva. Tuttavia dato che il loro impatto è notevole, la Corte si è assunta il potere di regolare gli effetti neltempo delle proprie decisioni, contemperando/adattando il principio dell'efficacia ex tunc con quello della certezza del diritto e tutela dell'affidamento. 56. L’estinzione del processo. L’ESTINZIONE DEL PROCESSO: NOZIONE GENERALE Il processo si estingue quando il giudizio si conclude senza aver raggiunto il traguardo di una pronuncia definitiva. La nozione di pronuncia definitiva suppone due casi: 1. quello della decisione sul merito; 2. quella della decisione negativa circa la sussistenza di presupposti processuali o condizioni dell'azione che impediscono al giudice di proseguire nell'attività di accertamento. L'estinzione è un fenomeno che si ricollega a due principi generali: 1. ladisponibilità della tutela giurisdizionale _ le parti, così come sono libere di iniziare o no la causa, lo sono altrettanto nel porvi fine: il giudice non può obbligarle a proseguire, neanche se da quella sentenza potesse derivare l'enunciazione di un principio importante nell'ordinamento della giurisprudenza; rilevarla d'ufficio. Il rilievo dell'avvenuta estinzione può avere luogo solo quando il processo, pur se di diritto estinto, di fatto prosegua. Si pensi ad una riassunzione effettuata oltre il termine: viene comunque fissata un'udienza davanti al giudice. È qui che il giudice rileverà che il giudizio si è estinto senza ovviamente escludere che sia la controparte interessata a sollecitarlo in questo senso. IL PROVVEDIMENTO SULL’ESTINZIONE Il provvedimento che dispone sull'estinzione è normalmente un'ordinanza (infatti, non vi è decisione nel merito, né quindi accertamento), ma può anche essere una sentenza del collegio (ex art. 307 c.p.c.). L'ordinanza che dichiara l'estinzione è comunicata a cura del cancelliere se è pronunciata fuori udienza. Se l'ordinanza è pronunciata dal giudice istruttore in una causa appartenente alla composizione collegiale del tribunale, contro di essa è ammesso immediato reclamo al collegio nei modi di cui all'art. 178 commi 3, 4 e 5. Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di 10 giorni, che inizia a decorrere: e dalla pronuncia dell'ordinanza se avvenuta in udienza; e oaltrimentialla relativa comunicazione. Il reclamo è presentato con: — semplice dichiarazione nel verbale d'udienza__ in tale ipotesi il giudice assegna nella stessa udienza — ove le parti lo richiedono — il termine per la comunicazione di una memoria e quello successivo per la comunicazione di una replica; — ricorso al giudice istruttore_ il ricorso è comunicato a mezzo della cancelleria alle altre parti, insieme con decreto (in calce) del giudice istruttore, che assegna un termine per la comunicazione dell'eventuale memoria di risposta. Scaduti i termini, il collegio provvede entro i 15 giorni successivi. Il collegio provvede in camera di consiglio con sentenza, se respinge il reclamo, e con ordinanza non impugnabile se l'accoglie (ex art. 308 c.p.c.). Infatti, il rigetto del reclamo pone fine al processo; l'accoglimento elimina l'effetto estintivo e suppone una prosecuzione del giudizio in base alle disposizioni che saranno contenute nell'ordinanza. GLI EFFETTI DELL’ESTINZIONE L'art. 310 c.p.c. regola gli effetti dell'estinzione. Esso stabilisce che: — l'estinzione del processo non estingue l'azione, con la conseguenza che la domanda può essere riproposta; — gliatti processuali compiuti, pur validi, diventano inefficaci, salvo: e le sentenze di merito non definitive; ® le pronunce sulla competenza; — le prove raccolte sono valutabili in altri processi come argomenti di prova (la dottrina le equipara a prove atipiche); — le spese del processo estinto restano a carico delle parti che le hanno anticipate. L’estinzione si ha quando il processo non raggiunge una decisione di merito. Tuttavia è possibile che il giudice possa decidere solo una parte della materia del contendere, senza decidere sull’intero oggetto del processo: in tal caso una parte del merito rimane al di fuori della decisione raggiunta. Il processo che prosegue per questa parte ulteriore può estinguersi. Naturalmente, l'autonomia strutturale della sentenza non defin travolta e ne permette la sopravvivenza. Ciò non assicura che la sentenza non definitiva possa realizzare l'interesse della parte vittoriosa: si pensi all'accertamento della sussistenza della responsabilità del convenuto, privo però della determinazione dell’entità del danno. L'obiettivo del legislatore di rafforzare i risultati — anche parziali e provvisori — dell'attività giurisdizionale porta a sottrarre all'effetto estintivo (del processo) alcune misure che di per sé a di merito evita che questa sia dovrebbero essere travolte perchè inidonee a dar luogo ad un accertamento: si pensi alle ordinanze provvisorie di cui all’art. 186-bis c.p.c. LE REGOLE SULLA RIASSUNZIONE In molti casi, l'estinzione del processo dipende dal mancato tempestivo compimento dell'attività di riassunzione. L'art. 125 disp. att. c.p.c. sancisce che se la legge non dispone diversamente, la riassunzione della causa è fatta con comparsa, che deve contenere: 1. l'indicazione del giudice davanti al quale si deve comparire; 2. ilnome delle parti e dei loro difensori con procura; 3. il richiamo dell'atto introduttivo del giudizio; 4. l'indicazione dell'udienza in cui le parti devono comparire, osservati i termini stabiliti per l'atto di citazione; n l'invito a costituirsi nei termini fissati per il convenuto; 6. l'indicazione del provvedimento del giudice in base al quale è fatta la riassunzione; nel caso dell'art. 307 comma 1 c.p.c.— l'indicazione della data della notificazione della citazione non seguita dalla costituzione delle parti, ovvero del provvedimento che ha ordinato la cancellazione della causa dal ruolo. Solitamente, l'udienza in cui le parti devono comparire dopo la riassunzione non è la prima. Quindi l'atto di riassunzione indica non solo l'organo giudiziario, ma anche il magistrato designato per la trattazione. La comparsa è notificata al procuratore costituito, mentre alle parti non costituite deve essere notificata personalmente. LA CESSAZIONE DELLA MATERIA DEL CONTENDERE Accanto all'estinzione, occorre accennare un fenomeno presente nella prassi che consiste nelle pronunce che accertano la cessazione della materia del contendere. Il presupposto di fatto consiste nel venir meno della controversia, per un accordo tra le parti o per un qualunque fatto esterno che toglie interesse all'accertamento. In questi casi, non si ha estinzione del processo, che invece sfocia in una pronuncia finale. La sentenza può avere contenuti diversi: ® puòravvisare l'inesistenza sopravvenuta della condizione dell'interesse ad agire; ® (oppure) può accertare nel merito che — per effetto di situazioni successive all'instaurazione della causa — non sussiste più una posizione giuridica da reintegrare A questo tipo di pronunce possono, però, accedere decisioni di condanna al pagamento delle spese di ite, sul presupposto della soccombenza virtuale. Ad esempio, A cita B per ottenere la demolizione di un'opera abusiva, durante il corso del processo, B demolisce il manufatto. Si giunge alla decisione: è certo che non ha alcun senso una pronuncia di condanna ad una demolizione che c'è stata e forse neanche ad un'azione di mero accertamento del diritto di A. Tuttavia, A ha dovuto instaurare una causa per conseguire l'adempimento di B: di qui la possibilità per il giudice di disporre la condanna di B al pagamento delle spese, sul presupposto che se B avesse continuato a resistere, sarebbe stato soccombente. L'EFFICACIA DELLE ATTIVITÀ SVOLTE IN UN PROCESSO DIVERSO Vi sono determinate attività svolte in un processo o in una fase di esso (dinanzi ad uno specifico giudice) che possono mantenere la propria efficacia: — inunaltro processo (in caso di estinzione del processo) — oinun’altra fase del medesimo giudizio, dinanzi ad un giudice diverso (in caso di translatio iudici dal giudice amministrativo a quello ordinario, al giudicato esterno, alle prove raccolte all'estero, al rapporto tra fase cautelare e giudizio di merito). Ciò si ricollega a due principi costituzionale: 1. la ragionevole durata — spinge verso la massima conservazione possibile delle attività svolte; 2. ilgiusto processo — si preoccupa di garantire che tutta l'attività processuale sia svolta sotto gli occhi del giudice che dovrà poi compiere l'accertamento. In particolare, se le attività si sono svolte tra le medesime parti nel rispetto del diritto di difesa, si possono accettare più le interpretazioni estensive (cioè, in altre parole, far mantenere la propria efficacia a numerose attività); in caso contrario, occorre privilegiare letture restrittive e favorire la ripetizione delle attività. 57. La contumacia. Cenni al procedimento dinanzi al giudice di pace. La giustizia minore. LA NOZIONE DI CONTUMACIA Si ha processo in contumacia guando una delle parti non si costituisce, cioè non si presenta dinanzi al giudice assistita da un difensore nei modi indicati dalla legge. Quindi vi è una parte (che è tale, perchè il processo è nato con la notifica dell'atto di citazione) che non è attiva sulla scena del giudizio. Nella prassi il contumace è — spesso — un soggetto che si disinteressa della vicenda processuale che lo riguarda; tuttavia — in linea teorica — si deve pensare che si tratta di un'opzione strategica (ad esempio, si ritiene che l'attore non sia in grado di adempiere all’onere della prova). Ovviamente non si ha una violazione del diritto di difesa perchè la contumacia è una libera scelta e non una sanzione. La contumacia si distingue dall'assenza, in quanto: — una parte è contumace quando non è costituita; Il regolamento (sopracitato) inoltre afferma che l'assenza di contestazioni da parte del debitore può assumere la forma di: 1. mancata comparizione in un'udienza davanti al giudice; 2. (0) mancata osservanza dell'invito di un giudice a notificare l'intenzione di difendere la propria causa per iscritto. Va precisato che la non contestazione deve essere verificata alla stregua delle norme procedurali vigenti in ogni Stato, con la conseguenza che l'orientamento europeo non vale a modificare indirettamente quello italiano. È, invece, delicato il passaggio dell'equivalenza tra mancata contestazione della parte assente dal processo e prova del fatto non contestato. Il regolamento cerca di mediare fra diverse concezioni della non contestazione da parte del contumace e circonda gli accertamenti ottenuti senza contestazione espressa di una serie di precauzioni, che consentono di affermare che il convenuto non ha contestato perchè non ha voluto farlo, attribuendo un valore assertiv/affermativo a tale comportamento. CENNI AL PROCEDIMENTO DAVANTI AL GIUDICE DI PACE Dal modello del rito di cognizione dinanzi al tribunale si distacca quello previsto per il processo dinanzi al giudice di pace, a cui sono attribuite in sede civile: 1. funzioni contenziose; 2. funzioni di natura conciliativa. ® Funzioni conteziose_ Per quanto riguarda i compiti decisori del giudice di pace, occorre fare riferimento agli artt. 7 c.p.c. e a norma speciali (come l’art. 22-bis della L. 689/1981). La scelta di fondo è quella di assegnare al giudice di pace — meno professionale di quello togato — una competenza limitata: — sia dal punto di vista del valore; — che dal punto di vista dei poteri esercitati. Tuttavia, il d.lgs. n.116/2017 ha ampliato in modo notevole la sfera della competenza del giudice onorario. Secondo la recente riforma (che entrerà in vigore nel 2025): > ilgiudice di pace è competente per tutte le controversie relativi a beni mobili di valore non superiore ad euro 30.000 — salvo che la legge le attribuisca alla competenza di altro giudice; > è competente per le cause relative al risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e di natanti, purchè il valore della lite non superi euro 50.000; > mantiene le attuali competenze peri giudizi di opposizione alle sanzioni amministrative; > glisono assegnate per materia — qualunque sia il valore — una serie di controversie, elencate nel comma 3 dell'art. 7 c.p.c. che riguardano la materia condominiale, numerose situazioni collegate ai diritti reali, i rapporti di vicinato; > si può occupare anche di espropriazione forzata limitatamente ai beni mobili; > non può operare sul piano dei procedimenti cautelari; > la sua competenza rimane confinata alla materia comune (con esclusione di ogni materia specializzata — come quella di lavoro o societaria). La riforma del 2017 ha ampliato le competenze del giudice di pace, ma non è intervenuta sul rito che il codice ha previsto. In particolare, il procedimento dinnanzi ad un giudice di pace consiste in un rito sempl 1 ato: le parti possono stare in giudizio personalmente, senza ausilio del difensore per le controversie fino al valore di euro 1.100; il giudice di pace può decidere secondo equità — comunque osservando i principi informatori della materia — le cause di valore non superiore ai 2.500 euro, con esclusione delle controversie relative a contratti conclusi mediante moduli o formulari (per le quali la L. n.63/2003 ha imposto in ogni caso la decisione secondo diritto); gli artt. 311-321 c.p.c. disciplinano un procedimento meno complesso di quello ordinario, anche se il rinvio disposto dall'art. 311 c.p.c. al procedimento dinanzi al tribunale in composizione monocratica — per tutti gli aspetti non espressamente disciplinati — rende inutili tali fini di semplificazione; è prevista la possibilità di proporre la domanda oltre che con atto di citazione anche verbalmente (ex art. 316 c.p.c.). Nel caso di “domanda verbale”, il giudice di pace fa redigere un processo verbale che deve contenere — ai sensi dell'art. 318 c.p.c.— oltre all’individuazione del giudice e delle parti, l'esposizione dei fatti e l'indicazione dell'oggetto. Questo verbale è poi notificato a cura dell'attore con citazione del convenuto a comparire ad udienza fissa. | termini a comparire sono quelli dell’art. 163-bis c.p.c., ma ridotti alla metà (in pratica, 45 giorni se il convenuto risiede in Italia). Alle parti non sono assegnati termini specifici per la costituzione, che quindi può avvenire anche all’inizio della prima udienza (ex art. 319 c.p.c.). Ne consegue che la materia del contendere nella prima udienza può risultare ancora incompleta, per tale ragione l’art. 320 c.p.c. prevede che il giudice di pace dopo aver interrogato le parti e aver tentato la conciliazione, nel caso in cui non si raggiunga nessun accordo deve: — invitare le parti a precisare definitivamente i fatti che intendono porre a fondamento delle domande, difese ed eccezioni; — richiedere i mezzi di prova da assumere. Quindi ciò che nel rito ordinario si svolge nella prima udienza e nelle successive tre memorie, nel rito semplificato si consuma all'udienza di trattazione. L’art. 313 c.p.c. prevede che al giudice di pace non è possibile proporre la querela di falso, e se questa viene proposta e il documento oggetto della querela è rilevante per la decisione, deve sospendere il processo, rimettendo le parti davanti al tribunale. Se vi sono domande che possono essere decise a prescindere dal documento, il giudice di pace — su istanza si parte — può continuare la trattazione della causa limitatamente a quelle domande. Una volta che la causa sia matura per la decisione, il giudice di pace fissa un’udienza per la precisazione delle conclusioni e la contestuale discussione della causa (senza, quindi, che siano previste comparse conclusionali e repliche). L’art. 321 c.p.c. sancisce che la sentenza è depositata in cancelleria nel termine ordinatorio dei successivi 15 giorni. 5. sono inseriti limiti alla possibilità di impugnare le sentenze dei giudici di pace pronunciate secondo equità (art. 339 commi 2 e 3 c.p.c.) e non è proponibile il regolamento di competenza (art. 46 c.p.c.). iva _ i giudici di pace, oltre a tentare la conciliazione delle liti contenziose possono svolgere ai sensi dell'art. 322 c.p.c. /a conciliazione non contenziosa per tutte le controversie in materi di diritti disponibili, senza limiti di competenza. Questa norma non è stata molto utilizzata, ne consegue che il giudice di pace svolge soprattutto funzioni decisorie in materia di contenzioso minore, con la finalità di alleggerire il lavoro dei giudici togati. LA GIUSTIZIA MINORE Per giustizia minore si intende il contenzioso di valore oggettivamente più modesto rispetto al quale le varie legislazioni nazionali organizzano forme di procedimento semplificato. Le norme italiane sul giudice di pace ne sono un esempio. A tal riguardo, entrano in conflitto 2 profili: 1. quello delle risorse del sistema; 2. quello dell'accesso alla giustizia. La Costituzione — assicurando a tutti il diritto di agire a tutela dei propri diritti - non distingue le domande giudiziali, tantomeno in base a profili quantitativi. Tuttavia, la scarsità delle risorse obbliga il legislatore a risparmiare su determinate controversie, alle quali (il legislatore) non di preparazione. assegna un giudice togato, ma uno onorario cui si richiedono minori requi Al tempo stesso, non è affatto detto che una controversia — minore per il sistema — lo sia anche per il titolare del diritto (ad esempio, un anziano con una modesta pensione può attribuire molta importanza ad una causa che rientra nella sfera di competenza del giudice di pace). Queste persone hanno diritto di vedersi tutelate né più né meno di una grande impresa che gestisce contenziosi per milioni di euro. Non sarebbe conforme alla Costituzione prevedere un limite di valore o una ripartizione di materia, all'interno dei quali lo Stato rinunciasse al suo dovere di offrire una possibilità di tutela. È però oggetto di scelte politiche discrezionali del legislatore quello di determinare le modalità della tutela, in rapporto alle risorse disponibili. Anche il diritto europeo manifesta molta attenzione per la giustizia minore. e Un primo aspetto è dato dalle norme processuali a protezione dei consumatori. ® Un secondo è quello del Regolamento n. 861/2007 integrato dal Regolamento n. 2421/2015 sulle controversie di modesta entità, che istituisce un procedimento semplificato — attraverso forme di comunicazioni elettroniche — per le controversie transfrontaliere di valore inferiore a euro 5.000. talmente gravi da rendere questa esigenza prevalente su quella di certezza, e comportano la possibilità di impugnare la sentenza anche se già passata in giudicato L’INAMMISSIBILITÀ DELLE IMPUGNAZIONI Il giudice dell’impugnazione ha tre possibilità: — confermare la sentenza; — eliminare la sentenza (con modalità diverse a seconda che si tratti di un’impugnazione di merito o di legittimità); — o confermarla parzialmente. Così come il giudice di prima istanza è tenuto a verificare la sussistenza dei presupposti processuali e delle condizioni dell’azione, anche il giudice di impugnazione è tenuto a verificare la conformità dell’iniziativa impugnatoria alle regole processuali prima di esaminare la sentenza. Infatti l’impugnazione si considera inammissibile se viene proposta in violazione delle regole processuali, per le quali essa non appare correttamente proposta. L’impugnazione inammissibile è quindi respinta, senza che il giudice debba esaminare la decisione impugnata, ne segue che la sentenza passa in giudicato. L’impugnazione è: — improponibile_ se non la si potrebbe presentare neppure in astratto (è improponibile un Appello contro una sentenza della Cassazione); — irricevibile_ se presentata in evidente mancanza delle condizioni procedurali (è irricevibile un Appello presentato dopo 5 anni dalla pubblicazione della sentenza); — inammissibile se è priva di requisiti intrinsechi (è inammissibile un Appello privo di specifica motivazione) Nel caso invece dell’improCEdibilità, l’impugnazione nasce correttamente, ma vi è un vizio successivo — ad esempio, sotto il profilo del compimento di atti di impulso processuale — che la colpisce. Il giudice, quindi non può esaminare la sentenza, la quale passa formalmente in giudicato. Secondo il principio di consumazione delle impugnazioni, l’impugnazione viziata preclude la riproponibilità — ad esempio l'appello dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto, anche se non è decorso il termine fissato dalla legge. LEGITTIMAZIONE ED INTERESSE AD IMPUGNARE Le condizioni dell’impugnazione consistono in: ® Legittimazione ad impugnare_ che viene solitamente riconosciuta a chi è stato parte nel processo che ha generato la sentenza impugnata. Può impugnare chi è stato parte nel processo (attore, convenuto o terzo), ma a condizione che abbia proposto domande autonome. È escluso dalla facoltà di impugnare, quindi, l’interveniente adesivo dipendente. Può impugnare anche chi è stato contumace, dato che la qualità di parte e l’attiva partecipazione al processo mediante la costituzione sono due nozioni distinte. Sono eccezionalmente ammessi all’impugnazione dei soggetti che non sono stati parti, e ciò avviene nei casi di opposizione di terzo e di revocazione proposta dal pubblico ministero. Nel tempo la situazione della parte può mutare, pertanto è legittimato ad impugnare anche chi si trovi titolare, o preteso titolare, del diritto che la parte aveva fatto valere nel grado precedente. Ciò vale sia per la legittimazione attiva che passiva. Se ad esempio la parte soccombente intende impugnare la sentenza, ma la parte vittoriosa nel frattempo è morta, dovrà proporre l’impugnazione nei confronti degli eredi. Interesse ad impugnare_ che spetta al soccombente. La facoltà di impugnare viene attribuita a chi ne ha interesse, ma non può attribuirsi ad un organo pubblico (ad esempio, P.M.) poiché altrimenti si avrebbe un sistema di tipo inquisitorio — in cui l’impugnazione si fonda su un interesse pubblico. L’art. 363 c.p.c. prevede /a richiesta dell’enunciazione del principio di diritto nell'interesse della legge, su istanza del procuratore generale presso la Corte di Cassazione, ma la pronuncia non ha effetto sul giudizio di merito e le parti non se ne possono giovare. Per determinare se vi è stata soccombenza, occorre confrontare le conclusioni della parte con il dispositivo della sentenza: — dal punto di vista dell’attore vi è soccombenza in presenza di una qualsiasi difformità (in negativo) con le conclusioni proposte; — dal punto di vista del convenuto si ha soccombenza solo se egli subisce un’effettiva incisione della sua sfera giuridica. La soccombenza può essere totale — tutte le conclusioni precisate sono respinte — o parziale — ossia riguardare solo alcuni capi della sentenza. L’interesse ad impugnare richiede inoltre, che con l’impugnazione si abbia di mira — attraverso la modifica, riforma o cassazione della decisione criticata — un bene della vita, un’utili concreta ed effettiva. Non è dunque ammissibile un’impugnazione che colpisce la motivazione in diritto oppure un determinato vizio procedurale, se questa illegittimità lamentata non abbia: a) impedito una corretta pronuncia sul merito; b) o comportato una lesione del diritto di difesa. IL TERMINE PER IMPUGNARE Le esigenze di certezza dell'ordinamento comportano che l’impugnazione possa essere presentata dalla parte soccombente solo entro un dato termine: Dalla pubblicazione della sentenza decorre il termine per impugnare, detto termine LUNGO. Decorso questo termine, decade automaticamente il potere di proporre l’impugnazione. A prescindere dall'iniziativa di parte, sono previsti dei termini (c.d. lunghi) che decorrono in ogni caso. L’art. 327 c.p.c. sancisce che “/Indipendentemente dalla notificazione, l'appello, il ricorso per Cassazione e la revocazione ordinaria non possono proporsi decorsi 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza”. In questo caso il termine inizia a decorrere non dal momento dell'effettiva conoscenza, ma dal momento della pubblicazione, ossia del deposito in cancelleria. Oggi però — con l'introduzione della comunicazione telematica — il tempo tra la pubblicazione della sentenza e la loro effettiva conoscenza tende a ridursi, fino ad annullarsi. Questa disposizione non si applica però alla parte contumace che dimostri di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa, e per nullità della notificazione degli atti. Se, però, una parte ha interesse ad abbreviare il lasso di tempo di incertezza può notificare la sentenza alla controparte (artt. 325-327 c.p.c.) e, dalla data di notificazione, decorrerà il termine BREVE (ma nei casi di cui agli artt. 395, 397 e 404 il termine decorrerà dal giorno in cui è stato scoperto il dolo o la falsità o la collusione o è stato recuperato il documento). A seguito della loro riduzione effettuata nel 2009, i termini brevi sono di: — iltermine per proporre l'appello, la revocazione e l'opposizione di terzo revocatoria; ma anche per proporre la revocazione e l'opposizione di terzo revocatoria contro le sentenze delle corti d'appello è di 30 giorni; — iltermine per proporre il ricorso per Cassazione è di 60 giorni. Sono termini perentori, e dunque il loro rispetto condiziona la possibilità di attaccare la decisione. Questi termini decorrono dalla notificazione della sentenza, la quale è un atto della parte, e ciò significa che ciascuna parte può attivarsi per abbreviare il termine entro il quale la controparte può impugnare. L’impugnazione fuori termine è inammissibile/irricevibile, infatti essi sono perentori, anche se ad essi si applica la rimessione in termini ex art. 153 comma c.p.c. Il sistema pur prevedendo le impugnazioni, non le favorisce, in quanto portano ad un allungamento dei tempi processuali e ad un’incertezza del diritto. LE COMUNICAZIONI NEL PROCESSO DI IMPUGNAZIONE L’atto di impugnazione crea una nuova fase di un processo già iniziato, in cui le parti sono normalmente assistite da un difensore, presso il quale hanno eletto domicilio — infatti le notificazioni del primo grado sono effettuate all'avvocato. L’art. 330 c.p.c. sancisce: alcomma 1 che “Se nell’atto di notificazione della sentenza la parte ha dichiarato la propria residenza o eletto domicilio nella circoscrizione del giudice che l’ha pronunciata, l’impugnazione dove essere notificata nel luogo indicato; altrimenti la notificazione deve avvenire — secondo le modalità di cui all’art. 170 c.p.c. — presso il procuratore costituito 0 nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio della precedente istanza”; alcomma 2 che “L’impugnazione può essere notificata nei luoghi sopra menzionati collettivamente e impersonalmente agli eredi della parte defunta dopo la notificazione della sentenza”; alcomma 3 che “Quando manca la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio e, in ogni caso, dopo un anno dalla pubblicazione della sentenza, l’impugnazione, se è ancora possibile per legge, si notifica personalmente alla controparte”. processo di impugnazione. Tuttavia nel caso in cui A — durante il termine breve — decidesse di impugnare anche contro C, si applicherà l’art. 335 c.p.c. e le impugnazioni saranno riunite. 2. se invece vi sono più soccombenti e uno o più vincitori, si impone una notificazione alle altre parti, con contestuale sospensione dei termini (ex art. 327 c.p.c.). L’art. 332 c.p.c. prevede che se l’impugnazione di una sentenza pronunciata in cause scindibili è stata proposta soltanto da alcune delle parti o nei confronti di qualcuna di esse, il giudice ne ordina la notificazione alle altre, nei confronti delle quali l’impugnazione non è preclusa o esclusa. Ad esempio, A e B — coeredì di C— citano in causa i presunti debitori del de cuius, D ed E. La domanda viene respinta, pertanto A decide di impugnare mentre B no. Per evitare: — cheB possa successivamente instaurare un separato giudizio; — (0)che A impugni nei confronti del solo D e che B impugni nei confronti del solo E; il giudice è tenuto ad ordinare la notificazione dell’impugnazione presentata dal primo impugnante a tutte le altre parti, che potrebbero ancora impugnare. Dalla notificazione inizia a decorrere per B iltermine breve, entro il quale egli deve decidere se: () proporre a sua volta impugnazione; () oppure mantenere la sua decisione di rinunciare al proseguimento della lite, con la conseguenza: ® del passaggio in giudicato del capo di sentenza che lo riguarda; e edella conferma che sussisterà un solo processo contro quella sentenza. Anche in questo caso il giudice fissa il termine per la notificazione e l'eventuale udienza di comparazione. Nel caso di omesso adempimento, l’impugnazione (di A) non sarà ritenuta inammissibile, in quanto dato che si tratta di cause scindibili, l’impugnante ha tutto il diritto di non essere condizionato dalle diverse scelte della parte non impugnante (B). tuttavia il processo resterà sospeso fino a quando non siano decorsi i termini (brevi o lunghi a seconda che la sentenza impugnata sia stata notificata o no). L’IMPUGNAZIONE INCIDENTALE CONDIZIONATA E LA RIPROPOSIZIONE DELLE ECCEZIONI L’impugnazione incidentale condizionata è stata creata dalla pratica e riconosciuta dalla giurisprudenza. La fattispecie è quella in cui una parte totalmente vittoriosa nel merito — dunque non in grado di impugnare la sentenza né in via principale né in via incidentale perché manca il requisito della soccombenza — abbia subito il rigetto/rifiuto di una 0 più domande o eccezioni che fondavano questioni pregiudiziali o preliminari. Pertanto di fronte all’impugnazione principale dell'altra parte (la parte vittoriosa) al fine di recuperare le questioni rigettate impugna la sentenza in via incidentale, ma condizionata dall'eventuale accoglimento dell’impugnazione principale nel merito. Tuttavia, la parte vittoriosa non è tenuta necessariamente a promuovere un’impugnazione incidentale condizionata per ogni domanda/eccezione rigettata. Infatti: — perilricorso in cassazione l'eventuale vizio della sentenza su una questione preliminare di merito deve essere fatto valere con un motivo autonomo; — in appello (in forza dell’art.346 c.p.c.) le eccezioni proposte in primo grado possono essere riproposte in sede di impugnazione e solo se non vengono nuovamente sollevate si devono intendere abbandonate. Nel regime dell’appello si tratta di fissare il confine tra i casi in cui sia sufficiente — alla parte vittoriosa — riproporre le difese non accolte in via di eccezione, oppure sia necessario proporre un appello incidentale condizionato. Una ricostruzione razionale del problema — partendo dall’idea che vi può essere impugnazione nel caso in cui vi sia soccombenza — limita l’area dell'appello incidentale condizionato solo ai casi in la parte veda respinte alcune sue domande o eccezioni. Una parte della giurisprudenza tende invece ad estendere l’area dell’appello incidentale condizionato ai casi in cui la domanda o l'eccezione non sia stata puramente e semplicemente decisa. Secondo questa giurisprudenza, dunque, se la domanda o l’eccezione serve alla semplice conferma della sentenza impugnata vale l’art. 346 c.p.c., mentre se serve per il caso di riforma della sentenza impugnata vale invece l'esigenza dell’appello incidentale condizionato (ad esempio, domanda di garanzia proposta dal convenuto contro un terzo e non presa in esame perché viene respinta in primo grado la domanda principale dell’attore). Recentemente la cassazione sembra essersi assestata sul corretto principio in base al quale, il convenuto vittorioso in primo grado, a fronte del rigetto della domanda di manleva, come effetto riflesso del rigetto della domanda risarcitoria avanzata dall'attore, non ha l’onere di proporre nel giudizio di appello un’impugnazione incidentale, potendo limitarsi a riproporre la domanda di manleva non accolta, in base alla disciplina dell'art. 346 c.p.c. 60. L’acquiescenza. Gli effetti della sentenza di impugnazione. GLI EFFETTI DELLA MANCATA IMPUGNAZIONE Il soccombente può decidere di impugnare o no, e se impugna, può decidere quali capi della sentenza contestare. In proposito si parla di pri io devolutivo, nel senso che l'oggetto del giudizio di impugnazione comprende, tra i capi della sentenza su cui la parte è rimasta soccombente, solo quelli che sono espressamente attaccati. | capi di sentenza non impugnati passano in giudicato formale. Occorre precisare che nel giudizio di impugnazione possono essere rilevate d'ufficio — senza che siano fatte oggetto di censura delle parti — solo le questioni: — che non sono state sollevate nei precedenti gradi e sulle quali non si è avuta nessuna pronuncia; — sucui effettivamente sorge contrasto (il quale non è emerso e non deciso in primo grado). Ad esempio, A viene citato per il risarcimento del danno. 1) Nel giudizio di primo grado non è sorta la questione di giurisdizione, pertanto in sede d'appello, il difetto di giurisdizione è rilevabile d'ufficio. 2) Nel giudizio di primo grado, sollevata la questione di giurisdizione, il giudice dichiara la giurisdizione del giudice ordinario. In questo caso se la sentenza non è impugnata in tale parte (ossia quella che riguarda la giurisdizione), su di essa si forma il giudicato e il difetto di giurisdizione non sarà più rilevabile d'ufficio. Naturalmente, il giudice può rilevare d’ufficio le questioni solo: ® selasentenzaè stata impugnata dalla parte; e ele questioni sono rilevanti in rapporto: — ai capi impugnati; — (0) aimotivi di impugnazione opposti. L’ACQUIESCENZA La mancata proposizione dell’impugnazione comporta il fenomeno dell’acquiescenza — ossia l'accettazione dell'esito della sentenza. L’art. 329 c.p.c. sancisce che “È improponibile un’impugnazione preceduta da atti di acquiescenza (ossia da accettazione espressa della decisione o da atti incompatibili con la volontà di servirsi dei mezzi di impugnazione previsti dalla legge)”. “Se vengono impugnati solo alcuni capi (c.d. impugnazione parziale), si presuppone acquiescenza relativa agli altri capi, e si forma così un giudicato parziale”. L’acquiescenza presunta deve essere interpretata in modo restrittivo, poiché altrimenti si rischierebbe di ledere il diritto di difesa della parte soccombente. Ne consegue affinché un atto di apparente acquiescenza possa determinare l’improponibilità della successiva impugnazione, deve manifestare una volontà univoca e sicura di aperto contrasto con la volontà di impugnare. Ad esempio, una parte — senza attendere l'esecuzione forzata — decide di pagare spontaneamente le somme a cui è stata condannata in primo grado. Ciò non può essere ritenuto un atto di acquiescenza, in quanto la parte si è limitata ad adempiere ad un comando giurisdizionale. GLI EFFETTI DELLA DECISIONE SULL’IMPUGNAZIONE L’art. 336 c.p.c. dispone che: a) la riforma o la cassazione totale della sentenza la travolgono completamente; b) la riforma o la cassazione parziale hanno effetto anche sui capi della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata; c) la riforma o la cassazione estendono i loro effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata. In realtà questa norma nasconde molti problemi. La sentenza di appello che chiude la fase di merito, sostituisce totalmente quella di primo grado. Stessa situazione si ha per la sentenza di merito — quando possibile — della Cassazione. Invece le sentenze di legittimità eliminano la sentenza impugnata (togliendo ogni efficacia), ma non ci sostituiscono un’altra decisione — la quale andrà chiesta al giudice competente o al giudice di rinvio. >» Quando la sentenza di impugnazione rovescia completamente quella dell'istanza inferiore, si parla di effetto sostitutivo. Ad esempio, il giudice di primo grado condanna B a pagare la sentenza impugnata, nonché il risarcimento dei danni subiti dopo la sentenza stessa. Si pensi, ad un caso di risarcimento per danno alla salute causato da un'attività inquinante, in cui l'imprenditore condannato in primo grado e divenuto appellante abbia continuato la propria attività. Il danneggiato — proponendo appello incidentale — può richiedere anche il risarcimento del danno successivamente maturato (dato che è derivato dagli stessi fatti presentati in primo grado). La sentenza di appello che rovescia quella di primo grado, comporta l’inefficacia degli atti o provvedimenti che conseguono alla sentenza di primo grado, compresa l'esecuzione — spontanea o coattiva. Ne deriva, che non è una domanda nuova e perciò proponibile in appello, quella che riguarda la restituzione delle somme pagate in esecuzione della sentenza di primo grado. e Non possono proporsi in appello nuove eccezioni non rilevabili d'ufficio. Tuttavia, l'ambito delle eccezioni rilevabili d’ufficio è comunque molto ampio e riguarda: — sia questioni processuali; — sia questioni sostanziali (ad esempio l'eccezione di pagamento può essere rilevata d'ufficio). Ne consegue che in appello si può avere un ampliamento della materia conosciuta dal giudice. ® La possibilità di dedurre nuovi mezzi di prova — compresa la produzione di nuovi documenti — è limitata. L’art. 345 c.p.c., nel testo originario permetteva di ammettere: — sia i mezzi di prova e i documenti che le parti avrebbero potuto produrre in precedenza ma che erano stati ritenuti indispensabili dal giudice ai fini della decisione della causa; — sia quelli che la parte dimostri di non aver potuto produrre o proporre per causa ad essa non imputabile. Con la modifica apportata dal legislatore del 2012 è stata eliminata la prima ipotesi — quindi rimane in vigore soltanto la seconda. Se l'appello fosse davvero una revisio prioris instantiae, non dovrebbe essere possibile alcuna nuova prova. In realtà, il legislatore non può trascurare evidenti esigenze di giustizia sostanziale, e dunque — a determinate condizioni — consente che la materia del contendere possa essere arricchita di nuovi elementi valutativi rispetto ai quali non si attua però un doppio grado di giudizio di merito. Tuttavia, non è nuova prova quel mezzo proposto in primo grado, non ammesso dal giudice, e nuovamente proposto in appello. LE SENTENZE IMPUGNABILI E LA RISERVA DI APPELLO L’art. 339 c.p.c. sancisce: — alcomma 1che “Possono essere impugnate con appello le sentenze pronunciate in primo grado, purchè l'appello non sia escluso dalla legge o dall’accorso delle parti a norma dall’art.360 comma 2”; — alcomma2 che “Non è appellabile la sentenza che il giudice ha pronunciato secondo equità a norma dell’art.114”; — alcomma 3 che “Le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell’art. 113 comma, sono appellabili esclusivamente per violazione: 1. delle norme sul procedimento; 2. di norme costituzionali o europee; 3. dei principi regolatori della materia”. L’art. 341 c.p.c. dispone che l'appello contro le sentenze del giudice di pace si propone al Tribunale mentre l'appello contro le sentenze del Tribunale si propone alla Corte d'Appello nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha pronunciato la sentenza. L’art. 340 c.p.c. stabilisce che le parti sono libere di scegliere di impugnare immediatamente la sentenza non definitiva, ma nonostante questo viene incoraggiata l’impugnazione unitaria contro la sentenza definitiva. Infatti, alla parte soccombente sulla sentenza non definitiva viene offerta la possibilità di effettuare la c.d. riserva d'appello, ossia una sorta di prenotazione dell’appello contro questa sentenza, che potrà poi essere confermata o no una volta pronunciata la sentenza definitiva. La riserva d'appello può essere compiuta: e conattonotificato alla controparte (che non è un appello, ma solo l’espressione della volontà di “prenotarsi” all'appello); ® (0)con dichiarazione da compiersi in udienza, ad opera della parte. Ne segue che la riserva d'appello è un episodio interno al processo di primo grado e si colloca nella fase in cui il giudice — emessa la pronuncia non definitiva — fissa con apposita ordinanza un’udienza successiva in cui la trattazione della causa riprende. È quella l'udienza non oltre la quale si deve fare la riserva d'appello. Dunque con la riserva si sceglie di differire l'appello e di non proporlo autonomamente e separatamente dalla sentenza definitiva. Va precisato che la riserva d'appello non obbliga la parte proponente a dover impugnare necessariamente la sentenza definitiva. Ad esempio, A cita B per il risarcimento dei danni. Con sentenza non definitiva, il giudice di primo grado accerta la responsabilità di B e fissa una nuova udienza per proseguire la trattazione della causa al fine di individuare l’entità del danno. B nel contempo fa riserva di appello. La sentenza definitiva, però, accerta che in realtà A ha subito dei danni di poca entità. A questo punto, B potrebbe non avere interesse ad impugnare la sentenza definitiva: aver proposto la riserva non lo obbliga. L’art. 340 comma 3 c.p.c. sancisce che la riserva non può essere proposta e se già proposta resta priva di effetto, quando contro la stessa sentenza da alcuna delle parti sia proposto immediatamente appello. L’ATTO DI APPELLO E LA SPECIFICITÀ DEI MOTIVI L’appello si propone con un atto di citazione, molto simile all’atto introduttivo di primo grado, ma che se ne distingue per il contenuto, perché: ® in primo gradola parte istante propone al giudice e alla controparte la propria domanda — quindi i fatti costitutivi e la tesi in diritto — per la prima volta; ® mentre nell’atto di appello — dato che la questione è già stata risolta con una sentenza — occorre soltanto mettere in discussione i punti in cui, secondo l’appellante, il giudice abbia commesso errori. Per questo, l’atto d'appello deve essere “motivato” (ex art. 342 c.p.c.). Tale norma — modificata nel 2012 — dispone che a pena di inammissibilità, l’atto di appello deve contenere: 1. l’indicazione delle parti del provvedimento che si intendono appellare e delle modifiche richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice in primo grado; 2. l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. L’atto di appello: e daunlato— nelle sue conclusione — individua quali capi della sentenza si vorrebbero riformare; e dall’altro—in relazione ad ogni capo — individua uno o più profili che fanno emergere altrettanti errori del giudice, senza i quali l’esito della decisione sarebbe stato diverso. Se manca la motivazione imposta dall'art. 342 c.p.c., l'atto di appello è inammissibile, poiché l’atto si presenterebbe come insufficiente rispetto allo scopo perseguito (ossia mirare a smontare la sentenza di primo grado). La specificità della motivazione consente l'agevolazione del lavoro del giudice. Tuttavia, non bisogna interpretare troppo rigorosamente la norma, in quanto si rischierebbe di limitare troppo la proposizione degli appelli. Per questo, si ritiene che i due requisiti non debbano necessariamente sussistere insieme (ad esempio, la censura potrebbe essere di fatto, dunque non sarà necessaria l'indicazione dei punti in cui la legge è stata violata; oppure, viceversa, la critica può essere di mero diritto, e in questo caso non si dovrà indicare alcuna richiesta di modifica alla ricostruzione del fatto). In forza del principio devolutivo, è possibile appellare anche solo alcuni capi della sentenza, e in tale ipotesi sarà necessario indicare con precisione i capi appellati e le motivazioni della sentenza che si vogliono criticare. Per il resto, l’art. 342 c.p.c., richiama le forme e i termini di prima comparizione previsti dagli artt. 163 e 163-bis c.p.c. La costituzione dell’appellante avviene secondo le forme e i termini per i procedimenti davanti al Tribunale. — L’appellante deve inserire nel proprio fascicolo copia della sentenza appellata. — Il cancelliere provvede poi a formare il fascicolo d’ufficio d'appello e chiede al cancelliere del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata di trasmettere il fascicolo d'ufficio di primo grado. La parte appellata può proporre appello incidentale — a pena di decadenza entro il termine della comparsa di risposta — da depositare al momento della costituzione in cancelleria nei 20 giorni motivi, anche relativi alla possibilità di insolvenza di una delle parti, sospende in tutto o in parte l'efficacia esecutiva o l'esecuzione della sentenza impugnata, con o senza cauzione. L’inibitoria funge da correttivo alla provvisoria esecutorietà della sentenza di primo grado. | gravi motivi possono: — consistere nell’irrimediabilità del danno (sulla base di esigenze cautelari); — (0) collegarsi ad una valutazione sulla ragionevolezza e fondatezza dell'appello; — fondarsisull’incapacità a fare fronte ad obbligazioni patrimoniali. L’inibitoria spesso ha un ruolo strategico, in quanto può bloccare o no il vantaggio che il vincitore in primo grado si trova a poter gestire. La richiesta di sospensione della provvisoria esecutorietà della sentenza può essere proposta insieme all’atto di appello, ma richiede comunque una certa autonomia perché dà luogo ad un sub-procedimento interno al giudizio di appello. Infatti, sull’istanza di inibitoria il giudice dell'appello provvede con ordinanza nella prima udienza; tuttavia la parte interessata può chiedere — con ricorso al giudice — che la decisione sulla sospensione sia pronunciata prima dell'udienza di comparizione. L’art. 351 c.p.c. prevede che davanti alla Corte d’Appello il ricorso deve essere presentato al presidente del collegio, e il presidente del collegio o il tribunale con decreto in calce al ricorso, ordina la comparizione delle parti in camera di consiglio, rispettivamente davanti al collegio o davanti a sé. Con lo stesso decreto — se vi sono giusti motivi di urgenza — può disporre provvisoriamente l'immediata sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza. In tal caso, all'udienza in camera di consiglio, il collegio o il tribunale conferma, modifica 0 revoca il decreto con ordinanza non impugnabile. La giurisprudenza dominante esclude la riproponibilità (con motivi diversi) di un'istanza di sospensione dell’esecutorietà già respinta. Nel 2011, il legislatore ha rafforzato ulteriormente la provvisoria esecutorietà delle sentenze di condanna, indebolendo l’inibitoria. Infatti è stato previsto che, qualora venga proposta un'istanza di sospensione e questa venga dichiarata inammissibile o manifestamente infondata, il giudice — con ordinanza non impugnabile — può condannare la parte ad una pena pecuniaria tra 250 e 10.000 euro per abuso del processo, da pagare all’amministrazione dello Stato. LA TRATTAZIONE NEL GIUDIZIO DI APPELLO Una volta svolta l’attività regolata dall'art. 350 c.p.c. e quella prevista dall'art. 351 c.p.c. in tema di inibitoria, il giudice di appello potrebbe svolgere atti nuove prove da assumere. L’art. 356 c.p.c. stabilisce: e alcomma1che “// giudice d’appello — se dispone l'assunzione di una prova oppure la rinnovazione totale o parziale dell'assunzione già avvenuta in primo grado o comunque prevede la continuazione del procedimento — pronuncia ordinanza e provvede applicando le norme sull’istruttoria in primo grado”; istruttoria, nei rari casi in cui vi siano e alcomma2 che “Quando sia stato proposto appello immediato contro una sentenza non definitiva, il giudice d'appello non può disporre nuove prove riguardo alle domande e alle questioni, rispetto alle quali il giudice di primo grado, non definendo il giudizio, abbia disposto, con separata ordinanza, la prosecuzione dell'istruzione”. Dato che su quella materia non si è ancora formata la decisione in primo grado, il giudice d’appello deve astenersi dall’effettuare istruttoria su quegli aspetti. Se non si dà luogo ad istruttoria, il giudizio d'appello si svolge attraverso: — udienza di trattazione, con o senza inibitoria; — e udienza di precisazione delle conclusioni. Per ogni aspetto non regolato specificamente, si applica la normativa di primo grado. Vi è però la variante dell’art. 348-ter comma 1 c.p.c., in base al quale, il giudice prima di iniziare la trattazione e sentite le parti, può pronunciare il provvedimento che dichiara l'appello inammissibile, in quanto privo di ragionevole probabilità di accoglimento. Il legislatore precisa che, la valutazione di non probabile accoglimento deve riguardare tutti gli appelli: sia il principale che quelli eventuali (purchè tempestivi). Se anche per uno solo di questi appelli non si può parlare di mancanza di ragionevole probabilità, il giudice deve procedere alla trattazione dell'intero giudizio (art. 348-ter comma 2 c.p.c.). L’ascolto delle parti e la decisione sull’inammissibilità per non probabile accoglimento devono precedere la trattazione del merito: ne segue che occorre comunque svolgere quelle attività che non suppongono la diretta presa in esame del merito dell’appello. La decisione sull'eventuale istanza di sospensione dell’esecutorietà della sentenza impugnata precede la trattazione e va quindi effettuata in ogni caso. È chiaro che questa pronuncia sarà coerente con il giudizio di probabilità di accoglimento nel merito: infatti non potrebbe accadere che venga accolta l’inibitoria e subito dopo venga dichiarato inammissibile l'appello. È più problematico, invece, il coordinamento con l’art. 351 ultimo comma c.p.c. (introdotto nel 2011), in base al quale, se è stata fissata un'apposita udienza per discutere l’inibitoria, il giudice deve fissare l’udienza, non per la trattazione, ma per la decisione della causa. Si deduce che il giudice dovrà lasciare alle parti la possibilità di svolgere compiutamente le difese e che alla prima udienza utile potrà emettere un'ordinanza di inammissibilità o decidere nel merito senza discussione orale (ex art. 281-sexies c.p.c.). La decisione sulla ragionevole probabilità di accoglimento dell'appello precede la pronuncia sulla contumacia o il tentativo di conciliazione. Se, invece, si tratta di integrare il contraddittorio, si potrebbe pensare che il giudice — di fronte ad un appello manifestamente inaccoglibile — possa dare subito il provvedimento negativo (in base al criterio della ragione più liquida). Dunque, alla prima udienza del giudizio d'appello vi sono tre possibilità: 1. decisione di inammissibilità per mancanza di ragionevole probabilità di accoglimento dell'appello; immediata discussione e decisione della causa nel merito; trattazione ordinaria e quindi fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni. Va inoltre detto, che nel giudizio d’appello è escluso l’intervento di terzi, tranne di coloro che potrebbero proporre opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. In quando la presenza di terzi comporterebbe un allargamento della materia del contendere (non compatibile con il principio del doppio grado di giurisdizione), ma va comunque notato che l’opposizione di terzo potrebbe far cadere un giudicato inesistente — perché dato in pregiudizio delle ragioni del terzo — e dunque non la si può escludere completamente. In tema di querela di falso la competenza esclusiva spetta al tribunale, e dunque se nel giudizio d’appello viene proposta querela di falso, il giudice sospende con ordinanza il giudizio e fissa un termine perentorio entro il quale le parti devono riassumere la causa di falso di fronte al tribunale (ex art. 355 c.p.c.). LA FASE DECISORIA La L. n.183/2011 ha previsto diversi percorsi per la fase decisoria del giudizio. L'ipotesi fisiologica è regolata dall'art. 352 c.p.c. secondo cui “Esaurita l’attività prevista negli artt. 350 e 351, il giudice invita le parti a precisare le conclusioni e dispone lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica — negli stessi termini fissati per il giudizio di primo grado (entro 60 giorni per le prime e 20 per le seconde) — ; /a sentenza viene poi depositata in cancelleria entro 60 giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica. Questa regola di base conosce diverse possibili varianti/percorsi: — sel’appello viene proposto davanti alla Corte d’Appello contro una sentenza del tribunale, ogni parte nel precisare le conclusioni, può chiedere che la causa sia discussa oralmente davanti al collegio. In tal caso, la richiesta deve essere riproposta al Presidente della corte alla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica. Il Presidente provvede sulla richiesta, fissando con decreto la data dell’udienza di discussione da tenersi entro 60 giorni e con lo stesso decreto designa il relatore. La discussione è preceduta dalla relazione della causa e la sentenza è depositata in cancelleria entro i 60 giorni successivi. — se l’appello viene invece proposto al Tribunale, il giudice, quando una delle parti lo richiede: e dispone lo scambio delle sole comparse conclusionali nei 60 giorni successivi all'udienza di precisazione delle conclusioni; ® fissa l'udienza di discussione non oltre 60 giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle comparse. La sentenza viene sempre depositata in cancelleria entro i 60 giorni successivi. — È anche possibile che la causa sia decisa nelle forme della discussione orale e immediata lettura del dispositivo, senza il deposito delle comparse conclusionali e delle repliche, secondo il meccanismo dell'art. 281-sexies c.p.c. Lo svolgimento delle difese finali possono svolgersi in forma orale:
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