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Argomenti di diritto processuale civile (Paolo Biavati), Dispense di Diritto Processuale Civile

Capitolo IV (Le altre forme di processo dichiarativo)

Tipologia: Dispense

2020/2021

In vendita dal 20/10/2021

MattiaAntonio.Salerno
MattiaAntonio.Salerno 🇮🇹

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Scarica Argomenti di diritto processuale civile (Paolo Biavati) e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! CAPITOLO IV LE ALTRE FORME DI PROCESSO DICHIARATIVO. 69. Il processo del lavoro. Profili generali. IL RITO DEL LAVORO NEL QUADRO DEI MODELLI PROCESSUALI. Il rito del lavoro, introdotto nel 1973, ha costituito probabilmente la più rilevante novità in materia di processo civile nella seconda metà del secolo scorso. Questo rito si è presentato come la più efficace traduzione dei principi che Giuseppe Chiovenda aveva indicato come linee-guida di un'attendibile giustizia civile: * Oralità; * Immediatezza: ovvero trattazione della causa da parte di un solo giudice; * Concentrazione: fino al punto di cercare di risolvere il processo in una sola udienza. Le parti sono tenute a "vuotare il sacco" fin dal primo atto difensivo e un rigido sistema di preclusione porta ad una rapida definizione della materia del contendere. | poteri inquisitori officiosi del giudice servono ad una ricostruzione del fatto più aderente alla realtà e, infine, l'immediata esecutorietà delle sentenze di condanna agevola la concreta realizzazione della reintegrazione dell'interesse leso. Tutte queste caratteristiche portavano ad aspirare affinchè i/ rito del lavoro divenisse il rito applicabile alla generalità delle controversie. Purtroppo così non è stato, e anzi la prassi ha finito con appesantirlo e privandolo in parte della sua carica innovativa. Occorre capire il perché. Innanzitutto, occorre aver presente che il processo del lavoro traduceva nel concreto la teoria della tutela giurisdizionale differenziata ed era un rito finalizzato alla volontà politica e sociale di facilitare la protezione dei diritti dei lavoratori: la disuguaglianza tra l'operaio e l'imprenditore è la ragione per cui il principio della parità delle armi viene rivisitato introducendo correttivi che tendono a dare vantaggio sul piano processuale a chi di questi vantaggi è privo sul piano sostanziale. Ora le visioni più moderne suggeriscono una maggiore unità dei modelli processuali con differenze che si giustificano in rapporto alla peculiarità della causa, ne segue che non è facile espandere un rito squilibrato a favore di una tipologia di parte, al di fuori del suo contesto originario. A riprova quando il rito del lavoro è stato impiegato in situazioni diverse da quelle del confronto tra lavoratore e datore, la sua capacità di incidere è diminuita (si pensi ad es. al rito locatizio governato dall'art. 447-bis: si tratta del processo del lavoro, che con alcune variazioni è impiegato nelle controversie in materia di locazione, affitto, e comodato). Un interessante banco di prova dell’efficacia di questo procedimento è il d./gs. 150/2011 sulla riduzione e semplificazione dei riti che ha ricondotto alle forme del processo del lavoro: ele opposizioni ad ordinanza-ingiunzione; ele opposizioni ai verbali di accertamento di violazione del codice della strada; * le opposizioni alle sanzioni amministrative in materia di stupefacenti; * le opposizioni ai provvedimenti di recupero di aiuti di stato; * le controversie in tema di applicazione del codice della privacy; * le controversie agrarie e quelle in materia di errata inclusione nel registro dei protesti o di riabilitazione del debitore protestato. Ovviamente il rito del lavoro in relazione a queste controversie, subisce una serie di adattamenti, infatti non si applicheranno le norme strettamente lavoratistiche inapplicabili in altre sedi. Un altro profilo interessante è il giudice competente. Nel ‘73 la scelta cadde nel pretore, unico giudice monocratico all’epoca. L’abolizione del pretore e l'assegnazione del rito del lavoro al tribunale ha affievolito la carica originaria. Il processo del lavoro era nato come strumento di tutela rapida dei diritti dei lavoratori, in particolare per la conservazione del posto di lavoro a fronte di un licenziamento ingiusto. Dopo quasi 40 anni, il legislatore ha preso atto della sua non completa efficacia e con la legge Fornero (92/2012) mentre lascia in vita le disposizioni comuni, affida la tutela contro i licenziamenti ingiusti ad una nuova versione del procedimento, distinta da quella del codice, ancora più semplificata e assistita da una corsia preferenziale all'interno degli uffici giudiziari, per garantire il rispetto dei termini. Tuttavia il jobs act, nell'intento di rendere meno stringenti per le imprese le disposizioni sul licenziamento per i nuovi assunti, ha messo in soffitta questo nuovissimo rito e riporta questo settore alla disciplina ordinaria. La moltiplicazione delle versioni processuali, comporta la conseguenza che non si può neanche parlare di un unico rito del lavoro ma se ne devono prospettare 4 varianti: 1. rito del lavoro comune; 2. quello delle impugnative di licenziamento; 3. ilrito locatizio; 4. quello adattato ai procedimenti speciali dal d.lgs. 150/2011. L'AMBITO DI APPLICAZIONE DEL RITO DEL LAVORO. Le norme sul rito del lavoro si applicano ad una serie di controversie elencate all'art. 409 c.p.c.: commissione e non accettata senza adeguata motivazione il giudice tiene conto in sede di giudizio (essenzialmente per calibrarle spese della lite). I verbali e le memorie concernenti il tentativo (fallito) di conciliazione devono essere allegati al ricorso giurisdizionale: in questo modo, si cerca di veicolare le posizioni assunte dalle parti nella sede conciliativa all'interno di quella giudiziaria. Vi è poi una terza via tra il fallimento e la riuscita della conciliazione: si tratta della possibilità, prevista dall'art. 412 c.p.c., di affidare, di comune accordo, la soluzione della lite alla commissione di conciliazione che viene ad acquisire la veste di arbitro. In altre parole, la commissione, che nasce con il compito di favorire la conciliazione, diventa un organo decisorio. Il lodo che verrà emesso, per espressa indicazione di legge, a conclusione dell'arbitrato, sottoscritto dagli arbitri e autenticato, ha natura contrattuale, ed è impugnabile, dinanzi al tribunale del lavoro competente, entro 30 giorni dall'emanazione, per i motivi e le modalità previste per il lodo irrituale. Tuttavia, il lodo, se non è impugnato ovvero è confermato dal tribunale, può essere reso esecutivo. Si deve aggiungere che il tentativo di conciliazione e l’arbitrato possono svolgersi anche in sede sindacale (art. 412-ter c.p.c.) e anche qui il processo verbale di avvenuta conciliazione può essere reso esecutivo dal giudice. Ora, è opportuno parlare dell'arbitrato vero è proprio. Infatti, le ipotesi fino ad ora viste riguardano il tentativo di conciliazione, su cui può eventualmente innestarsi l'arbitrato. Ma il legislatore va oltre, e prevede, che le controversie di lavoro possano essere direttamente deferite in arbitri. Infatti in base all’art. 806, comma2, c.p.c. “possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi”: in altre parole oltre al ricorso al giudice e all’avvio della procedura conciliativa (che può sboccare in arbitrato) è prevista la possibilità di avviare direttamente un arbitrato. Al riguardo bisogna tenere distinte due fattispecie: quella regolata dall’art. 412-quater c.p.c. e quella dall'art. 31 comma 10 della |. 183/2010. Nel primo caso si tratta di una controversia già insorta, che le parti decidono di affidare ad un collegio di conciliazione e arbitrato irrituale, mentre nel secondo caso, ci si trova davanti ad una clausola compromissoria, che dispone il deferimento in arbitri delle future controversie che eventualmente dovessero nascere dal rapporto di lavoro. Poi, le modalità di svolgimento dell'arbitrato e gli effetti del lodo, nelle due ipotesi sono convergenti. La composizione del collegio di conciliazione e arbitrato è stabilita dalla legge: esso consta di un rappresentante di ciascuna delle parti e di un terzo membro, in funzione di presidente, scelto di comune accordo dagli arbitri di parte tra i professori universitari di materie giuridiche e gli avvocati ammessi al patrocinio davanti alla Corte di cassazione. La parte che intende ricorrere al collegio di conciliazione e arbitrato deve notificare all'altra parte un ricorso sottoscritto, salvo che si tratti di una PA, personalmente o da un suo rappresentante al quale abbia conferito mandato e presso il quale deve eleggere il domicilio. Il ricorso deve contenere: 1. lanominadell’arbitro di parte; indicare l'oggetto della domanda; le ragioni di fatto e di diritto sulle quali si fonda la domanda stessa; 2 3 4. mezzi di prova; 5. il valore della controversia entro il quale si intende limitare la domanda; 6. il riferimento alle norme invocate dal ricorrente a sostegno della sua pretesa; 7 l'eventuale richiesta di decidere secondo equità. La parte convenuta, se intende accettare la procedura di conciliazione e arbitrato, nomina il proprio arbitro di parte, il quale entro 30 giorni dalla notifica del ricorso procede, ove possibile, concordemente con l’altro arbitro, alla scelta del presidente e della sede del collegio. Ove ciò non avvenga, la parte che ha presentato ricorso può chiedere che la nomina sia fatta dal presidente del tribunale nel cui circondario è la sede dell’arbitrato. Se le parti NON hanno ancora determinato la sede, il ricorso è presentato al presidente del tribunale del luogo in cui è sorto il rapporto di lavoro o ove si trova l'azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto. La parte convenuta deposita una memoria difensiva, che deve contenere le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, le eventuali domande in via riconvenzionale e l'indicazione dei mezzi di prova. Le parti, assistite da avvocati, possono poi depositare rispettivamente una replica e una controreplica, SENZA modificare il contenuto degli atti introduttivi. Il collegio fissa il giorno dell'udienza in cui esperisce il tentativo di conciliazione. Se la conciliazione riesce redige il verbale, se non riesce il collegio provvede a interrogare le parti e ad ammettere e assumere le prove, altrimenti invita all'immediata discussione orale. Nel caso di ammissione delle prove, il collegio può rinviare ad altra udienza, da tenersi a non più di 10 gg di distanza, l'assunzione delle stesse e la discussione orale. La controversia è decisa, entro 20 giorni dall’udienza di discussione, mediante un lodo. Il lodo emanato a conclusione dell’arbitrato, sottoscritto dagli arbitri e autenticato, ha efficacia contrattuale ed impugnabile ai sensi dell'art. 808-ter c.p.c. in base ai motivi limitati previsti dalla norma (che sarà vista più avanti). Su queste controversie decide in unico grado il tribunale, in funzione di giudice del lavoro, nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato. Il ricorso è depositato entro il termine di 30 giorni dalla notificazione del lodo. Decorso tale termine, o se le parti hanno dichiarato per iscritto di accettare la decisione arbitrale, o se il ricorso è stato respinto dal tribunale, il lodo è depositato nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato. Il giudice, su istanza di parte interessata, accertata la regolarità formale del lodo arbitrale, lo dichiara esecutivo con decreto. La seconda fattispecie è regolata in via generale dall’art. 31 comma 10 che meglio precisando la previsione dell’art. 806 c.p.c. permette la possibilità di stipulare clausole compromissorie, secondo le modalità di cui agli artt. 412 e 412-quater ove ciò sia previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali più rappresentative sul piano nazionale. Il legislatore, quindi, rinvia all'autonomia delle parti sociali, riservandosi, in caso di inerzia, di intervenire direttamente. Inoltre la clausola deve essere certificata in modo da verificare l'effettiva volontà delle parti; non può essere pattuita durante il periodo di prova e non può riguardare controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro. 70. JI procedimento nel rito del lavoro. IL RICORSO INTRODUTTIVO. Gli scopi di concentrazione e immediatezza del rito del lavoro si concretizzano nelle modalità di introduzione del processo che sono: 1. proposizione della domanda non a mezzo di atto di citazione, ma con ricorso (si vuole attribuire fin dall'inizio al giudice il pieno governo della trattazione, cominciando con la fissazione del giorno previsto per l'udienza); 2. completa esposizione degli elementi di fatto e di diritto nell’atto introduttivo; 3. fissazione dell'udienza da parte del giudice e costituzione del convenuto con atto difensivo nei 10 giorni anteriori all'udienza; 4. trattazione, anche istruttoria, all'udienza orale (potenzialmente unica). Il contenuto del ricorso è del tutto analogo alla editio actionis dell'atto di citazione (ovviamente manca la vocatio in ius). Infatti secondo l’art. 414 c.p.c., il ricorso deve contenere: proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto e indicare a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quale intende avvalersi e in particolare i documenti che deve depositare. Se, costituendosi, il convenuto propone domanda riconvenzionale è necessario spostare l'udienza, per dare all’attore equivalenti possibilità di difesa. Quindi, l'art. 418 c.p.c. dispone che “il convenuto chieda (con apposita istanza, contenuta nella memoria difensiva, a pena di decadenza dalla riconvenzionale medesima) al giudice di fissare una nuova udienza, con la precisazione che tra la proposizione della domanda riconvenzionale e l’udienza di discussione non devono decorrere più di 50 giorni (termine ordinatorio)”. Il decreto che fissa l'udienza deve essere notificato all'attore a cura dell'ufficio giudiziario, insieme alla memoria difensiva, entro 10 giorni dalla data in cui è stato pronunciato. Tra la data di notificazione all'attore del decreto pronunciato a norma del comma 1 e quella dell'udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di 25 giorni. Questi termini sono aumentati rispettivamente a 35 e a 70 giorni se la notificazione del decreto va fatta all’estero. L’attore a sua volta può presentare una memoria difensiva nei 10 giorni anteriori alla nuova udienza, per prendere posizione nei confronti della domanda riconvenzionale, con le medesime caratteristiche della memoria difensiva del convenuto. Dunque l'oggetto del processo, in linea di massima, e salvo domande riconvenzionali, è già cristallizzato al momento della costituzione del convenuto. Fermo restando che non sono ammissibili domande nuove, la modifica delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni è consentita solo all'udienza previa autorizzazione del giudice (art. 420 c.p.c.). Anche le prove sono quelle già proposte. Tuttavia, all'udienza possono essere ammesse altre prove che secondo l'art 420 le parti non abbiano potuto produrre prima, purchè rilevanti: ciò richiama quanto si è detto all’art. 153.2 o all’art. 345 c.p.c.: il criterio è quello della diligenza incolpevole e della buona fede. Sono ovviamente ammesse le prove che si siano formate o comunque relative ai fatti che siano accaduti dopo la scadenza dei termini preclusivi per le deduzioni istruttorie. L'UDIENZA DI DISCUSSIONE. Tendenzialmente, il processo del lavoro potrebbe esaurirsi in un'unica udienza, a differenza del processo ordinario, in cui la pluralità di udienze è fisiologica. Per questo l'art. 420 c.p.c. è rubricato “udienza di discussione della causa”. All'udienza il giudice interroga liberamente le parti presenti e tenta la conciliazione della lite, formulando una proposta transattiva (0 conciliativa). La mancata comparizione personale delle parti o il rifiuto della proposta senza giustificato motivo, costituiscono comportamento valutabile dal giudice ai fini della decisione. Se la conciliazione riesce, si forma un apposito verbale, che ha efficacia di titolo esecutivo per quanto riguarda le pattuizioni in esso contenute. Le parti hanno facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale, che deve essere a conoscenza dei fatti della causa. La procura deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve attribuire al procuratore il potere di conciliare o transigere la controversia. La mancata conoscenza senza gravi ragioni, dei fatti della causa da parte del procuratore è valutata dal giudice ai fini della decisione (questo perché le disposizioni sono pensate per il conflitto fra lavoratore e impresa). L'impresa convenuta potrà essere presente in giudizio anche con una persona fisica diversa dal legale rappresentante (ad es., il direttore del personale potrà sostituire il presidente del CDA), ma si impone una conoscenza precisa dei fatti per rendere l'interrogatorio libero fruttuoso e la conciliazione possibile. Qualora /a conciliazione NON riesca e la causa debba essere trattata, il giudice si trova, come nel rito ordinario, dinanzi ad un bivio. Se ritiene che NON sia necessaria istruttoria, invita le parti a discutere la causa e pronuncia la sentenza. Questo può accadere nel caso in cui la causa sia matura per la decisione o perchè la causa non richiede l'assunzione di prove costituende (ad es, causa in cui la questione controversa è di diritto o che può essere decisa in base alle prove documentali agli atti) o perchè il giudizio può essere deciso in base a questioni pregiudiziali o preliminari: si parla di questioni attinenti alla giurisdizione, alla competenza ed altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio. Se invece occorre svolgere istruttoria costituenda, il giudice ammette in udienza (e non in un momento successivo) i mezzi di prova già proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima, se rilevanti, disponendo con ordinanza per la loro immediata assunzione: l'idea è quella di forzare i tempi. Ora è ovvio che in queste ipotesi è DIFFICILE che il tutto possa esaurirsi in una sola udienza (si pensi al testimone malato; o ad una consulenza tecnica che ha i suoi tempi). La norma ne è consapevole e dispone che se non è possibile assumere subito le prove, il giudice fissi altra udienza non oltre 10 giorni dalla prima, concedendo alle parti, ove ricorrono giusti motivi, un termine perentorio non superiore a 5 giorni prima dell'udienza di rinvio per il deposito in cancelleria di note difensive. Inoltre, se sono stati ammessi mezzi di prova non dedotti negli scritti introduttivi, la controparte può dedurre i mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli ammessi, in un termine perentorio sempre di 5 giorni. Pertanto, nell'udienza di rinvio così fissata il giudice ammette, se rilevanti, i nuovi mezzi di prova dedotti dalla controparte e provvede alla loro assunzione. Lo sforzo di concentrazione è proseguito dalla disposizione secondo cui l'assunzione delle prove deve essere esaurita nella stessa udienza, o, in caso di necessità in udienza da tenersi nei giorni feriali immediatamente successive: l'art. 420 trasforma tutto queste esigenze di concentrazione e immediatezza in un comando. Tutto ciò ovviamente deve poi coordinarsi con gli ampi poteri d'ufficio del giudice del lavoro e con la sua libertà di ammettere prove in qualsiasi momento. In caso di ammissione di consulenza tecnica, il consulente può essere autorizzato a riferire verbalmente (sempre per non perdere tempo); se chiede di presentare relazione scritta, il giudice fissa un termine non superiore a 20 giorni, non prorogabile, rinviando la trattazione ad altra udienza. LA POSIZIONE DEI TERZI. La possibilità di fare svolgere tutto il processo in una sola udienza sono VANIFICATE anche nel caso di allargamento del numero delle parti coinvolte, vuoi per integrazione necessaria del contraddittorio, vuoi per chiamata in causa di terzi su istanza di parte o per ordine del giudice. In tali casi, infatti, i/ terzo o è una parte essenziale nel processo o ha diritto a svolgere le proprie difese come le parti coinvolte prima di lui: ne segue che l'udienza di trattazione va rinviata. Ora, ove occorra coinvolgere un terzo, il giudice fissa una nuova udienza e dispone che entro 5 qg siano notificati al terzo il provvedimento nonché tutti gli scritti difensivi anteriori: cioè il ricorso introduttivo, l'atto di costituzione del convenuto con l'osservanza dei termini già visti per la fissazione dell'udienza originaria di trattazione, per la notifica dell'atto introduttivo e per la difesa della parte notificanda, con l'avvertenza che iltermine massimo entro il quale deve tenersi la nuova udienza decorre dalla pronuncia del provvedimento di fissazione. A sua volta, il terzo chiamato deve costituirsi non meno di 10 giorni prima dell'udienza fissata, depositando la propria memoria (così come avviene per il convenuto). Non bisogna dimenticare che in realtà il processo del lavoro è pensato per governare un conflitto a due: lavoratore e datore. Quando lo scenario si diversifica anche la sua forza si attenua. Un'altra ipotesi di rinvio dell'udienza originariamente fissata si verifica nel caso di intervento volontario di terzi. Il sistema delle preclusioni, ha effetti in ciò che concerne l'intervento volontario di terzi, in tutte le sue specificazioni (principale, adesivo autonomo e adesivo dipendente): infatti, mentre nel rito ordinario il terzo può intervenire fino all'udienza di precisazione delle conclusioni (con le precisazioni che si sono fatte a suo luogo), qui l'intervento del terzo non può svolgersi dopo il termine di 10 giorni prima dell'udienza, stabilito per la costituzione del convenuto (art. 419 c.p.C.). Il terzo dovrà presentare una memoria (come sempre avviene quando una parte entra in un legittimerebbe il loro intervento. Può nominare i consulenti tecnici. Su iniziativa di parte può disporre l'accesso sul luogo di lavoro, purchè necessario al fine dell'accertamento dei fatti e disporre l'esame dei testimoni in loco. Ora è vero che alla luce di tutto ciò può far sembrare il giudice fortemente inquisitore; tuttavia se questa era l'intenzione del legislatore del 1973, la prassi attuale è più morbida. Inoltre il processo del lavoro nasce in anni di grande forza politica del sindacato, e da qui l'art. 425: non solo il giudice può richiedere informazioni ai sindacati ma su istanza di parte è la stessa associazione sindacale indicata dalla parte interessata a poter rendere in giudizio, tramite suo rappresentante, informazioni e osservazioni orali o scritte. Tali informazioni possono essere rese anche nel luogo di lavoro ove sia stato disposto l'accesso. Il giudice può richiedere alle associazioni sindacali il testo dei contratti e accordi collettivi di lavoro, anche aziendali, da applicare nella causa. LE ORDINANZE PROVVISORIE DI CONDANNA. Si tratta delle ordinanze di pagamento di somme di cui all'art. 423 c.p.c. Il comma 1 prevede che “i/ giudice su istanza di parte, in ogni stato del giudizio, dispone con ordinanza il pagamento delle somme non contestate”. Il 2 comma prevede che “in ogni stato del giudizio, il giudice può su istanza del lavoratore, disporre con ordinanza il pagamento di una somma a titolo provvisorio quando ritenga il diritto accertato e nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova”. Questa ordinanza è revocabile con la sentenza che decide la causa. Entrambe le ordinanze costituiscono titolo esecutivo. IL MUTAMENTO DEL RITO E L'ECCEZIONE DI INCOMPETENZA. Il codice affronta il caso in cui l'attore abbia commesso un errore. nell'individuazione del rito applicabile alla controversia. Sono varie le ipotesi che si possono prospettare: Può sorgere una questione, sull'inclusione della controversia per cui vi è lite all'interno di quelle di cui all'art. 409 c.p.c.: in questo caso si tratta di un problema di competenza per materia e occorre una qualificazione in diritto della controversia, rispetto alla quale la scelta del rito è una mera conseguenza. È Bene notare che questo tipo di problemi, in sé inutili rispetto alla giusta decisione del caso, sorgono tutte le volte che il legislatore isola determinate materia, attribuendo loro un trattamento processuale specifico. Può anche accadere che l'attore abbia banalmente sbagliato rito, iniziando con un atto di citazione una controversia che egli stesso qualifica di lavoro. Ancora, può accadere che si tratti in realtà di una questione di competenza per territorio. 1. L'art. 426 c.p.c. affronta il problema nell'ottica del giudice ordinario e dispone che “il giudice, quando rileva che una causa promossa nelle forme ordinare riguarda uno dei rapporti previsti dall'art. 409 fissa con ordinanza l'udienza di trattazione e il termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria”. Infatti, le preclusioni nel rito ordinario sono MENO INTENSE di quelle del rito del lavoro (es. negli atti introduttivi entrambe le parti possono avere, legittimamente, omesso l'indicazione dei mezzi di prova di cui chiedono l'ammissione). Di qui la necessità che integrino queste difese portandole al livello imposto dal rito del lavoro. Per il resto la causa verrà trattata normalmente col rito del lavoro. L'art. 427 c.p.c. esamina invece l'ipotesi inversa: “Il giudice quando rileva che una causa promossa nelle forme del rito del lavoro riguarda un rapporto non incluso nell'art. 409, se la causa rientra nella sua competenza dispone (solamente) che gli atti siano messi in regola con le disposizioni tributarie. Se la causa invece non rientra nella sua competenza, la rimette con ordinanza al giudice competente, fissando un termine perentorio non superiore a 30 giorni per la riassunzione con il rito ordinario”. Le prove acquisite mentre il processo era trattato con il rito speciale avranno l'efficacia consentita dalle norme ordinarie: quindi se il giudice del lavoro aveva ammesso ad es. una testimonianza inammissibile per il c.c., quella deposizione perderà ogni valore una volta rientrata nell'ambito del rito ordinario. L'art. 428 c.p.c. regola il caso dell'incompetenza per materia o per territorio. Quando una causa relativa ai rapporti di cui all'art. 409 sia stata proposta a giudice incompetente, l'incompetenza può essere eccepita dal convenuto solo nella memoria difensiva, o rilevata d'ufficio dal giudice non oltre l'udienza di trattazione. Il giudice che dichiara la propria incompetenza rimette la causa al tribunale competente, in funzione di giudice del lavoro, fissando un termine perentorio non superiore a 30 giorni per la riassunzione con rito speciale. Il rito del lavoro ha, così, anticipato l'esigenza, solo più tardi avvertita dal legislatore per il rito ordinario, di imporre che la questione di competenza sia sollevata nella fase iniziale del processo e che se non sollevata risulti preclusa. 72. La sentenza nel processo del lavoro. Il procedimento per impugnazione del licenziamento. LA SENTENZA NEL RITO DEL LAVORO. Fra le principali innovazioni introdotte dal rito del lavoro vanno certamente considerate quelle che si riferiscono alla pronuncia della sentenza. Occorre riflettere, innanzitutto che fin dall'origine questo rito è stato affidato ad un giudice monocratico, il che ha permesso di immaginare un processo che, al termine di una sola udienza, permetteva di consegnare alle parti la sentenza. Infatti, | giudice, completate le altre attività, invita le parti a formulare le conclusioni e alla discussione finale. Solo se lo ritiene necessario, il giudice, su richiesta delle parti, concede loro un termine non superiore a 10 giorni per il deposito di note difensive, rinviando la causa ad un'udienza immediatamente successiva alla scadenza di tale termine, per la discussione e la pronuncia della sentenza. Una volta esaurita la discussione orale, ed è questa la radicale novità, e udite le conclusioni delle parti (da notare la mancanza, rispetto al rito ordinario, degli scritti finali, ovvero la comparsa conclusionale e le repliche, in coerenza con un processo orale), il giudice pronuncia la sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. Solo in caso di particolare complessità della controversia, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a 60 giorni per il deposito della sentenza. La mancata lettura del dispositivo è motivo di nullità della sentenza. Dunque si assiste ad una scissione temporale tra due momenti essenziali della sentenza: dispositivo e motivazione. Qui viene prima il dispositivo: la motivazione può essere contestuale o aggiungersi in un momento successivo. Ovviamente è evidente che nessun dispositivo può esistere se non preceduto anche implicitamente da una motivazione. Infine, l'art. 430 precisa che /a sentenza deve essere depositata in cancelleria entro 15 giorni dalla pronuncia. Il cancelliere ne dà immediata comunicazione alle parti. La natura squilibrata delle norme sul processo del lavoro è poi alla base di due disposizioni dettate a favore del lavoratore: + Art.431.1c.p.c.: “le sentenze che pronunciano condanna a favore del lavoratore per crediti derivanti dai rapporti compresi nell'art. 409 c.p.c. sono provvisoriamente esecutive”. In realtà, con la riforma 1990 il testo oggi vigente dell'art. 282, ha superato la norma del rito speciale, per cui tutte le sentenze di condanna emesse dal giudice del lavoro sono esecutive, anche se eventualmente a favore del datore, come risulta dall'art. 431.5 c.p.c. Tuttavia, una disparità rimane: infatti l'art. 431.2 c.p.c. contiene una disposizione non ripetuta all'art. 282 né ripresa dal comma 5, e che quindi non è estensibile alla generalità delle situazioni, ma è applicabile solo nel contesto di una pronuncia favorevole al lavoratore: nel processo ordinario la sentenza è titolo esecutivo quando, dopo essere stata depositata, con la motivazione integrale, è munita di formula esecutiva. cui definizione dipende dalla risoluzione della medesima questione sulla quale la Corte è chiamata a pronunciarsi; una volta intervenuta la decisione della Corte di Cassazione, il giudice fissa, anche d'ufficio, l'udienza per la prosecuzione del processo. Si noti che tale ultima ipotesi di sospensione è facoltativa, ed anche che il giudice non è strettamente tenuto a condividere la posizione della suprema Corte. Però in tal caso, e in ogni altro successivo caso di non condivisione da parte del giudice del lavoro dell'orientamento della Cassazione, i/ giudice NON può decidere il merito ma deve pronunciare la sentenza non definitiva sul punto interpretativo di diritto, immediatamente ricorribili dinanzi alla suprema Corte che confermerà il proprio punto di vista. Un'altra particolarità di questo meccanismo è quella di portare dinanzi al giudice civile l'Aran e le organizzazioni sindacali che non hanno trovato l'accordo: infatti, tutti i soggetti interessati alla contrattazione pubblica possono intervenire nella causa originaria, anche oltre il comune termine di preclusione, possono impugnare la sentenza sulla questione interpretativa e farsi promotori del ricorso per Cassazione o presentare memorie, sia nella causa di merito che dinanzi alla Cassazione, anche senza essere intervenuti. IL PROCEDIMENTO PER LE DOMANDE DI IMPUGNATIVA DEL LICENZIAMENTO. La legge 92/2012 (legge Fornero) è intervenuta a modificare molti aspetti della disciplina del rapporto di lavoro: * facilitare il licenziamento, sia pure nell'aspettativa di un aumento complessivo dell'occupazione, favorito nelle intenzioni da una maggiore flessibilità del rapporto; * modificato l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori (I. 300/1970) prevedendo che la reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato nelle imprese che occupano più di 15 dipendenti lasci spazio, in alcune ipotesi, alla mera corresponsione di un'indennità risarcitoria; * introdurre un procedimento ad hoc per le domande di impugnativa del licenziamento: il nuovo procedimento (commi da 47 a 68 dell'art. 1 della legge Fornero) corregge il rito comune del lavoro con elementi tipici del rito a cognizione semplificata e di quello in camera di consiglio Tuttavia, a seguito del Jobs Act e delle leggi 183/2014 e del successivo d.lgs 23/2015 peri lavoratori neo-assunti le disposizioni dell'art. 18 (che rimangono in vita per i lavoratori già assunti) sono state ulteriormente modificate; in particolare si prevede che alle controversie in materia di licenziamento si applichi il comune rito del lavoro. Di conseguenza, i/ procedimento introdotto dalla Legge Fornero ha ora un ambito di applicazione destinato a ridursi e probabilmente se ne prepara l'abrogazione. Nondimeno rimane opportuno farvi cenno. Tale procedimento consta di tre fasi. Infatti la domanda viene esaminata dal tribunale, quale giudice del lavoro, in una fase sommaria che si chiude con l'emanazione di un'ordinanza. Contro l'ordinanza può essere proposta un'opposizione sempre dinanzi al tribunale, secondo forme di trattazione più vicine allo schema ordinario. Questa seconda fase si chiude con una sentenza, che può essere reclamata dinanzi alla Corte d'appello, che a sua volta decide con una sentenza ricorribile per Cassazione. 1 La prima fase si introduce con un ricorso, che NON presenta tutte le caratteristiche di quello disciplinato dall'art. 414, ma solo le più snelle forme dell'art. 125 c.p.c. Il tribunale del lavoro fissa l'udienza non oltre i 40 giorni successivi e il convenuto si può costituire entro 5 giorni anteriori all'udienza. La trattazione è informale. La formula riecheggia quella dell'art. 702-quater comma 5 in tema di: il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o che egli stesso disponga d'ufficio (avvalendosi degli incisivi poteri di iniziativa ex art. 421 c.p.c.) e provvede con ordinanza all'accoglimento o al rigetto della domanda. L'ordinanza (ovviamente solo in caso di accoglimento) è immediatamente esecutiva. se contro l'ordinanza viene proposta opposizione, entro i 30 giorni successivi alla notificazione o se anteriore, alla comunicazione del provvedimento, dinanzi allo stesso tribunale che l'ha emessa. Non si tratta di un'impugnazione, ma di un giudizio ordinario a cognizione piena, che viene introdotto con un ricorso dotato, di tutti i requisiti tipici diun comune ricorso in materia del lavoro (es. l'indicazione specifica di tutti i mezzi di prova). Anche la costituzione del convenuto opposto segue le regole comuni: la memoria difensiva è sottoposta alle decadenze di cui all'art. 416 c.p.c. Disposizioni specifiche vengono dettate per le domande riconvenzionali e le eventuali chiamate di terzi. La scansione dei termini è più pausata rispetto alla prima fase e ricalca quella ordinaria. Inoltre, il legislatore si preoccupa che l'impugnativa di licenziamento non si estenda ad altre domande, se non strettamente collegate a quella principale. La trattazione è prevista secondo una formula quasi identica a quella della fase "sommaria" e sempre "omessa ogni formalità non essenziale del contraddittorio". Le differenze sono: e vengono assunti i mezzi di prova rilevanti e non solo quelli indispensabili; ® puòessere assegnato alle parti un termine per note difensive prima dell'udienza di discussione. La decisione è resa con sentenza che deve essere depositata, completa di motivazione, nei 10 giorni successivi all'udienza di discussione. Le varie lacune di queste disposizioni devono essere integrate col riferimento alle norme comuni del rito del lavoro o quelle del rito ordinario di cognizione. 3. Laterza fase è quella delle impugnazioni. La critica di merito può essere proposta NON con un appello, ma con un reclamo, seguendo la terminologia del procedimento in camera di consiglio. Il reclamo deve essere sempre introdotto con ricorso da depositare entro 30 giorni dalla comunicazione o dalla notificazione della sentenza, dinanzi alla Corte d'appello. Come in appello, è previsto la possibilità che la Corte possa sospendere l'efficacia della sentenza reclamata in prima udienza, se ricorrono gravi motivi (quindi con una valutazione estesa anche alla verosimiglianza o no dell'accoglimento dell'impugnazione). Non sono ammesse nuove prove, se non nei due casi dell'indispensabilità o dell'impossibilità di deduzione in primo grado per causa non imputabile. La trattazione si conferma modellata sul solito "sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio" con termini parametrati su quelli del primo grado. La decisione è resa con sentenza. La sentenza emessa in sede di reclamo può essere fatta oggetto di ricorso per cassazione. Due sono le particolarità: il termine per il ricorso è di soli 60 giorni dalla comunicazione o notificazione, se anteriore; la cassazione è tenuta a fissare l'udienza di discussione non oltre 6 mesi dalla proposizione del ricorso. 73. Le impugnazioni nel rito del lavoro. INTRODUZIONE. In base all'art. 437 c.p.c. “non sono ammesse, nell'appello del lavoro, nuove domande ed eccezioni”. Se per le nuove domande si segue lo schema classico di tutela del doppio grado di giurisdizione, con il conseguente divieto di sottoporre domande per la prima volta al giudice dell'impugnazione, molto diverso è il profilo delle eccezioni che nel rito ordinario, può dar luogo ad un ampliamento del thema decidendum. parte, quando ricorrono gravi motivi (quindi non solo per il più ristretto caso di gravissimo danno come per la fattispecie opposta di condanna al datore). Come per il processo ordinario, il legislatore 2011 ha poi stabilito che qualora venga proposta un'istanza di sospensione e questa venga dichiarata inammissibile o manifestamente infondata il giudice con ordinanza non impugnabile può condannare la parte ad una pena pecuniaria tra i 250 e i 10,000 euro. L'ordinanza è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio. IL PROCEDIMENTO IN APPELLO. Così come in primo grado, anche nel giudizio di appello il processo prevede una sola udienza. Ovviamente non si ripete il tentativo obbligatorio di conciliazione né l'interrogatorio libero delle parti. Si applicano al giudizio di appello secondo il rito del lavoro e del rito locatizio le disposizioni relative all'inammissibilità dell'appello privo di ragionevole probabilità di accoglimento con la precisazione che il momento applicativo è collocato all'udienza di discussione. Dopo la relazione orale del giudice incaricato (art. 437 c.p.c.) il collegio assume gli eventuali provvedimenti. Se ritiene di ammettere nuove prove, il collegio fissa, entro 20 giorni, l'udienza per la relativa assunzione e per la pronuncia della sentenza. Nel caso di nomina di un consulente il rinvio può essere più lungo (30 giorni) perchè è previsto che il consulente depositi la relazione almeno 10 giorni prima dell'udienza. In queste ipotesi, il collegio con lo stesso provvedimento può emettere un'ordinanza di condanna anticipatoria: molto difficilmente, però, quella relativa a crediti non contestati, ma piuttosto per quella relativa al credito nei limiti in cui la prova è stata raggiunta. Segue poi la discussione orale. Può accadere che la Corte d'appello rilevi che i/ procedimento in primo grado NON si sia svolto secondo il rito prescritto. In tal caso come prevede l'art. 439 c.p.c. emana le disposizioni per il mutamento di rito, secondo gli artt. 426 e 427 c.p.c già esaminati. Ovviamente tutto questo ha grandi ripercussioni: si pensi al caso del mutamento da rito ordinario a rito del lavoro, occorrerà recuperare le attività tipiche del rito del lavoro che sono state omesse, ad es. il tentativo obbligatorio di conciliazione. La sentenza deve essere pronunciata al termine dell'udienza originariamente fissata o di quella eventualmente stabilita per l'assunzione delle prove. Il metodo è quello già noto per il primo grado, vale a dire la lettura del dispositivo in udienza. Il lavoratore vittorioso può procedere all'esecuzione (che qui non è più provvisoria, ma stabilizzata essendo il processo pervenuto alla fine dei gradi di merito) sulla base del solo dispositivo (art. 438 c.p.c.). CENNI AL RICORSO PER CASSAZIONE. Il ricorso per Cassazione in materia di lavoro segue le regole ordinarie, salvo il fatto che la legge istitutiva del processo in esame ha dato vita ad una sezione apposita presso la suprema Corte incaricata solo di occuparsi delle controversie laburistiche e previdenziali e quindi dotata di un elevato grado di autorevolezza e specializzazione. Tuttavia, non sono pochi i momenti di coordinamento tra la materia del lavoro e la Cassazione: dall'espressa previsione di ricorribilità per violazione di contratti e accordi collettivi di lavoro, all'accertamento pregiudiziale di vali di questi contratti e accordi (art. 420-bis c.p.c.) alle disposizioni in materia di pubblico impiego privatizzato. 74. La tutela sommaria. Presupposti e caratteristiche generali. TUTELA SOMMARIA E SEMPLIFICATA. Fino a questo momento abbiamo visto forme di processo civile che, seppur nella diversità di riti, ottengono un accertamento pieno ed esauriente. Tuttavia, le ragioni della scarsità di risorse e della ragionevole durata del processo inducono a dar spazio a forme di cognizione sommaria che raggiungono lo scopo finale della stabilità della decisione attraverso meccanismi che fanno leva sulla mancata contestazione della parte convenuta o sull'apprezzamento superficiale di un'evidenza di diritto. È sommaria la cognizione che per il suo modo di essere è superficiale, incompleta non esauriente. Che Insomma, ha un'efficacia che non attinge un sufficiente livello veritativo. La sommarietà va riferita non al procedimento seguito quanto al contenuto dell'indagine svolta. È questo il motivo per cui non può definirsi sommaria la cognizione attuata nell'ambito del procedimento c.d. sommario di cui all'art. 702-bis c.p.c. che invece, come si vedrà, è procedimento a cognizione semplificata. Un esempio di cognizione sommaria interna al processo ordinario, sono le ordinanze anticipatorie di cui agli artt. 186-bis e ter e quater. Esse sono dotate di una stabilità esecutiva indipendentemente dall'accertamento e dal giudicato. Analoga caratteristica presentano le ordinanze anticipatorie di cui all'art. 423 nel rito del lavoro. Il meccanismo del conseguimento di un risultato autonomo dall'accertamento che rimane eventuale si troverà anche nel procedimento cautelare, per ciò che riguarda le misure anticipatorie che non richiedono l'instaurazione di un successivo giudizio di merito. LA TUTELA SOMMARIA TRA EFFICIENZA E GARANZIE. Si parla di procedure sommarie quando il processo giunge ad una decisione attraverso metodi che non includono tutta la pienezza di facoltà difensive e tutta l'adeguatezza dell'indagine sui fatti, che l'ordinamento appronta per il processo ordinario. L'atteggiamento di fondo è quello di una tolleranza giustificata da esigenze pratiche di risoluzione del contenzioso, ma con la garanzia che: e ciascuna delle parti può trasferire la causa in una sede di cognizione piena e completa e che se questa possibilità non fosse data, non si raggiungerebbero l'effetto di stabilità della cosa giudicata; * laloro attitudine a dar luogo ad un effetto di stabilità senza che necessariamente si debba passare attraverso una fase di cognizione piena. Le premesse che giustificano questi sbocchi sono due: 1. Riflessione sulla differenza tra cognizione piena e sommaria: differenza che non è più qualitativa, e quindi irriducibile, ma quantitativa. A questa prospettiva offre un apporto sempre più forte l'idea dell'auto-responsabilità delle parti, cd. silenzio cosciente: si intende dare sempre più spazio alla non contestazione del convenuto, non solo se costituito, ma anche se contumace, purchè avvertito circa i fatti dedotti dall'attore; 2. Ripensamento della nozione di cosa giudicata secondo tre linee: A. il giudicato tende ad investire le questioni più che i diritti e i rapporti; B. crescono le forme di provvedimenti dotati di stabilità equivalenti al giudicato; C. emerge la cedevolezza del giudicato nazionale rispetto alle affermazioni del diritto europeo Combinando questi fattori si ha una panoramica di istituti in cui il contraddittorio è più o meno attuato e la stabilità della decisione finale è più o meno forte. Insomma, la linea di confine tra sommarietà e semplificazione è labile, ma possibile e passa sul criterio dell'adeguatezza della quantità di cognizione rispetto al caso concreto. Infatti mentre, /a procedura sommaria si connota per la sua incompletezza strutturale, quella semplificata riduce al minimo l'impegno del giudice e delle parti, ma senza scendere sotto la soglia di ciò che è necessario e sufficiente per un completo esame della questione. L'effetto del giudicato sostanziale va sicuramente riconosciuto ai provvedimenti che seguono una cognizione semplificata, ma adeguata e sufficiente; non può invece essere attribuito a quelli che, dotati di finalità soprattutto pratica, non sono conseguenti ad un accertamento completo. 1. sel credito riguarda onorari per prestazioni giudiziali o stragiudiziali o rimborso di spese fatte da avvocati, cancellieri, ufficiali giudiziari o da chiunque altro ha prestato la sua opera in occasione di un processo; 2. se il credito riguarda onorari, diritti o rimborsi spettanti ai notai a norma della loro legge professionale, o ad altri esercenti una libera professione o arte per la quale esiste una tariffa legalmente approvata. L'ingiunzione, inoltre, può essere pronunciata anche se il diritto dipende da una controprestazione o da una condizione, purchè il ricorrente offra elementi atti a far presumere l'adempimento della controprestazione o l'avveramento della condizione. Quanto al significato di prova scritta, si sarebbe potuta utilizzare la nozione offerta dal c.c. senonché ciò avrebbe reso meno agevole l'istituto, si è quindi optato per uno sdoppiamento della nozione di prova scritta: + nozione ampia: per la fase che porta all'ingiunzione senza contraddittorio; * se però verrà proposta opposizione, sarà il creditore-ricorrente a dover dare dimostrazione del proprio credito sulla base dei più severi e rigorosi criteri comuni. Quindi, in base all'art. 634 c.p.c. “sono prove scritte idonee all'emissione dell'ingiunzione oltre a tutte quelle previste dal c.c.” (es. gli atti pubblici e le scritture private autenticate) anche: 1. le polizze e promesse unilaterali per scrittura privata; 2. itelegrammi anche se mancanti dei requisiti previsti dal c.c.; 3. peri crediti relativi a somministrazioni di merci e di danaro e per prestazioni di servizi, fatte da imprenditori che esercitano un'attività commerciale anche a persone che non esercitano tale attività, gli estratti autentici delle scritture contabili tenute dall'imprenditore di cui agli art. 2214 c.c. purchè bollate e vidimate nelle forme di legge e regolarmente tenute, nonché gli estratti autentici delle scritture contabili prescritte dalle leggi tributarie, quando siano tenute con l'osservanza delle norme stabilite per tali scritture. Secondo la giurisprudenza sono prove scritte idonee anche le semplici e più comuni fatture commerciali dell'imprenditore. Per i crediti dello stato e degli enti pubblici, l'art 635, precisa che “sono prove idonee anche i libri o registri della PA quando un funzionario autorizzato o un notaio ne attesta la regolare tenuta”. Il giudice svolge, in questa fase, una valutazione delle condizioni di ammissibilità senza contraddittorio: infatti, mentre il giudice valuta se concedere o no il provvedimento richiesto, la controparte non sa nulla dell'iniziativa che si sta svolgendo a suo pregiudizio. In primo luogo, il giudice può ritenere che NON vi siano le condizioni per emettere il decreto ingiuntivo (es. può difettare il presupposto processuale della competenza o della giurisdizione; oppure la domanda può riguardare un oggetto NON previsto dall'art. 633; oppure perchè la domanda monitoria è totalmente carente di prova, ovvero gli elementi forniti non raggiungono il pur modesto livello probatorio previsto dal codice). In questi casi l'ingiungente può riproporre un altro ricorso (stavolta al giudice competente o con la documentazione opportuna) per decreto ingiuntivo o iniziare un ordinario giudizio di cognizione: non si forma alcun giudicato negativo sulla pretesa del ricorrente. La controparte, va ribadito, di tutto questo non sa nulla. Se invece i/ decreto ingiuntivo viene emesso, la fase senza contraddittorio finisce e inizia il confronto con la controparte. Infatti, il ricorso con il decreto ingiuntivo apposto in calce (cioè in fondo) all'atto deve essere notificato alla controparte entro 60 giorni dalla data dell'emissione. Se non viene notificato, vuoi per inerzia dell'ingiungente vuoi perché pur attivandosi, l'ingiungente non riesce a conseguire una valida notificazione entro il termine di legge, i/ provvedimento perde ogni efficacia. Ovviamente la domanda può essere riproposta. Se il decreto ingiuntivo viene notificato tempestivamente e validamente, si instaura il contraddittorio con colui che ora è convenuto. La lite, quindi, inizia con la notifica del decreto ingiuntivo emesso (come ricorda l'art. 643). (Anche se la giurisprudenza parla dal momento del deposito del ricorso in cancelleria) è opportuno aggiungere che tutta la fase sommaria del procedimento si svolge obbligatoriamente con le modalità telematiche. L'EFFICACIA DEL DECRETO INGIUNTIVO. Ricevuta la notifica, il convenuto apprende che è stata proposta una domanda giudiziale nei suoi confronti e che questa sia stata accolta. Però NON è un accoglimento definitivo perchè l'ingiunto può contrastare l'iniziativa dell'ingiunzione mediante la proposizione di un giudizio di opposizione. Si tratta di un giudizio ordinario nel quale /a pretesa del creditore dovrà essere valutata e in cui l'ingiungente perde tutti i vantaggi che aveva conseguito nella fase monitoria senza contraddittorio. Ora è opportuno fare una piccola precisazione. È chiaro che se tutti i decreti ingiuntivi suscitassero un giudizio di opposizione, questa tecnica sarebbe non solo inutile, ma perfino dannosa nell'economia generale della giustizia. In realtà, solo una minima parte dei decreti ingiuntivi viene opposta: infatti, di solito, dietro un ricorso monitorio si ha la situazione di un debitore che non contesta il credito, ma che non può pagare per difficoltà economiche. Ecco allora che un rilevante numero di controversie, anziché dare vita ad altrettanti giudizi ordinari, si risolvono in un provvedimento monitorio, con un sensibile risparmio di energie giudiziarie. In base all'art. 647, “se non è stata fatta opposizione nel termine stabilito 0 è stata fatta, ma l'opponente non si è poi costituito, il giudice, su istanza del ricorrente, dichiara esecutivo il decreto”. Tuttavia, il giudice nel primo caso deve ordinare che sia rinnovata la notificazione, quando risulta o appare probabile che l'intimato non abbia avuto conoscenza del decreto. Quando i/ decreto è stato dichiarato esecutivo, l'opposizione NON può più essere proposta né proseguita SALVO il caso di opposizione tardiva, e la cauzione eventualmente prestata dall'ingiungente è liberata. Quanto all'efficacia del decreto ingiuntivo emesso e non opposto, esso è un titolo esecutivo e consente di iniziare l'esecuzione forzata per espropriazione o per consegna o rilascio (quindi senza il ungo percorso di un giudizio di cognizione). Più discusso è se la situazione del decreto abbia anche efficacia di cosa giudicata sostanziale. In altri termini, se il debitore subisce il decreto ingiuntivo e paga: ci si domanda però se sia anche accertato irrevocabilmente che egli è debitore o se invece egli potrebbe più tardi iniziare un giudizio di cognizione volto ad ottenere la restituzione di quanto pagato indebitamente. L'obiezione sarebbe possibile dato che la cognizione è stata sommaria e incompleta perché il giudice non ha potuto tener conto delle eventuali eccezioni del convenuto, senonché (d'altra parte) l'ingiunto avrebbe potuto sfidarla proponendo opposizione. Tuttavia, oggi si ritiene che l'accertamento contenuto nel decreto monitorio non opposto abbia la forza di giudicato sostanziale sui diritti oggetto della pronuncia del giudice. L'IMMEDIATA ESECUTORIETÀ DEL DECRETO INGIUNTIVO. Di solito il decreto ingiuntivo NON è esecutivo in pendenza del termine per proporre opposizione. Tuttavia, il favore per il creditore trova una norma di particolare efficacia nell'art. 642 c.p.c., in base al quale “i/ giudice, su istanza del ricorrente, può ingiungere al debitore di pagare o consegnare senza dilazione, autorizzando, in mancanza, l'esecuzione provvisoria del decreto e fissando il termine ai soli effetti dell'opposizione”. La immediata esecutorietà del decreto ingiuntivo si realizza in due casi: 1. quando il credito è basato su un documento che già avrebbe forza di titolo esecutivo stragiudiziale (cambiale, assegno bancario, assegno circolare, certificato di liquidazione di borsa, o atto ricevuto dal notaio o altro pubblico ufficiale autorizzato); Il decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo è una delle armi più efficaci per il creditore che può avere interesse ad ottenere un titolo di questo tipo, pur disponendo già di un titolo stragiudiziale, perchè in questo modo acquista altri vantaggi (es. può immediatamente iscrivere ipoteca giudiziale sugli immobili del debitore, così provvisoria esecutorietà, perchè costituisce un efficace bilanciamento delle posizioni: il vantaggio dato all'ingiungente non pregiudica troppo l'ingiunto perchè qualora questo vinca il giudizio di opposizione, ha la certezza di poter recuperare quanto ha pagato. Tuttavia, dopo la dichiarazione di incostituzionalità parziale del 2 comma dell'art 648 con sentenza del ‘84, il giudice non è più vincolato, in caso di offerta della cauzione, ad attribuire la provvisoria esecutorietà al decreto ingiuntivo opposto. * il convenuto-ingiunto chiede che al decreto venga tolta provvisoriamente (sospesa) l'efficacia esecutiva che ad esso era stata concessa. Regolata dall'art. 649 c.p.c.: qui si ha il caso in cui al decreto sia stata immediatamente concessa, nella fase monitoria, la provvisoria esecutorietà e il giudice istruttore su istanza dell'opponente, con ordinanza non impugnabile, quando ricorrono gravi motivi, sospende tale esecuzione provvisoria. La valutazione del giudice sulla provvisoria esecutorietà investe aspetti che presentano analogie con l'inibitoria ordinaria e con le misure cautelari. Egli dovrà valutare comparativamente gli interessi delle parti e formulare un giudizio di verosimiglianza sul diritto vantato. Da questo punto di vista, è importante per il convenuto, che si fa opponente, produrre documentazione probatoria, valutabile senza che si debba organizzare l'istruttoria costituenda, idonea a smentire le tesi dell'ingiungente. IL PROCEDIMENTO DI OPPOSIZIONE. La causa di opposizione prosegue poi fino alla sentenza, secondo le regole ordinarie. Costituendosi in giudizio per resistere all'opposizione, l'ingiungente-opposto (presunto creditore) dovrà dimostrare l'esistenza del diritto vantato in sede monitoria. Egli rimane sostanzialmente attore, per questo la giurisprudenza è orientata nel senso di negare che egli possa proporre una domanda riconvenzionale contro la citazione in opposizione perchè si tratta diuna domanda autonoma che dovrebbe comunque formare oggetto di altro giudizio. Tuttavia, questa soluzione è esatta quando l'opponente-ingiunto (presunto debitore) si sia limitato ad eccepire la mancanza delle condizioni per l'emissione del decreto ingiuntivo (es. l'insussistenza del debito); NON invece se con l'opposizione, l'ingiunto abbia spiegato anche altre domande. Infatti, posto che tali domande hanno natura di domande riconvenzionali rispetto alla domanda originariamente proposta in sede monitoria e posto che una domanda riconvenzionale contro la riconvezionale è sempre possibile, ne segue che nel rispetto delle regole ordinarie, una domanda riconvezionale da parte dell'ingiungente va ritenuta ammissibile. Se poi l'opponente ritiene di dover chiamare un terzo in causa, può chiedere la relativa autorizzazione al giudice in prima udienza; non può invece citare in giudizio il terzo nell'atto di opposizione, il cui oggetto è limitato alla sola contestazione del provvedimento monitorio. Quanto al caso di opposizione proponibile dopo la scadenza del termine, cd. opposizione tardiva, si tratta qui di una espansione del principio della rimessione in termini. Infatti secondo l'art 650 “/'intimato può fare opposizione anche dopo che sia scaduto il termine di legge, se prova di non avere avuta tempestiva conoscenza del decreto per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore”. In questo caso, l'esecutorietà può essere sospesa. L'opposizione, in ogni caso, NON è più ammessa decorsi 10 gg dal primo atto di esecuzione perchè il debitore ingiunto colpito dall'iniziativa esecutiva del creditore, non può non essere informato dell'esistenza dell'ingiunzione e ha l'onere di attivarsi responsabilmente. LA SENTENZA SUL GIUDIZIO DI OPPOSIZIONE. La sentenza che definisce il processo di opposizione risolve la controversia. Se l'opposizione è rigettata, il giudice accerta l'esistenza del diritto fatto valere dall'ingiungente: questo accertamento assorbe e supera il provvedimento monitorio e costituisce la materia del giudicato (che viene a formarsi salva la proponibilità delle impugnazioni ordinarie). Inoltre, in base all'art. 653.1 c.p.c., “se l'opposizione è rigettata con sentenza passata in giudicato o provvisoriamente esecutiva, o è dichiarata con ordinanza l'estinzione del processo, il decreto che non ne sia già munito, acquista efficacia esecutiva”. Se l'opposizione è accolta parzialmente, il titolo esecutivo è sempre costituito esclusivamente dalla sentenza, tuttavia, gli atti di esecuzione già compiuti in base al decreto conservano i loro effetti nei limiti della somma o della quantità ridotta. Se l'opposizione è accolta, gli effetti sono diversi a seconda che il giudizio si sia formato sul merito o su un presupposto processuale. Ad es. l'accoglimento dell'opposizione perchè il rapporto tra le parti è governato da una clausola compromissoria, non elimina il credito, ma impone a chi lo vanta di procedere in arbitrato. Invece, l'accertamento dell'inesistenza del credito avrà piena efficacia nel merito. Con la sentenza che rigetta totalmente o in parte l'opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso sulla base dei titoli dotati di efficacia esecutiva in base alle vigenti disposizioni, il giudice liquida anche le spese e gli onorari del decreto ingiuntivo. Si deve rilevare come ex 655 i decreti ingiuntivi esecutivi (provvisoriamente o stabilmente) e quelli rispetto ai quali è stata rigettata l'opposizione costituiscono titolo per l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale. Un?ipotesi particolare è quella della conciliazione durante il giudizio di opposizione. Qui il problema sta nel coordinare l'efficacia dell'accordo tra le parti con il fatto che esiste già un provvedimento giurisdizionale sulla questione: cioè l'ingiunzione opposta. Perciò la conciliazione suppone sempre, come conseguenza, che sia il giudice a dichiarare o confermare l'esecutorietà del decreto, o a ridurre la somma di denaro o la quantità della prestazione a quella stabilita dalle parti (art. 652). In questo ultimo caso, rimane ferma la validità degli atti esecutivi eventualmente compiuti e dell'ipoteca eventualmente iscritta, fino a conoscenza della somma o quantità come ridotta a seguito dell'accordo e che la riduzione deve essere annotata nei registri immobiliari. L'INGIUNZIONE EUROPEA. Si è già accennato al meccanismo d'ingiunzione europea di pagamento introdotto dal reg. 1896/2006 le cui finalità sono: + semplificare, accelerare e ridurre i costi dei procedimenti per le controversie transfrontaliere in materia di crediti pecuniari non contestati. Secondo l'art 24 il procedimento di ingiunzione europea di pagamento può essere avviato senza la necessaria collaborazione di un avvocato: l'obiettivo è quello di consentire alle imprese di poter gestire il recupero dei crediti risparmiando i costi dell'assistenza legale. Ovviamente l'ingiunzione europea funziona quando non vi è vera contestazione: quando invece sorgerà una lite l'intervento dei professionisti del contenzioso rimarrà fondamentale. * assicurare la libera circolazione in tutti gli stati membri dell'ingiunzione di pagamento europea. Sostanzialmente si muove nel senso di facilitare la circolazione di provvedimenti monitori esecutivi, cd. abolizione dell'exequatur. In realtà, il reg. ha seguito tre scelte di politica legislativa che ne limitano l'efficacia: 1. si applica solo alle controversie transfrontaliere in materia civile e commerciale: si tratta di controversie in cui almeno una delle parti abbia domicilio o residenza abituale in uno Stato diverso dallo stato membro del giudice adito; 2. ilregolamento serve al recupero dei soli crediti non effettivamente contestati, quindi appena sorge un pur blanda contestazione, i vantaggi sfumano e si rientra nel quadro delle possibilità offerte dal diritto processuale nazionale; 3. non impone l'impiego delle norme europee per ottenere un'ingiunzione a carico di un debitore residente in un altro paese, ma lascia piena concorrenza tra il sistema regolamentare e ogni altro procedimento disponibile ai sensi della legislazione dei singoli Stati membri o della legislazione europea Pertanto il creditore italiano che intende perseguire un debitore residente in un altro paese dell'UE ha a propria disposizione: e il meccanismo dell'ingiunzione europea morosità) deve contenere al posto dell'invito e dell'avvertimento al convenuto previsti dall'art 163,3 n. 7 il diverso avvertimento che se non compare o comparendo non si oppone, il giudice convalida la licenza o lo sfratto ai sensi dell'art 663. Tra il giorno della notificazione dell'intimazione e quello dell'udienza devono intercorrere termini liberi non minori di 20 giorni (quindi molto meno rispetto ai 90 giorni del processo ordinario). I termini, se la causa è di pronta soluzione e su istanza di parte, possono essere abbreviati fino alla metà. Le parti si costituiscono, quanto all'attore, depositando in cancelleria l'intimazione con la relazione di notificazione e, quanto al convenuto, con una comparsa di risposta. Per facilitare il convenuto, è previsto che per presentare opposizione e compiere le attività a ciò collegate basti la comparizione personale dell'intimato, senza la necessaria presenza di un difensore tecnico. Nel contempo secondo l'art. 662 c.p.c. “gli effetti dell'intimazione cessano se il locatore non compare a mezzo del difensore all'udienza fissata nell'atto di citazione”. Il carattere sommario del procedimento NON prevede che all'udienza si svolgono specifiche attività. “Se l'intimato non compare o comparendo non si oppone, infatti, il giudice convalida la licenza o lo sfratto e dispone con ordinanza in calce alla citazione l'apposizione su di essa della formula esecutiva” (art. 663 c.p.c.). L'ordinanza non opposta ha efficacia di giudicato sostanziale sul punto dell'esistenza della locazione e della qualità di locatore dell'intimante e di conduttore dell'intimato. La gravità del provvedimento richiede contrappesi. Così sempre l'art. 663 prevede che “il giudice deve ordinare che sia rinnovata la citazione, se risulta o anche solo appare probabile che l'intimato non ne abbia avuto conoscenza o non sia potuto comparire per caso fortuito o forza maggiore”. Inoltre, nel caso che l'intimato non sia comparso, la formula esecutiva ha effetto solo dopo 30 gg dalla data in cui è stata apposta. Inoltre se /o sfratto è stato intimato per mancato pagamento del canone, la convalida è subordinata all'attestazione in giudizio del locatore o del suo procuratore che la morosità persiste. In tal caso, il giudice a garanzia per il convenuto, può ordinare al locatore di prestare una cauzione. Inoltre va detto che in applicazione della normativa in materia di locazione, il conduttore moroso ha diritto a ottenere il termine di grazia: un ulteriore termine entro il quale pagare i canoni scaduti ed evitare il provvedimento di convalida dello sfratto. L'OPPOSIZIONE DELL’INTIMATO. Le particolarità maggiori ovviamente si hanno se l'intimato compare e si oppone. Qui la fase sommaria finisce e si apre un normale giudizio di cognizione. Tuttavia, in base all'art. 665 c.p.c. “se le eccezioni del convenuto non sono fondate su prova scritta, il giudice, su istanza del locatore, se non sussistono gravi motivi in contrario, pronuncia ordinanza non impugnabile di rilascio, con riserva delle eccezioni del convenuto”. In forza dell'art. 666 c.p.c. “se si discute di sfratto per morosità (cioè per mancato pagamento di canoni) e il convenuto nega di essere moroso, contestando l'entità della somma pretesa, il giudice può disporre con ordinanza il pagamento della somma non controversa e concedere al convenuto un termine non superiore a 20 giorni: se il conduttore non ottempera all'ordine di pagamento, il giudice convalida l'intimazione di sfratto e se vi è stata richiesta dell'intimante in questo senso, pronuncia decreto ingiuntivo per il pagamento dei canoni”. Per prova scritta ai sensi dell'art. 665 c.p.c. si intende qui la prova documentale specificamente disciplinata dal c.c.; tuttavia, il giudice può valutare ogni grave motivo in contrario. L'ordinanza è immediatamente esecutiva, ma può essere subordinata alla prestazione di una cauzione per i danni e le spese. Il titolo esecutivo si forma non solo prima dell'accertamento svolto nei due gradi di merito, ma perfino senza aver sviluppato l'accertamento in primo grado. È quindi una ipotesi di condanna con riserva delle eccezioni, cioè di riesame di una parte della materia del contendere, quella che è costituita dalle eccezioni del convenuto. Diversa è l'ipotesi dell'art. 666 c.p.c. dove la condanna al pagamento dei canoni ha luogo sulla base di una mancata contestazione. Quando si parla di giudizio di cognizione si deve intendere il c.d. rito locatizio regolato dall'art. 447-bis c.p.c. che costituisce una versione lievemente modificata del rito del lavoro. Pertanto come risulta dall'art. 667, il giudizio prosegue nelle forme del rito speciale, previa ordinanza di mutamento di rito, secondo lo schema dell'art. 426 esaminato nel processo del lavoro. Alla convalida dello sfratto, quando dipende da morosità del conduttore, può essere associata un'ingiunzione che imponga a quest'ultimo il pagamento dei canoni non corrisposti (art. 658 c.p.C.). Si assiste all'operare combinato di due diverse tutele: + secondo l'art. 664 c.p.c., in questo caso, su domanda dell'attore, il giudice pronuncia separato decreto d'ingiunzione per l'ammontare dei canoni scaduti e da scadere fino all'esecuzione dello sfratto e per le spese relative all'intimazione, con provvedimento dato in calce alla copia notificata dell'atto di intimazione che l'istante ha presentato; * illocatore può non chiedere espressamente il pagamento dei canoni, pertanto in applicazione del principio della domanda, la decisione sullo sfratto ha l'effetto di risolvere solo il contratto di locazione, lasciando impregiudicata ogni questione sui canoni (art. 669 c.p.c.). La combinazione tra le due tutele prosegue nel senso che il decreto è immediatamente esecutivo: contro di esso può essere proposta opposizione ad ingiunzione, nelle forme previste dal c.p.c. per la tutela contro il decreto ingiuntivo comune, tanto che la questione dell'entità dei canoni dovuti resta aperta. Tuttavia, l'opposizione non toglie l'efficacia all'avvenuta risoluzione del contratto nel senso che comunque il rapporto locatizio è risolto e il conduttore dovrà rilasciare l'immobile. Così come per l'ingiunzione, anche qui il codice prevede la possibilità di una opposizione tardiva alla convalida basata sul principio della rimessione in termini della parte incolpevole. Così l'art. 668 c.p.c. dispone che “se la convalida della licenza o dello sfratto è avvenuta in assenza dell'intimato, questo può opporsi, se prova di non averne avuto conoscenza tempestiva per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore”. La sentenza del 89/1972 della Corte Cost ha poi esteso la proponibilità anche al caso in cui l'intimato, pur avendo avuto regolare conoscenza della citazione in giudizio non abbia potuto partecipare all'udienza, presentando le sue difese, sempre per caso fortuito o forza maggiore. Il termine massimo per l'opposizione tardiva è quello di 10 giorni dall'esecuzione: ovviamente è interesse dell'intimato proporla prima in modo da ottenere dal giudice dell'opposizione la sospensione dell'esecuzione, per gravi motivi. L'opposizione si propone davanti al tribunale nelle forme prescritte per l'opposizione al decreto di ingiunzione in quanto applicabili: in questo caso però applicando il rito locatizio 78. Il processo c.d. Sommario. IL PROCEDIMENTO A COGNIZIONE SEMPLIFICATA. La riforma del 2009 ha introdotto un modello di giudizio a cognizione semplificata, applicabile alla generalità delle situazioni senza che occorra alcun requisito di urgenza nella tutela o di irreparabilità del danno, che sfocia in un provvedimento idoneo al giudicato. Si deve subito aver chiaro che la cognizione del giudice del rito chiamato sommario non è sommaria nel senso che non è incompleta o superficiale, ma è piena e adeguata alle caratteristiche di quel caso. LA TRATTAZIONE SEMPLIFICATA. Qualora si opti per il rito a cognizione semplificata, alla prima udienza, cioè quella fissata all'esito del ricorso, il giudice secondo l'art. 702-ter c.p.c. “sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all'oggetto del provvedimento richiesto e provvede con ordinanza all'accoglimento o al rigetto delle domande, nonché sull'attribuzione delle spese di lite”. Il procedimento sommario NON ha quindi regole predeterminate; è ESSENZIALE solo il rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa delle parti. Ovviamente gli atti di istruzione, come già detto, devono essere organizzativamente semplici e la decisione avrà le forme più snelle dell'ordinanza: il tutto si deve svolgere nell'arco di una o più udienze ravvicinate. Nel rito a cognizione semplificata, il giudice NON ha poteri diversi o più ampi rispetto all'indagine sui fatti. può disporre d'ufficio le stesse prove che possono essere disposte d'ufficio dal giudice del rito ordinario. Tuttavia, egli dovrà limitarsi a quelle prove costituende che risultino compatibili con una trattazione rapida: si tratta di un limite organizzativo (e comunque implicito alla scelta di procedere con il rito a cognizione semplificata) e non di un limite di poteri. Può accadere, però, che il giudice NON possa arrivare ad esaminare il merito. Infatti, si può verificare che: 1. il giudice sia incompetente (ad es per materia); 2. chela domanda sia inammissibile perchè non rientra tra quelle suscettibili di essere esaminate con il rito sommario (es. perchè materia affidata al giudice collegiale); 3. che si dia luogo a una di queste ipotesi per la domanda riconvenzionale, talché il giudice ne deve disporre la separazione. In tutti questi casi, il giudice pronuncia con ordinanza e declina di giudicare: la parte interessata potrà riproporre la domanda dinanzi al giudice competente o ricominciare con il rito ordinario e quindi notificando un atto di citazione. GLI EFFETTI DELLA DECISIONE E | LIMITI DI APPLICAZIONE DELLE NORME ORDINARIE. La ragione di fondo per cui il procedimento sommario NON è in realtà sommario, ma è un processo a cognizione piena, anche se semplificata, sta negli effetti della decisione. L'ordinanza NON solo è provvisoriamente esecutiva e costituisce titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione (ovviamente se si tratta di pronuncia di condanna), ma se non è appellata entro 30 giorni dalla sua comunicazione o notificazione passa in giudicato sostanziale come prevede l'art. 702quater c.p.c.. Il giudicato si forma in ogni caso dopo la cognizione semplificata: sia se si tratta di una pronuncia di accoglimento che se si tratta di una pronuncia di rigetto. Del resto al procedimento sommario sono applicabili le norme sul processo ordinario in quanto compatibili con la struttura semplificata del rito. La trattazione semplificata permette l'espansione dell'istituto fino a ricomprendere tutti quegli arricchimenti tipici del rito ordinario, che però non sviano il procedimento dalle sue finalità di rapidità. Ora la radice della capacità espansiva si trova nella scelta legislativa dell'art. 54 della I. 69/2009 attuata con d.lgs. 150/2011 che prevede il rito sommario come uno dei tre modelli tipizzati, in rapporto ai procedimenti regolati dalla legislazione speciale. Tuttavia, è la possibilità per il giudice di scegliere il rito più adatto alla fattispecie concreta a rendere il processo sommario conforme alle esigenze costituzionali di tutela. Lo stesso non si può dire quando all'estensione del rito sommario ai procedimenti speciali non si permetta questa scelta (che funge da contrappeso), ma si adotti seccamente il rito semplificato. IL PASSAGGIO DAL RITO ORDIANARIO AL RITO SOMMARIO DI COGNIZIONE. La |. 162/2014 ha previsto la possibilità inversa a quella finora descritta: si prevede, infatti, la facoltà per il giudice del processo ordinario di passare al rito sommario. Il nuovo art. 183-bis c.p.c. dispone che “il tribunale in composizione monocratica, all'udienza di trattazione di cui all'art. 183, valutata (la stessa valutazione del giudice del rito sommario) la (evidentemente scarsa) complessità della lite e dell'istruzione probatoria, può disporre, previo contraddittorio anche mediante trattazione scritta, con ordinanza non impugnabile, che si proceda nelle forme del rito sommario”. Tuttavia, in tale ipotesi vi è qualche problema di fondo. Occorre, infatti, pensare che nel rito ordinario, le parti sono giunte alla prima udienza senza. aver necessariamente definito la materia del contendere (che può essere completata fino alla seconda delle memorie ex art 183,6), né aver indicato le prove (che possono essere dedotte per la prima volta sempre in tale memoria): quindi il passaggio di rito potrebbe comportare una contrazione del diritto di difesa, in quanto nel rito sommario il ricorso e la comparsa di risposta devono essere completi in tutti gli aspetti, rispettivamente della domanda e della difesa. L'art. 183-bis stabilisce che “i/ giudice invita le parti a indicare nella stessa udienza, a pena di decadenza, i mezzi di prova, ivi compresi i documenti, di cui intendono avvalersi e la prova contraria. Se richiesto può fissare una nuova udienza, e termine perentorio non superiore a 15 giorni per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali e termine perentorio di altri 10 giorni per le sole indicazioni di prova contraria”. Compiuti questi adempimenti, fisserà l'udienza, per definire la causa con il rito a cognizione semplificata. Comunque non appare probabile che il passaggio possa avvenire direttamente all'udienza di trattazione, infatti da un lato ci potrebbe essere la necessità di consentire alle parti di confrontarsi per iscritto, il che suppone un prolungamento dei tempi; dall'altro è bene evitare l'effetto sorpresa e consentire alle parti un lasso di tempo per dedurre le prove costituende e raccogliere i documenti. L'APPELLO. Come detto ex art. 702-quater c.p.c., l'ordinanza emessa a seguito di un procedimento a cognizione semplificata passa in giudicato sostanziale, se non è appellata entro 30 giorni dalla sua comunicazione o notificazione. In tale appello /e regole sui nova sono diverse dallo schema ordinario: infatti, sono ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti quando il collegio li ritiene indispensabili ai fini della decisione o la parte dimostra di non aver potuto proporli nel corso del procedimento sommario per causa ad essa non imputabile. Il presidente del collegio può delegare l'assunzione dei mezzi istruttori ad uno dei componenti del collegio. Rispetto all'art. 345 (in tema di nova nell'appello del processo ordinario) novellato nel 2012, restano qui ammissibili i nuovi documenti e mezzi di prova che la parte non aveva prodotto in precedenza, purchè risultino indispensabili, tali cioè da poter capovolgere la decisione di prima istanza. Ora, l'appello rispetto all'ordinanza che decide il procedimento sommario non equivale all'opposizione contro il decreto ingiuntivo (nel senso che l'appello non svolge un ruolo di cognizione piena in contrapposizione ad una supposta cognizione sommaria). L'estensione dei mezzi di prova proponibili per la prima volta in fase di gravame infatti si spiega con l'esigenza di tutelare la parte soccombente dall'eventuale errore di valutazione del giudice nella pre-analisi del caso e che lo abbia portato a trattare con il rito sommario una controversia che, invece, necessitava della trattazione ordinaria. Inoltre, queste nuove prove sono racchiuse nell'ambito delle difese svolte nella fase sommaria, il che mette in luce la differenza con ipotesi come quella dell'opposizione a decreto ingiuntivo. Il nuovo procedimento è utilizzabile tutte le volte che non occorra una istruzione complessa e, quindi, può essere impiegato nella causa di puro diritto. In queste fattispecie la maggior ampiezza dell'appello sul piano delle prove è del tutto inefficace: eppure non si può negare che la lite di diritto decisa in base agli art. 702-bis e ss., porti al giudicato sostanziale. Quindi la garanzia della corrispondenza fra pienezza di cognizione e giudicato deve essere In materia di volontaria giurisdizione NON si ha giudicato, perciò i provvedimenti sono dati rebus sic stantibus e possono essere sempre modificati o revocati se cambiano le circostanze presenti al momento in cui furono emanati (restando salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede: art. 742 c.p.c.). Sono però dotati di efficacia al pari di ogni provvedimento formalmente giurisdizionale ed acquistano questa forza dopo il decorso dei termini per il reclamo salvo che il giudice per ragioni d'urgenza ne disponga l'efficacia immediata. IL PROCEDIMENTO CAMERALE IN AMBITO CONTENZIOSO. Regolato nel codice del 1942, per assorbire situazioni di esercizio giurisdizionale atipico, senza conflitto, senza pubblica udienza, il procedimento camerale, con uno sviluppo parallelo a quello del procedimento cautelare si è trovato a svolgere compiti diversi. A poco a poco, il legislatore ha affidato a questo rito la soluzione di questioni di maggiore spicco, sino a valicare il limite della cognizione su controversie in materia di diritti soggettivi. Questa opzione suscitò, fra la fine degli anni '70 e gli inizi degli anni '80, una ripetuta serie di interventi della Corte Cost. che costruì un sistema di tutele minimali, il cui rispetto condizionava il legislatore che avesse voluto avvalersi del rito camerale in materia di diritti soggettivi: il contraddittorio, il diritto alla prova, l'assistenza tecnica, così che ne uscì un procedimento potenziato. Questa operazione di potenziamento finì per dare mano libera al legislatore, che al prezzo delle tutele minime, poteva spaziare nella scelta del rito camerale in ambiti contenziosi che per varie ragioni si intendeva sottrarre alle lentezze del giudizio ordinario. Si è assistito allora ad una prima fase di espansione del procedimento in camera di consiglio che suscitò non poche critiche. Il rito camerale, definitivamente uscito dai confini della volontaria giurisdizione si è prestato a molti impieghi: non solo in materia familiare, ma anche in altri settori. È diventato un contenitore neutro, acquisendo il ruolo di modello alternativo al processo ordinario di cognizione. Negli anni successivi, l'aggravarsi della crisi del processo ordinario, non solo non ha arrestato, ma ha ulteriormente incentivato l'impiego della camera di consiglio: dall'art. 736-bis c.p.c. relativo all'azione civile contro la violenza nelle relazioni familiari alla I. 149/2001 in tema di adozione e procedimenti relativi alla potestà dei genitori. Tuttavia, tale tendenza sembra arrestarsi dato che la legge 69/2009 e il relativo decreto di attuazione, ovvero il d.lgs. 150/2011 non hanno incluso il rito camerale tra i modelli di tutela dei diritti, che restano circoscritti ai riti ordinario, lavoristico e sommario. Occorre, però, dare conto di un recente ritorno alla ribalta del procedimento in camera di consiglio. Una legge del 2017, che governa la delicatissima materia della protezione internazionale (collegata ai fenomeni di immigrazione), applica alle controversie che nascono su questi temi, dopo l'espletamento della fase amministrativa, il rito camerale, di cui, per di più, è attuata una versione del tutto peculiare rispetto allo schema del codice, in cui si ha al centro dell'istruttoria la videoregistrazione del colloquio con l'interessato raccolta in sede amministrativa e dove il giudice volendo può decidere senza udienza. Poi la legge del 2018 sottopone a questo rito camerale speciale le controversie relative ai provvedimenti amministrativi che negano lo status di rifugiato, la protezione sussidiaria e la protezione speciale per ragioni umanitarie. Quindi vediamo come il rito camerale è tutt'altro che tramontato. LE GARANZIE COSTITUZIONALI. Mentre si ammette pacificamente che il rito camerale, rafforzato dal rispetto di un livello minimo di contraddittorio e di facoltà di prova, costituisce un'opzione legittima, anche in materia di diritti soggettivi, più delicato è il discorso in rapporto al 1 comma dell'art. 111 Cost. con il suo richiamo al giusto processo "regolato dalla legge" e all’art. 24 Cost. Ci si chiede insomma se la povertà di linee del rito camerale non scenda sotto il livello di una efficace predeterminazione legislativa delle regole processuali costituendo una forma di svuotamento della previsione della legge fondamentale. Ora, è chiaro che il processo preferibile è quello che meglio si attaglia al caso singolo, e quindi sul piano teorico formule flessibili ed elastiche sono preferibili rispetto a quelle rigide. Tuttavia, elasticità e discrezionalità non coincidono: ® elasticità: significa che la struttura di base del processo può conoscere, in determinati snodi, una serie di varianti in una gamma conoscibile a priori alle parti e al giudice; * discrezionali: significa che il giudice governa il processo, secondo l'opportunità del caso, nello spazio tra l'atto introduttivo e la decisione. La flessibilità non è esclusa né dall'art. 111 né dalle norme europee; però il rito camerale non è elastico, ma solo discrezionale. Ora, l'ampio impiego del rito camerale veniva giustificato sulla base dell'idea che determinate controversie potessero essere meglio governate con un procedimento semplice e rapido. Si rileva infatti, che i/ processo ordinario a cognizione piena, non è più in grado di soddisfare le reali esigenze di tutela giurisdizionale e quindi bisogna ricorre a forme semplificate. Però abbiamo anche detto che i riti semplificati sono in realtà forme ridotte del rito a cognizione piena con capacità di rispandersi tutte le volte che appare necessario; invece il rito camerale è un rito sommario con molti limiti di sviluppo verso forme di maggiore articolazione. Infine, bisogna anche guardare il rito camerale dal punto di vista pragmatico: cioè dal profilo dei tempi e costi di questo procedimento, confrontati con quelli del giudizio ordinario. Ecco quale il punto di forza del rito camerale e ne esce quindi rafforzata la tentazione di cameralizzare quanto più possibile. L'INADEGUATEZZA STRUTTURALE DEL RITO CAMERALE SUI DIRITTI. Le sentenze della Consulta mentre impongono la presenza di un livello minimo di contraddittorio, NON si esprimono sulla gradazione e intensità che le garanzie difensive devono assumere all'interno del rito camerale. Inoltre, l'estensione del rito camerale ne ha comportato l'applicazione a controversie di sempre maggiore complessità. È quindi utile chiedersi se questo procedimento non solo è in grado di garantire un contraddittorio e il diritto di difesa, ma se sia anche in grado o meno di governare eventuali situazioni complesse per ragioni di diritto o di fatto. Ora, il procedimento camerale ora presenta due lacune: 1. Modidi sviluppo della difesa: che vengono compromessi. Infatti, in ogni giudizio, anche in quelli in cui si adottano le tecniche che impongono alle parti di "vuotare il sacco" in un primo e tendenzialmente unico atto scritto difensivo, non si esclude mai la possibilità di ulteriori momenti (es. la discussione orale) nei quali le linee difensive possano essere integrate e corrette, in rapporto alle reciproche posizioni, ovvero all'esito delle prove. La facoltà di replica è uno dei cardini di ogni corretta costruzione basata sul contraddittorio. Ebbene nel procedimento camerale la replica non è possibile. Il risultato è una sorta di contraddittorio minor, forse costituzionalmente compatibile perché superiore al livello di sussistenza indicato dalla Consulta, ma certo non appagante. 2. Prove: nessuno infatti dubita che il giudice del rito camerale disponga dei poteri inquisitori. Questo comporta che le indagini possono essere attuate senza che le parti siano messe in grado di apportare il loro contributo e senza che possano adeguatamente orientarle in relazione all'esatta determinazione del tema di indagine e ai punti di difesa che esse intendono sviluppare. La Cassazione al riguardo non solo ha riconfermato la totale ampiezza dei poteri inquisitori del giudice camerale, ma ammette che il giudice possa fondare il proprio convincimento anche su elementi istruttori raccolti "aliunde" rispetto alle informazioni di cui all'art. 738 c.p.c. Il caso che meglio rappresenta questa situazione è quello delle indagini affidate ai servizi sociali in materia di processo minorile: è ovvio che se le indagini costituiscono un momento rilevante nella formazione del convincimento del giudice, non è pensabile che le parti interessate siano totalmente escluse non solo dal commentarne l'esito (il che è il minimo), ma obbligazioni, ossia offre una sorta di “pacchetto di servizi” dietro compenso (come determinare le tariffe, nominare gli arbitri, fornire i supporti materiali per lo svolgimento dell’arbitrato, di fissare le regole di procedura). Varie ragioni possono indurre le parti ad optare per un arbitrato amministrato: l'autorevolezza degli altri, la sede, i costi spesso calmierati. Con la riforma del 2006 si è cercato di dare sostegno soprattutto all’arbitrato amministrato, il quale è l’arbitrato più simile ad una decisione resa da un organo giudiziario. In base, dunque, all’art. 832 c.p.c., “il patto di arbitrato può fare rinvio a un regolamento arbitrale precostituito” (tuttavia bisogna distinguere tra arbitrati amministrati veri e propri, in cui le parti scelgono di fare governare l'intero procedimento dall'istituzione di arbitrato, e arbitrati regolamentati, i quali sono arbitrati ad hoc in cui però come regole di procedura vengono richiamate quelle di una certa istituzione di arbitrato). Nonostante l’arbitrato obbligatorio sia vietato, vi possono però essere situazioni (si pensi alla materia dei lavori pubblici) in cui l’arbitrato è obbligatoriamente amministrato, e questi sono gli “arbitrati da legge”. 81. Il patto di arbitrato. La nomina degli arbitri. IL PATTO DI ARBITRATO. Alla base del patto di arbitrato vi è un atto di volontà negoziale delle parti che fonda e limita il compito degli arbitri, e questo negozio viene detto convenzione o patto di arbitrato. Abbiamo detto che nella convenzione di arbitrato, le parti si accordano per fare decidere una loro controversia ad uno o più arbitri, sottraendola alla giurisdizione del giudice dello Stato. Il patto di arbitrato può essere di due tipi: + Compromesso (art. 807): quando le parti si accordano per deferire agli arbitri una controversia già insorta; * Clausola compromissoria (art. 808): quando all’interno di un contratto o con atto separato in relazione ad esso si inserisce una clausola che prevede il deferimento agli arbitri delle eventuali future controversie che sorgessero dal contratto. Tipologia più frequente. Il codice si preoccupa di stabilire, in primo luogo, quali materia possano essere fatte oggetto di convenzione di arbitrato. A seguito della riforma del 2006, l'ambito delle materie che possono essere oggetto di arbitrato sono: ® quelle che non hanno ad oggetto diritti indisponibili, ma vi sono orientamenti giurisprudenziali che hanno posizioni diverse su alcune materie, e inoltre il legislatore può scegliere di limitare ulteriormente questa materia (es. oggi viene previsto in materia di processo di lavoro); ® controversie relative a diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo (art. 12 codice del processo amministrativo); e lecontroversie future relative ad uno o più rapporti non contrattuali determinati (art. 808 bis c.p.c.). Differisce dalla clausola compromissoria, in quanto NON è accessorio al contratto, è un patto di arbitrato sui generis. Il contenuto del patto di arbitrato consta di un contenuto necessario, costituito dalla volontà di assoggettare ad arbitrato la controversia o le controversie tutte in una certa materia, e un contenuto eventuale. Un patto di arbitrato sui generis è quello previsto dall'art. 1 della legge n. 162/2014 per favorire la riduzione dell’arretrato civile, infatti in molte cause già pendenti davanti a giudici ordinari al momento di entrata in vigore della legge, le parti possono di comune accordo richiedere di promuovere un arbitrato rituale per definire la controversia. Questo arbitrato viene detto arbitrato forense poiché viene deciso da un arbitro o da un collegio di avvocati nominati dalle parti o dal presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati del luogo in cui ha sede l’autorità giudiziaria. I REQUISITI DI VALIDITÀ DEL PATTO DI ARBITRATO. In base agli artt. 807, 808 e 808 bis c.p.c., il patto di arbitrato deve avere forma scritta, pena la nullità, e inoltre esso deve determinare l'oggetto della controversia (anche se questa disposizione è meno radicale nel caso della clausola compromissoria, ma si devono comunque indicare chiaramente quali tipi di controversie saranno oggetto dell’arbitrato). L'art. 808 quater dispone che, “nel dubbio, la convenzione di arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce”. Il patto di arbitrato, essendo di natura contrattuale, è sottoposto alle regole che valgono per i contratti, e dunque, in base all’art. 808, “il potere di stipulare la clausola compromissoria è quindi compreso quello di concludere il contratto cui la clausola inerisce”, altrimenti, se la persona che ha contrattato non ne aveva i poteri, sia il contratto sia la clausola sono invalidi. In base, però, all'art. 808 comma 2, “la validità della clausola compromissoria va valutata in modo autonomo rispetto al contratto cui si riferisce”: e molto importante questo norma: se viene eccepita l’inefficacia del contratto, salvo il caso di carenza di poteri, lo strumento per risolvere la controversia e verificare la sussistenza dell’inefficacia, è l’arbitrato. Come il contratto, i/ patto di arbitrato è valido solo per le parti che l'hanno sottoscritto, MA vi sono casi in cui la circolazione del contratto comporta anche quella della clausola, come ad esempio nei casi di cessione del contratto, cessione del credito derivante da un contratto, e ingresso in enti associativi o societari. In base poi all'art. 808 quinquies, “la conclusione del procedimento arbitrale senza pronuncia sul merito non toglie efficacia alla convenzione di arbitrato”, ed è stato così superato l'orientamento giurisprudenziale che riteneva che il patto di arbitrato si consumasse una volta messo in atto (dunque se il procedimento si concludeva senza un lodo, l'eventuale ripresa del litigio non poteva più farsi di fronte ad un arbitro). LA NOMINA DEGLI ARBITRI. Il problema più delicato dell’arbitrato è però, forse, la scelta dell’arbitro, e la legge cerca per questo di garantire l’equilibrio tra le parti nella formazione di un collegio arbitrale, e di proteggerle di fronte a situazioni di non imparzialità degli arbitri. Oltre a dovere sempre rispettare il contraddittorio e l’imparzialità, il codice impone anche un numero dispari per gli arbitri (art. 809), in modo da avere sempre una maggioranza (di solito si hanno 10 3 arbitri, raramente di più). In caso di indicazione di un numero pari di arbitri, se le parti non hanno diversamente convenuto, un ulteriore arbitro è nominato dal presidente del tribunale. La convenzione di arbitrato può indicare nominativamente l’arbitro o gli arbitri, ma avviene più frequentemente che la convenzione indichi solo il numero e le modalità di nomina degli arbitri, mentre, se non viene indicato nemmeno questo, gli arbitri sono tre e vengono nominati dal presidente del tribunale. La più classica modalità di nomina, nonché modello di legge, è quella della c.d. clausola binaria, in base alla quale ogni parte nomina un arbitro, e poi le parti o gli arbitri nominati scelgono insieme il terzo, che verrà eventualmente scelto da qualcun altro in caso di disaccordo (es. presidente di un organo giudiziario, del tribunale, di un ordine professionale o di una camera di commercio, ecc.). In base all'art. 810 c.p.c., “quando sono le parti a dovere nominare gli arbitri, ogni parte con atto notificato per iscritto, rende noto all’altra l'arbitro o gli arbitri nominati da essa, con invito a procedere alla designazione dei propri, e la parte cui viene rivolto l’invito deve notificare per iscritto nei 20 giorni successivi le generalità dell’arbitro o degli arbitri nominati”. Se la controparte non si attiva, la parte che ha fatto l'invito può chiedere con ricorso che la nomina venga fatta dal presidente del tribunale nel cui circondario si trova la sede dell’arbitrato. Il presidente del tribunale competente provvede in questo caso alla nomina richiesta, se il patto di arbitrato non è manifestamente inesistente o non prevede manifestamente un arbitrato estero. LE FONTI DEL PROCEDIMENTO ARBITRALE. È raro che le clausole compromissorie per arbitrato ad hoc contengano disposizioni specifiche dedicate al procedimento, di solito, invece, le clausole sono molto sintetiche e non vanno oltre ad indicazioni sulle modalità di nomina degli arbitri, sulla natura dell'arbitrato e sul termine per rendere il lodo. Mentre è diverso il caso in cui le parti si affidino ad un arbitrato che viene interamente regolamentato o amministrato con il rinvio alle disposizioni procedurali di un certo regolamento. Questo silenzio delle clausole negli arbitrati ad hoc deriva dal fatto che nessuna delle parti al momento del contratto vuole insistere troppo sull'ipotesi di una futura lite, poiché altrimenti questo farebbe insorgere nell’altra parte il sospetto di una volontà di non adempiere, e questo potrebbe compromettere la conclusione del contratto. Dal 2006, l'art. 816 bis c.p.c. fissa due grandi regole: * affidando agli arbitri il compito di disciplinare il procedimento _ne/ modo che considerano più opportuno, se le parti non lo hanno fatto, o l'hanno fatto ma senza utilizzare la necessaria forma scritta; + comminandola nullità per violazione di regole procedurali solo quando il comportamento degli arbitri contrasta con indicazioni specifiche dettate dalle parti per cui esse abbiano specificamente previsto la nullità. In questo articolo viene previsto un unico limite, ossia il rispetto del contraddittorio (vincolo normativo), mentre rimane valido il fatto che ogni giudizio deve rispettare alcune modalità essenziali quali l’imparzialità (vincoli strutturali). Anche quando gli arbitri decidono di applicare le norme codicistiche sul processo ordinario, l’ambiente in cui il procedimento si svolge resta del tutto informale. Le norme cercano di facilitare, per quanto possibile, lo svolgimento del giudizio, attribuendo rilevanti poteri autonomi ai difensori, per cui la procura si estende a qualsiasi atto del procedimento. Per quanto riguarda invece l’arbitrato amministrato, l’art. 832 ribadisce la regola per cui le disposizioni della convenzione di arbitrato prevalgono in caso di contrasto con quanto previsto nel regolamento arbitrale; inoltre, in caso di successione di diversi regolamenti si applica quello in vigore al momento in cui il procedimento arbitrale ha inizio, a meno che le parti non abbiano convenuto diversamente. LA SEDE. L'unico limite che pone la legge per quanto riguarda la sede è il fatto che essa si deve trovare in Italia, ma il luogo concreto può essere liberamente fissato dalle parti o dagli arbitri; se né le parti né gli arbitri provvedono, l’art. 816 c.p.c. dispone che /a sede debba essere il luogo in cui è stata stipulata la convenzione di arbitrato e se il patto di arbitrato è stato stipulato all’estero la sede sarà Roma. Se la convenzione d’arbitrato non dispone diversamente, gli arbitri possono tenere udienza, compiere atti istruttori, deliberare e apporre le loro sottoscrizioni al lodo anche in luoghi diversi dalla sede dell’arbitrato e anche all’estero. La sede è dunque più un luogo di riferimento giuridico, che ha la funzione di qualificare l’arbitrato come italiano e identificare la corte d'appello di fronte alla quale si può impugnare il lodo. Se le parti non hanno scelto una lingua per il procedimento, la possono scegliere gli arbitri, ma questa scelta deve essere rispettosa dell’esercizio del diritto di difesa. LA DOMANDA DI ARBITRATO. Il procedimento arbitrale inizia con la domanda di arbitrato che viene definita dall'art. 669 octies c.p.c. come l’atto che una parte deve notificare e caratterizzato da tre elementi: 1. la dichiarazione di voler promuovere il procedimento arbitrale; 2. la proposizione della domanda; 3. lamomina dell’arbitro. La domanda di arbitrato è simile ad un atto introduttivo di un giudizio ordinario, tanto che la riforma del 1994 ne ha previsto l'idoneità a interrompere la prescrizione e ad essere trascritta, così come l’atto di citazione. Vi sono però anche importanti differenze, infatti per la domanda di arbitrato NON sono previsti rigorosi requisiti formali (es. le conclusioni non sono immodificabili). La legge tace però sulla difesa della controparte, che è in sostanza un atto in cui essa nomina il proprio arbitro e dichiara di opporsi alla domanda della parte istante. L'oggetto del giudizio arbitrale verrà invece a formarsi progressivamente: una volta costituito il collegio, le parti avranno modo di scambiarsi scritti difensivi, in cui emergano i fatti, saranno dedotte le prove, verranno analiticamente indicate le domande. In base all'art. 829 comma 1 n. 12 c.p.c. è nullo il lodo che non abbia pronunciato su alcune delle domande ed eccezioni proposte dalle parti; dunque la materia del contendere viene certamente a formarsi, tanto che si può configurare un vizio di omessa pronuncia, ma con modalità diverse da quelle dell'ordinario percorso civile. Negli arbitrati bisogna comunque rispettare i tempi brevi dello svolgimento del giudizio, sebbene non vi siano preclusioni rigide. L'ISTRUZIONE PROBATORIA. Il lodo arbitrale deve risolvere la controversia con un accertamento analogo a quello del giudice, ma differenza di questo, nel lodo i poteri dell'arbitro sono limitati, infatti, ad esempio, gli arbitri possono ritenere utile ascoltare testimoni, ma non possono imporre al terzo di presentarsi dinanzi a loro. L’art. 816 ter dispone che “gli arbitri possono assumere direttamente presso di sé la testimonianza o deliberare di assumere la deposizione del testimone nella sua abitazione o nel suo ufficio, se il testimone vi consente”. Si può anche richiedere al testimone di fornire per iscritto risposte a quesiti nei termini che stabiliscono gli arbitri. Se un testimone si rifiuta di comparire davanti agli arbitri, essi possono richiedere al presidente del tribunale della sede dell’arbitrato che ne ordini la comparizione davanti a loro. L’art. 816 ter chiarisce anche che gli arbitri possono nominare consulenti tecnici e chiedere informazioni alla pubblica amministrazione (ma se il consulente deve esaminare documenti che una parte o un terzo di rifiuta di dargli, l'arbitro nulla può fare a riguardo). Infine, se gli arbitri ritengono di provvedere ad alcune questioni che si presentano nel corso del procedimento con lodo non definitivo, provvedono con ordinanza revocabile, e inoltre le parti e gli altri arbitri possono autorizzare, ex art. 816 bis, il presidente del collegio arbitrale a deliberare in via monocratica le ordinanze sullo svolgimento del procedimento. L'ARBITRATO A PLURALITÀ DI PARTI. La carenza di poteri di imperium degli arbitri si ripropone in caso di arbitrato con più di due part (c.d. Arbitrato multi-parti). L’art. 816 quater cerca di diminuire la distanza tra gli arbitri e i giudici ordinari, che sono in grado di risolvere d'autorità tutti i problemi del contenzioso soggettivamente complesso. Se infatti più di due parti sono vincolate dalla stessa convenzione di arbitrato, la parte attrice potrebbe trovarsi nella difficoltà di costituire un collegio equilibrato (si pensi ad un attore e 3 convenuti se ognuno nomina un arbitro), e per questo, in base all’art. 816 quater, ogni parte può convenire tutte o alcune delle altre nello stesso procedimento arbitrale solo se si verifica una di queste condizioni: 1. sel patto di arbitrato devolve a un terzo la nomina degli arbitri; 2. se gli arbitri sono nominati con l'accordo di tutte le parti; 3. se le altre parti, dopo che la prima ha nominato l’arbitro o gli arbitri, nominano d’accordo un eguale numero di arbitri o ne affidano ad un terzo la nomina. Se non si verifica nessuna di queste tre condizioni: * sesitratta di un litisconsorzio facoltativo il procedimento iniziato da una parte nei confronti di altre si scinde in tanti procedimenti quante sono le altre parti, e dunque si svolgeranno più arbitrati; * se èunlitisconsorzio necessario, l’arbitrato è improcedibile e dunque non si può fare, dunque si ritorna al giudice ordinario. Se però le due decisioni non sono concordi, si può eseguire l’impugnazione fino ad arrivare alla Cassazione. Tuttavia, con la sent. n. 223 del 2013, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 819 ter comma2, nella parte in cui escludeva un meccanismo di riassunzione reciproca tra giudici e arbitri in caso di dichiarazione di incompetenza degli uni o degli altri; oggi si ha quindi una forma di translatio iudicii. ARBITRATO E MISURE CAUTELARI. Per quanto riguarda il rapporto tra arbitri e misure cautelari, l'art. 818 c.p.c. dispone che “gli arbitri non possono concedere sequestri né altri provvedimenti cautelari, salva diversa disposizione di legge”. Un’eccezione si trova ad esempio nell’art. 35 del d.lgs. n. 5/2003, in cui si attribuisce agli arbitri di arbitrati societari il potere di sospendere le delibere societarie impugnate. 84. La deliberazione e il lodo. IL TERMINE PER LA PRONUNCIA DEL LODO. Gli arbitri, in quanto mandatari, devono pronunciare il lodo entro un termine prefissato dal patto di arbitrato o nel termine di 240 giorni dall’accettazione della nomina (art. 820) Tuttavia il tempo della pronuncia dovrebbe essere in ogni caso relativamente breve (in quanto la velocità dovrebbe essere proprio uno dei punti che fanno preferire l’arbitrato al giudizio ordinario). Il termine, prima della sua scadenza, PUO essere prorogato dalle parti o dai loro difensori con dichiarazioni scritte indirizzate agli arbitri o dal presidente del tribunale del foro a cui il procedimento arbitrale è collegato, su istanza motivata di una delle parti o degli arbitri. Inoltre, la legge dispone che il termine può essere prorogato di 180 giorni se: + devono essere assunti mezzi di prova; * se è disposta consulenza tecnica d'ufficio; * se è pronunciato un lodo non definitivo o un lodo parziale; + se viene modificata la composizione del collegio arbitrale; * seè sostituto l'arbitro unico. Nel caso in cui l’arbitro sospenda il procedimento, il termine viene sospeso per tutto il tempo della sospensione, e una volta ripreso, se è inferiore, viene sempre esteso a 90 giorni. Se il termine per la pronuncia del lodo NON viene rispettato, il lodo può essere impugnato per nullità e può essere fonte di responsabilità per gli arbitri, ma soltanto se la parte, prima della sottoscrizione del lodo, ha notificato alla controparte e agli arbitri che intende far valere la loro decadenza, altrimenti il termine si intende tacitamente prorogato. DELIBERAZIONE E CONTENUTO. Al termine del procedimento gli arbitri emettono il lodo, che in caso di arbitrato rituale, ha la stessa efficacia di una sentenza. Come i giudici, gli arbitri decidono secondo diritto. Non è però automatico che si tratti del diritto italiano. La legge sostanziale applicabile all’arbitrato è la legge sulla base della quale gli arbitri giudicheranno il merito della controversia: quella, cioè, che regola il rapporto sostanziale e non necessariamente coincide con la legge processuale, che invece disciplina gli aspetti legati alla formazione del collegio e al suo funzionamento. Pertanto, mentre la disciplina del procedimento è quella interna, le parti, nell'ambito della loro autonomia, possono certamente imporre agli arbitri di scegliere una determinata legge, diversa da quella italiana. Se ciò non avviene, e la controversia presenta aspetti non riconducibili all'ordinamento interno, gli arbitri devono applicare le norme comuni di diritto internazionale privato italiano. Per quanto concerne la volontà degli arbitri, è evidente che nessun problema sorge se vi è un arbitro unico. Se invece si tratta di un collegio occorre formare la maggioranza. La deliberazione, nel caso in cui gli arbitri risiedano in luoghi distanti (ad esempio nel caso di arbitrati internazionali), può avvenire anche senza la contemporanea presenza fisica di tutti gli arbitri, ma ad esempio attraverso una teleconferenza, o attraverso la circolazione della minuta di lodo redatta al presidente e poi modificata in base alle osservazioni degli arbitri. Ciò che conta è che tutti gli arbitri abbiano la possibilità di esprimere pienamente il loro punto di vista. Abbiamo detto che in caso di collegio di arbitri si deve raggiungere la maggioranza, e questo viene disposto dall'art. 823, il quale, tuttavia, dispone anche che il lodo deve essere redatto per iscritto. Lo stesso art. 823 fissa il contenuto del lodo, stabilendo che esso deve contendere: 1. ilnome degli arbitri l'indicazione della sede dell’arbitrato 2 3. l'indicazione delle parti 4. l’indicazione della convenzione di arbitrato e delle conclusioni delle parti 5. l'esposizione sommaria dei motivi 6. il dispositivo 7. la sottoscrizione degli arbitri 8. la data delle sottoscrizioni La mancanza di motivazione, dispositivo e sottoscrizione sono motivi di nullità del lodo. Per quanto riguarda le sottoscrizioni (7), non è estraneo all’arbitrato il fenomeno del filibustering, ossia l’ostruzionismo che uno degli arbitri attua per evitare una pronuncia tempestiva del lodo e per causarne così la nullità. La prassi ammette, per questo, che venga precisato se il lodo è stato deliberato all'unanimità o a maggioranza, e l'arbitro dissenziente può eventualmente richiedere che la sua posizione minoritaria venga annotata all’interno della motivazione o redigere una dissenting opinion. L'EFFICACIA DEL LODO. Si apre a questo punto il delicato profilo dell'efficacia del loro rituale. Prima della riforma del 2006, si erano cristallizzate due posizioni: * Posizione negozialista: secondo la quale l’arbitrato è un fenomeno che appartiene interamente all'autonomia privata delle parti, ed il lodo ha quindi natura negoziale, e l’effetto di esecutorietà deriva dalla giustapposizione di un comando statuale ad un atto tra privati (e dunque non vi è differenza tra lodo rituale e irrituale); * Posizione giurisdizionalista: secondo la quale il lodo ha natura di sentenza, e dunque la genesi dell’arbitrato appartiene alla sfera privata delle parti, ma una volta affidata la controversia agli arbitri si ha un provvedimento analogo ad una sentenza, e dunque la sua esecutorietà discende dall’omologazione come effetto naturale (e dunque vi è una radicale differenza tra lodo rituale e irrituale, perché quest’ultimo non segue un percorso fissato normativamente, ed ha dunque efficacia di contratto). Con la riforma del 2006 (sulla scia di una sentenza della Cassazione e di una della Corte Costituzionale) si è compiuta una scelta in favore della posizione giurisdizionalista, e si è infatti affermato che vi è una netta distinzione tra arbitrato rituale e irrituale. All’art. 824 bis viene infatti disposto che “i/ lodo rituale ha gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria, e ciò dalla data dell’ultima sottoscrizione”. Per la sua esecutorietà, diversa dall’efficacia, il lodo va previamente omologato dal giudice statuale, secondo un apposito procedimento regolato dall’art. 825 (di cui parleremo a breve). Per quanto concerne la redazione del lodo, l'art. 824 dispone che “gli arbitri devono redigerlo in uno o più originali, e gli arbitri devono poi dare comunicazione del lodo a ciascuna parte consegnando un originale o una copia attestata conforme dagli arbitri, entro 10 giorni dalla sottoscrizione del lodo”. Si può dunque dire che i/ lodo, una volta sottoscritto, è pienamente efficace, ma, come si è già notato, per esecuzione forzata richiede un intervento da parte dello Stato, e non vi possono dunque provvedere gli arbitri. 8. se illodo è contrario ad un altro precedente lodo non più impugnabile o a una precedente sentenza passata in giudicato, purché l'uno e l’altra siano stati prodotti nel procedimento; 9. se nel procedimento arbitrale è stato violato il principio del contraddittorio; 10. se il lodo omette di decidere nel merito mentre il merito doveva essere deciso dagli arbitri; 11. se il lodo contiene disposizioni contraddittorie; 12. se illodo non ha pronunciato su alcune domande ed eccezioni proposte dalle parti in conformità alla convenzione di arbitrato. Questi motivi proteggono dunque essenzialmente tre interessi: * il rispetto della volontà delle parti; * l’equilibrio tra le parti; * leforme classiche di controllo sull'attività decisoria. L’impugnazione per nullità è comunque protetta dall'ordinamento, infatti essa è possibile nonostante qualunque preventiva rinuncia (mentre, la parte che ha causato un motivo di nullità o che ha rinunciato successivamente ad avvalersene o non ha eccepito nella prima istanza o difesa successiva la violazione di una regola che disciplina lo svolgimento del procedimento, non può impugnare il lodo per questo motivo). L’impugnazione per violazione delle regole di diritto non è solitamente ammessa, ed è possibile solo se: 1. è espressamente voluta dalle parti; 2. è espressamente disposta dalla legge; 3. illodo è contrario all’ordine pubblico; 4. in ognicaso nelle controversie in materia di lavoro o di rapporti regolati dall'art. 409. 5. in ogni caso se la violazione delle regole di diritto riguarda la soluzione di una questione pregiudiziale su materia non compromettibile in arbitri. Inoltre si deve ritenere sempre ammessa l’impugnazione del lodo per violazione di regole fondamentali del diritto Ue. LA DECISIONE SULL’IMPUGNAZIONE. Se l’impugnazione viene rigettata il lodo viene confermato, ma se essa viene accolta la corte d'appello dichiara la nullità (totale) del lodo, o fa sua nullità parziale se il vizio incide solo su una parte del loro scindibile dalle altre. In base all'art. 830 c.p.c. si possono avere due tipi di casi: 1. quelli in cui si ha una semplice nullità del lodo con la conseguenza che le parti dovranno ricostituire un nuovo collegio o stipulare una nuova clausola (questi sono i casi dell'art. 829 comma 1n. 1, 2, 3,4, e 10, e il caso in cui le parti abbiano positivamente escluso l'intervento del giudice dello Stato anche in caso di dichiarazione di nullità del lodo) 2. casi in cui il giudice trattiene la controversia e decide nel merito (questi sono invece tutti i casi di nullità per violazione di norme di diritto e le ipotesi di annullamento per gli altri motivi dell'art. 829 comma 1). Per gli arbitrati con elementi di internazionalità (ossia quelli per salvaguardare il diritto di parti straniere di non assoggettarsi alla giurisdizione pubblica italiana, ma solo al giudice privato) vi è invece la regola opposta, nel senso che in questi casi la corte d'appello dopo la pronuncia di nullità del lodo decide nel merito soltanto se le parti lo hanno stabilito nel patto di arbitrato o ne fanno concorde richiesta. GLI ALTRI MEZZI DI IMPUGNAZIONE DEL LODO. Il lodo può essere impugnato anche con la revocazione e l'opposizione di terzo. L'art. 831 dispone che “il lodo, nonostante qualsiasi rinuncia, è soggetto alla revocazione straordinaria e ad opposizione di terzo, e queste impugnazioni vanno proposte di fronte alla corte d'appello nel cui distretto si trova la sede dell’arbitrato”. 86. Arbitrato rituale e irrituale. Arbitrato societario. ARBITRATO RITUALE E IRRITUALE. Nell'ordinamento italiano, a differenza degli altri, vi sono due tipi di arbitrato, ossia: * Rituale: governato dalle norme del codice civile, e il cui esito è un lodo che ha gli effetti della sentenza giurisdizionale. È lo sbocco razionale del riconoscimento dello Stato alla capacità di autodeterminazione dell'autonomia privata nella risoluzione di una lite. e Irrituale: disciplinato dall’art. 808 ter c.p.c. L’arbitrato irrituale è il modo di regolare un conflitto di interessi raggiungendo una determinazione contrattuale attraverso un processo. Il risultato finale di un arbitrato irrituale è un lodo con effetto di contratto tra le parti, e dunque possono essere oggetto di questo arbitrato solo conflitti che permettano una determinazione contrattuale secondo la definizione dell'art. 1321 c.c. Inoltre questa composizione di interessi di natura contrattuale si ottiene attraverso un processo, e ciò suppone l'osservanza di norme positive e la conformità ad uno schema logico- giuridico ben preciso, ossia una decisione presa da uno o più oggetti terzi e imparziali, dopo una cognizione degli elementi di fatto e di diritto della controversia, sviluppati attraverso il rispetto delle regole del giusto giudizio e del contraddittorio (art, 808-ter c.p.c.). Vi è un percepibile squilibrio tra il mezzo (ossia un processo) e il risultato che si ottiene (ossia un lodo assimilabile ad un contratto, e non ad una sentenza), ma questo squilibrio rischia di limitare l’utilità pratica dell’arbitrato irrituale, poiché in caso di vero conflitto risulta difficile capire quali esigenze di carattere sostanziale possano essere soddisfatte da un lodo contrattuale piuttosto che da un lodo-sentenza. Il odo contrattuale irrituale, infatti, in caso di inadempimento NON permette di avviare l'esecuzione forzata, ma suppone che si inizi un nuovo giudizio di accertamento davanti al giudice dello Stato per procurarsi il titolo esecutivo. Quando, invece, il conflitto è di più modeste dimensioni, spesso all’arbitrato irrituale è preferibile, o egualmente soddisfacente. L’arbitrato irrituale rimane comunque l’unico spazio di libertà per le parti, che lo possono gestire e trattare in modo autonomo e svincolato dalle regole del codice. La scelta del patto compromissorio per arbitrato irrituale comporta la rinuncia alla tutela giurisdizionale ordinaria, e inoltre il rapporto tra le parti e gli arbitri irrituali va ricostruito nelle forme del mandato, che si estende non soltanto al dovere di pronunciare il lodo, ma anche al rispetto delle regole imposte dalle parti sul piano della procedura. Infine, va detto che il lodo contrattuale non è riconoscibile all’estero nelle forme della convenzione di New York, ma circola semplicemente come atto negoziale. Sulla base di queste considerazioni, spetta all’auto-responsabilità delle parti valutare se l’impiego dell’arbitrato irrituale possa essere soluzione conveniente. L’art. 808 ter fissa la linea di demarcazione tra l’arbitrato rituale e irrituale negli effetti del lodo, nel senso che la determinazione contrattuale degli arbitri irrituali non può raggiungere gli effetti di sentenza, che vengono invece riconnessi al loro rituale ex art. 824 bis. Dunque l’arbitrato irrituale è regolato solo da norme pattizie e non dalle norme legali del titolo VIII, ma alcune norme dell’arbitrato rituale possono avere una funzione di riferimento e di attrazione per il regime dell’arbitrato irrituale. Infatti, all’interno delle norme del titolo VIII bisogna distinguere 1. quelle che suppongono un aiuto giudiziario all’arbitrato o che regolano i rapporti tra arbitrato e processo civile statuale (le quali sono inapplicabili al lodo irrituale); 2. le regole di procedimento (per le quali si può immaginare un effetto di trascinamento e di attrazione sull’arbitrato irrituale, nel senso che se è vero che al lodo irrituale si giunge con un processo, e che questo processo deve avere determinate caratteristiche, allora la fattispecie di processo più vicina e meglio applicabile è quella prevista per l’arbitrato irrituale). PREFERENZA PER L’ARBITRATO RITUALE ED IMPUGNAZIONE DELL’IRRITUALE. L'ARBITRATO INTERNAZIONALE. In ambito transnazionale l’arbitrato, meglio dell’individuazione di una certa giurisdizione, consente alla volontà delle parti di raggiungere gli obiettivi di delocalizzazione della lite. Parti con sede in paesi diversi possono scegliere un giudice privato, territorialmente neutrale, dotato di sicura competenza e di possesso delle necessarie abilità linguistiche e disponibile a giudicare secondo la legge che esse indicano e secondo una procedura che esse fissano. La lite può quindi direttamente focalizzarsi sul merito dell'affare, evitando complesse questioni di determinazione della giurisdizione e superando i rischi che derivano dall'inefficienza o dalla corruzione presenti, in non poche aree del mondo, nei sistemi giudiziari degli Stati. | rapporti giuridici regolati dell’arbitrato possono essere in ampia misura collocati dalle parti in relazione all'ordinamento o agli ordinamenti che esse scelgono in relazione a criteri diversi, come la sede dell’arbitrato, il luogo della deliberazione del lodo, la legge sostanziale applicata, ecc. Il lodo potrebbe produrre effetti in più ordinamenti, ed è questo il caso delle controversie transnazionali, ma non può mai succedere che arbitrato e lodo siano totalmente svincolati da un qualsiasi ordinamento. In base all’art. 816 c.p.c., è arbitrato rituale italiano quello che ha sede in Italia (anche se la sede è un concetto convenzionale, infatti l’arbitrato può anche svolgersi fisicamente in un altro luogo) ed è regolato almeno essenzialmente dalla procedura italiana. La localizzazione in Italia della sede può risultare da un'indicazione formale o da una scelta di legge che razionalizza la volontà delle parti di collegarsi all'ordinamento italiano con un patto di arbitrato stipulato in Italia. Se invece non è l’Italia la sede dell’arbitrato, quest’ultimo si può dire estero se, oltre alla sede non italiana, presenta anche un collegamento qualificato con almeno un ordinamento straniero. Dunque il lodo estero riconoscibile in Italia può solo essere un lodo collegato con un certo ordinamento straniero, al punto da essere efficace in quell’ordinamento prima ancora che Italia, anche se di fatto le parti decidessero di non conseguire l’esecutorietà del lodo in quel Paese e si rivolgessero subito all’autorità giudiziaria italiana. LE FONTI DELL’ARBITRATO INTERNAZIONALE. Le fonti dell’arbitrato transnazionale sono molteplici, e si possono citare le norme stabilite in convenzioni internazionali, le norme dei singoli ordinamenti e la volontà delle parti. e Convenzioni internazionali: va innanzitutto nominata la convenzione di New York del 1958 per il riconoscimento e l'esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, ratificata dall'Italia nel 1968. Questa convenzione ha lo scopo di favorire il riconoscimento e dunque la circolazione dei lodi, senza occuparsi dell'intero procedimento arbitrale, e impone alle giurisdizioni degli Stati contraenti di rinunciare a conoscere le controversie validamente devolute in arbitri e di facilitare il riconoscimento dei lodi esteri, senza imporre condizioni più gravose rispetto a quelle previste per l'attribuzione di efficacia ai lodi nazionali. Un'altra importante convenzione internazionale è la convenzione europea sull’arbitrato commerciale internazionale adottata a Ginevra nel 1961 e ratificata dall'Italia nel 1970. + Norme interne italiane: nel 1994 erano state introdotte nel codice alcune disposizioni espressamente dedicate all’arbitrato internazionale, che era in realtà un arbitrato rituale italiano con elementi di estraneità e soggetto per questo ad una disciplina specifica. Con una legge del 2005 si è poi però deciso di sopprimere questa disciplina autonoma dell’arbitrato internazionale, con tendenziale estensione della relativa disciplina anche all’arbitrato interno, salvi gli opportuni aggiustamenti e con specifica esclusione di quanto previsto dall'art. 838 c.p.c. Lo scopo era quindi quello di assorbire le norme ad hoc nella normazione di diritto comune in modo da rendere tutta la disciplina dell’arbitrato conforme alle esigenze del commercio internazionale, e si è fatto carico di questo obiettivo il d.lgs. n. 40/2006 che ha abrogato il capo VI modificando anche molte norme riguardanti la disciplina comune. Si è avuto però uno scarso risultato pratico, perché non sono state riprodotte norme significative, mentre l’art. 838 è stato inglobato nell’art. 830. L’arbitrato di diritto comune non è riuscito ad assumere le connotazioni internazionali che avrebbero dovuto attirare le parti straniere in Italia. IL DIRITTO COMUNE NELL’ARBITRATO INTERNAZIONALE. A seconda dell’interazione delle diverse fonti, il procedimento arbitrale internazionale si svolge in base a modalità differenti, ma vi sono comunque molti aspetti simili o anche comuni. Il fatto che i vari regolamenti arbitrali delle istituzioni internazionali di arbitrato siano diversi tra loro ma sostanzialmente omogenei, fa sì che sia più agevole per un avvocato difendere un caso in un arbitrato internazionale piuttosto che davanti ad un giudice statuale nello stesso luogo. Inoltre, con la legge modello, del 1985 e modificata nel 2006, della United Nations Commission on International Trade Law, si è cercato di costituire un riferimento comune per i legislatori interni per uniformare le singole discipline nazionali, e si può parlare in questo senso di diritto comune dell’arbitrato internazionale. Si potrebbe opporre, a questo schema ricostruttivo, il rilievo che se le fonti convenzionali e i regolamenti denotano un'effettiva prevalenza di elementi comuni, ma non si può dire altrettanto per le legislazioni nazionali, che tra di loro sono ampiamente diversificate. Da un lato sussiste una tensione tra le esigenze del commercio internazionale e quelle del controllo statuale sull’attività di giustizia privata, e dall'altro la necessità di radicare l’arbitrato in un ordinamento positivo rafforza l’importanza delle discipline dei singoli paesi. Il tentativo della legge modello è quello dunque di armonia fortemente le legislazioni nazionali in materia di arbitrato, ma bisogna constatare che le differenze non sono state comunque eliminate. L’impugnazione dei lodi avviene davanti ai giudici nazionali del Paesi cui l’arbitrato è collegato, e l’impugnazione del lodo arbitrale transnazionale è non solo uno sviluppo meramente eventuale, ma costituisce una punta patologica del fenomeno, poiché con il trasferimento della controversia su un piano giurisdizionale (originariamente non previsto, e anzi evitato), si sottrae la vicenda alla determinazione pattizia che si era voluta privilegiare con la redazione del patto di arbitrato. Per questo motivo si potrebbe affermare che l’impugnazione del lodo davanti ad un giudice dello Stato rappresenta un fallimento del modello arbitrale in quella concreta controversia. Se la caratteristica principale dell’arbitrato è l'ampio ruolo che viene dato alla volontà delle parti, l'intervento del giudice ordinario scardina senza dubbio un impianto procedurale più libero e flessibile e introduce gli elementi propri del sistema giudiziario del singolo ordinamento di cui il giudice è espressione, e le parti si trovano così ad affrontare alcuni di quei problemi che avevano cercato di evitare. Da un lato, perciò, eventuali gravi vizi del lodo richiedono una tutela che si può assicurare solo in sede extra-arbitrale, ma dall'altro lato bisogna riconoscere che l’arbitrato internazionale cerca il più possibile di evitare l’impugnabilità del lodo, o comunque di restringere i motivi di impugnazione. RICONOSCIMENTO DEI LODI ESTERI. Il lodo pronunciato in un certo Paese deve avere la possibilità di essere riconosciuto e attuato anche in altri Stati, perché se così non fosse l’arbitrato internazionale diventerebbe inutile. L’art. 4 della legge n. 218 ammette che una controversia soggetta giurisdizione italiana possa essere deferita ad un arbitrato estero, con il limite della disponibilità dei diritti fatti valere; quando poi il lodo estero rientra in Italia, l'ordinamento interno è naturalmente disponibile a riconoscerlo e a darvi effetti. La convenzione di New York del 1958 ha l’obiettivo di favorire la circolazione dei lodi con l’idea di sottoporre il lodo straniero ad un controllo meramente estrinseco, dando la possibilità alla parte che si vuole opporre alla sua circolazione in Italia di agire sulla base di un limitato elenco di motivi. L’art. 839 c.p.c. dispone che chi vuole fare valere in Italia un lodo estero deve proporre ricorso al presidente della corte d'appello nella cui circoscrizione risiede l’altra parte, o a quella di Roma se la parte risiede all’estero. Il ricorrente deve produrre il lodo in originale o in copia I meccanismi dell’omologazione, o armonizzazione, riguardano le regole e i metodi processuali, e si tratta cioè di progettare dei percorsi che redano i diversi sistemi compatibili tra loro. LA LITISPENDENZA E LA CONNESSIONE INTERNAZIONALE Il processo straniero è rilevante nell'ordinamento italiano anche quando si sta ancora sviluppando, ed è questo il tema della litispendenza e della connessione internazionali. Per quanto riguarda il contesto mondiale, l’art. 7 della legge n. 218/1995 ipotizza le due fattispecie di: 1. Litispendenza o connessione internazionale: nel corso di un giudizio in Italia viene eccepita la previa pendenza tra le stesse parti di una causa avente lo stesso oggetto e lo stesso titolo dinanzi ad un giudice straniero, il giudice italiano deve valutare se il futuro provvedimento straniero possa produrre effetti per l'ordinamento italiano (deve verificare se è riconoscibile in Italia), e, in caso di risposta affermativa, sospende il giudizio. Se il giudice straniero declina però la propria giurisdizione o se il provvedimento straniero non viene riconosciuto nell'ordinamento italiano, il giudizio in Italia prosegue dopo la riassunzione ad istanza della parte interessata 2. Pregiudizialità internazionale: se una causa straniera è pregiudiziale rispetto ad una italiana, il giudice italiano può sospendere il processo se ritiene che il provvedimento straniero possa avere effetti per l'ordinamento italiano. In ambito europeo, invece, in base all’art. 29 del regolamento 1215/2012, in caso di litispendenza (proposizione di domande con stesso oggetto e titolo di fronte a giudici di Stati membri differenti), il giudice adito successivamente sospende d'ufficio il procedimento fino a che non viene accertata la competenza del giudice adito in precedenza, e, se ciò avviene, dichiara la propria incompetenza. In caso invece di connessione di cause pendenti davanti a giudici di Stati membri diversi, il giudice successivamente adito può sospendere il procedimento. IL RICONOSCIMENTO DELLE SENTENZE STRANIERE. Quando un provvedimento giurisdizionale straniero si presenta come rilevante all’interno dell'ordinamento italiano, e questo provvedimento proviene da un Paese esterno all'Unione europea, valgono innanzitutto le disposizioni di eventuali convenzioni bilaterali sul riconoscimento delle sentenze, e si applicano poi residualmente gli artt. 64 e 67 della legge n. 218/1995. L’art. 64 dispone che la sentenza straniera viene riconosciuta in Italia senza particolari procedimenti, quando vi sono questi requisiti: 1. ilgiudice che l’ha pronunciata poteva conoscere della causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell'ordinamento italiano 2. l’atto introduttivo del giudizio è stato portato a conoscenza del convenuto in conformità a quanto previsto dalla legge del luogo del processo, e non sono stati violati i diritti essenziali della difesa 3. le parti si sono costituite in giudizio secondo la legge del luogo del processo o la contumacia è stata dichiarata in conformità alla stessa legge 4. lasentenza è passata in giudicato secondo la legge del luogo in cui è stata pronunciata 5. non è contraria ad altra sentenza pronunciata da un giudice italiano passata in giudicato 6. non pende un processo davanti ad un giudice italiano con lo stesso oggetto e le stesse parti, che sia iniziato prima del processo straniero 7. le sue disposizioni non producono effetti contrari all'ordine pubblico In base, poi, all’art. 67, in caso di mancata ottemperanza o di contestazione del riconoscimento della sentenza straniera, o quando è necessario procedere ad esecuzione forzata, chiunque vi ha interesse può chiedere alla corte d'appello del luogo di attuazione l'accertamento dei requisiti del riconoscimento. Inoltre, la sentenza straniera o il provvedimento straniero di volontaria giurisdizione, insieme al provvedimento che accoglie la domanda, costituiscono titolo per l'attuazione dell'esecuzione forzata. IL RICONOSCIMENTO DELLE SENTENZE DELL’UE. L'obiettivo dell’Ue sarebbe quello di rendere i provvedimenti giurisdizionali eseguibili in ogni altro Paese europeo, e a questo proposito già esistono provvedimenti decisori europei (ingiunzione europea, titolo esecutivo per crediti non contestati, sentenze di cause di modesta entità, ecc.) che hanno efficacia di titolo esecutivo in altri Stati senza necessità di exequatur, ossia della procedura di riconoscimento da parte del giudice nel cui ordinamento si è formato il provvedimento. Con il regolamento n. 1215/2012, si è stabilito che le decisioni emesse in uno Stato membro sono riconosciute negli altri Stati membri senza necessità dell’exequatur, e inoltre che la decisione esecutiva in uno Stato membro è automaticamente esecutiva anche negli altri Paesi membri senza necessità di una dichiarazione di esecutività nello Stato ad quem. Il convenuto può opporsi al riconoscimento e all'esecuzione della sentenza straniera, ma i motivi per cui lo si può fare sono limitati soltanto a quelli elencati dall'art. 45 del regolamento sopra citato (e mai per motivi riguardanti il merito): 1. ilriconoscimento è manifestamente contrario all'ordine pubblico dello Stato membro richiesto 2. la domanda giudiziale o un atto equivalente non è stato notificato o comunicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da potere presentare le proprie difese eccetto qualora, pur avendone avuto la possibilità, egli non abbia impugnato la decisione 3. la decisione è incompatibile con una decisione emessa tra le stesse parti nello Stato membro richiesto 4. la decisione è incompatibile con una decisione emessa precedentemente tra le stesse parti in un altro Stato (membro o terzo), in una controversia con lo stesso oggetto e lo stesso titolo, sempre che tale decisione presenti le condizioni necessarie per essere riconosciuta nello Stato membro richiesto 5. se siano state violate alcune disposizioni inderogabili in materia di competenza giurisdizionale, anche se in generale questa violazione non può dare luogo a diniego di riconoscimento e di esecutorietà La contestazione del riconoscimento o dell’esecutorietà va proposta con una domanda autonoma davanti ad un giudice e nelle modalità stabilite dallo Stato, e il giudice ha comunque un potere di inibitoria, ossia, su istanza della parte contro cui viene richiesta l'esecuzione, può sospendere il procedimento se la decisione estera è stata impugnata nello Stato membro di origine con un mezzo ordinario o se il termine per proporre l’impugnazione non è scaduto. Vi sono però dei casi in cui la sentenza può divenire esecutiva anche in Paese estero soltanto a seguito dell’exequatur, e questi casi sono le decisioni in materia familiare (regolamento n. 2201/2003) e di obbligazioni alimentari (regolamenti n. 4/2009). In questi casi vi è una sorta di procedimento per ingiunzione, in cui si domanda l’esecutorietà della decisione proponendo un ricorso alla corte d'appello del foro determinato dal domicilio della parte contro cui viene chiesta l'esecuzione o dal luogo dell'esecuzione, allegando una copia autentica della decisione esecutiva nell'ordinamento in cui si è formata. Se, a seguito del contraddittorio, vengono confermati il riconoscimento e l’esecutorietà, si forma il titolo esecutivo, composto dal decreto concessivo e dalla sentenza.
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