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Artaud Il teatro e il suo doppio, Sintesi del corso di Storia del Teatro e dello Spettacolo

La raccolta di saggi più importanti di Brecht un viaggio attraverso la mente di questo eclettico del teatro

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 12/01/2022

giulia-zeri
giulia-zeri 🇮🇹

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Scarica Artaud Il teatro e il suo doppio e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! Le conoscenze che abbiamo sulla vita e l’opera di Artaud è sotto molti aspetti insoddisfacente. | dati biografici ci si presentano nelle sue lettere, modificate a volte in una versione in cui sembra molto difficile, se non impossibile, distinguere le parti del mito, delle ossessioni e dell'invenzione. Biografia Antonin Artaud nacque a Marsiglia il 4 settembre 1896. Della sua infanzia pare che non amasse parlare. Sappiamo però che la trascorse in Provenza e presso la nonna materna. Seguì regolarmente gli studi al Collège Sacré-Coeu di Marsiglia, dove, a quattrodici anni, diede vita, coi compagni, a una piccola rivista letteraria. Le sue prime poesie uscirono regolarmente su diverse riviste, ma intorno al 1915 fu colto dai primi dolori di origine nervosa. Trascorse vario tempo in diverse case di cura finché le sue condizioni andarono nettamente migliorando e poté finalmente rientrare a Marsiglia. Su consiglio dei medici si trasferì, nel marzo del 1920, ad una clinica a Parigi diretta dal dottor Toulouse che oltre a curarlo gli offrì l’incarico di segretario della sua rivista. Artaud assunse questo ruolo fino alla chiusura della rivista pubblicando una serie di articoli di critica e poesie. Sono questi gli anni in cui Artaud ebbe i suoi primi contatti col teatro. Conobbe Lugné-Poe e più avanti Dullin con il quale lavorò dal 1922 al 23 come attore per il Theatre de l’Atelier. Nel 1922 ebbe anche un primo incontro col teatro orientale, assistendo a Marsiglia a uno spettacolo di danze cambogiane. Artaud entrò in contatto con la “Nouvelle Revue Francaise” inviando una serie di poesia che piacquero molto al segretario della rivista, ma non al direttore. Successivamente recitò alla Comedie des Champs-Elysees e in un articolo apparso su “Comoedia” nel 1924 formulò una prima esposizione delle sue idee sulla messinscena e la scenografia teatrale, illustrandola con un bozzetto per “La Place de l’Amour”, “dramma mentale”, tratto da Marcel Schwob. Dopo aver conosciuto Breton, Aragon, Desnos, Vitrac e altri aderì al movimento surrealista, collaborando ai primi numeri di “La Revolution Surrealiste”. Non tardarono a manifestarsi i primi contrasti in seno al gruppo surrealista: le posizioni di Artaud erano accusate di individualismo e la pratica del mestiere dell’attore era considerata un privilegio illegale al mondo borghese. Nel settembre 1926 Artaud, insieme a Aron e Vitrac, impostò il programma di un'attività teatrale autonoma, con la fondazione del Theatre Alfred Jarry. Il progetto di una regolare attività di spettacoli provocò la rottura formale col gruppo surrealista, dal quale Artaud, come già Vitrac, venne espulso. Nella sala dell’Atelier offerta da Dullin, ebbero inizio le prove del Theatre Alfred Jerry. Il primo spettacolo messo in scena da Artaud si svolse al Theatre de Grenelle. Mise in scena una serie di spettacoli, ma le difficoltà economiche e di ogni genere ne resero impossibile il proseguimento. Negli stessi anni del Theatre Alfred Jarry Artaud si dedicò attivamente anche al cinema. Artaud si mostrò, all’inizio, piuttosto negativo nei confronti del sonoro, ma la sua posizione si andò rapidamente adeguando, e alle sue interpretazioni nel cinema muto ne seguirono altre in film parlati. Nel 1928 soffrì di nuovo di un acuto disagio fisico e psichico, cui seguivano uso di droghe e di cure di disintossicazione. Nel 1929 uscì presso l’editore Denoel, con i quali strinse amicizia, la raccolta “L'art et la mort”, comprendente prose scritte negli anni 1925-28. Nel 1930 si dedicò sia a progetti teatrali che cinematografici. A Berlino lavorò per il cinema e nel 1931 iniziò a lavorare come assistente alla regia per Louis Jouvet, ma la collaborazione tra i due finì rapidamente a causa di divergenze teatrali troppo grandi. Nel 1931 Artaud assistette, all’Exposition Coloniale, a una rappresentazione del Teatro Berlinese. Artaud si trovò faccia a faccia con una dimensione completamente nuova, o diversa, del teatro. Per tentare una sperimentazione delle sue idee sul teatro Artaud si decise a scrivere personalmente un testo drammatico completo: “Les Cenci”, tragedia in quattro atti e dieci quadri tratta da Shelley e Stendhal. Dopo una serie di peripezie di ogni genere, lo spettacolo andò in scena nel 1935. Artaud oltre a curare la regia, tenne il ruolo di protagonista. Ci furono diciassette repliche e recensioni severe. Dopo questo sostanziale insuccesso Artaud pensò ad altri spettacoli finché non iniziò la fase più avventurosa e oscura di Artaud. Nel 1936 s’imbarcò, quasi senza denaro, alla volta del Messico, alla ricerca di un'esperienza decisiva. A Città del Messico, per procurarsi denaro, tenne alcune conferenze all'università e scrisse alcuni articoli per il giornale “Nacional”. Durante l’estate partì per le regioni interne, accompagnato da una guida indiana, sulle tracce delle tribù dedite all’uso e al culto religioso del peytol. Il racconto di questo viaggio apparve non firmato nella “Nouvelle Revue Francaise”. Nel 1936 venne rimpatriato. Per qualche tempo frequentò assiduamente Barrault. Si orientò verso l’astrologia, il linguaggio dei tarocchi e le conoscenze esoteriche. Attribuiva, in quegli anni, un particolare potere magico-profetico ad un bastone. Sosteneva che era appartenuto a San Patrizio il patrono degli Irlandesi, così andò in Irlanda. In Irlanda Artaud si riaccostò al cattolicesimo, come raccontò ad una lettera a Barroult. Qualche anno dopo venne rimpatriato e poi internato in un manicomio. A partire da quel momento Artaud trascorse i nove anni consecutivi nelle cliniche psichiatriche. Intanto nel 1938, usciva finalmente la raccolta dei suoi scritti sul “Teatro della Crudeltà”. Nel 1943 venne affidato ad una clinica dove riprese a scrivere. Scrisse anche una serie di lettere a Henri Parisot le quali costituiscono, accanto ad altri testi degli ultimi anni, una testimonianza impressionante dell’esperienza estrema di Artaud, di come la sua stessa personalità, il suo linguaggio, la sua mitologia profonda trovassero realizzazione attraverso la tragica esperienza della follia. Le circostanze della guerra e dell’invasione avevano reso ancora più dura l’esistenza dei ricoverati, aggiungendovi gravi privazioni materiali e ostacolando qualsiasi tentativo di soccorso dall’esterno. Alla fine della guerra Artaud, distrutto nel fisico e quasi irriconoscibile, uscì dalla clinica a patto che fosse garantito il suo mantenimento. Successivamente fu accolto ad una clinica a Ivry che gli lasciò piena libertà di movimento e l’uso di un alloggio isolato. Da Ivry, Artaud poteva raggiungere quasi quotidianamente Parigi e mantenere il contatto con le persone a cui era legato: scrittori, artisti, uomini di teatro e amici fedeli. Nonostante i dolori acutissimi continuò a scrivere. Artaud morì il 4 marzo 1948. Artaud, la sua vita e il suo Teatro Artaud, aderente al surrealismo, se ne allontanò per frequentare la scuola di Charles Dullin, esordendo come attore all’Atelier. Nel 1926 fondò un'attività teatrale autonoma, il Teatro Alfred Jarry, dove esordì come regista mettendo in scena una sua pochade (una commedia dai toni farseschi e licenziosi) ed elaborando anche una serie di manifesti teorici sul coinvolgimento dello spettatore. Per Artaud il compito del teatro dovrebbe essere quello di scuotere e sconvolgere lo spettatore: il suo Teatro della Crudeltà intendeva appunto proporre uno spettacolo totale in cui concetto di scena, di spazio e di occupazione di esso pettacolo, in una parola di evento, termine che contiene già in sé il significato di “magia”. di rito partecipativo ancor prima che di rito di coinvolgimento. Non vuole Artaud sfruttare l'inconscio per sé stesso, ma riservagli un carattere oggettivo solo in misura della sua funzione nella vita di tutti i giorni. È allora, proprio a questo punto, che il teatro con Artaud non è più un rapporto limitato nell’ambito ristretto del palcoscenico, ma si apre prepotentemente alla realtà vitale, rimettendo in discussione ogni sera i valori della messa in scena, dei contenuti e della recitazione. La vita non è fatta di atti ripetitivi e il linguaggio della scena, per Artaud, non è ripetizione, ma poesia in azione per cui la scenografia del suo Teatro della Crudeltà, momento successivo alla prima esperienza del Teatro Alfred Jarry, non è data come un fatto decorativo dal momento che la sua immobilità non risponderebbe ad un codice legato alla metamorfosi, al flusso continuo dello spirito. Là dove esiste una forma stabilita vi è un blocco del pensiero e una regressione: fino a quando i due protagonisti della scena teatrale, attore e spettatore restano chiusi in una individualità finita, non possono riprendere la propria posizione tra i sogni e gli avvenimenti. Non si tratta più di riportare tramite la poesia scenica il mondo così com'è, pertanto è necessario l’asciarsi smuovere dal linguaggio dei simboli attraverso un nuovo codice interpretativo, cioè il teatro inteso come spettacolo totale, contenente elementi fisici e oggettivi in grado di essere percepiti da tutti. Con questo linguaggio reso al limite della fisicità, gli oggetti comuni e anche il corpo umano diventano segni, come caratteri geroglifici facilmente riconoscibili; le intonazioni della voce, le espressioni del viso colte in forma di maschera, i gesti simbolici, gli atteggiamenti emotivi vengono raddoppiati da una serie di altri gesti e atteggiamenti riflessi, quelli che di solito non vengono manifestati, tutti i lapsus dello spirito e della lingua tramite i quali si esprimono le cosiddette “impotenze della parola”. La musica è concepita in senso concreto e i suoni agiscono come veri e propri personaggi; gli strumenti adoperati come oggetti di scena, per produrre suoni acuti e insopportabili devono necessariamente non rientrare nell’uso comune; la luce, per potersi adattare ai movimenti dello spirito, deve essere tenue, densa, opaca. per stimolare sensazioni fisiche di caldo, di freddo, d’ira e di timore. La scena è soppressa perché l’azione deve occupare tutti i punti della sala e gli spettatori seguire l’avvicendarsi dei fatti ruotando su sedie girevoli: proprio perché l’azione si dispiega in tutte le direzioni, ogni scena viene illuminata ed illumina a sua volta il pubblico, e i personaggi dovranno sostenere tutti gli attacchi delle situazioni; inoltre al centro rimarrà un’area che, pur non essendo una vera e propria scena. darà modo al nodo centrale dell’azione di raccogliersi quando occorre. Questo tipo di teatro vuole coinvolgere l’esistenza intera dell’individuo, scuotendolo dalle sue angosce, dalle sue preoccupa: , con un'azione aggressiva che lo stimoli a scoprire le sue contraddizioni interi “Il Sogno” di August Strindberg, Artaud la considera come un’opera tipo che corona la carriera di un regista. Vi sono rappresentati i più alti problemi, evocati in una forma concreta e misteriosa. Il Teatro Jarry vuole riportare nel teatro il senso non della vita, ma di una verità che giace nelle profondità dello spirito. La realtà teatrale che il Teatro Jarry si propone di resuscitare è quella fra la vita reale e la vita del sogno. La definizione di teatro è scomparsa dai cervelli umani, ma esiste a metà strada tra realtà e sogno. Finché tale definizione non sarà stata riscoperta nella sua più assoluta integrità, il teatro continuerà a trovarsi in una posizione precaria. La messa in scena de “Il Sogno” obbedisce alla necessità di proporre al pubblico qualcosa che possa essere utilizzato immediatamente e così com'è dagli attori. L'Atelier di Charles Dullin Con la creazione dell’Atelier, Charles Dullin affronta i gravi problemi del risanamento e della rigenerazione morale e intellettuale del teatro francese. Fatta eccezione per il Vieux-Colombier non c'è niente, dice Dullin, che si possa chiamare teatro. Dullin vuole costruire un piccolo nucleo di attori disciplinati, al corrente delle esigenze del loro mestiere e coscienti usando il metodo dell’improvvisazione che costringe l’attore a pensare gli impulsi dell'anima invece di rappresentarli. Dullin considera l’Atelier come un laboratorio di ricerche. Dullin ci darà un teatro che si addice prima di tutto ai suoi gusti e ai mezzi di espressione che gli sono propri. Purtroppo c'è gente, dice Dullin, che va a teatro come andrebbe al bordello, per un’eccitazione momentanea, vedendolo come un luogo di scarico, un teatro-svago. Ciò ha creato due teatri: un falso teatro facile e fittizio, il teatro dei borghesi, dei militari, dei benestanti, dei commercianti ecc e un teatro concepito come il concepimento dei più puri desideri umani. L’Atelier è stata fondata da Charles Dullin il quale si formò al Vieux-Colombier di Copeau. L'Atelier non pretende di inventare nulla, vuole soltanto sforzarsi a servire il teatro. L'Atelier tenderà a ritrovare tutto il teatro passato e il teatro futuro. L'Atelier ha metodi di lavoro che gli sono propri. La compagnia lavora di continuo anche fuori dalle prove, e ogni attore ridiventa alunno, sotto la guida di Charles Dullin. Sentire, vivere, pensare realmente, questo dev'essere lo scopo del vero attore. | Russi praticano da gran tempo l’uso di un certo metodo d’improvvisazione che spinge l'attore a lavorare con la propria sensibilità profonda, a esteriorizzare questa sensibilità reale e personale con parole, atteggiamenti, reazioni mentali inventate per l'occasione, improvvisate. La ricerca delle intonazioni è il grande scoglio. L’intonazione è trovata dall’interno, spinta all’esterno dall’impulso aderente del sentimento, e non ottenuta per imitazione. Dullin ha sviluppato il procedimento, facendone un metodo profondo di lavoro. Gli artisti dell’Atelier si sono esercitati in vere e proprie sedute d’improvvisazione davanti a gruppi di spettatori strettamente privati. Si sono rivelati straordinariamente abili nel rappresentare con poche parole, certi caratteri, atteggiamenti. certi personaggi della nostra uman il fuoco, creazioni dello spirito, sogni e tutto improvvisando, senza testo, senza indicazione, senza preparazione. Il teatro e la cultura Si può incominciare a delineare un’idea di cultura come protesta. Protesta contro la cultura come concetto a sé stante, come se la vita e cultura fossero separati. Ogni vera cultura si fonda sui mezzi barbari e prim del totemismo, la cui vita selvaggia e spontanea è quella che Artaud vuole esaltare. Ciò che ci ha fatto perdere il senso della cultura è l’idea occidentale dell’arte: arte e cultura non possono andare d'accordo contrariamente a quanto in genere si pretende. La vera cultura agisce attraverso l'esaltazione e la forza, mentre l’ideale estetico europeo tende a gettare lo spirito separandolo dalla forza. Ogni autentica figura ha un'ombra che costituisce il suo doppio: l’arte cessa di avere importanza a partire dall’istante in cui lo scultore, nel modellare pensa di aver liberato una sorta di ombra la cui esistenza strazierà il suo riposo. Come ogni cultura magica espressa da appropriati geroglifici, anche il vero teatro ha le sue ombre e fra tutti i linguaggi e tutte le arti, è il solo le cui ombre abbiano travolto i loro limiti. Anzi, esse non hanno tollerato alcun limite fin dalla loro origine. Il nostro concetto pietrificato di teatro si riallaccia alla nozione pietrificata di una cultura senza ombre, in cui il nostro spirito incontra solamente il vuoto. Mailviero teatro, che si avvale di strumenti vivi, come gli attori, continua ad agitare ombre; l’attore che non ripete mai due volte lo stesso gesto, ma compie gesti, si muove fra le forme e le esalta, le mostra, le violenta rendendo tutto lo spazio uno spazio vivo e multiforme. Il teatro non consiste in nulla ma si serve di tutti i linguaggi: gesti, parole, suoni, luci, grida, nasce proprio nel momento in cui lo spirito per manifestarsi ha bisogno di un linguaggio. Ma questa “drammaturgia della forma” muore nel momento in cu ad esem parola”). Utilizzare o privilegiare un linguaggio, ingigantendone l’importanza, significa inevitabilmente limitarlo. Spezzare il linguaggio, ecco cosa vuole Artaud: spezzarlo per raggiungere la vita. In questo modo si può fare o rifare il teatro. Ciò che importa non è credere che questo atto debba rimanere “sacro”, riservato cioè a pochi, bensì credere che non tutti possono compierlo, in quanto esso esige una preparazione. Il che significa rifiutare i consueti limiti dell’uomo e delle sue facoltà e allargare i confini di quella che noi conosciamo come realtà. Solo in questo modo, conclude Artaud, si può ambire ad una concezione di vita rinnovata, dove l’uomo diviene signore di ciò che ancora non esiste e che dunque egli fa nascere. Il teatro e la peste Artaud parte da una lunga considerazione sulla peste (intesa come virus) per allacciarsi ad una metafora riguardante il teatro: quando in una città si verifica la peste, le forme di vita normale crollano; la situazione dell’appestato che muore senza distruzione materiale degli organi, con tutte le ferite di un male assoluto e quasi astratto, è identica a quella dell'attore, che viene invaso interamente dai propri sentimenti e da questi sconvolto, senza alcun beneficio per la realtà. Nell’aspetto fisico dell’attore, come in quello dell’appestato, tutto testimonia che la vita ha reagito fino al culmine e che, nonostante ciò, non è avvenuto nulla. Fra l’appestato che corre urlando dietro alle proprie allucinazioni e l’attore che si lancia alla ricerca della propria sensibilità, fra l’uomo che si inventa personaggi ai quali non ha mai pensato e l’attore che li raffigura in mezzo a un pubblico consenziente, esistono anche altre analogie che pongono il teatro allo stesso modo della pestilenza: entrambe sono un'autentica epidemia. Eppure Artaud individua una sostanziale differenza: mentre le immagini della peste, essendo in rapporto con uno stato di degradazione fisica, sono come gli ultimi sprazzi di una forza spirituale che si va esaurendo, le immagini della poesia a teatro sono una forza spirituale che parte dal sensibile per fare a meno della realtà. La forza dell’attore non si esaurisce, non va morendo, non si degrada: l'attore è confinato in un cerchio puro e completo. Bisogna però ammettere ancora una volta, che la rappresentazione teatrale, come la peste, è un delirio ed è comunicativa: tuttavia, per far nascere dallo spirito uno spettacolo vero e proprio, si devono riscoprire determinati procedimenti. E non è semplicemente questione di arte. Infatti il teatro è come la peste. c'è in esso qualcosa di vittorioso ed insieme di vendicativo; e come la peste, anche il teatro stabilisce un legame tra ciò che è e ciò che non è, fra realtà materiale e realtà virtualmente possibile. L'attore ritrova il concetto di simbolo e di archetipo, creando dinanzi agli occhi dello spettatore un universo di simboli e, come tale, impossibile, indecifrabile, inaccessibile. Da questo presupposto di realtà possibile nasce la poesia, che sulla scena alimenta questi simboli. Una vera opera teatrale, secondo Artaud e ciò è confermato dai suoi Manifesti, scuote il riposo dei sensi, libera l'inconscio, spinge ad una specie di rivolta spirituale: impone alla collettività radunata un atteggiamento eroico e difficile. Come la peste, dunque, il teatro diviene formidabile veicolo di forze che riportano lo spirito all'origine dei suoi conflitti. Il teatro è essenziale come la peste, non perché contagioso, ma perché come la peste è rivelazione. Come la peste è il momento del Male, il trionfo delle forze oscure; in esso c’è una specie di strano Sole, una luce anomala, dove sembra che il difficile e persino l'impossibile divengano d’un tratto il nostro elemento normale. Si può dunque dire che ogni vera libertà è nera e si identifica immancabilmente con la libertà sessuale, anch'essa nera senza che se ne sappia bene il perché: già da tempo l’Eros platonico, il senso genetico, la libertà di vita sono scomparsi sotto il cupo rivestimento della Libido, nella quale si identifica tutto ciò che è sporco, infamante e abietto. Tutti i grandi Miti sono neri, forse tutte le favole hanno il male alla base. Il teatro come la peste è modellato su questo massacro. Il teatro punto dello spazio scenico, dando origine ad un nuovo linguaggio fisico basato sui segni e non sulle parole. Gli attori, con i loro abiti geometrici. paiono geroglifici animati. Anche i costumi contribuiscono a restituire un contenuto simbolico, adattandosi allo stato di “trance” dell’attore. | segni spirituali hanno un preciso significato: esso viene comunicato soltanto al nostro intuito, ma con una violenza tale da impedire ogni trascrizione in un linguaggio logico e discorsivo. E per quanto riguarda il “realismo”, le continue allusioni e metafore non impediscono al “doppio” di recitare, teorizzato dalle apparizioni dell’aldilà. 1 Balinesi hanno un'intera gamma di gesti e di posizioni mimiche per ogni circostanza della vita e restituiscono alla convenzione teatrale il suo più alto valore; uno dei motivi per cui restiamo affascinati da questi spettacoli sta appunto nell’uso di una partitura precisa da parte degli attori, senza nessuna sbavatura. Ma ancora più nello studio profondo e particolareggiato effettuato per raggiungere questi risultati. Qui non esiste improvvisazione (intesa come “spontaneità”): ogni movimento, gesto o stato d'animo non risponde a necessità psicologiche bensì ad una sorta di esigenza spirituale. Ogni gesto ripetuto alla perfezione dà l’idea di freschezza e di libertà, di spontaneità ed immediatezza. Il nostro teatro occidentale, invece, non ha mai avuto niente di tutto ciò. È un teatro esclusivamente verbale che ignora tutti gli altri elementi che costituiscono il teatro vero e proprio, il teatro puro (movimenti, forme, colori, vibrazioni, atteggiamenti, grida). Questi spettacoli del teatro balinese si avvalgono di un linguaggio di cui noi occidentali abbiamo perso la chiave: con il termine linguaggio, Artaud allude a quel particolare linguaggio teatrale che è estraneo a qualsiasi lingua parlata. I nostri spettacoli, fatti puramente di dialogo verbale, non possono essere paragonati al trionfo della spiritualità e della perfezione del teatro balinese. Anzi nonostante non siano spettacoli incentrati sul tessuto verbale, l'aspetto più impressionante per noi occidentali è proprio l’intellettualità che si percepisce nella sottile trama dei gesti e nelle modulazioni della voce, nell’uso dello spazio scenico e nell’intreccio dei suoni. Ogni cosa in questo teatro balinese è calcolata con minuzia matematica. Nulla è lasciato al caso o all’improvvisazione personale. Ed è proprio questa sensazione di vita superiore e perfetta a colpire maggiormente lo spettatore occidentale, che assiste a qualcosa di molto simile ad un Rito piuttosto che ad una rappresentazione. Tuttavia Artaud arriva anche a fare un'analisi della differenza fra il nostro teatro e quello balinese che prescinde dalla perfezione di quest’ultimo: secondo lui, ciò che più impressiona del teatro balinese è comunque l’aspetto rivelatore della materia; essa pare disperdersi in gesti e segni capaci di insegnarci l’identità metafisica fra concreto e astratto, e di insegnarcela in gesti fatti per durare. Questo teatro utilizza la parola prima delle parole (deriva da un’impulso psichico segreto). Il teatro balinese è un teatro che elimina l’autore a favore di quello che noi occidentali chiamiamo regista: ma in questo caso il regista diventa una sorta di mago, un maestro di cerimonie sacre. E la materia su cui lavora e i temi che propone vengono forniti dalla natura più primitiva. Per questo in tali spettacoli c'è qualcosa che supera il “divertimento”, cioè il passatempo inutile ed artificioso: lo spettacolo è un Rito, un momento di purgazione, di esorcismo. Teatro Orientale e teatro Occidentale La novità del teatro Balinese è stata quella di rivelarci un'idea fisica e non verbale del teatro secondo la quale il teatro sta entro i limiti di tutto ciò che può avvenire su un palcoscenico indipendentemente dal testo scritto, mentre come lo intendiamo noi occidentali, esso si confonde con il testo e finisce per esserne limitato. Per noi occidentali la parola è tutto in teatro, e non esiste possibilità d'espressione al di fuori di essa; quindi, il teatro è una sorta di ramo della letteratura o comunque ad essa è legato, trasformandosi in una semplice applicazione sonora del linguaggio. Quindi non assistiamo al teatro bensì alla rappresentazione di un testo. Questa idea di supremazia della parola nel teatro è talmente radicata in noi che, secondo Artaud,, il teatro ci appare un semplice riflesso materiale del testo, mentre tutto ciò che va oltre il testo ci sembra appartenere al campo della regia, considerata come qualcosa di inferiore al testo. Quindi. vista questa soggezione (sottomissione) del teatro alla parola, ci viene da chiederci se il teatro abbia o no un linguaggio proprio (come il cinema), se è insomma un'arte indipendente ed autonoma come la musica, la pittura o la danza. Secondo Artaud questo linguaggio, ammesso che esista, si identifica necessariamente con lo spettacolo inteso come: 1) materializzazione visuale e plastica della parola; 2) linguaggio di tutto ciò che si può dire e rappresentare su un palcoscenico indipendentemente dalla parola. Considerando questo linguaggio dello spettacolo il linguaggio teatrale puro, si tratta di scoprire se esso può raggiungere gli stessi obiettivi della parola, cioè verificare se esso è in grado non di precisare pensieri ma di pensare, cioè indurre lo spirito ad assumere atteggiamenti profondi. In. una parola, dice Artaud, porre il problema dell’efficacia intellettuale di un linguaggio che utilizzi solamente forme, rumori, gesti; quindi il problema dell'efficacia intellettuale dell’arte. È solo una povertà della nostra cultura occidentale confondere arte ed estetismo, cioè credere che possa aversi una pittura che si esaurisca nel dipingere, una danza che si esaurisca nel danzare e quindi un teatro che si esaurisca nel visualizzare un testo scritto. L'obiettivo reale del teatro, e questo ce lo insegna proprio il teatro orientale, non è quello di risolvere conflitti sociali o psicologici, bensì esprimere in modo obiettivo verità segrete, di mettere in luce con gesti attivi le verità nascoste. Fare del teatro un’arte capace di esprimere attraverso l’intera drammaturgia della forma equivale a restituirgli la sua dimensione originaria, metafisica e religiosa. Far dominare sul palcoscenico il linguaggio articolato, cioè l’espressione mediante parole, sull’espressione oggettiva dei gesti e di tutto ciò che dallo spazio arriva allo spirito attraverso i sensi, equivale a volger le spalle alle esigenze fisiche della scena e a ribellarsi alle sue facoltà. Il problema non consiste nel sapere se il linguaggio fisico del teatro può permettere le stesse soluzioni psicologiche del linguaggio verbale, ma se non esistono nel regno del pensiero e dell’intelligenza atteggiamenti che le parole non sono in grado di cogliere, in loro aiuto possono arrivare con maggiore precisione i gesti. Nel teatro orientale a tendenza metafisica, a differenza di quello occidentale a tendenza psicologica, le forme prendono possesso del proprio valore e del proprio significato su tutti i piani possibili, non producono vibrazioni su un solo piano, ma contemporaneamente su tutti i piani dello spirito. Grazie a questa molteplicità di aspetti esse acquistano una capacità di sconvolgimento e d’incanto e rappresentano per lo spirito una continua fonte di eccitazione. Il teatro orientale, proprio perché non coglie l'aspetto esteriore delle cose su un solo piano, né si limita al semplice contatto e al concreto incontro fra questo aspetto e i sensi, ma considera invece il grado di pos ità mentale da cui esso deriva, partecipa alla poesia intensa della natura e conserva magici rapporti con tutti i gradi oggettivi del magnetismo universale. In questa prospettiva magica e stregonesca, lo spettacolo deve essere considerato non come il riflesso di un testo scritto e della proiezione di “doppi” fisici che da esso scaturisce, ma come aderente proiezione di tutti i risultati oggettivi che si possono trarre da un gesto, da una parola, da una musica, da un suono e dalle loro reciproche combinazioni. Tale proiezione attiva può verificarsi soltanto sulla scena e l’autore che adopera esclusivamente parole scritte non ha nulla a che fare con il teatro. Basta con i capolavori Per Artaud bisogna farla finita con l’idea malsana che i capolavori siano riservati ad una élite di pubblico e non adatti alla folla; ovvero, che i testi del passato sono oggi comprensibili solo a pochi. I capolavori del passato vanno bene per il passato, ma non per noi. Il teatro odierno ha il diritto di dire ciò che è stato detto in una forma che sia propria, immediata e diretta, legata ad un linguaggio che tutti intamente sappiano comprendere. È sciocco rimproverare le masse di non saper cogliere il sublime, poiché esso viene sempre portato in scena in modo formale ed oltretutto è sempre una manifestazione morta. Bisogna invece entrare nell’ottica che una folla abituata a terremoti, pestilenze, catastrofi e guerre può avvicinarsi a questi concetti e al sublime. anzi non chiede di meglio che prenderne coscienza: a condizione però che si parli nel suo linguaggio, e che la nozione di queste cose non arrivi a loro tramite costumi e discorsi sofisticati. appartenente ad epoche morte e destinate a non tornare più. Oggi, come un tempo, la folla è avida di mistero e vuole venire a conoscenza delle leggi attraverso le quali il destino si manifesta. Se la folla non accorre ai capolavori letterari, ciò accade perché questi capolavori sono letterari, cioè congelati nel tempo e congelati in forme che non corrispondono più alle esigenze del nostro tempo. Non si può confondere il sublime con le forme che ha assunto nel tempo. E se la gente si è stufata di andare a teatro è perché il teatro da 400 anni, cioè dal Rinascimento in poi, ci ha abituati ad un teatro puramente descrittivo e narrativo che racconta soltanto psicologia. Ed Artaud è convinto che gli uomini di teatro dovrebbero farla finita con la psicologia. Le storie di denaro, di amori finiti, di arrivismo sociale, di sessualità senza mistero sono forse psicologia ma non sono teatro. L'idea di un’arte fine a sé stessa che serva a dare svago alla gente è un'idea assurda che dimostra l’incapacità degli occidentali di pensare il teatro come esso è nato e vissuto prima della sua istituzione. Per questo motivo Artaud propone un teatro della crudeltà: ma per “crudeltà” non si deve subito intendere “sangue e massacri”. Artaud spiega che l’espressione “teatro della crudeltà” indica un teatro difficile e crudele anzitutto per sé stesso. Attraverso il suo teatro, il teorico francese auspica un ritorno alle origi cioè un recupero del concetto di poesia, con mezzi moderni, che sta alla base dei Miti raccontati da grandi tragici antichi; un recupero dell’idea religiosa di teatro, dell'idea magica per cui il teatro provoca una sorta di trance che risvegli lo spirito dell’uomo e lo inizi alla poesia. Il teatro è per Artaud l’ultimo mezzo al mondo capace di toccare direttamente l'organismo e la sensibilità umana: per questo lo spettatore è al centro e lo spettacolo gli sta intorno. Artaud propone un teatro che, abbandonando la psicologica, racconti lo straordinario, metta in scena conflitti naturali forze naturali e sottili, e si presenti anzitutto come un'eccezionale forza di derivazione (d'origine). Un teatro che provochi trance come le danze Dervisci e degli Aissaua e che si rivolga all'organismo con strumenti precisi, gli stessi applicati dalle musiche terapeutiche di certe tribù, che ammiriamo riprodotte da certi dischi ma che siamo incapaci di creare fra noi. Il teatro della crudeltà Secondo Artaud la cosa più preoccupante è che si sia persa un'idea del teatro. Nella misura in cui il teatro si limita a farci penetrare nell’intimità di qualche fantoccio, e a trasformare lo spettatore in un “voyeur” (un guardone), è logico che l’élite lo abbandoni e che le masse vadano a cercare nel cinema, nella rivista e nel circo soddisfazioni violente, capaci di non deluderle. Il fatto è che c’è un bisogno urgente di un teatro che ci svegli, che ci colpisca ai nervi e al cuore. | misfatti del teatro psicologico derivato da Racine ci hanno disabituati all’azione immediata e violenta che dovrebbe essere propria del teatro. A sua volta il cinema, che bombarda di immagini riflesse e filtrate dalla macchina, non può più raggiungere la nostra sensibilità. La lunga abitudine agli spettacoli di pura evasione ci ha fatto dimenticare l’idea di un teatro serio che, sconvolgendo tutti i nostri preconcetti, ci trasmetta emozioni inaspettate ed agisca su di noi come una terapia spirituale. Tutto ciò che agisce è crudeltà. Pertanto, partendo da questa idea il teatro deve rinnovarsi: il teatro della crudeltà vuole lo spettacolo di massa: cercare nell’agitazione di masse numerose e ricreare quella poesia che esiste nelle feste e nelle folle, quando la gente si riversa nelle strade. Artaud è convinto, in altre parole, che nella cosiddetta poesia esistano forze vive, e
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