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Arte dal 1900 ESAME PINTO STORIA DELL'ARTE CONTEMPORANEA, Prove d'esame di Storia dell'arte contemporanea

Riassunti libro Arte dal 1900 integrati con appunti lezioni e IMMAGINI esame storia dell'arte DAMS Pinto

Tipologia: Prove d'esame

2018/2019

In vendita dal 13/05/2019

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Scarica Arte dal 1900 ESAME PINTO STORIA DELL'ARTE CONTEMPORANEA e più Prove d'esame in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! Arte dal 1900 Henri Matisse (1869-1954) Matisse operò una sintesi dei quattro padri fondatori dell’arte moderna. Si accorse che tutti e quattro si erano concentrati su due caratteri principali: il colore e la linea. Esaltando la loro funzione espressiva, colore e linea potevano diventare indipendenti dai soggetti. Matisse, come i post-impressionisti, tornò agli elementi basilari della pittura; li isolò per poi ricombinarli in una nuova sintesi, affermando così la loro autonomia. Parlo di Neo-Impressionismo, perché per Matisse fu fondamentale un articolo del 1889 pubblicato da Signac, in cui esplicava il metodo divisionista di Seurat. Successivamente, nel 1904, lo stesso Signac invitò Matisse a passare l’estate con lui a Saint- Tropez. Al suo ritorno, Matisse dipinse Lusso, calma e voluttà (1904/1905); che fu subito acquistato dallo stesso Signac ed esposto al Salon des Indépendants del 1905. Nello stesso anno, Matisse era stato con Derain ed altri nel Sud della Francia, a Collioure. Dipinsero senza sosta per quattro mesi consecutivi. I risultati furono esposti nello stesso 1905, al Salon d’Automne. Lo scandalo fu ribattezzato Fauves; dalla citazione di un critico [Donatello tra le belve]. Matisse espose Donna col cappello (1905 – dipinto poi acquistato da Gertrude Stein). Dato il gran clamore suscitato dall’opera, Matisse fu eletto a ‘capo’ del movimento Fauves e la sua arte diventò un modello da imitare. Ma per Matisse, era solo l’inizio. Al Salon des Indépendants del 1906, Matisse presentò La gioia di vivere (1906); la sintesi più compiuta dell’opera dei quattro padri della pittura moderna. Da Signac (dunque Seraut) mantiene l’uso del colore puro e l’esaltazione cromatica data dalle coppie di complementari; ma abbandona la ricerca di un segno grafico convenzionale come il puntino o la pennellata costruttivista. Da Van Gogh e da Gaugin riprende le stesure piatte e i contorni, spessi dotati di un ritmo proprio. Ancora di Cézanne è la concezione della superficie pittorica come campo totalizzante. E’ quest’ultimo concetto che permette a Matisse di abbandonare la tecnica divisionista, per concentrarsi su tutte le zone del quadro: allargando il pdv, Matisse è in grado di distribuire i contrasti di colore, in maniera tale che echeggino in tutta la superficie. Continuando a lavorare sul livello di saturazione dei colori; Matisse si rese poi conto che ad influire sui rapporti di colore sono soprattutto i rapporti di grandezza della superficie; comprese il motivo per cui Cézanne abbandonò l’opposizione tradizionale colore/disegno: se ogni singolo colore può essere modulato da un puro cambio di proporzioni, ogni divisione di una superficie è in sé un procedimento coloristico. Fu proprio questo il principio che applicò alla Gioia di vivere: mai si era vista una stesura di colori puri su dimensioni così ampie; mai contorni così spessi; mai anatomie così deformate. Per quanto sia rivoluzionaria quest’opera, a livello iconografico Matisse riprese invece tutta la tradizione occidentale più alta: Ingres, Tiziano, Giorgione, Carracci, Poussin, etc. Ma Matisse non finisce di stupire; sconvolgendo anche la differenza sessuale dei personaggi rappresentati in questa moderna Arcadia. Tutte le figure, ad eccezione di una, sono infatti disanatomizzati. Dunque, a tutti i livelli [formale-stilistico- tematico], La gioia di vivere distrugge la pittura accademica; inaugurando il XX secolo. 1907, Nudo Blu: ricordo di Biskra – Baltimore Museum Nel 1903 Gaugin moriva nelle Isole Marchesi. Nel 1906 ci fu, al Salon d’Automne di Parigi, una grande retrospettiva in suo onore. Gaugin, uno dei padri del XX secolo [insieme a Cézanne; Van Gogh e Seurat], influenzò le nuove generazioni soprattutto per la sua ricerca visionaria tra le culture tribali. All’inizio del XX secolo, l’interesse per l’arte tribale accese molti artisti europei e, in questo contesto, vanno lette le opere di Matisse [1907, Nudo Blu: ricordo di Biskra], Picasso [1907, Les demoiselle d’Avignon] e Kirchner [1909, Ragazza sotto un ombrello giapponese]. Picasso guardò ai rilievi iberici; mentre Matisse si interessò più all’Africa Settentrionale (viaggio nel 1906). Nel 1907 Nudo Blu fu esposto al Salon des Indépendants. Gli antecedenti sono chiari: l’Olympia [1863] di Manet (con tutte le sue implicazioni) rivisitata da Gaugin con Lo spirito dei morti veglia [1892]. Riprendendo la posa dell’Olympia, Matisse ne esalta la posa, enfatizzando la curva della natica sinistra. Il suo Nudo è collocato in Biskra, un luogo dell’Africa del Nord che egli aveva visitato nel 1906. Lo sfondo è esotico, e Matisse approfondisce così la primitivizzazione della sessualità femminile (già presente in Gaugin), dando vita a una prostituta/primitiva. Kirchner riprenderà la posa del Nudo Blu, girandolo, ma mantenendo la stessa prominenza della natica. Inoltre, l’artista tedesco, nella sua Ragazza, enfatizza l’erotismo anale della sua modella. Invece, Picasso moltiplicherà la singola figura della prostituta, ripetendola per ben cinque volte; ed enfatizzando ancor di più la sua primitività. Inoltre, Les Demoiselles, spingono al limite l’ambivalenza – già presente nel Nudo Blu – desiderio/timore della sessualità femminile razziale. 1909 (1916/1916/1931), Back I (Bacl II/Back III/Back IV) – Washington In questa serie di quattro Nudi di schiena, realizzata tra 1909 e 1931, Matisse identifica gradualmente la figura con la parete che la sorregge: nel Nudo I, la figura si appoggia alla parete; nel Nudo II, la differenziazione tra modellato della schiena e trattamento dello sfondo inizia ad offuscarsi; nel Nudo III, la figura è quasi completamente allineata con i bordi del supporto; infine, in Nudo IV, la figura diviene modulazione del supporto stesso. Nonostante ciò, questa serie rappresenta un’eccezione rispetto alle altre sculture di Matisse; che prevedono il movimento dell’osservatore intorno ad esse; come nel caso di Nudo sdraiato I – Aurora (1907) o di La serpentina (1909). E’ come se ciò che interessava veramente Matisse, fosse trovare il punto di vista più eccentrico e inatteso. Nel 1919 si tenne a Parigi la prima mostra personale di Picasso. Al suo interno, però, c’era il contrario di ciò che ci si sarebbe aspettati dal Picasso cubista. Finita la Guerra, infatti, Picasso come molti altri suoi colleghi, aveva fatto un passo indietro – definito rappel à l’ordre – durante il quale, per l’appunto, gli artisti tornarono a un tipo di rappresentazione classica, tradizionale. Forse per Picasso non si trattò di un ritorno alla maniera di Ingres; ma più un’operazione meccanica, fredda ed impersonale; un po' come i disegni di Picabia o i ready-made di Duchamp. Tra il 10 Maggio e il 15 Giugno del 1937 Picasso dipinse Guernica. Nel Gennaio dello stesso anno, gli era stato commissionato un dipinto murale per il padiglione spagnolo presente all’Esposizione Internazionale di Parigi. L’episodio rappresentato si rifà al bombardamento, da parte di italiani e tedeschi su istigazione di Franco, del 26 aprile 1937 sulla cittadina spagnola di Guernica. Si tratta del primo bombardamento effettuato su una popolazione civile. Picasso allora si decise a realizzare un’opera monumentale a favore delle vittime; una sorta di monumento commemorativo della tragedia della Guerra civile spagnola. Nell’opera, Picasso utilizzò una serie di simboli ed immagini mitologiche e religiose provenienti dal Mediterraneo o dalla Spagna; ma che ebbero il potere di parlare al mondo intero. L’universalità della sua opera ne garantì il successo. Dopo la chiusura del padiglione spagnolo, il quadro intraprese un viaggio attraverso vari paesi europei e fu esposto per sostenere la Repubblica Spagnola e portare all’attenzione internazionale gli atti barbarici del fascismo di Franco. Poco dopo la tragica fine della Guerra civile (1939), Picasso decise che Guernica sarebbe stata spedita negli USA, dichiarando che il quadro non sarebbe più tornato in Spagna finché il governo democratico non avesse sostituito il regime di Franco. FUTURISMO Il 20 Febbraio 1909 Tommaso Marinetti (1876-1944) pubblica sul quotidiano francese Le Figaro il Manifesto di fondazione del Futurismo; affermando così, in primo luogo, il legame tra l’Avanguardia e la cultura di massa. Ciò significava anche affermare il legame del Futurismo con le nuove forme della tecnologia. Il Futurismo celebrava il dinamismo, la luce distruttrice delle forme, la rottura dell’oggetto, il prevale dell’automobile sulla Vittoria di Samotracia; in poche parole, il Futurismo preferiva l’oggetto industrializzato all’unicità dell’oggetto d’arte. A livello artistico, antenati dei futuristi erano la tecnica neoimpressionista/divisionista e il Cubismo; ma anche la cronofotografia di Marey per la rappresentazione del corpo nello spazio. In realtà, nel 1909, i suoi esponenti erano ancora legati a un tipo di pittura tradizionale, che solo successivamente venne sviluppata in quella che oggi definiamo pittura futurista. Al Manifesto di fondazione del Futurismo, seguirono il Manifesto tecnico della pittura futurista [1910 – firmato da Marinetti; Boccioni; Balla; Carrà; Russolo; Severini]; il Manifesto tecnico della scultura futurista [1912 – Boccioni. Citano Medardo Rosso]; il Fotodinamismo futurista [1912 – Anton Giulio Bragaglia] e L’arte dei rumori [1913 – Russolo]. Comune a tutti erano: • sinestesia (rottura confini tra sensi diversi) e cinestesia (rottura distinzione tra corpo fermo e corpo in movimento) → Pittura e scultura non andavano più intese come arti statiche: cercarono di rendere l’esperienza della temporalità, rappresentando dei corpi in movimento. • analogia tra pittorico e tecnologia della visione e della rappresentazione • condanna alla cultura del passato e all’eredità della tradizione borghese; con conseguente fusione tra arte e tecnologie avanzate Vi fu anche un Manifesto della poesia futurista, pubblicato sempre da Marinetti, con il titolo Distruzione della sintassi – Immaginazione senza fili – Parole in libertà; ed è appunto del 1914 la prima raccolta di ‘parole in libertà’. La ‘tecnica’ consisteva nella distruzione delle tradizionali catene alle quali il linguaggio è assoggettato; in favore di un’azione puramente fonetica e grafica. Con l’avvento del Fascismo in Italia, il Futurismo divenne una sorta di ‘arte ufficiale’. Nel loro primo manifesto, infatti, vi era anche affermata l’esaltazione della guerra – intesa come purificazione, nel senso di distruzione della tradizione. Molti futuristi furono anche interventisti: tra loro, Boccioni morì nel 1916 nella battaglia di Sant’Elia. Nello stesso anno, Severini e Carrà ripensarono le loro posizioni futuriste: Severini adottò forme classiche, ispirate all’arte rinascimentale italiana; mentre Carrà, nel 1917, incontrò a Ferrara Giorgio de Chirico (1888-1978) e, nel 1918, teorizzò il Contributo a una nuova arte metafisica. Giacomo Balla (1871-1958) Giacomo Balla utilizzò inizialmente la tecnica divisionista; come in Lampada ad arco (1909/1910). Successivamente, verso il 1912, iniziò ad adottare i contorni ripetitivi della cronofotografia per rappresentare i propri soggetti; come in Ragazza che corre sul balcone (1912) o Dinamismo di un cane al guinzaglio (1912). A partire dal 1913 [nel 1912 era stato a Monaco, e qui aveva potuto vedere i nuovi esprimenti astratti], si accorse però che tutto ciò non bastava, e così abbandonò del tutto la rappresentazione, cercando un modo più adatto per descrivere velocità, temporalità, movimento e trasformazione visiva. Balla sperimentò uno dei primi modelli di pittura non rappresentativa; come possiamo vedere in Compenetrazioni irridescenti (1914). Umberto Boccioni (1882-1916) Formatosi sempre nell’ambiente divisionista, Boccioni privilegiò le immagini legate alla città; come possiamo notare in uno dei suoi primi quadri propriamente futuristi: La città che sale (1910). Nell’opera, l’ambiente e le figure si compenetrano, ed è presente un moto di ascesa. La sua opera più riuscita è forse il ‘trittico’ degli Stati d’animo (Quelli che vanno, Quelli che restano, Gli addii – 1911). Dal 1912, anno del manifesto, iniziò ad accostarsi alla scultura. E’ del 1913 Forme uniche nella continuità dello spazio; un’opera ancora legata alla cronofotografia di Marey. Tra il 1914 e il 1915 produce invece Dinamismo di un cavallo in corsa + case; una delle prime sculture non figurative del XX secolo. Qui Boccioni realizzò ciò che aveva teorizzato nel Manifesto: simultaneità; cinestesia; utilizzo di materiali prodotti industrialmente; giustapposizione e frammentazione dei materiali. Carlo Carrà (1881-1966) La stagione futurista di Carrà è assai breve, si limita al periodo che va dal 1910 al 1914. A questi pochi anni vanno ricondotti: I funerali dell’anarchico Galli (1910); Manifestazione Inteventista (1914). Già nel 1915 assistiamo ad una variazione nel suo stile; che lo porterà a stringere un sodalizio con Giorgio de Chirico e la Metafisica. Gino Severini (1883-1966) Severini fu quello che più di tutti divulgò il Futurismo in Francia (abitò a Parigi). Nella sua Danzatrice blu (1912), possiamo notare il rilievo dei lustrini utilizzati per decorare l’abito. Dal 1916, Severini tornò ad uno stile classico e tradizionale (Maternità, 1916). DER BLAUE REITER e DIE BRUCKE → Verso l’Astrattismo Nel 1911 Kandinskij e Marc fondano a Monaco l’associazione di artisti Der Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro); mentre l’anno seguente pubblicarono l’Almanacco del Cavaliere Azzurro. Questo movimento è da mettere in relazione con un altro gruppo tedesco, formatosi però a Dresda nel 1905 con il nome di Die Brucke (Il ponte) da Ernst Ludwig Kirchner. Il nome Cavaliere derivava da una tradizionale figura della rivelazione cristiana; mentre il nome Ponte si riferiva alla citazione ripresa da Così parlo Zarathustra di Nietzsche. Entrambi i gruppi, trovarono fonte d’ispirazione in Astrazione ed Empatia di Worringer, pubblicato nel 1908, anche se in maniera diversa. Secondo Worringer, l’astrazione è una risposta data da una necessità interiore dell’uomo, che sente il bisogno di un rifugio difronte al caos ostile della natura. Kirchner concepiva allo stesso modo il mondo urbano moderno; come si può vedere in La strada, Dresda del 1908. Contrariamente, gli artisti del Cavaliere vedevano l’isolamento degli esseri umani come una condizione da approfondire più che da ‘curare’. Noi cerchiamo forme artistiche che rivelino la compenetrazione di queste forze collegate tra loro, scrissero; ed infatti questo gruppo di artisti andò alla ricerca di una riconciliazione tra necessità interiore e mondo esterno. Così, Kandinskij si interessò alla comunione con il regno spirituale [mondo trascendente dello spirito]; mentre Marc andò alla ricerca di un legame con il mondo naturale [mondo immanente della natura]. Vasilij Kandinskij (1866-1944) Nato in Russia, studiò economia e legge, ma decise di dedicarsi all’arte. Viaggiò prima a Monaco; poi a Parigi, dove incontrò i Fauves, e successivamente ritornò a Monaco, dove si stabilì. Dal 1922 al 1933 insegnò al Bauhaus di Weimar. Quando chiuse a causa dei nazisti, tornò in Francia e lì rimase fino alla morte. Nel 1911 scrisse Lo spirituale nell’arte, un piccolo libro in cui teorizza una schematizzazione dei colori secondo i loro risvolti psicologici e spirituali. Successivamente, i colori venivano associati alle direzioni lineari, e in seguito alle forme geometriche. I contenuti della sua arte sono ciò che lo spettatore vive o sente sotto l’effetto delle combinazioni di forma e colore del quadro. Kandinskij infatti si avvicinò molto alla musica (come si può vedere dai titoli dei suoi quadri: dal 1909 Improvvisazioni; dal 1910 Composizioni; dal 1911 Impressioni). Al 1910 – datazione probabilmente anticipata – risale il suo primo Acquarello Astratto. Il suo percorso fu abbastanza lento e ragionato, ma quasi sempre accompagnato da degli scritti teorici. A partire dal 1922 (anno arrivo al Bauhaus), il suo stile cambiò, e si fece molto più geometrico. Kandinskij iniziò ad usare un reticolo geometrico più severo, accompagnato da colori piatti. Proprio come la musica, le sue opere sono evocative. Dalle sue lezioni al Bauhaus nacque Punto linea superficie (1926). Franz Marc (1880-1916) Definì la sua opera una compenetrazione panteistica nel flusso di sangue pulsante nella natura, negli alberi, negli animali, nell’atmosfera. Le sue composizioni risentono dello stile di Gaugin (conosciuto in un viaggio a Parigi nel 1903), Matisse, lo stesso Kandinskij e, successivamente, Picasso e Delaunay. Come per Kandinskij, anche Marc teorizzò un simbolismo del Kazimir Malevic (1878-1935) In parallelo con le ricerche linguistiche operate dai poeti transrazionali; Malevic credeva nel potere dell’arte di rinnovare la percezione. Come fare? Secondo Malevic, bisognava dis-automatizzare la visione per mettere l’osservatore di fronte al fatto che i segni pittorici non sono trasparenti ai loro referenti, ma hanno un’esistenza propria. Bisognava cogliere il pittorico in quanto tale; il grado zero della pittura. Inizialmente, Malevic si concentrò sul collage cubista, senza però ottenere quella trasparenza del linguaggio che stava cercando. Fondamentale fu la mostra del 1915, 0.10 [Ultima mostra futurista di pittura, San Pietroburgo], nella quale i suoi partecipanti cercarono appunto di definire il grado zero, il minimo essenziale, di pittura e scultura. In quest’occasione, Malevic espose il suo famoso Quadrato nero su fondo bianco [1915, S. Pietroburgo – primo controrilievo ad angolo (come le icone tradizionali russe), ripreso poi da Tatlin nei suoi Controrilievi ad angolo]. Da lì in poi, Malevic capì che il ‘grado zero’ della pittura era la sua bidimensionalità e la sua forma delimitata [da qui l’attenzione al quadrato]. L’organizzazione dei suoi quadri sarà giocata sulla loro struttura deduttiva: la posizione e la morfologia delle sue figure sarà dedotta dalla forma e dalle proporzioni del supporto. La divisione della superficie del quadro e i segni che contiene non sono determinati dall’interiorità dell’artista, ma dalla logica del ‘grado zero’: si riferiscono direttamente allo sfondo materiale del quadro stesso che essi disegnano. Nel 1915, dunque, nacque il Suprematismo. Presto, si concentrò unicamente sul colore, isolandolo. Malevic, infatti, si rese conto che il colore non è mai percepito come tale (al suo grado zero) senza prima essersi liberato da qualsiasi legame di contenuto che non sia la sua stessa radianza. Nel 1918, Malevic, a causa della pressione politica russa, si ritirò momentaneamente dall’arte. Nei quali di questo periodo, vediamo quasi raggiunto il grado zero della pittura: Pittura suprematista (bianco su bianco), ne è un esempio. Alla fine degli anni Venti ricominciò a dipingere, retrodatando le sue opere perché il suo stile era tornando all’Impressionismo o al Cubismo (l’Astrazione era quasi un crimine politico). Vladimir Tatlin (1885-1953) Già attivo nell’avanguardia cubo futurista; Tatlin rimase colpito da alcune costruzioni cubiste di Picasso durante il suo soggiorno a Parigi nel 1914. Come Picasso usò l’arte africana, Tatlin fece riferimento alla sua tradizione, in particolare alle icone religiose: Tatlin dirige l’osservatore non a un trascendete mondo di Dio, ma a una realtà immanente dei materiali. Un terzo modello a cui attinse fu la poesia ‘transrazionale’ a lui coeva. Questo nuovo esperimento linguistico aveva frammentato la sintassi normale, rompendo il linguaggio in fonemi – unità base della parola; riassemblandoli in ‘nuove costruzioni’ di parole. Dal 1914 Tatlin adottò il termine ‘controrilievo’. Alla mostra del 1915 (San Pietroburgo, 0.10 Ultima mostra futurista); le sue opere rivaleggiarono con quelle di Malevic; ed attrassero molti giovani artisti Costruttivisti. COSTRUTTIVISMO Il Costruttivismo nacque come risposta diretta al Monumento alla Terza Internazionale di Vladimir Tatlin (1920). La struttura, interamente in legno, consisteva in due spirali coniche inserite una dentro l’altra. Colpiva la sua inclinazione. A completare l’opera, delle assi oblique e verticali sorreggevano quattro volumi geometrici di vetro sospesi l’uno sull’altro nel suo interno inclinato. Ognuno di questi volumi doveva ruotare a velocità diversa. Il Monumento fu un successo. Accolto come assolutamente moderno; corrispondente alla cultura (verità) dei materiali. Si trattava di un oggetto produttivista interamente funzionale. Da qui, vi fu un lungo dibattito centrato sulla nozione di costruzione [forma e significato sono motivati dal rapporto tra i diversi materiali]; e composizione [arbitraria]. Il termine Costruttivismo emerse durante il dibattito, e Rodcenko lo utilizzò immediatamente per definire il suo gruppo di lavoro. Nel 1921 vi fu una seconda mostra, tenutasi dall’Obmokhu, in cui gli artisti esposero principalmente ‘costruzioni spaziali’. Qui Rodcenko (1891-1956) espose le sue sculture sospese [1920, Costruzione ovale sospesa n.12], consistenti in un singolo foglio di compensato ritagliato in forme concentriche, poi ruotate in profondità per creare vari volumi geometrici tridimensionali: la scultura può essere ricondotta alla sua origine bidimensionale, mettendo così a nudo il suo processo di produzione. Portata all’estremo, questa strada poteva condurre in due direzioni: la griglia o il monocromo. Rodcenko se ne accorse immediatamente e, nel 1921, espose tre tele: una rossa, una blu e una gialla [1921, Puro colore rosso, puro colore giallo, puro colore blu]; affermando: E’ finita. I colori di base, Ogni superficie è una superficie e non ci deve più essere rappresentazione. All’inizio del 1922, i Costruttivisti non produssero più oggetti, e furono ingaggiati dallo Stato nel campo della propaganda; per pubblicizzare la Rivoluzione. Crearono così manifesti, stand propagandistici, allestimenti e grafica editoriale. Marcel Duchamp (1887-1953) Inizialmente introdotto nell’ambiente cubista [Gruppo di Puteaux]; Duchamp si ritirò dal gruppo nel 1912, quando venne rifiutato Nudo che scende le scale n.2 (1912, Philadelphia Museum). Nel 1911, intanto, aveva stretto amicizia con Francis Picabia. Nello stesso anno, assistette a uno spettacolo di Roussel basato sull’arbitrarietà. Duchamp affermò in seguito che Roussel gli aveva mostrato un mondo per gli stratagemmi con cui combinava caso e scelta, arbitrio e dato. I disegni meccanici e il sistema del caso gettarono dei dubbi sulle nozioni convenzionali di arte e artista. Nel 1913 scrive: Si possono realizzare opere che non siano opere d’arte? Duchamp stava ragionando su una serie di questioni ‘meta-artistiche’: Che cos’è l’arte? Chi decide cosa è arte? La sua risposta fu il primo ready-made [il nome ready-made nacque nel 1915, quando Duchamp si trasferì a New York]: una ruota di bicicletta posto sottosopra da uno sgabello [1913, Ruota di bicicletta]. Duchamp, attraverso il caso, decentrò l’autorialità del fare l’opera d’arte [1913/1914, Tre rammendi tipo]; mentre attraverso il nominalismo (nominare una data immagine/oggetto come arte) trovò l’equivalente del fare arte. Del 1914 è Scolabottiglie; che aprì un’altra serie di domande sull’arte: Qual è il rapporto degli oggetti utilitari con quelli estetici, della merce con l’arte? Nel 1917, in occasione della prima esposizione della Società Americana degli Artisti Indipendenti, Duchamp, con lo pseudonimo di R. Mutt, presentò Fontana. L’opera fu rifiutata, nonostante l’esposizione non avesse giuria e accettò le restanti 2.125 presentate. Duchamp difese Fontanta in un articolo, intitolato Il caso Richard Mutt, pubblicato sulla rivista The Blind Man; in cui scrisse: Dicono che ogni artista che paga sei dollari può esporre. Il signor Richard Mutt ha mandato una Fontana. Senza discussioni quest’articolo è scomparso e mai esposto. Le ragione del rifiuto della fontana del signor Mutt furono: 1) alcuni hanno contestato che era immorale, volgare; 2) altri che era un plagio, un evidente pezzo di idraulica. Ora, la Fontana del signor Mutt non è immorale, ciò è assurdo, non più di quanto lo sia una tubatura. E’ un oggetto che vedete ogni giorno in una vetrina di negozio di idraulica. Che il signor Mutt abbia fatto o meno la fontana con le proprie mani non ha importanza. L’ha SCELTA. Ha preso un normale articolo quotidiano, l’ha posto in modo che il suo significato utilitario scomparisse sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista – ha creato una nuova idea per quell’oggetto. Nel 1915 Duchamp sbarcò a New York, sull’onda del successo. Nello stesso anno, iniziò a lavorare al Grande Vetro (o La sposa messa a nudo dai suoi celibi, anche): un grande vetro composto di due pannelli, con disegni enigmatici e materiali insoliti [polvere; fili di piombo]. Nel 1923, l’opera fu completata. Successivamente, pubblicò nella Scatola verde (1934), una serie di note che appuntava intorno all’opera; creando un clima concettuale attorno al Vetro. L’intera opera fu realizzata seguendo il concetto di ‘traccia’: le 7 forme coniche dei Setacci furono realizzati fissando la polvere depositata sul vetro per mesi; i 9 nove Spari sono tracce di dove hanno colpito la superficie nove fiammiferi sparati con un cannoncino giocattolo; i 3 Pistoni sono forme ottenute appendendo un quadrato di tessuto da una finestra aperta e fotografandone tre volte le deformazioni causate dal vento ed utilizzando i profili come matrici. Il concetto di indice [R. Barthes: è causato dal suo referente e ha un legame materiale con esso, come la fotografia], la traccia e l’utilizzo del caso, annullano l’idea dell’abilità tradizionalmente associata all’idea di artista. Molti artisti saranno influenzati dal ricordo al caso. Nel 1918, sempre a New York, viene commissionato a Duchamp un lungo dipinto, da appendere sopra gli scaffali della libreria di Katherine Dreier. Il risultato fu Tu m’ (1918, Yale), l’ultimo quadro di Duchamp: un riassunto della produzione post-cubista dello stesso artista. Tu m’ è un panorama dell’indice, a partire dalla grossa mano che appunto indica; alle ombre (altro tipo di indice) proiettate dei suoi ready-made (Ruota di bicicletta; Scolabottiglie); alle tracce lasciate dai Tre rammendi. Lo stesso titolo, Tu m’, rimanda allo stesso Duchamp: all’interno del colloquio, Duchamp si pone sia come ‘io’ che come ‘tu’. L’artista si dichiara dunque diviso, frammentato; come già stava facendo attraverso la figura di Rrose Sélavy (dal 1920 circa). Nel 1935 Duchamp iniziò a lavorare al suo personale museo: La Scatola-in-valigia (1935/1941); concepita come la borsa-campionario di un commesso viaggiatore. Al suo interno, una grande retrospettiva del suo lavoro, con ben 69 riproduzioni delle sue opere, rimpicciolite a misura di valigia appunto. Le riproduzioni delle sue opere, dunque copie, erano però prodotte da Duchamp stesso, dunque originali. In questa scatola, Duchamp compie l’ennesimo cortocircuito tra autenticità e ripetizione; iniziando a lavorarci proprio nell’anno de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, di Walter Benjamin. Nel 1938, Duchamp collaborò con Man Ray all’Exposition Internationale du Surréalisme [Parigi, Galleria des Beaux-Arts]. I due, lavorando come tecnici della luce, inizialmente pensano a un sistema costituito da luci che si accendano al passare degli spettatori davanti alle opere. Alla fine, opteranno per delle torce: all’ingresso, lo spettatore potrà prenderne una e visitare la galleria. Il fine è quello di avere uno spettatore attivo, che partecipa allo spettacolo. Inoltre, vi è anche un gioco interno tra gli stessi spettatori: si è condizionati dalle luci altrui, e guardiamo ciò che gli altri guardano [voyeurismo]. Nel 1941, alla soglie della Guerra, molti Surrealisti si spostarono a New York. L’anno seguente, si tenne First Paper of Surrealism; mostra organizzata da Breton e curata da Duchamp. Qui, invece, Duchamp installò 16 miglia di corda; con l’obiettivo di riceve un’azione volontaria dallo spettatore (mentre con la torcia era passivo); ovvero, quella di liberarsi. Un posto a parte merita invece il lavoro di John Heartfield (1891-1968), che utilizzò il fotomontaggio a favore di interventi comunicativi. I suoi collage sono narrativi; omogenei; contengono didascalie con la funzione di costruire un’informazione [indirizzato al pubblico proletario]. Heartfield intendeva cambiare lo statuto stesso del fotomontaggio, trasformandolo in uno strumento di cultura di massa. Sotto un certo pdv, Heartfield criticava i colleghi dadaisti, per le loro giustapposizioni senza senso, che non portavano alcuna presa di posizione. Infatti, a partire dal 1928, l’impegno di Heartfield cresce, come si può notare in alcuni suoi lavori [Il volto del fasciamo, 1928; Il significato del saluto di Hitler, 1932]. Nel 1933, anno dell’ascesa dei nazisti al governo, Heartfield fu costretto a lasciare Berlino; rifugiandosi a Praga. Qui i suoi sforzi si fecero ancora più intensivi: lo stesso Hitler intervenne presso il governo ceco per far chiudere le mostre di Heartfield a Praga. Germania – Hannover Kurt Schwitters (1887-1948) fu un protagonista isolato nel clima Dadaismo tedesco; con il quale non condivideva scopi politici. Dal 1918 iniziò a comporre collage con ogni genere di rifiuto raccolto per strada; e dall’anno seguente, scelse di chiamare tutte le sue opere Merz (parola che deriva da commerzbank). Sempre più lontano dai colleghi berlinesi. Schwitters si avvicinò al Costruttivismo e al Produttivismo russi, in particolare con la figura di El Lisickij. Dagli influssi dati dal rapporto stretto con Lisickij, Schwitters iniziò il suo primo progetto architettonico: Merzbau – costruzione di Merz – una sorta di autoritratto ambientale al quale lavorò per più di vent’anni (1920/1943). New York e Parigi A New York, l’ambiente Dada si diffuse intorno alla galleria 291, diretta da Alfred Stieglitz (1864-1946) e frequentata da Marcel Duchamp (trasferitosi in America dal 1915), Man Ray (1890-1977) e Francis Picabia (1879-1953). Successivamente, gli stessi protagonisti si spostarono a Parigi (Picabia nel 1917; Duchamp nel 1919; Man Ray nel 1921); ai quali si aggiunse poi le figure di Max Ernst (1891-1976) e André Breton (1896-1966). Nel 1922, Breton si distaccò dal gruppo Dada, e successivamente fondò il Surrealismo (1924). BAUHAUS Il Bauhaus iniziò nel 1919 e finì, per lo meno ufficialmente, nel 1933, a causa dei Nazisti. In realtà, la sua esperienza venne perpetuata dall’emigrazione degli insegnanti e degli stessi studenti; così troviamo reincarnazioni del Bauhaus negli Stati Uniti (grazie a Moholy-Nagy) e nella stessa Europa. Le tappe del Bauhaus furono tre: dal 1919 al 1924 a Weimar [con Gropius; Itten; Moholy- Nagy; Kandinskij; Klee]; dal 1924 al 1930 a Dessau e, infine, dal 1930 al 1933 a Berlino. Il Bauhaus si presentò fin dagli esordi come una Scuola d’arte di concezione interamente nuova: oltre ad auspicare la fusione tra arte creativa e mondo industriale, come affermò il primo direttore della struttura, Walter Gropius (1883-1969); al suo interno si creò un clima di condivisione, accelerato anche dalla convivenza, nello stesso edificio, di allievi e maestri. Grazie a questo nuovo clima ‘aperto’, venne messo in crisi il concetto stesso di ‘gerarchia’: ora un’opera poteva essere prodotta tranquillamente a più mani. Il Bauhaus fu fondato, abbiamo detto, con l’obiettivo di unire le belle arti alle arti applicate, con l’intento di costruire una ‘opera d’arte totale’. Al fine di questo scopo, inizialmente la scuola offriva una prima parte relativa all’insegnamento in laboratori artigianali [scultura; vetro; ceramica; tessuto; etc]; e la seconda, in ‘problemi formali’ artistici [teoria della forma; teoria del colore; costruzione; teoria della composizione; etc]. La maggior parte degli insegnanti era orientata ad un approccio modernista all’arte (vedi Kandinskij o Klee). Da ricordare anche l’alta percentuale di insegnanti donne. Cuore del Bauhaus era il Vorkurs; un corso preparatorio semestrale richiesto a tutti i nuovi studenti. Inizialmente, fu tenuto da Itten, sostituito poi nel 1923 da Moholy-Nagy; due personalità opposte. Il primo, sulla scia di Kandinskij, era attento agli effetti psicologici della linea e del colore, e rigettava le macchine; il secondo, affermava che la macchina era l’anima di questo secolo. Con Moholy- Nagy iniziarono le analisi costruttiviste dei nuovi media e delle tecniche industriali. Alla fine, il suo rigore incarnò l’ideale del Bauhaus, e la sua lezione fu perpetuata negli Stati Uniti da un suo collaboratore, Josef Albers. Nello stesso 1923, vi fu la prima mostra del Bauhaus; durante la quale l’allora direttore Gropius, pronunciò un discorso sul nuovo approccio promosso dalla scuola: il passaggio da una nozione medievalista di artigianato, a un’idea di artigianato industriale [nuovo artista/designer]. Nel 1925, la trasformazione fu completata con il trasferimento del Bauhaus in un edificio modernista progettato da Gropius stesso a Dessau; rinominato Istituto di design. Con il trasferimento, cambiarono anche i corsi: i laboratori relativi ai problemi formali divennero laboratori basati sul principio di funzionalità. I nuovi allievi vennero preparati sulle tecniche di costruzione e sui prototipi industriali, accantonando pratiche come la scultura o la ceramica. Dopo il Bauhaus Quando nel 1933 il Nazismo chiuse il Bauhaus, Moholy-Nagy vagò per qualche anno in Europa. Nel 1937 andò a Chicago per dirigere il neonato New Bauhaus; che con il 1939 (dopo una tragica chiusura) Moholy-Nagy riuscì a riaprire con il nuovo nome di Scuola di Design; rinominata poi Istituto di Design (ad oggi, Illinois Institute of Technology). Qui, Moholy-Nagy strinse accordi con industriali; si concentrò sulla fotografia (che, per portata rivoluzionaria, veniva paragonata alla prospettiva nel Rinascimento); credeva nel progresso della visione tecnologica. Il Vorkurs del New Bauhaus fu incentrato sulla formazione di un nuovo tipo di designer, specializzato in scienza e tecnica, uniti ai bisogni umani fondamentali (utilizzo del progresso tecnico nei campi della cultura fisica, dell’alimentazione, dell’abitazione e dell’industria – una radicale risistemazione del nostro intero schema di vita). Infatti, nuova enfasi veniva posta, nei corsi, su scienza, fotografia, cinema, allestimento e pubblicità. Come già nel Bauhaus Europeo, Moholy-Nagy auspicò una sorta di Nazioni Unite della cultura del design che potessero ‘incarnare tutte le conoscenza specialistiche in un sistema integrato attraverso l’azione cooperativa’. Josef Albers (1888-1976), alla fine del 1933, portò la sua versione del Vorkurs al Black Mountain College (North Carolina); da poco aperto da un piccolo gruppo di professori. La scuola incentrò i suoi insegnamenti sulle arti; prestando grande attenzione all’insegnamento olistico e alla partecipazione collettiva. Si trattava di una comunità sperimentale in un college egalitario. Dalla metà degli anni Quaranta fino alla metà degli anni Cinquanta, il Black Mountain fu la Marianne Brandt, Lampada da Tavolo, 1928 Marianna Brandt, Tea infuser and strainer, 1924 Marcel Breuer, Sedia Wassily, 1925-27 Marcel Breuer, Sedia Cesca, 1928 scuola/comunità più influente degli Stati Uniti. Nella sua struttura si formarono personalità dal calibro di Robert Rauschenberg. All’insegnamento parteciparono anche figure esterne, come John Cage, William de Kooning, Clement Greenberg, Walter Gropius. La dialettica docente/studente fu ricca di stimoli, come testimonia il sodalizio tra Cage, Rauschenberg, etc. Tornando ad Albers, cambiò il nome di Vorkurs in Werklehre – insegnare facendo – ed apportò altre modifiche ai suoi corsi; rendendoli più ‘umanisti’. Inoltre, fece lavorare i suoi studenti con materiali non tradizionali: era interessato più all’apparenza che all’essenza, o meglio a quella che chiamava matière – come una sostanza appare e come cambia secondo diverse manipolazioni, illuminazioni, sistemazioni. Oltre all’attenzione per la sperimentazione e la soggettività espressiva, Albers fu fondamentale per le nuove generazioni artistiche americane per la sua figura di mediazione tra impulsi modernisti e avanguardisti e la sua attenzione alla luce e al colore [Omaggi al quadrato]. L’apertura sulla ‘visione’ è la più importante eredità sia di Moholy-Nagy che di Albers. L’artista visivo modella il mondo, progettando il suo ordine e progresso. Sotto queste legge, largamente anticipata dai due, le ‘belle arti’ della tradizione venivano trasformate nelle ‘arti visive’ del periodo modernista. Verso il Surrealismo Prima di parlare del Surrealismo, dobbiamo introdurre il clima diffuso durante gli anni Venti. Infatti, se all’inizio del Novecento molti artisti si erano interessati all’arte ‘primitiva’ e all’arte dei bambini; a partire dagli anni Venti subentra l’interesse verso l’arte dei malati di mente. Questi tre orientamenti rappresentarono infatti per gli artisti le origini primarie dell’arte. L’interesse verso questi soggetti era già stato approfondito, a livello artistico dai romantici, mentre a livello intellettuale da personalità come Charcot, Lombroso, Freud. Ad inizio del Novecento si imposero però sulla scena due nuovi studi: uno, del 1907, di Marcel Réja L’arte dei folli; l’altro, del 1922, di Prinzhorn, L’attività plastica dei malati di mente. Prinzhorn aveva una formazione artistica e, solo successivamente, psichiatrica. Dal 1918 lavorò alla Clinica di Heidelberg, e qui potè studiare i paziente e arricchire la collezione d’arte dell’istituto. Il suo lavoro fu di fondamentale importanza per artisti come Max Ernst (1891-1976); Paul Klee e, successivamente, Jean Dubuffet (1901-1985); che guardavano all’arte dei malati come mezzo per riformare l’arte. I loro ‘collage’ furono essenziali per l’imminente nascita del Surrealismo. Ernst, in particolare, lavorava utilizzando il frottage (immagine prodotto per sfregamento) e il grattage (immagine prodotta grattando). Queste due tecniche, gli consentirono di introdurre il trauma in arte. SURREALISMO André Breton (1896-1966) ebbe due esperienze fondamentali che lo segnarono: primo, l’approccio con il Dadaismo (a Parigi con Duchamp, Man Ray, etc); secondo, il servizio prestato al reparto malati per traumi di Guerra. In particolare, quest’ultima esperienza lo segnò e lo introdusse alla psicanalisi (inconscio, principio di piacere, sogni, angoscia castrazione, pulsione di morte). Già nel 1920 aveva prodotto un lavoro poetico guidato dall’automatismo; ma solo nel 1924 pubblicò sulla rivista La Révolution surréaliste, il manifesto del nuovo movimento Surrealista: “SURREALISMO, s.m. Automatismo psichico puro [..] dettato dal pensiero, con assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica e morale. Il Surrealismo si basa sulla fede nella realtà superiore di alcune forme di associazione prima d’ora dimenticate, fede nell’onnipotenza del pensiero”. Le vie per raggiungere l’automatismo psichico erano essenzialmente due: la scrittura automatica e la raccolta irrazionale di Ernst, La camera da letto del signore - 1920 INFORME – SURREALISMO ‘ETNOGRAFICO’ Georges Bataille (1897-1962) era a capo della rivista surrealista dissidente: Documents; altamente criticata da Breton. Nata come rivista di arte, in realtà Documents si occupò molto di etnografia (da qui il nome). Intento di Bataille e della rivista, era quello di analizzare il ‘primitivismo’; inteso come evoluzione della specie umana, sia sotto il profilo etnico e ontogenetico. Recensendo L’arte primitiva di Luquet, Bataille sostenne (1930) che gli scarabocchi iniziali del bambino, al pari di quelli dell’uomo primitivo, non sono casuali e soprattutto non nascono dalla necessità di trovare una forma; al contrario, essi contengono la pulsione distruttiva che è sempre presente nella fase della rappresentazione come forma di automutilazione. Dunque, l’automutilazione (svilimento forma umana) è da sempre nucleo vitale dell’arte; e da Bataille in poi prenderà il nome di Informe. Con questo termine, egli celebrava la fine delle distinzioni e le opposizioni che in generale reggono il mondo, ad esempio interno/esterno, maschile/femminile, mano/piede, figura/sfondo. Oltre alla declassificazione, anche il declassamento: far scendere le cose dal piedistallo e riportarle giù nel mondo. In questo nuovo clima, Bataille riunì intorno a sé svariati artisti, come Joan Mirò, André Masson ed Alberto Giacometti. Joan Mirò (1893-1983) era un artista catalano che negli anni Venti si trasferì a Parigi. A partire da questo periodo, la sua arte si rivolse all’astrattismo, privilegiando un rapporto con l’arte primitiva. Breton apprezzava molto il suo stile, definendolo un po' naif e un po' infantile. I suoi quadri si connotano infatti per una sorta di trasparenza, a mò di finestra, sul mondo dei sogni. Dal 1927 in poi, proclamò di voler ‘assassinare’ la pittura [bruciava e torturava i suoi stessi quadri]; ma, come scrisse lo stesso Bataille: non si può uccidere l’arte e rimanere artisti; tra il 1930 e il 1931 Mirò, che aveva praticamente smesso di lavorare, fu costretto a scegliere. Decise di tornare alla pittura, ma con uno stile corrosivo [..] nei suoi attacchi al corpo e alla ‘buona forma’. Il passaggio dal mondo onirico alle sue opere ‘antipittoriche’ (come lui stesso le definì) è da inquadrare nell’avvicinamento che Mirò compì nei confronti del nuovo gruppo costituito da Bataille. Le nuove ‘antipitture’ riflettono il nuovo interesse generato da Bataille per la degradazione e l’abbassamento [riferimento a Freud, Il disagio della civiltà, 1930]. Alberto Giacometti (1901-1966), formatosi in scultura con un allievo di Rodin ed attratto dalle opere di Brancusi, nel 1930 espose Palla sospesa. In quest’opera, due forme racchiuse in una gabbia – un cuneo reclinato e una palla con una fessura – sembrano toccarsi, sfregarsi più che altro. Il contatto tra i due elementi esprime una certa sessualità; ed infatti l’opera fu molto apprezzata dai Surrealisti (che la considerarono un feticcio). In particolare, colpiva l’ambiguità dei due elementi: il cuneo, che sembra una vulva, può essere interpretato anche come sesso maschile; la palla, connotata come maschile dal suo ruolo attivo, appare femminile per via della fessura. Il continuo incrociarsi delle identificazioni imita l’oscillazione del pendolo della stessa struttura, e finisce per produrre quell’atto di declassificazione che Bataille aveva indicato come funzione dell’informe. In Oggetto invisibile (mani che stringono il vuoto), del La fattoria, 1920/1921 Il bacio, 1924 Il Carnevale Arlecchino, 1924/1925 1934, Giacometti scolpisce l’impossibilità della riconquista dell’oggetto perduto. Per Lacan, infatti, il desiderio non può mai essere realizzato, perché è definito dalla mancanza; dunque, il ritrovamento dell’oggetto desiderato si configura come un’eterna ricerca. Nell’opera in questione, Giacometti rappresenta una donna dallo sguardo inespressivo, con le mani a coppa, messe come per percepire l’oggetto nella sua assenza. Da dopo la fine della guerra, Giacometti trasfromerà il suo linguaggio scultoreo, abbandonando l’ideale surrealista. Nel 1959, al MoMa di New York, si tenne la mostra Nuove immagini dell’uomo; una sorta di manifesto dell’Esistenzialismo (vedi pp.483/486). Il Surrealismo a New York Con l’afflusso degli emigranti in Europa, il Surrealismo si diffuse presto nel nuovo continente. Nonostante l’attività promossa da gallerie, musei e dagli stessi artisti esuli; l’arte presentata dalla generazione più giovane, così come quella dei ‘veterani’, era ormai una continua ripetizione, senza l’aggiunta di ulteriori novità. Tuttavia, la nuova generazione statunitense, era attratta dalla gestualità ‘automatica’ di Masson e dai paesaggi immaginari di Tanguy. Tra tutti, emerse in particolare l’opera di Arshile Gorky (1904- 1948); che venne subito appoggiato da Breton. Le sue tele appaiono incrostate di pesanti impasti, come vittime di un’esuberante gestualità; incluse le sgocciolature. La forma e il contorno delle figure sono dissociati, il paesaggio fantascientifico. La sua opera, nonostante l’appoggio di Breton, segnò la fine del Surrealismo; ma fu un punto di riferimento per il futuro Espressionismo Astratto Americano. Purtroppo, Gorky non vide mai nascere l’espressionismo astratto, poiché si suicidò nel 1948. Vi è poi la figura di Adolf Gottlieb (1903-1974), influenzato dal Surrealismo [più da Jung e l’inconscio collettivo che da Freud], ma anche dalle forme dell’arte primitiva; in particolare degli Indiani d’America. L’approccio di Gottlieb al primitivismo, però, non si limita ai soli aspetti formali: Gottlieb vuole indagarne i significati spirituali. Nel 1940, in generale, si registra un ritorno al primitivismo; l’arte primitiva, almeno agli occhi degli artisti di questa generazione, sembrava più vicina alle le emozioni “primarie”, legate in particolare alla guerra. Lo stesso Gottlieb scrisse: se manifestiamo un’affinità con l’arte dell’uomo primitivo, è perché i sentimenti che essi esprimevano sono oggi particolarmente pertinenti. In tempi di violenza, le preferenze personali per le sfumature di colore e di forma sono irrilevanti. Tutte le espressioni primitive rivelano la costante consapevolezza di forze potente, la presenza immediata del terrore e della paura [..] che queste sensazioni vengano oggi provate da molte persone in tutto il mondo rappresenta per noi un fatto sfortunato, e un’arte che mascheri o eluda questi sentimenti è per noi superficiale e priva di significato. Quest’attenzione per il significato generale, esprimeva il suo bisogno di basi essenziali dell’esperienza umana che trascendessero i confini regionali e nazionali e altri limiti della polemica artistico/politica. Gorky, Il fegato è la cresta del gallo, 1944 Gorky, Giardino in Sochi, 1941 Gorky, Il fidanzamento, 1947 Gottlieb, Pictograph - Simbolo, 1942 Dopoguerra in Europa: Informel o Informale (Anni ‘50/’60), Indipendent Group (Anni ‘50), Nouveau Réalisme (1960) INFORMEL (Francia) Nel maggio del 1946, Jean Dubuffet (1901-1985) organizzò una mostra scandalosa a Parigi, intitolata Mirobolus, Macadem & Cie, Hautes Pates; definita Caccaismo [la sua precedente mostra personale, sempre a Parigi nel 1944, non andò molto meglio]. Il contesto storico era quello della Liberazione e, dopo che il Nazismo aveva trattato il corpo umano come puro materiale da usare, quello che ci si aspettava dall’arte era una forma di sublimazione, di redenzione dell’uomo e dell’umanità in generale. Dubuffet presentò tutto l’opposto: l’impasto dei colori – assomigliante al fango e ai rifiuti – era praticamente monocromo, fatto di vari materiali; le figure, a mò di graffito o di disegno infantile, non avevano alcuna indicazione di profondità. La materia bruta aveva sostituito il colore, la gioia di vivere non esisteva più. Le critiche furono durissime; ma c’era anche chi difese l’opera di Dubuffet. Secondo questi ultimi, Dubuffet aveva offerto l’unica strategia di redenzione possibile tra le macerie lasciate dal cataclisma: riabilitare il fango [dal titolo di un suo libro] significava ricominciare da capo, non esattamente con una tabula rasa, ma da ciò che era disponibile, da ciò che la società aveva ed era a quel punto della storia. Al contrario dell’informe di Bataille (abbassamento), Dubuffet cercò di scoprire un ordine nell’informità della materia per poterla riabilitare. Dubuffet stimava molto un altro autore, Jean Fautrier (1898-1964), che nel 1945 fece una mostra intitolata Ostaggi. Il titolo alludeva a una domanda comune all’epoca: Come si può rispondere, in arte, al regime di terrore nazista senza spettacolarizzarlo? I 40 quadri che presentò seguivano tutti la stessa formula: tele abbastanza piccole, che mettono in mostra l’orrore suggerito dai titoli stessi [Ostaggio, Testa di ostaggio n°; o per le tele più grandi: Fucilato, Scorticato, Ebrea, Massacro]. Dal pdv formale, Fautrier disponeva le tele, già preparate, orizzontalmente su un tavolo e con una spatola spargeva una goccia centrale di materia biancastra tipo stucco in una forma vaga. Prima che la pasta indurisse, la spolverava con varie polveri di pastello e segnava con il pennello i contorni. A differenza di Dubuffet, l’arte di Fautrier era nichilista, pessimistica; non portava alcuna riabilitazione. INFORMALE (Italia) In parallelo all’Espressionismo Astratto americano, in Europa si diffuse l’Informale, termine proposto dal critico francese Michel Tapié nel 1951. Con la Seconda Guerra Mondiale si era raggiunto il “grado zero”. Era diffusa l’idea di impossibilità di costruire qualcosa di nuovo, senza tenere in considerazione i criteri della guerra stessa: si sente dunque il bisogno di misurarsi con la “landa deserta” a livello umano, che la guerra ha provocato. Alberto Burri (1915-1995) Burri partecipò direttamente alla guerra, decise così di raccontare ciò che aveva vissuto. Il suo lavoro si può dividere grossomodo in ‘fasi’. Inizialmente, i cosiddetti Catrami (1948/1949), quadri neri; poi Muffe (1950/1951); dal 1952 Sacchi, dove abbiamo opere come Composizione (1953), in cui Burri ricuce dei sacchi a mò di collage. Le ricuciture che Burri compie seguono le modalità delle suture fatte da lui stesso nel periodo bellico, mentre prestava servizio in un ospedale. I sacchi sono fatti di juta, la stoffa più povera, fatta per contenere i beni di prima necessità [simbolismo]. In questo periodo inizia anche a Testa di ostaggio n.23, 1945 Avanguardie (readymade; collage; monocromo; scultura cinetica), ma adattandoli agli spazi pubblici, e al nuovo contesto di una società della spettacolo, del controllo e del consumo. Trasferirono lo statuto e il luogo dell’opera d’arte dalla relativa intimità dell’oggetto pittorico e scultoreo al livello dello spazio pubblico. L’opera, non più legata alla cornice o al piedistallo, era ora dell’architettura, e cioè dello spazio della strada, dello spazio pubblico e, quindi, del contesto istituzionale e commerciale. Le prime due ‘installazioni’ in tal senso, furono Il vuoto (1957), in cui Yves Klein espose una galleria completamente vuota; e Il pieno (1960), in cui, al contrario, Arman riempì la galleria di spazzatura. La dimensione architettonica e l’interazione con lo spazio pubblico assunsero un ruolo centrale nella loro ‘filosofia’. In accordo con le loro idee, il movimento si concluse nel 1970; più precisamente in Piazza Duomo a Milano, dove La Vittoria di Tinguely eruttò fuochi d’artificio. Le opere di Yves Klein (1928-1962) risentono molto della spiritualità (viaggio in Giappone); sono tutte grandi tele monocrome [come Monocromo blu senza titolo, 1959], spesso dorate o blu (in rimando appunto alla spiritualità). Tutta quest’attenzione allo spirito, è messa in relazione alla cultura del consumo. Prendiamo ad esempio Il vuoto (la seconda mostra del 1958): la stanza, appunto vuota, ospitava la sensibilità dell’artista allo stato puro. Tali Zone di sensibilità pittorica immateriali erano in vendita: il collezionista, per una certa quantità di oro, riceveva un certificato di proprietà di tale zona; unica prova legale dell’esistenza dell’opera. Pochi anni dopo, questa critica protoconcettuale dell’oggettualità e dell’autorialità avrebbe assunto grande rilevanza nei discorsi dell’arte minimalista e concettuale. Nel 1960 presentò Anthropométries de l’Epoque bleu; un’esposizione durante la quale tre modelle nude si ricoprono di blu e depongono le loro impronte sui muri e sul suolo della galleria [Antropometria senza titolo]. Quella di Klein è una continua ricerca dell’assoluto, di sublimazione della stessa esperienza artistica. Jean Tinguely (1925-1991) riprendendo la cinetica costruttivista, realizzò delle strane macchine. Spesso, non funzionavano, si agitavano a vuoto e producevano semplicemente rumore. Nella maggior parte dei casi, esse si autodistruggevano (come in Omaggio a New York, 1960). Possiamo parlare di macchine defunzionalizzate: la sua è una critica al sistema produttivo; Tinguely vuole esplicitare i disagi causati dal progresso e dalla scienza nella nostra esistenza quotidiana. La critica alla contemporaneità, è un approccio condiviso da tutti gli esponenti del Nouveau Réalisme, anche se ogni artista tratta il tema a suo modo. Mimmo Rotella (1918-2006) e Jacques de la Villeglé (1926) utilizzarono invece il vecchio collage cubista; riadattandolo però sempre nell’ottica dello ‘spazio pubblico’. Infatti, con loro, il collage si trasformò in décollage: il collage, da oggetto destinato alla lettura e alla visione privata; diviene un frammento staccato dai cartelloni pubblicitari e, dunque, appartenente alla cultura dello spettacolo. Con un atto di pirateria, i poster venivano strappati dalle pareti pubbliche, non solo allo scopo di mettere insieme configurazioni linguistiche e grafiche aleatorie, ma anche per rendere permanenti quegli atti di vandalismo con con anonimi collaboratori protestavano contro il dominio dello spazio pubblico da parte della propaganda pubblicitaria. Arman (1928-2005) lavorò molto con la scultura/readymade. Sempre nell’ottica del ‘nuovo mondo’ commercializzato, Arman capì che la scultura, per esistere, doveva situarsi all’interno dei meccanismi espositivi della merce . Di conseguenza, le regole della presentazione museale si sarebbero mischiate sempre più con quelle dei grandi magazzini; cioè bacheche e vetrine. Nel 1960 realizza Il pieno: la sua prima opera in vetrina. Arman inizia così a produrre una serie di ‘accumulazioni in vetrina’. Questi nuovi readymade, possono essere visti come immagini della memoria (ricordano i cumuli di vestiti dei campi di concentramento), o come i primi esempi di morte industrializzata. E’ da ricordare che alla fine degli anni Cinquanta iniziano a sorgere una serie di discariche, che non sono in grado di metabolizzare l’enorme produzione di rifiuti (aumentati dall’introduzione dei detersivi). L’opera di Arman può quindi essere messa in relazione con Il Negozio di Oldenburg (1961). Daniel Spoerri (1930) lavorò molto con il concetto di pasto (come in La colazione di Kishka, 1960); inteso come momento di condivisione. Dall’altro, però, il pasto può anche implicare richiami al mondo animale, alle idee di branco e di distribuzione per gerarchie. E’ importante la volontà di ‘cristallizzare’ gli avanzi di cibo sulla tavola: con quest’operazione, Spoerri vuole forse soffermarsi su ciò che è considerato poco importante, ribaltandone il concetto. Niki de Saint Phalle (1930-2002), compagna di Tinguely, si propose di distruggere il patriarca che c’è in ognuno di noi, sparando vernice contro quadri e sculture (come in La morta del patriarcato, 1962). Negli anni ’60 organizzò una mostra a tre, con Tinguely e Olof (Stoccolma), dove costruì un corpo femminile attraverso il quale gli spettatori dovevano passare. All’interno, si trovavano le opere in mostra. Quella di Niki è un una rivendicazione femminista: il suo corpo, a differenza del prototipo offerto solitamente allo sguardo maschile è, invece, un corpo in sé e per sé, non oggettificato. Di Christo (1935) accenniamo solo brevemente in questa sede, poiché si occuperà successivamente di arte ambientale. Abbiamo già detto che i Nouveaux Réalistes si occuparono di spazi pubblici e di architettura e, dunque, gli esordi di Christo sono in qualche modo già legati al fattore ambientale, come nell’opera realizzata con Jeanne-Claude, Muro di barilli, cortina di ferro (1961-1962). L’opera è un chiaro riferimento al Muro di Berlino (1961). Oltre all’interesse per lo spazio pubblico, le prime opere di Christo – forse con rimandi a Man Ray e all’Enigma di Isidore Ducasse – consistono in un’operazione di impacchettamento di oggetti; rimando all’epoca del consumismo: non compriamo l’oggetto in sé, ma l’idea di oggetto. Inoltre, rimanda alla sparizione degli oggetti stessi. Dopoguerra negli Stati Uniti: Espressionismo Astratto (1947/1948), New Dada (Anni ‘50), Happening (1958), Pop Art (Anni ‘60) ESPRESSIONISMO ASTRATTO (Stati Uniti) L’etichetta Espressionismo Astratto venne usata a partire dal 1952 (tarda – anni chiave: 1947/1948). Il gruppo è abbastanza eterogeneo, e comprende varie personalità: Willem de Kooning; Barnett Newman; Jackson Pollock; Mark Rothko; etc. Caratteristica comune a tutti fu il gesto autobiografico, che traduce la sensibilità e l’emozione personali direttamente, senza la mediazione di nessun contenuto figurativo nel campo materiale della tela. Inoltre, tutti avevano vissuto il grande dibattito riguardante arte e politica (in anni duri come quelli della Seconda Guerra Mondiale), e tutti conoscevano bene l’Avanguardia Europea, contro la quale si sentivano in ‘difetto’. Tra tutte, molti di loro si approcciarono inizialmente al Surrealismo, per poi rifiutarlo, in cerca di una propria identità (americana). Sulla loro ‘poetica’ fecero leva il concetto di inconscio, l’impulso primitivista, e l’autografo [che sostituì il surrealista automatismo; tranne che nell’opera di Pollock]. L’esplosione si verificò tra il 1947 e il 1948: Pollock iniziò i suoi dripping, Newman dipinse Onement I, de Kooning fece la sua prima mostra personale, Rothko realizzò le sue opere mature. Nel 1947 si iniziò a pubblicare anche Possibilities, una rivista che diede voce alle dichiarazioni di Pollock e di Rothko sulla propria arte. In un articolo del 1957, Meyer Schapiro scrisse: la rivendicazione di questo carattere personale e spontaneo stimola inoltre pittori e scultori a inventare nuove tecniche realizzative; sia per quanto riguarda la manualità che il ‘trattamento’ dell’opera, atte a esaltarne la dimensione di libera creazione. Da qui la grande importanza attribuita al segno, alla pennellata, al tratto, alla goccia di colore, alla matericità, alla superficie della tela, anche in quanto tracce e impronte dell’intervento più personale dell’artista. La traccia, la forma autografa, divenne presto per gli espressionisti astratti un ‘marchio di fabbrica’; una figura brevettata dello stile. Molti artisti di questa generazione furono segnati da traumi e problemi psicologici di vario ordine, che si tradussero in dipendenze. Molti di loro tentarono il suicidio o estremizzarono alcuni stati d’animo. Mark Rothko (1903-1970) Di origini russe, si trasferì da bambino negli Stati Uniti. Fu una figura chiave nel passaggio verso l’Espressionismo Astratto. Se inizialmente Rothko fu attratto dal Surrealismo, a partire dal 1945, abbandona la figurazione per dedicarsi alle sue famose stesure monocrome, rotte da presenze rettangolari dai margini sfumati. In queste grandi tele è possibile leggere l’influenza del Matisse degli anni Venti. Le sue opere, in genere di grande formato, sono calcolatissime: il colore, opaco, e diversificato per ogni zona; crea la sensazione di arretratezza/avanzamento delle bande colorate. Obiettivo di Rothko è generare nello spettatore una sensazione di spiritualità profonda, in cui può contemplare l’opera in un silenzio meditativo [si rifà anche a Kandinskij]. A Houston, in Texas, Rothko realizzò appunto la Cappella Rothko (1967); un’intera cappella. A pianta ottagonale, sulle pareti sono apposte grandi tele dai colori scuri, la cappella è dedicata a tutti i culti religiosi. E’ incredibile come Rothko sia riuscito a giocare con elementi emotivi, impossibili da definire. Nella seconda parte della sua vita, i colori vanno via via scurendosi; infatti, l’artista si suicidò. Willem de Kooning (1904-1997) Di origini olandesi, in de Kooning è visibile la traccia dell’espressionismo europeo. Come per Pollock, infatti, anche le sue opere sono caratterizzate da una gestualità ossessiva; anche se in lui la figura umana non viene abolita, divenendo anzi quasi protagonista della sua produzione [come in Woman I, 1950-1952]. Le sue figure, anzi, sono ‘torturate’: ridipinte, cancellate, e trasformate ripetutamente. Barnett Newman (1905-1970) I suoi esordi sono legati alle suggestioni primitiviste [Pagan Void, 1946]; tuttavia la sua fama è legata a tele gigantesche, che esasperano ciò che aveva già provato a fare Matisse. A partire dal 1948, infatti, Newman iniziò a sperimentare un’espansione di colori, in modo tale da coinvolgere spiritualmente lo spettatore e farlo immergere nella tela stessa; come in Cathedra (1951). In realtà, la produzione di Newman non fu ben accetta dai restanti membri del gruppo (tolto Pollock); poiché le sue opere andavano contro la retorica gestuale dell’espressionismo astratto. Newman era ormai giunto alla definizione del suo linguaggio: tele di dimensioni giganti, con campiture piatte immense, intervallate da quelle che poi definirà zip. Tale ricerca nasce dal desiderio dell’artista di ricominciare da capo, dipingere come se la pittura non fosse mai esistita prima [ricerca già evidente nel quadro del 1946, Genesis – the break]. Newman, nelle sue opere, aveva compreso composizione a New York, insieme a molti altri che di lì a poco avrebbero fondato il gruppo Fluxus. Dall’interesse di Cage per il caso, inteso come meccanismo compositivo/anticompositivo, Kaprow riuscì a sviluppare la sua idea di happening. Il primo vero happening pubblico fu fatto nel 1959, in occasione dell’inaugurazione della galleria Reuben. 18 happening in 6 parti si svolse in un ambiente tripartito, nel quale sei partecipanti compivano evoluzioni ed eseguivano una vasta gamma di azioni sconnesse, pronunciando frasi senza senso con l’atteggiamento più inespressivo possibile. Agli spettatori veniva chiesto di cambiare stanza due volte nel corso della performance. L’elemento più insolito per l’epoca, fu l’abbattimento della barriera tra performer e pubblico. Caratteristica fondamentale dell’happening era la sua unicità: essi non venivano mai replicati, e ciò garantiva una condizione di presenza, nel vero senso della parola. Probabilmente, il concetto di presenza era in polemica con la mercificazione che caratterizzata la società dei consumi del dopoguerra. POP ART (Stati Uniti) Nel 1960, indipendentemente, Roy Lichtenstein e Andy Wahrol iniziarono a dipingere quadri basati su fumetti e sulle pubblicità. Questo nuovo tipo di arte, associata inizialmente all’Indipendent Group e soprannominata poi Pop Art, non incontrò il favore della critica. Le opere erano considerate banali, sia per il contenuto, sia per l’esecuzione. Tutti gli artisti appartenenti a questa corrente, incrociarono l’arte alta della pittura con altri media: Lichtenstein il fumetto; Wahrol le fotografie dei giornali; James Rosenquit (1933-2017) i cartelloni pubblicitari; Ed Ruscha (1937) il cinema. Nel dicembre del 1961, Claes Oldenburg (1927-2006) aprì il suo Ray Gun Manufacturing Company a New York, sulla 2° strada, in un’area piena di grandi magazzini. Al pari dei suoi ‘vicini’, il Ray Gun Manufacturing Company era concepito come un negozio. I prodotti di Oldenburg erano riempiti con copie di cibi o di oggetti, spesso sovradimensionali, fatti di stoffa imbevuta di gesso e rozzamente dipinti in colori sgargianti. Come egli stesso affermò: queste cose sono esposti nelle galleria, ma non è il loro posto. Starebbero meglio in un negozio. Il museo nella concezione borghese è l’equivalente del negozio della mia. Obiettivo di Oldenburg era dimostrare la non differenza tra il commercio dell’arte e i negozi di oggetti usati: le opere d’arte erano merce, punto. Resosi conto che i suoi oggetti sarebbero stati trattati come ‘beni di lusso’; nel 1963 decise di esporre nella propria galleria (Green Gallery) i suoi giganteschi oggetti ‘morbidi’ [Floor Cake, 1962; Soft Toilet, 1966]. Roy Lichtenstein (1923-1997) In realtà, prendendo ad esempio i lavori di Lichtenstein, ci si accorge del lavoro manuale che c’è dietro [puntini Ben Day – trasferimento gradazione di ombre in un sistema di punti]. Lichtenstein astraeva le immagini dalla realtà, ma le adattava ai parametri pittorici. Il suo, è un tipo di lavorazione meccanico, che fatica a distinguersi dalla macchina. Questo tipo di tecnica trasmetteva la sensazione di una realtà mediata, come se trasmessa: il quadro diventa immagina filtrata e, come tale, segno di un mondo del dopoguerra in cui qualunque cosa appare soggetta a un processo di lavorazione, per mezzo della riproduzione meccanica e della simulazione elettronica. Ad emergere è un modo di vedere che è diventato dominante solo nell’epoca dello schermo del computer: non solo tutte le immagini appaiono filtrate, ma il nostro modo di leggere e di apparire è diventato una specie di ‘scansione’. Lichetenstein sembra aver percepito molto presento come nel fumetto fosse latente questo cambiamento nel modo di apparire e di vedere. Andy Wahrol (1928-1987) Nato a Pittsburgh, Wahrol si forma come designer, ma fin dagli esordi compie delle operazioni-limite nel campo del design industriale (come in Alla ricerca della scarpa perduta, 1955). Nel 1949, dopo essersi sottoposto a un intervento (Prima e dopo, 1960), si trasferisce a New York (città molto più libera), creandosi una ‘nuova’ identità. Qui riuscì a sfruttare e a mettere in mostra un nuovo modo di essere, in un modo di immagini-merce, in cui la fama viene spesso ricondotta alla celebrità, alla notorietà, all’aura del glamour e al carisma della pubblicità. Nel 1958, influenzato dalla mostra di Jasper Johns, capisce che vuole fare l’artista. Inizialmente, come Lichtenstein, realizza quadri basati sui fumetti e sulle pubblicità (1960); anche se, a differenza del collega, Wahrol enfatizzò gli errori manuali e le sfocature. Tra il 1962 e il 1963 inizia a produrre le sue opere più famose; le serigrafie che riproducono oggetti: One Hundred Cans (1962), Gold Marylin (1962), Torquoise Marylin (1962), Marylin Diptych (1962), Marylin Monroes Lips (1962), Triple Elvis (1962), Pepsi- Cola (1962), Brillo Box (1964), Double Marlon (1966). A Wahrol non importa tanto l’oggetto in sé; è l’immagine dell’oggetto stesso che conta. Oltre all’interesse per il molteplice e la ripetizione – spesso associato alla citazione: voglio essere una macchina [Wahrol prende un’immagine, la riproduce e la trasforma → Processo industriale] – in particolare dalle serigrafie di Marylin traspare un altro dato, spesso sottovalutato: la tematica della morte. Nel 1962 Marylin si era infatti suicidata; inoltre, questi oggetti vengono come imbalsamanti, cristallizzati e bloccati per sempre. Il tema della morte è affrontato da Wahrol svariate volte, come in 129 Die in jet (1962), Optical car crash (1962), Ambulance disaster (1963), Orange disaster (1963), Orange car crash 14 times (1963). A questi, si uniscono i lavori sulla paura della società americana: Red Race Riot (1963, manifestazioni afroamericani per la rivendicazione dei diritti), Sixteen Jackies (1964, riferimento alla vedova Kennedy), Bomba atomica (1965), Disastro lavanda (1964, sedia elettrica), Sedia elettrica (1967). Attraverso la tecnica della ripetizione di fotografie estrapolate dalla realtà, la criticità di Wahrol è giocata sulla denuncia del ‘consumo compiaciuto’, che comprende anche i fatti brutali, dall’incidente alla pena di morte: queste immagini di catastrofe e morte evocano gli incubi collettivi dell’era della televisione, Wahrol seleziona i momenti in cui questa società dello spettacolo va in pezzi. Ma non è tutto. Se prendiamo appunto la citazione riferita sopra, la tecnica della ripetizione potrebbe giocare anche un altro ruolo: il soggetto ripetuto più volte (come nella riproduzione in serie, tipica della società dei consumi), si svuota del suo significato. In tal modo, la ripetizione diventa una strategia di difesa contro la realtà stessa, considerata traumatica. Tale interpretazione è avvalorata da più di una citazione dello stesso Wahrol: quando osservi all’infinito un’immagine terrificante, non ha più alcun effetto (1963). Più tempo passi a guardare la stessa identica cosa, più il significato scivola via, e meglio – e più vuoto, ti senti (1980). Per annichilire la realtà, Wahrol non poteva far altro che rappresentarla tramite i suoi rappresentanti, e cioè gli oggetti di consumo: le celebrità, i politici, i prodotti stessi. Altre due citazioni: voglio che tutti pensino allo stesso modo. La Russia lo impone attraverso il governo. Qui succede spontaneamente (1963). Non penso che l’arte debba essere riservata a pochi eletti, credo che dovrebbe riguardare la massa del popolo americano (1967). Tornando a Wahrol, nel 1963 apre la famosa The Factory; che prestò diventò un ritrovo di ‘superstar’. Lo stesso Andy Wahrol è considerato il primo artista pop, nel senso di conosciuto dal pubblico. In questi anni, inizia a produrre anche pellicole cinematografiche, come Chelsea Girl (1964), in cui esplicita azioni solitamente censurate/nascoste, ma che accadono quotidianamente a New York. Nel 1964 gli venne richiesta un’installazione per il World’s fair di New York. Wahrol realizza Most wanted man; ma l’opera viene censurata. L’opera consisteva in 13 foto dei 13 uomini più ricercati d’America. Anche la seconda soluzione proposta dall’artista, un manifesto con il capo della polizia, viene rifiutata. In questi anni inizia a lavorare sulle installazioni: Silver Clouds (1965/1966), si rifà al braciere di Duchamp della mostra Surrealista del 1938. Nel 1968 subisce un attentato, e da qui la sua vita ne risentirà per sempre. A partire dagli anni Settanta, Wahrol inizia a dedicarsi ai ritratti (come: Mao, 1973; Beyus, 1980); ma anche ad altri tipi di immagini comuni, come Ultima cena (1986); l’ultima sua opera. FLUXUS Il nome Fluxus fu coniato nel 1961 da George Maciunas (1931- 1978), un lituano emigrato nel dopoguerra negli Stati Uniti (1948). Il termine, dal latino fluere – scorrere, era stato trovato, a detta sua, infilando un coltello nel dizionario; come i dadaisti. Il Dadaismo fu infatti un importante antecedente per Fluxus; e la sua influenza passò anche per la personalità di John Cage. Il gruppo Fluxus si caratterizzò per il suo internazionalismo [coinvolse Stati Uniti, Germania e Giappone] e per il suo carattere aperto (vi erano infatti più donne che uomini). Identificando la vita con l’arte, affermava che tutto è arte e chiunque la può fare. Le attività Fluxus (che non fece mai una mostra) si diversificarono tra concerti e festival, performance musicali e teatrali, pubblicazioni innovative e altri eventi, gesti, azioni effimeri. Per molti aspetti, Fluxus influenzò l’Arte Concettuale. E’ dunque implicito che Fluxus insistesse sulla pratiche di gruppo; tese alla critica dei tradizionali concetti di autorialità e identità; che sfociò in toni femministi. E’ il caso della performance di Yoko Ono in Cut piece (1964), dall’impatto ancora più forte per la cultura di provenienza dell’artista (Giappone); o di Shigeko Kubota, Pittura di vagina (1965); gesto che, tra l’altro, sfatava il mito virile di Pollock. Pittura di vagina venne eseguita durante il Perpetuale Fluxus Festival (New York), anno in cui Maciunas esplicò il carattere di Fluxus (aveva già scritto un manifesto nel 1963): FLUXUS ARTE- DIVERTIMENTO. Lo statuto non professionale dell’artista nella società, l’autosufficienza del pubblico, qualunque cosa può essere arte e chiunque può farla. L’arte-divertimento dev’essere semplice, divertente e senza pretese, interessata all’insignificante, non richiedere alcuna abilità né prove infinite, non avere valore commerciale o istituzionale. Il valore dev’essere tenuto basso rendendola illimitata, prodotta in serie, accessibile a tutti e possibilmente prodotta da tutti. Combinazione di Spike Jones, Vaudeville, gag, gioco infantile e Duchamp. Vista l’arte come cultura del consumo, Maciunas fondò nello stesso anno il Fluxshop, su modello de Il negozio di Oldenburg. Josep Beuys (1921-1986) La sua ‘scultura sociale’ è da definirsi appartenente alle neoavanguardie (al pari di Wahrol e Klein), per una serie di motivi. 1) Il legame tra le sue opere e la cultura dello spettacolo; in particolare le performance. I personaggi delle neoavanguardie, quando dovevano produrre shock, si collocavano perfettamente nell’ottica dell’industria culturale: l’artista veniva spettacolarizzato come una star, attraverso una serie di strategie di visibilità carismatica sulla sua persona e sul suo lavoro. Sempre in quest’ottica è da collocarsi la creazione, ne1 998, della Fondazione Pistoletto; un modello produttivo per l’arte e la cultura in generale (gli artisti vivevano insieme, c’erano alloggi). L’idea di coinvolgimento dello spettatore viene sublimata nella costruzione di questa città dell’arte. L’arte è relazione. Alighiero Boetti (1940-1994) Inizialmente, l’opera di Boetti dialoga con i colleghi americani; un po' di Pop Art, un po' di Minimalismo, ma sempre trattato con ironia; come in Ping Pong (1966), Pavimento (1967) o Metro cubo (1967). Successivamente, la sua produzione gravita intorno due temi principali: l’identità e la quantificazione di fenomeni apparentemente non quantificabili. Per quanto riguarda l’identità, il suo rapporto con essa era particolare: ambidestro, a volte di firmava con Alighiero (che ne indicava la personalità), altre con Boetti (a sostegno della tradizione). Io che prendo il sole a Torino (1969), esplicita il tema: la ‘scultura’ è un’impronta fatta da una serie di impronte, perché costituita da tanti ‘pugni di argilla’ - dunque tante impronte della mano. Seguendo le sue origini, si trasferirà per un certo periodo a Kabul. Qui affida a delle ricamatrici afghane [modalità di produzione preindustriale] il compiti di tessere la sua serie di Mappe. Centrale in questa serie è l’elemento sorpresa; che ritornerà in Tutto (1987), un’altra serie di lavori sempre fatti con ricami. L’interesse per la quantificazione, infatti, si riferisce proprio al mondo: nel 1970 pubblicò il libro Classificando i mille fiumi più lunghi del mondo. Forse, letto in analogia con le serie di Calendari (1978/1994); questo bisogno di classificazione va visto come bisogno di mettere in ordine il mondo per cercare di capire come funzioni (Mettere al mondo il mondo, 1972; Ordine e disordine, 1973; I mille fiumi, 1979). Luciano Fabro (1936-2007) Fabro lavora molto sul concetto di spazio, e sulla capacità dell’uomo di plasmare il proprio ambiente. Tale impegno è evidente nell’opera In cubo (1966), che consiste appunto in un cubo delle dimensioni di Fabro stesso (h 1,78). Ne realizzò un altro per Carla Lonzi (inizialmente appoggiò questo gruppo di artisti eterogeneo, poi si dedicò a scritti femministi). Come Pistoletto, anche Fabro si impegnò in una sorta di teatro/happening: in Allestimento teatrale (1967), degli attori si trovano in un cubo di specchi e gli spettatori, non capendo da dove provenissero le voci, si guardavano l’un l’altro, spinti anche dal gioco di specchi. A partire dagli anni Ottanta si avvicinerà invece al concettuale/minimale, con opere come Il giudizio di Paride (1979); Lo spirito della geometria (1984); Paolo Uccello (1984-1985); Prometeo (1986). Come si può notare dai titoli, allude alla tradizione neoclassica - come Paolini. Jannis Kounellis (1936) Di origine greche, si trasferisce in Italia a circa vent’anni. Inizialmente, le sue opere lavorano sul disgregamento dei segni grafici, con l’obiettivo di ridurli alla massima semplicità (Senza titolo, 1959). A partire dalla fine degli anni Sessanta, inizierà a lavorare con materiali poveri, che possano esprimere al meglio gli elementi primari della quotidianità. In particolare, l’utilizzo di ferro e bombole a gas è molto ricorrente nelle sue installazioni (tutti i vari Senza titolo nelle diapositive). Questi materiali, infatti, sono ‘eterni’, nel senso che si ripropongono in ogni epoca – anche in quella della tecnologia e del consumismo. Dall’altro lato, però, nelle sue opere va osservata anche una certa componente teatrale (come un po' tutti questi artisti). Esperienze come cavalli all’interno della sala d’esposizione, o installazioni con il gas accesso; accentuano la relazione fisica con lo spettatore: dei cavalli hai paura, del gas senti l’odore. L’arte è rappresentata qui come pericolosa (perché ti fa pensare fuori dagli schemi). Piero Gilardi (1942) Il più ‘strano degli esponenti. Gilardi inizialmente crea delle ‘sculture’ che richiamano la natura (Campo di grano, 1967; Spiaggia, 1967; Girasoli caduti, 1967), ma nel 1969 decide di smettere di produrre opere d’arte, perché negativo su di essa. Inizia a allora a fare teatro di strada, ad operare in situazioni marginali (come gli ospedali psichiatrici), perché più veri, più reali. Si impegnerà anche nell’attività politica, creando delle ‘sculture’ di gommapiuma sui politici dell’epoca, come ad esempio Andreottile. Negli anni Novanta riprenderà la sua attività artistica, producendo ora opere con forti accenti ludici (Inverosimile, 1990). Gilberto Zorio (1944) Ragiona invece sulle trasformazioni, per questo usa spesso materiali incandescenti, che tengono lontani gli spettatori. Utilizza spesso anche il simbolo delle stella (Stella incandescenti, 1972; Stella per purificare le parole, 1980). Mario Merz (1925-2003) Merz giocò molto sull’antica serie numerica di Fibonacci (risalente al XIII secolo), utilizzata come modello di progressione spaziale. Attraverso questo formula, realizza una serie di opere, come i famosi Igloo; spesso rivestiti con quantità di materiali e scritti al neon. Giulio Paolini (1940) Paolini è l’artista più concettuale del gruppo, perché attento al carattere linguistico e metalinguistico della pittura; come si può ben notare dalla prima delle sue opere: Disegno geometrico (1960). Disegno geometrico è l’inizio di tutti i quadri, ed è anche l’inizio della sua carriera. Dal 1960 al 1965 Paolini lavorerà invece sulla messa in mostra degli elementi di base della pittura [il colore, il retro della tela, gli assi della tela, etc]; per poi iniziare a ragione sul pittore stesso, sullo spettatore e sulla storia dell’arte in generale (Autoritratto, 1968; Giovane che guarda Lotto, 1967; Invenzione di Ingres, 1975). Per approfondire la sua fantastica produzione, leggi Italo Calvino. Anni ‘60 e ‘70 Stati Uniti Tutte queste esperienze, fecero da ponte tra l’arte del dopoguerra e i nuovi processi messi in moto alla fine degli anni Sessanta. Definite spesso Neoavanguardie, questi movimenti ragionarono su alcuni macro argomenti: l’analisi dell’atteggiamento mentale che costituisce l’opera d’arte; la protesta contro il sistema commerciale con conseguente fuga dai luoghi tipici dell’arte, dai metodi tradizionali di allestimento e dai tradizionali materiali; contaminazione con altri ambiti creativi. In particolare il primo punto fece sì che l’artista fosse riconosciuto in base all’inventiva e al senso interno delle opere, e non più in base alla manualità o qualità esecutiva delle stesse. Il readymade duchampiano era giunto al capolinea. MINIMALISMO Nel 1962, grazie alla pubblicazione dei Pionieri dell’arte in Russia di Camilla Gray, un gruppo di artisti composto da Donald Judd, Dan Flavin, Carl Andre e Sol LeWitt, recuperò il Costruttivismo di Tatlin e Rodcenko. A quest’influenza, aggiunsero i readymade di Duchamp [a partire dal 1954 l’arte di Duchamp riesplose, grazie all’apertura della sua collezione a Philadelphia]. Ancora non era chiara la direzione che si stava prendendo, ma nel 1963, sia l’opera di Robert Morris, sia l’opera di Donald Judd cambiò: se il primo si interessò ai poligoni giganti, il secondo iniziò a trasformare le sue sculture in oggetti tridimensionali semplificati. Dopo due anni di sperimentazione, nel 1965 Judd e Morris teorizzano il Minimalismo (in Oggetti specifici). In realtà il termine entrò in uso a partire dal 1968 (prima Strutture primarie, poi Arte del reale – due mostre). Come spiegò Judd nel già citato articolo del 1955: tre dimensioni sono lo spazio reale. Bisogna sbarazzarsi del problema dell’illusionismo. Bisogna liberarsi dei sistemi costruiti in anticipo, su sistemi a priori. Dunque, il minimalismo proponeva l’insistenza sulla forma singola (per eliminare sistemi a priori). Per ridurre al massimo gli elementi di un’opera, tutti devono essere ricondotti alla forma unitaria. Il minimalismo, inoltre, aboliva l’illusionismo: al di là della forma esterna, nell’opera minimalista non c’è niente, nessuna idea preesistente. Visto che il significato di un’opera andava rintracciato ora solo al suo esterno; il minimalismo giocò su un nuovo modello di significato: se l’opera esiste solo in superficie, e la superficie è vulnerabile al gioco della luce e della prospettiva dello spettatore; l’opera d’arte viene continuamente variata dallo spettatore stesso (dalla sua posizione). In questo senso, l’oggetto mantiene le relazioni fuori dall’opera d’arte, rendendole una funzione dello spazio, della luce e del campo visivo dello spettatore . Su queste nuove posizioni legate al significato-come-contesto, influirono molti gli scritti sul linguaggio di Wittgenstein (parole acquistano il senso nello spazio pubblico della relazione con gli altri) e la Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty (in inglese 1962 – significato come funzione dell’immersione del corpo nel mondo circostante). Ma se il significato è dato dalla relazione del corpo con lo spazio circostante; che fine fa l’autore? Gli artisti minimalisti spinsero in questa direzione di ‘destituzione dell’autore’, assegnando la costruzione vera e propria a delle officine [spersonalizzazione della fabbricazione dell’opera], il che consentiva anche la riproduzione degli oggetti, o costruendo l’oggetto a partire da elementi autonomi di normale diffusione commerciale (come il neon di Flavin o i mattoni di Andre). Presto il Minimalismo venne declinato in altri due movimenti: da un lato, l’Earthworks o Land Art di Robert Smithson; dall’altro il Concettualismo di Sol LeWitt e altri. Dan Flavin (1933-1996) Flavin aveva frequentato la scuola cattolica, e nel 1961/1962 produsse diversi monocromi con delle luci attaccate sopra, intitolati Icone (come Icona V, 1962). Fu proprio l’icona – bizantina – a fornire a Flavin il punto di partenza: nell’icona l’artista trovò un modello materiale e allo stesso tempo spirituale. La luce nella sua produzione occupa un ruolo primario: a partire dal 1963, infatti, iniziò ad utilizzare la luce diffusa dei tubi al neon da sola, senza l’ausilio della pittura, come un readymade. Ed ecco a noi Diagonale del 25 Joseph Kosuth (1945) Kousth, nel suo libro l’Arte dopo la filosofia, afferma: L’evento che rese verosimile l’intenzione di “esprimersi mediante un altro linguaggio” senza privare l’arte di significato è rappresentato dal primo readymade di Marcel Duchamp, grazie al quale l’arte muto radicalmente e da ricerca morfologica divenne ricerca funzionale. Questo cambiamento — da “apparenza” a “concezione” — segnò la nascita dell’arte contemporanea e l’inizio dell’arte concettuale. Tutta l’arte (dopo Duchamp) è concettuale (in natura) perché l’arte esiste solo concettualmente. Infatti, Kosuth partì dal readymade – l’origine dell’arte moderna – e lo frantumò in un gruppo tripartito di relazioni: l’oggetto, la sua riproduzione fotografia e il suo segno linguistico. Molte sue opere sono giocate in questo senso, ad esempio: Una e tre sedie (1966); Uno e tre tavoli (1966). Come lui stesso affermò, la sua arte è un’indagine sulle basi del concetto di arte così com’è intesa oggi: l’arte è ciò che noi pensiamo sia arte; l’arte è cioè l’idea di arte che abbiamo; e il suo lavoro gioca continuamente su questa riflessione. In questo senso va intesa la sua serie Art as Idea as Idea (1966/1967); lavori ‘metalinguistici’ sul concetto stesso di arte [era molto attratto dai modelli linguistici]. Anche Kosuth svilupperà il modello della tautologia, sia nelle sue definizione del vocabolario (White and Black, 1966), sia nei suoi lavori al neon (Uno e otto – una descrizione, 1967). On Kawara (-19322014) Kawara si distinse per il suo lavoro ossessivo sulle date; intese forse come opere in grado di bloccare il tempo e rendere l’eternità dell’arte stessa. Entropia – LAND ART Nel 1966 Robert Smithson pubblica Entropia e nuovi monumenti. Qui delinea il concetto di entropia: formulata nell’Ottocento nel campo della termodinamica, la legge dell’entropia enuncia l’inevitabile estinzione dell’energia in ogni sistema dato, la dissoluzione di qualunque forma di organizzazione in uno stato di disordine e indifferenzazione. Afferma l’inesorabile e irreversibile implosione di qualsiasi tipo di ordine gerarchico in una finale uniformità. Il concetto di entropia aveva iniziato a diffondersi a partire dagli anni Quaranta: la stessa economia delle merci era entropica; ma se i suoi predecessori la consideravano in maniera negativa, Smithson interpretò l’entropia come il concetto generativo più importante nella pratica artistica alla fine degli anni Sessanta. Per Smithson la storia era un succedersi di disastri; l’uomo si era creato un mondo senza qualità; ma, al posto che un limite, per l’artista ciò significava libertà: il mondo era ora aperto a infinite esplorazioni. La Land Art nasce dall’arte minimalista. Già Richard Serra, appunto in ambito minimalista, era arrivato a operare sulla percezione degli ambienti; con le sue strutture di acciaio. Così, quando, sempre nel 1966, Robert Morris aveva affermato che l’oggetto minimalista porta le relazioni fuori dall’opera rendendole una funzione dello spazio, della luce e del campo visivo dell’osservatore; aprì le porte a una nuova estetica, che eliminò l’oggetto a favore di un sito, di uno spazio; sul quale si operavano interventi minimi. Si tratta di interventi definiti poi site-specific, nel senso che erano pensati su misura per lo spazio che li conteneva. Alla base di queste operazioni vi era poi anche una forma di critica verso le istituzioni museali/gallerie. Così, nei primi anni Settanta, una serie di pratiche assai diverse tra loro, cancellò la logica minimalista della pittura/scultura. Robert Smithson (1938-1973) Le prime opere di Smithson si collocano ancora nel contesto museale, a mò di testimonianza delle esperienze compiute (A non site, 1968). Nel 1969 concepisce Scarica di asfalto, che consiste appunto in una colata di asfalto su una collina, in una discarica romana. Si tratta di un intervento che non ha nulla a che fare con l’esperienza estetica: Smithson qui semplicemente sposta dei materiali. L’anno seguente concepisce la sua più famosa opera: Spiral Jetty o Molo a spirale (1970), nel Grande Lago Salato dello Utah (USA). Il lago era legato ad antiche credenze: i coloni, infatti, credevano che esso fosse collegato all’Oceano e che le sue correnti provocassero gorghi enormi. In questo senso, la scultura si propone come un omaggio alla natura che ritorna; infatti, la natura stessa la modificò. Si tratta di un’operazione che agisce direttamente sul paesaggio circostante: è fatta di materiali reperiti sul luogo ed è soggetta a modifiche da parte della natura stessa. Per percepirla al meglio, bisognerebbe camminarci sopra. Smithson affitta anche un aereo per fare un filmato all’opera; proprio perché la visuale migliore per questa e molte altre opere della Land Art è dall’alto. Morirà infatti precocemente su uno di questi aerei, intendo a filmare un’altra delle sue opere. Michael Heizer (1944) Dal 1969 Heizer iniziò ad operare interventi sul territorio del Nevada simili a quelli di Smithson. Peculiarità di Heizer fu però il continuo dialogo con le civiltà precolombiane. Le sue opere, come molte altre relative alla Land Art, non sono visibili a occhio nudo, ma solamente dall’alto. Walter De Maria (1935) A differenza di altri suoi colleghi, Walter De Maria espose anche nelle gallerie (Earth), dove portò materiali che aveva reperito nei luoghi in cui aveva operato i suoi interventi. In particolare, nel deserto del New Mexico, ha creato Lighting Field (1971-1977, anche se l’opera può dirsi mai finita). Qui, lo spettatore si reca, su prenotazione, in una piccola casa nel deserto; firmando un contratto dalla durata di 24 ore – una sorta di forzatura. L’opera consiste in un reticolo di 400 pali d’acciaio che diventano appariscenti quando vengono colpiti dai fulmini durante un temporale. L’effetto è molto forte e, inoltre, lo spettatore è ‘costretto’ a sottostare alla forza della natura. James Turrell (1943) Nel 2000, Turrell iniziò a lavorare al Roden Center; un osservatorio astronomico inserito all’interno di un vecchio vulcano. Il progetto non è ancora ultimato, ma il carattere di non finito dà ancora più senso alla sua riflessione. Turrell, infatti, considerata l’arte come riflessione sul tempo: gli uomini non hanno tempo, sono sempre alle prese con qualcosa; così, il Roden Center vuole proporsi come un’esperienza immersiva; un luogo nel quale passare appunto del tempo in maniera diversa; come una sorta di rituale. Anche nelle opere che realizza per le gallerie è presente quest’atmosfera di immersione, di riflessione (Afrum I, 1967; Night passage, 1987). Dennis Oppenheim (1938-2011) Oppenheim, molto più dei suoi colleghi, gioca con il concetto di effimero (aspetto ecologico). Infatti, in generale, questo tipo di opere sono pensate per essere sottoposte anche agli eventi e le modificazione che la natura imporrà loro. Annual Ring, ad esempio, consiste in una serie di disegni effettuati sulla neve e sul ghiaccio: l’utilizzo di questo ‘materiale’ presuppone una serie di considerazioni: l’opera può sciogliersi; l’opera può essere modificata, sia dalla neve, sia dallo sciogliersi, sia dalle impronte; etc. In Whirpool, l’aspetto effimero è ancora più palese. Richard Long (1945) Unico artista non americano, Richard Long effettua delle lunghe escursioni a piedi in luoghi desolati, e qui opera minime trasformazioni; disponendo le pietre a suo piacimento, come in Circolo di pietre in Nepal, e fotografando il risultato. Spesso, alcune di queste pietre vengono prelevate per ricreare queste ‘composizioni’ in galleria. Le sue opere si connotano per la disposizione in forme geometriche primarie. L’idea dell’escursione a piedi si ricollega, nell’immaginario, all’idea del pellegrinaggio rituale (e forse le stesse forme concentriche richiamo la religiosità antica). Christo (1935) Inizialmente si forma nell’ambiente del Nouveau Réalisme. Già in questa sua prima attività, emergono gli aspetti fondamentali della sua produzione: l’attenzione all’ambiente (Muro di barili di petrolio, 1962) e l’impacchettamento (Packed cans, 1959/1960; Packed armchair, 1964/1965). Tra il 1968 e il 1969 compie la sua prima grande ‘installazione’ che comprende un vero e proprio territorio naturale, impacchettando un tratto di scogliere in Australia (Wrapped Coast). Oltre alle installazioni naturali (Rifle Colorado, 1970/1972; Running Fence 1973/1976; Water Project, 2016), Christo opera anche in contesti urbani (Kunsthalle Bern, 1968; The Pont Neuf wrapped, 1985). Due precisazioni: Christo ha una grande autonomia e libertà nell’operare; poiché, dal pdv economico, i suoi lavori sono autonomi. Per autofinanziarsi, Christo vende schizzi e bozze dei suoi progetti. Inoltre, le sue opere sono tassativamente temporanee, poiché innescano nel passante/spettatore uno sguardo nuovo, ed è questo l’obiettivo primario. Sviluppi post-minimalisti – Anni 70 Il Minimalismo mise in crisi il vecchio standard di qualità, proponendo il nuovo criterio di interesse. Lo stesso D. Judd affermò che un’opera d’arte ha solo bisogno di essere interessante e qualsiasi materiale può essere utilizzato. Da qui, presero il via nuove procedure artistiche, che indagarono i nuovi materiali: Arte Processuale; Body Art; Performance; Installazione; Arte site-specific. Nel 1966 vi fu la mostra Astrazione Eccentrica (New York) in cui, stando alla curatrice Lucy Lippard, le insolite sostanze modellate in forme strane da Louise Bourgeois, Eva Hesse altri costituivano un’alternativa emotiva o erotica al Minimalismo. Analizzeremo poi queste due figure. Nel 1972 presentò, all’interno della Kunsthalle di Dusseldorf, una serie (centinaia) di oggetti, accomunati dal marchio iconografico dell’aquila (marchio del suo museo, ma anche allusione al passato tedesco); giocando, attraverso l’allegoria, sui temi del lutto, della perdita; ma, soprattutto, sul tema della riflessione mnemonica sulla storia. A tal fine, Broodthaers reintrodusse tutti gli elementi tassonomici e le formazioni discorsive tradizionali che il museo rappresentava. Nello stesso anno, installò la Sezione Pubblicità del suo Museo a Kassel, in occasione del Documenta 5. Qui Broodthaers presentò le fotografie degli oggetti precedentemente esposti a Dusseldorf, spostando l’accento dall’oggetto concreto alla sua esposizione e disseminazione nel mondo della critica e del mercato [estetica del supplemento]. Intervenendo su queste strutture e sfidando la banalità degli strumenti di installazione e diffusione, Broodthaers nega lo statuto di merce dell’opera d’arte, perché il supplemento non può mai acquistare valore di merce. Visto il successo dell’operazione, Broodthaers fondò – in linea con gli stessi meccanismi dell’industria culturale che andava criticando – una propria agenzia di pubblicità e promozione, cosicché la sua opera scomparve all’interno della campagna di pubbliche relazioni sul proprio progetto, negando così anche la sostanzialità e la specificità della propria pratica iniziale. Documenta 5 – 1972, Kassel (Germania) Documenta, ad oggi una delle manifestazioni più importanti al mondo relative all’arte contemporanea, fu inaugurata nel 1955 da parte di Arnold Bode. Si svolge con cadenza quinquennale (Documenta 14 nel 2017). Nel 1972 Documenta 5 segnò la diffusione dell’Arte Concettuale e delle sue strategie di critica istituzionale anche in Europa, grazie alle opere dei coniugi Becher; Marcel Broodthaers; Han Haccke; Gerhard Richter; e altri. La nuova generazione europea, infatti, voleva porre fine alla spettacolarizzazione della memoria che artisti come Beuys o Klein stavano operando; sostituendola con un’autocritica nei confronti delle strutture sociali e politiche che governano la produzione e ricezione della cultura nel loro tempo. Infatti, a differenza dei colleghi americani, l’Arte Concettuale Europea si concentrò sulla riflessione storica, intrecciata per forza di cosa all’autoriflessione sulle condizioni epistemologiche e semiotiche del proprio linguaggio. Gerhard Richter (1932) Richter si inserisce in quel filone tedesco che nel dopoguerra si interessa al rapporto con l’immediato passato. Importante per Richter fu il ruolo giocato dalle pratiche visive coeve e dalla cultura di massa. A partire dal 1962 circa, Richter iniziò il famoso progetto dell’Atlante; una sorta di archivio della memoria dell’artista stesso [repertorio progressivo e casuale]. Immagini di storia privata familiare venivano messe sempre più a confronto con immagini della storia pubblica tedesca (passato recente, come in 18 Ottobre 1977, 1988). Richter è noto in particolare per le sue per i suoi fotodipinti che sembrano quasi foto mosse (quasi sempre in bianco e nero); che giocano sulla tensione tra la realtà dell’oggetto del dipinto e la realtà creata dal dipinto stesso. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, Richter opererà anche attraverso quadri astratti, inserendo il colore [come in Abstrakt n.599, 1984; Group of Trees, 1987; Abstract Picture, 1992]. ‘Arte Femminista’ – non è né uno stile né un movimento Non esiste un’unica arte femminista, tuttavia gran parte dell’arte più significativa degli ultimi tre decenni è stata in qualche modo influenzata dalle problematiche femministe, come la costruzione sociale dell’identità di genere e il significato semiotico della differenza sessuale. Non esiste neppure, dunque, una storia separata dell’arte femminista. In un primo momento (anni Sessanta), le artiste si concentrarono sulla parità sessuale. A partire dalla fine degli anni Sessanta, invece, si soffermarono sulle differenze tra uomo e donna; attraverso anche il recupero di miti, di storie o di un particolare tipo di rapporto con la natura. In particolare, per quanto riguarda l’arte, recuperarono le tecniche dell’artigianato e della decorazione (da sempre associate alle donne). Dalla metà degli anni Settanta, si diffuse un certo scetticismo, sia riguardo la parità, sia riguardo la separazione. Si passò così a una critica dei cliché presenti sia nell’arte alta, sia nella cultura di massa. Nel 1972 venne creato Womanhouse, uno spazio per mostre temporanee a Los Angeles, grazie alla fondazione, nell’anno precedente, del Feminist Art Program al California Insitute of Art di Valencia [da parte di Miriam Scahpiro e Judy Chicago]. La mostra fu un teatro osceno in cui i ruoli domestici delle donne venivano causticamente criticati in una serie di stanza [Bagno delle mestruazioni, tanto per dire]. Anche la performance venne trasformata in espressione critica. A partire dagli anni Settanta si registrano anche i primi testi critici al riguardo, redatti appunto da storiche dell’arte femministe. Il primo, di Linda Nochlin, pubblicato nel 1971, ha di per sé titolo esplicativo: Perché non sono esistite grandi donne artiste? Il saggio più influente, però risale al 1975: Piacere visivo e cinema narrativo, di Laura Mulvey, regista. Secondo la Mulvey, il piacere visivo della cultura di massa non è affatto di ‘massa’, ma è progettato soprattutto in funzione della struttura psichica del maschio eterosessuale [..] la cultura patriarcale pone la ‘donna come immagine’ e l’uomo come ‘padrone dello sguardo’ [..] Mulvey invita alla distruzione del desiderio maschile in favore di un ‘nuovo linguaggio del desiderio’. Alla costruzione dell’immagine della donna nella cultura di massa e nella psicanalisi stavano già lavorando alcune artisti, come Cindy Sherman o Barbara Kruger. Louise Bourgeois (1911-2010) – Influsso surrealista Bourgeois visse per ben 99 anni, e in questo lungo lasso di tempo la sua opera si rinnova continuamente. Inizialmente, la sua produzione si avvicinò ai temi surrealisti [Donne case, 1945/1947] del danno e della riparazione, a causa di esperienze personali riguardanti il padre. Solo a partire dagli anni Sessanta la Bourgeois riuscì a distaccarsi dall’influenza surrealista. Iniziò a produrre astratte evocazioni di parti del corpo con una combinazione di gesso latex e stoffa; che sembrano incarnare fantasie violente o pulsioni aggressive [Torso Autoritratto, 1963/1964; La fanciulla o Fillette, 1968/1969 – appropriazione femminista del fallo simbolico]. La sua produzione continuò fino alla morte; con una serie di opere sempre incentrate sul sogno e sull’inconscio [I disegni insonni, 1994/1995]; così come continuò la sua ‘serie’ sulle Celle. Eva Hesse (1936-1970) – Arte Processuale La ‘scultura’ di Eva Hesse è innovativa sul piano formale. Hesse non utilizza il corpo umano, ma evoca ugualmente corpi (corporeità fantasmatica) in situazioni estreme. Le immagini che ci presenta alludono a condizioni terribili, a un corpo disturbato da fantasie, desideri e pulsioni [come in Contingente, 1969; o Pezzo di corda, 1970]. Si è detto che le sue opere siano spesso riferite alla sua vita e al fatto di essere donna; altri invece ne parlano in chiave protofemminista. Ana Mendieta (1948-1985) – Performance/Land Art/Body Art Artista cubana che riflette sulla storia della nazione d’origine [era stata ‘deportata’ negli Stati Uniti, esperienza traumatica]. I temi affrontati da Mendieta sono sempre legati al corpo e all’essere donna; spesso, l’artista stessa si identifica con la natura [Albero della vita, 1976], facendosi poi fotografare; un mix tra performance e scultura vivente. Altra volte, assume i panni della vittima sacrificale [Untilted, 1973]. A partire dal 1973, fino a circa al 1980, dopo un significativo viaggio in Messico, inizia la serie Silhueta (Silhueta works, 1976/1978); in cui compaiono i temi della sepoltura e della morte. Si tratta appunto di sagome della stessa artista, ottenute dalla terra, dalla neve, dal ghiaccio o dal fuoco. Alcune di queste Silhueta sono figure di sabbia che si realizzano solo attraverso la loro erosione, quando l’acqua dell’oceano scorre su di esse, svuotandole e lasciando disperdere il sangue o la tempera rossa che le riempie. Judy Chicago (1939) Fondatrice del Feminist Art Program (1971); Chicago, in linea con le posizioni ‘femministe’ analizzate sopra, utilizzò la ceramica e il ricamo [riscatto artigianato e decorazione solitamente associate alle donne] per Il pranzo di gala o Dinner Party (1974/1979), una sorta di Ultima Cena versione donne. Tre tavoli disposti a forma di triangolo – allusione – ospitano una serie donne estratte dal corso della storia. Ogni donna occupa un posto ben apparecchiato. Il tutto poggia su un pavimento dell’eredità; composto da più di 2300 mattonelle di porcellana su cui sono iscritti i nomi di 999 donne. Cindy Sherman (1954) – Postmodernismo (appropriazione e critiche all’originalità) Cindy Sherman, così come le colleghe Kruger e Lawler, mise in discussione i concetti di autorialità e di autenticità. In particolare, Sherman lavora sull’idea dell’autoritratto come sparizione sotto le vesti delle star cinematografiche che abilmente interpreta [serie: Senza titolo Fotogramma da film, 1977/1980]. Vi sono varie implicazioni nelle serie della Sherman: la personalità; la rappresentazione; lo sguardo maschile della Mulvey; il mondo-immagine pubblico, etc. Barbara Kruger (1945) – Postmodernismo poststrutturalista (critica alla rappresentazione) Anche Kruger lavora con le fotografie, prendendole però da riviste e altre fonti, e incollando successivamente delle taglienti dichiarazioni verbali; come in Untitled, You construct intricate rituals (1981); Untitled (I will not become bordi del tavolo sono state poste delle lenti per dare la possibilità allo spettatore di osservare meglio le diapositive che, una volta vicini, scopriamo essere tutte uguali. In ognuna di esse (dalla didascalia scopriamo che sono un milione) sono riprodotti gli occhi di Gutete Emerita. Gli occhi di una testimone, una donna che ha visto marito e figli uccisi. Una testimone per un milione di persone uccise. Bellissimo anche il lavoro Il lamento delle immagini (2002), in cui l’artista si chiede come mai delle guerre abbiamo solo immagini filtrate. Chéri Samba (1956) Artista proveniente dalla Repubblica Democratica del Congo. Le sue opere raccontano la vita in Africa dell’africano medio, spesso accompagnati da didascalie in francese. Samba tratta temi legati alla sua terra: i costumi, la corruzione politica, il dramma dell'AIDS, la prostituzione, le leggende popolari. Si riconosce per lo stile dal colore sgargiante e per i personaggi stilizzati; raffigurati in atteggiamenti espressivi ed eloquenti. Alcuni titoli: Marcia per la campagna sull’AIDS (1988); Il dito magico (1989); La donna e i suoi desideri primari (1989); Mobali ya monyato ou la bataille dans un foyer (1989). William Kentridge (1955) Artista sudafricano (bianco), Kentridge utilizza il disegno per comporre immagini eseguite a carboncino, le cui cancellazioni e correzioni sono filmate attraverso una tecnica nella quale vengono realizzati uno o due fotogrammi alla volta: il disegno finito appare ‘animato’ una volta che il film intero viene proiettato di seguito. La sua è anche una riflessione sulle risorse tecnologiche, che presto renderà obsolete le tecniche tradizionali del disegno; una meditazione sul destino delle arti sotto la pressione delle tecnologie avanzate. Felix in esilio (1994) è appunto uno dei suoi film di animazione creato da disegni al carboncino. Interessante è anche il lavoro svolto a Roma, lungo le Mura del Tevere: in omaggio alla città, Kentridge traccia le figure di alcuni simboli legati alla storia della capitale. Insolitamente, queste figure vengono ‘riesumate’ dal nero attaccatosi alla mura a causa dello smog. Anche qui, il suo lavoro è incentrato sulle cancellazioni: le figure sono effettuate tramite rimozione dello smog; ma verranno cancellate dallo stesso inquinamento. La ‘rinascita’ dell’arte politica – fine Anni 80 (Stati Uniti, Regno Unito e Germania dell’Ovest) L’opera di Felix Gonzalez-Torres, un po' come quella di Alfredo Jaar e di Chéri Samba, si inserisce in quel filone artistico che, a partire dagli anni Ottanta/Novanta circa, si misura con il tema dell’omosessualità. La fine degli anni Ottanta è segnata infatti da un periodo di completa chiusura nei confronti dell’arte contemporanea; dovuta a una politica di destra e religiosa, e da un atteggiamento in generale omofobo (in particolare negli Stati Uniti – vedi caso di Robert Mapplethorpe). L’arte contemporanea era etichettata come antifamiliare, antireligiosa e antiamericana. In opposizione a questo clima conservatorio, si assistette a una rinascita dell’arte politica progressista [definita anche Arte Attivista]. I temi denunciati dagli artisti furono molti, ma la loro attenzione si concentrò in particolar modo sulla lotta contro l’epidemia dell’AIDS e sull’identità (razzismo; omosessualità). Proprio nel 1987 era stata infatti fondata l’ACT-UP – Aids Coalition To Unleash Power – con lo scopo di intraprendere un’azione diretta per porre fine alla crisi dell’Aids. Gli artisti attinsero a una serie di pratiche precedenti [fotomontaggio di Heartfield, grafica Pop Art; Performance; la provocazione della cosiddetta ‘Arte Femminista’] per denunciare, indurre una presa di coscienza e un supporto, sopravvivere e reagire. Felix Gonzalez-Torres (1957-1996) – Matrice politica omosessuale (Arte come scambio) Artista cubano trasferitosi poi a New York, dove incominciò ad esporre a partire dal 1990. Torres, a differenza di altri artisti ‘attivisti’, utilizzò la stessa arte degli anni Sessanta/Settanta in chiave omosessuale: i suoi cumuli rimandano alle disposizioni Postminimaliste (nell’angolo, come Morris e Serra); le stesse caramelle sono coloratissime (alla Andy Wahrol); mentre i manifesti richiamano alla memoria l’Arte Concettuale. Le sue opere trattano in particolare il tema dell’Amore; con rimandi alla storia personale di Torres (il suo fidanzato morì di AIDS nel 1991). Perfect Lovers (1987-1990) consiste in due orologi analogici appesi al muro. Per forza di cose, uno dei due orologi andrà più lento dell’altro, e uno dei due si fermerà prima. Il tema della perdita è ripreso anche in Senza titolo (5 marzo). Il gioco è il medesimo: due lampadine accostate; una delle due si brucerà inevitabilmente prima dell’altra. Anche il titolo, 5 marzo, rimanda alla sua biografia (compleanno fidanzato). Anche i diversi cumuli di caramelle rimandano al fidanzato; hanno il suo peso. Anche noi, spettatori che ‘approfittiamo’ del dolce, siamo colpevoli della perdita. E’ un discorso complicato, toccante. In Senza titolo (USA Today) (1990), in particolare, il titolo rimanda anche alle notizie addolcite che il giornale USA Today forniva al consumo quotidiano dei lettori; e lo stesso consumo è al centro dell’opera, visto che lo spettatore appunto consuma le caramelle. Jimmie Durham (1940) Durham, di origini americane ma operante in Europa a partire dal 1994, lavora con i cliché etnici/primitivisti, spingendoli al punto di ridicolizzazione critica. Inizialmente, produsse una serie di manufatti indiani con parti di vecchie auto e teschi animali; richiamandosi agli stereotipi riguardanti gli Indiani d’America [prima di trasferirsi in Europa, passò 7 anni in Messico]. Successivamente, introdusse altri tipi di detriti di merce, per produrre manufatti del futuro. La sua arte, ibrida, rimodella l’oggetto surrealista a fini postcoloniali. Adrian Piper (1948) – Matrice politica razziale (afroamericani) Anche Piper (americana), come molti suoi colleghi attivi negli ultimi due decenni del XX secolo, si avvicina alle forme artistiche definite attiviste. A differenza di Torres, Piper si concentra sui temi dell’identità razziale e della patologia visiva del razzismo; attraverso la Performance e l’utilizzo dell’Arte Concettuale. In Essere Mitico (1973/1975), impersonava la tipica immagine stereotipata del maschio afro-americano; mentre in Il mio biglietto da visita n1 (1986) informava l’ipotetico interlocutore del fatto di essere nera. In altre opere, invece, pone direttamente lo spettatore a confronto con qualcosa di ‘minaccioso’; come in Messo in un angolo (1988). Shirin Neshat (1957) Di origini iraniane, Shirin analizza le difficili condizioni all’interno della sua cultura d’origine (islamica). In particolare, la sua attenzione è rivolta al ruolo della donna, analizzato da più pdv (significato sociale; politico; psicologico); senza però alcuna implicazione critica. Dal 1994 inizia a lavorare alla serie Women of Allah, in cui fotografa una serie di ‘corpi’ di donne (spesso autoritratti), ricoperti di scritte in calligrafie persiana. In queste fotografie, Neshat opera una serie di giochi con lo spettatore stesso: gioca con le costruzioni binarie (bianco/nero; donna/uomo; nudo/vestito; etc); gioca con la nostra non conoscenza della lingua (a primo impatto pensiamo che si tratti di estremismo, di scritte religiose; in realtà si tratta di poesie d’amore) e, di conseguenza, gioca con la nostra stessa idea pregiudiziale. Siamo soliti associare le persone musulmane all’idea di morte; e difronte a queste fotografie ci sentiamo minacciati (Neshat gioca anche su questa nostra paura, inserendo delle armi). In più, l’artista gioca sulla stessa ambivalenza della donna: una presenza tranquilla, ma in realtà minacciosa; costruendo così dei ritratti che ci disturbano, ma allo stesso tempo ci attraggono. Oltre a questi diffusissimi ritratti, Shirin Neshat ha prodotto anche filmati [in classe: Turbulent, 1998] e lungometraggi che riflettono sempre su questa tema [Leone d’oro di Venezia nel 2009 per il film Women without Men].
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