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Arte e Cervello, Fiorentini e Maffei (appunti, sintesi, citazioni - testo completo), Appunti di Psicologia Della Percezione

Arte e Cervello, Fiorentini e Maffei (appunti, sintesi, citazioni - testo completo)

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 05/02/2020

alcyone1
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Scarica Arte e Cervello, Fiorentini e Maffei (appunti, sintesi, citazioni - testo completo) e più Appunti in PDF di Psicologia Della Percezione solo su Docsity! Arte e Cervello Maffei, Fiorentini Appunti sull’introduzione “La sensazione non fa, in gran parte, che aprire la pagina ad un libro già scritto” Roland Barthes, La camera chiara: per guardare una fotografia [ma si potrebbe dire per guardare ogni immagine], bisogna unire due voci, la voce della banalità [ciò che uno vede e sa] e la voce della singolarità [riempire la banalità con l’élan della emozione che appartiene solo a me stesso] La neurofisiologia moderna ha studiato e in parte capito alcune proprietà basilari della visione che indicano che certe informazioni visive sono più importanti di certe altre e subiscono una elaborazione particolare, privilegiata nel cervello. Il risultato più attraente nel contesto del nostro discorso è l’esistenza di un cervello visivo, localizzato nel lobo cerebrale destro e quasi contrapposto a quella parte del cervello che presiede al linguaggio e che ha sede nel lobo sinistro. → forse è per questo che è così difficile parlare d’arte; perché le attività di un lobo, quello del linguaggio, vogliono interessarsi alle attività di un altro lobo, il destro, il lobo più visivo, che tratta l’informazione in maniera diversa, meno analitica, più globale ed emotiva. La realtà cambia il nostro cervello che a sua volta cambia la realtà. In arte ciò può portare alla creazione di nuove realtà percettive che solo in parte dipendono dall’informazione proveniente dai nostri sensi. Forse è per questo che nel corso della storia dell’arte si vedono sorgere continuamente nuovi stili per rappresentare gli stessi oggetti. Cervelli storicamente diversi richiedono rappresentazioni diverse. In questo senso l’arte è una forma di estensione della realtà, una via intellettuale ad aprire nuove esperienze. Il libro cerca di usare la scienza, soprattutto la fisiologia e la percezione visiva come un aiuto alla comprensione di famose opere d’arte mostrando come certe soluzioni dell’artista risultino essere proprietà cerebrali della visione e per questo capite e ammirate dallo spettatore. Un fenomeno di risonanza tra organismi che hanno le stesse proprietà: l’organismo artista lancia segnali e gli altri si mettono a cantare insieme a lui perché hanno riconosciuto che canta la loro lingua con parole che erano in ombra nella loro memoria e che lui, come d’incanto, ha saputo richiamare alla luce della percezione. “Un uomo che vuole la verità diventa scienziato; un uomo che vuole lasciare libero gioco alla sua soggettività, diventa magari scrittore; ma che cosa deve fare un uomo che vuole qualche cosa di intermedio tra i due?” Robert Musil, L’uomo senza qualità. Il miracolo del vedere Il mondo che ci circonda è per noi il mondo che vediamo. Plinio in Naturalis Historia→ l’organo della vista non è l’occhio ma la mente. Mondo fisico vs. mondo fenomenologico→ il mondo che vediamo non è quello fisico reale ma è quello che percepiamo, quindi è influenzato dalla cultura, dal carattere, dalle esperienze passate e dallo stato d’animo. Il sistema immaginifico è un sistema artificiale di comunicazione forse più originale del linguaggio. É un linguaggio che non solo permette di essere fruito nello stesso tempo in cui viene creato ma che supera i limiti temporali per diventare estensione della memoria e dell’immaginazione. Creare immagini significa estendere la possibilità di espressione del pensiero fino a divenire oggetto di rappresentazione estetica. Dalla luce alle immagini visive GLI EVENTI DELLA VISIONE: UNA STORIA CATTURA DELLO STIMOLO Grecia antica (scuola pitagorica)→ si riteneva che lo stimolo per la visione partisse dallo stesso occhio attraverso l’emanazione di raggi che come sottili tentacoli procedevano verso gli oggetti tastandone la forma. Leucippo di Mileto → riteneva che dagli oggetti si staccassero delle sottili scorze (éidola) che si dirigevano verso l’occhio, conservando la forma dell’oggetto, ma rimpicciolendosi progressivamente così da poter penetrare nell’occhio attraverso il foto della pupilla. ANATOMIA DELL’OCCHIO: LE PARTI SENSIBILI AGLI STIMOLI Per lungo tempo si è ritenuto che la parte sensibile agli stimoli luminosi fosse il cristallino. Andrea Vesalio (1543)→ riconobbe che questa funzione è assolta dalla retina. Leonardo→ pensò che l’immagine che si forma sul fondo dell’occhio fosse invertita due volte all’interno dell’occhio e che la parte sensibile fosse la superficie posteriore. Teoria di Keplero (1610)→ Nel processo della visione Keplero pone la retina come sede della percezione degli stimoli luminosi superando il problema del capovolgimento delle immagini: la retina (o la psiche) ha la facoltà di interpretarle correttamente. Ma ciò che è più importante, attribuisce alla pupilla la funzione di ridurre il cristallino a calotta sferica e quindi di evitare i fenomeni di aberrazione che davano luogo alla caustica nel caso della rifrazione. Unificando genialmente tutti questi elementi Keplero spiega il processo della visione con il doppio cono: un punto emette raggi in ogni direzione, questi vengono a colpire l'occhio che forma la base del cono incidente e quindi individua la distanza del punto oggetto; i raggi vengono rifratti e focalizzati sulla retina, ancorché invertiti Dall’occhio al cervello, dal chiaro-scuro alle forme I NEURONI Il sistema nervoso è composto da circa 10 miliardi di neuroni (cellule nervose) che ne costituiscono le unità anatomiche e funzionali. Le cellule nervose possono differenziarsi ma hanno tutte le stesse due funzioni: l’eccitabilità e la capacità di condurre impulsi nervosi. In un neurone si possono distinguere tre parti: un corpo cellulare, una lunga fibra o assone, attaccata al corpo cellulare, e molteplici fibre più corte, chiamate dendriti. Questi sono i canali di entrata del neurone, mentre l’assone ne presenta l’uscita. L’assone si suddivide in tante piccole diramazioni che prendono contatto con i dendriti o il corpo cellulare del neurone vicino. I contatti tra un neurone e l’altro sono chiamati sinapsi. L’IMPULSO NERVOSO L’ impulso nervoso nasce a livello del corpo cellulare. Si tratta di un temporaneo cambiamento del potenziale elettrico tra l’interno e l’esterno del neurone (presente anche in condizioni di riposo). Alla fine delle terminazioni assoniche l’impulso nervoso causa il rilascio di una piccola quantità di trasmettitore chimico (neurotrasmettitore) che va ad agire sulla membrana della cellula nervosa vicina. Il neurotrasmettitore può causare un effetto eccitatorio che stimola nel neurone ricevente la produzione di impulsi nervosi, oppure un effetto inibitorio che reprime l’attività del presente neurone. Gli impulsi nervosi possono essere trasmessi ad intervalli più o meno ravvicinati. I neuroni comunicano tra loro tramite la variazione di frequenza degli impulsi. PROIEZIONE: DALLA FOVEA ALLA CORTECCIA VISIVA Nella corteccia visiva la proiezione della fovea è ingigantita rispetto a quella delle altre periferiche. Questo è il fattore di ingrandimento corticale (ce ne accorgiamo quando mettiamo a fuoco un punto preciso del campo visivo: dopo qualche minuto noteremo che le zone periferiche si deformeranno o sfocheranno). Le figure riportate non devono trarre in errore e far pensare che sulla corteccia si formino delle immagini: si tratta di una distribuzione spaziale di attività nervosa. Già a partire dalla retina l’informazione contenuta nell’immagine ottica viene codificata in impulsi nervosi. In che modo la distribuzione di impulsi nervosi a livello della corteccia e nei successivi stati di elaborazione venga poi decodificata non è noto (non deve sorprendere che l’immagine del mondo esterno come noi lo vediamo non sia né capovolta come l’immagine sulla retina né distorta come le immagini corticali: né queste e né quelle vengono “viste”, bensì danno luogo a messaggi in codice). Per quanto riguarda la codificazione in impulsi nervosi dell’informazione contenuta nelle immagini retiniche, possiamo trovare una similitudine nella televisione o nel telefax (l’immagine viene codificata in impulsi elettrici per essere trasportata). EFFETTI DI CONTRASTO Importanza dal contesto Molto importante in ambito percettivo è il contesto. Oltre alla presenza di un apparato visivo e di oggetti da poter vedere, ciò che caratterizza la codifica delle immagini retiniche è la presenza di elementi visivi differenziali date dal contesto. Differenze e contrasto nel processo di codificazione dell’immagine retinica in impulsi nervosi vengono privilegiate ed esaltate le informazioni relative alle differenze tra chiaro e scuro piuttosto che il valore assoluto dello stimolo. Le cellule gangliari influenzano il campo recettivo I neuroni che inviano i messaggi al cervello lungo il nervo ottico sono le cellule gangliari. Ciascuno di questi neuroni vede solo una piccola parte del campo visivo, cioè codifica in impulsi nervosi solo stimoli che cadono dentro quell’area che è chiamata campo recettivo della cellula nervosa. Il campo recettivo è organizzato funzionalmente in modo che il neurone risponda in misura ottimale a stimoli luminosi limitati alla porzione più centrale del campo stesso e circondati da uno sfondo più scuro. Stimoli che illuminano uniformemente il campo recettivo risultano meno efficaci. Contorno chiaro-scuro Gli effetti percettivi di contrasto dipendono anche da quanto è netto il contorno tra un’area chiara e un’area scura. Righe di Mach: in alcuni casi, a compensare la mancanza di nettezza di un contrasto sfumato si verifica un fenomeno soggettivo, le cosiddette righe di Mach, delle righe chiare e scure che si percepiscono lungo i bordi di una penombra: la loro funzione è rendere più appariscente la separazione tra regione chiara e scura, creando un contorno là dove fisicamente un contorno non esiste. CHIARO-SCURO NELL’ARTE In pittura gli effetti di contrasto servono a creare l’illusione di una sorgente luminosa (sole, lampada, …). Questo espediente è usato da tutti i pittori per esaltare alcune parti del quadro rispetto ad altre. In pittori di diverse epoche si trovano esempi rilevanti di profili tra ombra e luce che simulano le righe di Mach: si possono ricordare la stella cometa nell’ Adorazione dei Magi di Mantegna e il profilo del volto in penombra in Le noeud noir di Seurat. LA FORMA CREATA DALLE OMBRE Mentre l’accostamento di aree chiare ed aree scure serve soprattutto ad esaltare le differenze di luminosità, le ombreggiature, con il passaggio sfumato di luminosità, possono creare il miracolo di far nascere una forma solida. Fenomeno del completamento percettivo→ vedi su La percezione Fenomeno dei contorni illusori→ vedi Triangolo di Kanizsa Le ombre sulla luna: arte e scienza in Galileo Galilei Un evento di grande importanza nella storia della cultura è l’interpretazione da parte di Galileo Galilei delle ombre nelle immagini della Luna viste al telescopio. Nel Sidereus Nuncius (1610) si attesta che Galileo scorse delle ombre che interpretò giustamente come segni di asperità della superficie lunare, rispettivamente come monti o crateri. Nel volume sono presenti anche delle sue illustrazioni che mostrano i contorni irregolari tra le regioni luminose e quelle scure. Cervello emozioni ed esperienza estetica Si cercherà di dedurre quali parti del nostro cervello potrebbero essere coinvolte nell’esperienza estetica. STRUTTURA DEL CERVELLO La struttura del cervello è una complessa stratificazione di tessuti e di cellule neurali connessi l’uno con l’altro. Nella parte più esterna si avvolge la corteccia cerebrale che si piega variamente formando numerose circonvoluzione e solchi, così che la sua superficie totale è molto più estesa di quella che appare dall’esterno (come fosse un mantello che forma parecchie pieghe) Nel livello inferiore troviamo altre zone intermedie. Nel punto più profondo dell’organo troviamo quella zona (che può essere considerata, per forma e per funzione, la base del cervello) detta ipotalamo (talamo= letto, letto del cervello), collegata con le strutture vicine e in particolare con il lobo limbico. COMUNICAZIONE La comunicazione tra le diverse parti del cervello (da quelle più interne a quelle più esterne) può avvenire in due modi diversi: - attraverso impulsi nervosi che si propagano attraverso le fibre nervose; - attraverso la produzione di ormoni che si propagano seguendo le vie del sangue raggiungendo i recettori di altri organi regolandone l’attività nervosa, sia elettrica che umorale. Il regolatore capo di questo secondo tipo di comunicazione nervosa è appunto l’ipotalamo, che ha a disposizione addirittura una piccola fabbrica di ormoni: l’ipofisi. Il cervello appare costituito da due masse simmetriche: gli emisferi (o lobi) cerebrali destro e sinistro. Esse presentano delle diversità reciproche, sia anatomiche che funzionali. Le due parti sono collegate tra loro da milioni di fibre, percorse da segnali nervosi nei due sensi, così da assicurare una funzione unitaria e armonica del cervello. La maggioranza di queste fibre si raggruppa in due connessioni interemisferiche principali: il corpo calloso e la commessura anteriore. La parte più superficiale di ogni emisfero, la neocorteccia, benché apparentemente presenti una struttura uniforme, è suddivisa in aree che hanno specializzazioni funzionali molto diverse. Essa si divide a seconda delle funzioni in quattro lobi: frontale, parietale, occipitale e temporale. 1 il primo è probabilmente implicato nel controllo del movimento e nella pianificazione di azioni future; 2 il lobo parietale nelle sensazioni somatiche come il tatto e nell’immagine del proprio corpo; 3 il lobo occipitale nella visione; 4 il lobo temporale nell’udito e in alcuni aspetti dell’apprendimento, della memoria e delle emozioni. I centri del linguaggio (area di Broca, area di Wernicke) risiedono nella maggior parte delle persone destrimani solo nel lobo sinistro del cervello e sono localizzati rispettivamente nella parte posteriore del lobo frontale e nella parte posteriore del lobo temporale. I tre cervelli È cosa nota che l’encefalo dell’uomo è caratterizzato da un grande sviluppo della neocorteccia: secondo il neurofisiologo americano Paul MacLean l’uomo possiede tre cervelli, ognuno dei quali corrisponde a moment successivi dell’evoluzione dei vertebrati. IL PRIMO CERVELLO→ RETTILIANO Il primo è quello più semplice ed anche il più antico che lo studioso chiama rettiliano, comprende principalmente le strutture del midollo spinale e la zona inferiore del tronco dell’encefalo. Esso controlla il comportamento istintivo, cioè tutte le attività automatiche o semiautomatiche che avvengono in via riflessa senza coinvolgere la sfera emotiva o psichica. IL SECONDO CERVELLO→ PALEOCERVELLO Comprende strutture più recenti di quelle midollari ma più antiche di quelle neocorticali, è detto paleocervello. Esso è alla base di una serie di attività che soddisfano i bisogni dell’individuo; queste attività ricorrono frequentemente e ciclicamente nella vita dell’animale e sono tipiche della specie, anche se soggette a modificazioni apportate dall’esperienza. Il paleocervello ha un ruolo rilevante nella determinazione degli stati emozionali, del comportamento aggressivo e sessuale. Le strutture comprese in questo sistema sono sotto il manto cerebrale e tra queste dominano i protagonisti di questo racconto: l’ipotalamo e il lobo limbico. IL TERZO CERVELLO→ NEOCORTECCIA Il nuovo cervello dei mammiferi dovuto alla successiva espansione delle aree corticali durante l’evoluzione, è responsabile delle attività cerebrali più alte dell’uomo, comprese quelle razionali. → questa suddivisone risale agli anni Settanta e vista alla luce delle conoscenze moderne è senza dubbio troppo semplificata ma dà un’idea efficace della distribuzione delle funzioni cerebrali ai diversi livelli del sistema nervoso centrale. LE EMOZIONI Molte funzioni sono chiaramente localizzate in determinate parti del cervello. Le emozioni insieme ad altre funzioni, sono localizzate in più strutture collegate anatomicamente e funzionalmente tra loro, per cui, alla luce delle conoscenze attuali, si ritiene non corretto parlare di un’unica localizzazione cerebrale. Il cervello delle emozioni: tra ipotalamo e corteccia La ricerca del cervello delle emozioni ha stimolato l’attenzione di molti ricercatori, che tra gli anni Cinquanta e Settanta condussero numerosi esperimenti: - ricordiamo quelli di José Delgado, che impiantò degli elettrodi nell’ipotalamo di un toro per poi affrontarlo in arena con un radiotrasmettitore: l’esperimento per sua fortuna andò bene perché il toro da attaccante infuriato divenne, sotto gli impulsi elettrici regolati da Delgado, calmo e rilassato come un animale domestico. - e quelli del neurochirurgo canadese Penfield, che nel 1954 applicò una stimolazione a zone del lobo limbico in pazienti affetti da epilessia. La stimolazione elettrica fece rivivere nei pazienti degli stati emotivi che avevano già provato in passato. In ogni caso sembra che tra ipotalamo e corteccia succeda qualcosa di potente e di misterioso: quello che per comodità si continuerà a chiamare il cervello delle emozioni è una parte di quello reale molto importante, regolata da principalmente dalla neurochimica (quindi principalmente dall’ipotalamo: in quanto produce in quantità infinitesime ormoni che regolano il funzionamento di organi o ghiandole come la tiroide, il surrene o le ghiandole sessuali con alterazioni metaboliche e di comportamento). Il lobo limbico, l’ipotalamo e le emozioni Il lobo limbico avvolge il tronco dell’encefalo ed è costituito da una corteccia filogeneticamente più antica collegata alla neocorteccia, con i centri sottostanti e con l’ipotalamo. Lobo limbico ed ipotalamo risultano essere molto importanti nella regolazione degli stati emozionali. All’interno del sistema limbico c’è l’ amigdala, una struttura a forma di mandorla che ha una funzione regolatrice dell’ipotalamo. Nello specifico, essa è implicata nelle risposte a stimoli che incutono paura, sia che si tratti di una precedente esperienza (conservata in memoria) sia che si tratti di una nuova. Inoltre, viene stimolata da segnali che provengono da nuclei sensoriali del talamo ed ha un ruolo in risposte emotive di piacere (cibo, partner sessuale). Le zone dell’ipotalamo, del lobo limbico e del tronco dell’encefalo, sembrano regolare delle funzioni dette “vitali” (fame, sete, copulazioni). Questa regolazione avviene mediante la produzione di ormoni (ormoni che regolano la funzione sessuale, altri la fame, altri la sete). I centri del piacere Definire quali siano precisamente i centri del piacere è cosa ardua: alcuni esperimenti hanno concluso che l’ipotalamo laterale sia il centro del piacere ma ad oggi questa affermazione rimane inesatta proprio perché nell’uomo ci sono altre parti del sistema nervoso che influiscono sugli effetti degli esperimenti (localizzate a livello del lobo limbico e nel tronco dell’encefalo); un altro studio sull’orgasmo condotto da Health (1972) ha rilevato nei suoi pazienti che la stimolazione elettrica dell’ipotalamo laterale e del setto provocava loro piacere e, inoltre, che durante l’orgasmo, nei loro neuroni, l’attività elettrica è fortemente accentuata (nella donna si estende anche nell’amigdala) → non a caso i “centri del piacere” sono anche state definite sinapsi edoniche. Oltre a considerare le parti anatomiche bisogna anche tener conto dei mediatori chimici che permettono il passaggio di segnali nervosi da un neurone all’altro. Nell’ipotalamo laterale medatori chimici più frequenti sono la dopamina e la noradrenalina (fam. catecolamine) → la dopamina è stata chimata il mediatore chimico del piacere. Nell’uomo sostanze come l’anfetamina, gli anfetaminici e la cocaina aumentano gli effetti della noradrenalina, quindi esaltano le sensazioni di piacere. Gli oppiacei esogeni ed endogeni Tra le moltissime sostanze utilizzate dall’uomo, l’ oppio è la sostanza psicotropa più sfruttata e più antica (veniva utilizzata dai Sumeri , Omero Odissea parla del nepente). Il principio attivo dell’oppio è la morfina. Recentemente sono state scoperte nel nostro cervello delle sostanze dette peptidi chimicamente simili alla morfina che agiscono sugli stessi recettori nervosi sui quali agisce anche quest’ultima. Morfina ed endorfine si differenziano per due principali funzioni: Dipingere la distanza La rappresentazione della distanza nell’arte antica ARTE EGIZIA→ altezza e sovrapposizione montaggio ordinato di immagini parziali o ideogrammi> questi non riproducono fedelmente l’immagine di quella figura o di quella scena come sarebbe stata percepita ma in ogni caso si riferisce ad essa gli egiziani disegnavano i particolari degli oggetti e delle persone come apparirebbero se proiettati su un piano frontale. Poi ricomponevano questi elementi uno per uno, nel piano della figura, senza tener conto dell’orientamento che ognuno di essai aveva nello spazio → modalità che ha il vantaggio di rappresentare in modo non ambiguo la forma degli oggetti così come li vedremmo guardandoli di fronte. Nel caso di scene più complesse sembra che gli egizi usassero due convenzioni per rappresentare la successione spaziale nel senso della profondità delle figure umane o di animali. Queste sono il dislocamento orizzontale e il dislocamento verticale. E cioè: ciò che è accanto si intende dietro (dislocamento orizzontale) e ciò che è sopra si intende dietro (dislocamento verticale). Gli indizi di profondità sono dunque due: quello della sovrapposizione e quello dell’altezza. ARTE GRECA→ poche testimonianze ma più naturalismo Rappresentazioni figurative che tengono conto in qualche misura delle regole prospettiche si trovano per la prima volta nell’arte greca: tracce di scorci di figure umane sono presenti nei vasi dipinti della fine del VI sec. e nel periodo greco classico ma forse la testimonianza più importante è il mosaico della battaglia di Alessandro e Dario proveniente da Pompei (che si ritiene essere una copia di un famoso dipinto di Filosseno di Eritrea del 300 a.C. ) la rappresentazione dello spazio è assai più naturalistica che non dell’arte egizia. ARTE ROMANA→ effetti illusionistici e l’ombra Effetti illusionistici di profondità sono anche molto numerosi nella pittura romana di cui l’esempio più noto è la Stanza delle Maschere di una casa romana di età Augustea sul Platino. Qui le architetture sono rappresentate con chiari effetti prospettici. Un altro indizio pittorico di profondità largamente usato in epoca classica sono le ombre. ARTE BIZANTINA→ il naturalismo diminuisce, le figure si appiattiscono Nell’epoca bizantina, la rappresentazione spaziale diviene sempre meno rilevante, la solidità dei corpi si attenua accentuando la spiritualità della figura, e nonostante che alcuni indizi spaziali come quello della sovrapposizione vengano ancora utilizzati, le scene si appiattiscono scostandosi notevolmente dalla visione naturale. La rappresentazione dello spazio nel Trecento fine del medioevo→ appaiono i primi segni di uno spazio tridimensionale che si evolveranno via, via, con un cammino progressivo fino all’innovazione della prospettiva rinascimentale. John White, The Birth and Rebirth of Pictorial Space: in tutte le arti primitive la più semplice rappresentazione pittorica di un solido consiste nel presentare solo una faccia di esso; successivamente, quando l’informazione data da una sola faccia non venne più ritenuta sufficiente, se ne presentarono due consecutive e in seguito si arriva alla rappresentazione di fronte di una delle due facce e di scorcio dell’altra. Infine, come avviene nella pittura de trecento senese (e in Giotto) viene riportato in primo piano lo spigolo fra due facce. Oltre a Giotto e Cimabue, i Lorenzetti furono maestri nel rappresentare la profondità usando nuovi ed eleganti indizi pittorici: come si può osservare nello schema della planimetria del Buon Governo, l’affresco di Ambrogio Lorenzetti del 1339 nel palazzo comunale di Siena. Qui si assume che lo spettatore sia fermo davanti alla scena rappresentata, ma che giri la testa o gli occhi per guardare in tre direzioni diverse, a cui corrispondono tre scorci separati: - la danza al centro, con la strada che entra nel cuore della città; - i cavalieri che escono dalla città sulla sinistra; - uomini e donne che entrano dalla porta della città sulla destra. Tutti gli edifici sono in obliquo e tutti riferiti all’unico punto centrale. La prospettiva nel Rinascimento La prospettiva, nel pieno significato del termine, fu scoperta o solo riscoperta nel Rinascimento. Dagli elementi disponibili per mezzo delle varie fonti, gli studiosi hanno formulato molte ipotesi, talvolta contraddittorie, ma tutte concordano sul riconoscimento che due esperimenti di Brunelleschi hanno fondato la prospettiva lineare (o prospettiva artificiale) secondo costruzioni scientifiche, forse già note, ma di cui egli fece una mirabile sintesi. I capisaldi di questa nuova scienza erano: 1 la rappresentazione è basata sulla definizione di un punto di vista, dal quale partono i raggi visivi che formano la piramide visiva; 2 l’immagine prospettica non è altro che l’intersezione della piramide visiva con il piano del quadro; 3 le linee parallele convergono in un punto (punto di fuga); 4 il punto di fuga delle rette perpendicolari al quadro coincide con il punto di vista centrale (punto principale); 5 le rette inclinate a 45° rispetto al quadro convergono in punti (punti di distanza) posti dal punto principale a distanza pari a quella del punto di vista dal quadro. La prospettiva rinascimentale era entrata ufficialmente nella pittura nel 1426 con l’affresco della Trinità del Masaccio in Santa Maria Novella. Nel Quattrocento la teoria della prospettiva viene codificata in trattati scritti dagli stessi artisti e trova rigorosa applicazione in numerose opere, sia di scultura che di pittura. Con Leonardo viene attribuito un ruolo importante alla prospettiva aerea per la rappresentazione della distanza nelle scene all’aperto. Anche lui suggerisce una tecnica semplice per la rappresentazione su un piano di scene tridimensionali. → secondo Leonardo dipingere in prospettiva equivale a vedere una scena dietro una lastra di vetro trasparente, e a disegnare gli oggetti sul vetro, così come si vedono attraverso di esso. Dopo alcuni decenni si cominciarono a notare anche i limiti della prospettiva e grandi artisti come Michelangelo e Raffaello, pur applicandola largamente per la rappresentazione di edifici ne elusero spesso il rigore usando più punti di vista o correggendo certe deformazioni introdotte dalla prospettiva e non corrispondenti a ciò che si vede. Trompe-l’oeil Gli indizi pittorici possono essere usati per creare effetti illusori di profondità con particolare pregnanza. Spesso si tratta di opere con significato più decorativo che propriamente artistico. Nei cosiddetti trompe-l’oeil dei pittori del Sei-Settecento si tratta sempre di scene con piccolissima profondità, ad esempio oggetti appesi ad una tavola verticale, come lettere o altre cose di piccolo spessore che darebbero comunque una trascurabile parallasse. Un esempio eclatante di questi trompe-l’oeil prospettici è quello da Pozzo sulla volta della chiesa di S. Ignazio, a Roma: sul soffitto semicilindrico della navata principale il pittore ha disegnato degli elementi architettonici che simulano il proseguimento delle reali architetture delle pareti della chiesa. Se si guarda il dipinto dalla posizione indicata sul pavimento di un disco di marmo si vedono archi e colonne estendersi verso l’alto, popolati da figure di angeli e santi che si librano nel cielo aperto ad un’altezza apparente enormemente maggiore di quella del soffitto su cui sono dipinti. Anamorfosi Anamorfosi è un termine che appare nel Seicento ad indicare delle immagini deformate tanto da essere indecifrabili, ma che viste da un certo punto dello spazio o riflesse da specchi curvilinei si ricompongono svelando la figura nelle sue uguali proporzioni. Le immagini anamorfiche ebbero per molti secoli un significato magico o di intrattenimento. Assunsero però un valore diverso e furono meglio comprese con lo sviluppo della prospettiva nel Cinquecento. Un esempio di anamorfosi lo troviamo del famoso dipinto di Hans Holbein intitolato Gli ambasciatori (1533): ai piedi dei due nobili francesi si osserva una figura che è incomprensibile se il quadro è visto di fronte ma che si rivela essere un teschio guardando il dipinto di scorcio dalla parte sinistra. La prospettiva e le leggi della visione← quando le due cose sono in disaccordo Ora bisogna chiarire le ambiguità e e le contraddizioni della prospettiva e della sua capacità di simulare la distanza rispetto alla percezione visiva. 1 entro distanze moderate come quelle di un ambiente interno, la grandezza apparente degli oggetti è indipendente dalla distanza. Quindi la prospettiva centrale non è applicabile in questo ambito di distanze perché darebbe risultati paradossali; 2 è vero che per la visione da lontano vale la legge della costanza dell’angolo (è in sostanza la legge della prospettiva lineare, secondo la quale le dimensioni degli oggetti vengono rappresentate proporzionalmente più piccole al crescere della loro distanza); tuttavia è anche vero che talvolta anche per queste distanze la grandezza apparente può risultare variabile a parità di angolo visivo, in relazione ad altri indizi percettivi presenti (es. l’ingrandimento apparente degli astri all’orizzonte); 3 caso della prospettiva invertita: si parla di prospettiva invertita quando per rappresentare la profondità si usa la divergenza, anziché la convergenza delle linee parallele, come in alcune pitture medioevali e in particolare dei mosaici bizantini; Tra il colore saturo e il bianco esiste tutta una gradazione di colori via via meno saturi, che si possono ottenere miscelando una radiazione spettrale (di colore saturo) con una certa quantità di radiazione solare (bianco). La tinta è è quella delle radiazioni spettrali (per esempio azzurro); la maggiore o minore saturazione dipende dalla maggiore o minore percentuale di colore saturo contenuto nella miscela rispetto alla percentuale di bianco (l’azzurro del cielo diurno è un azzurro non saturo). - Anche sovrapponendo due radiazioni variamente scelto nello spettro si ottiene in generale un colore non saturo, cioè un colore uguale a quello che si otterrebbe dalla miscela di un colore spettrale con una certa quantità di bianco. COLORI COMPLEMENTARI Si dicono complementari quei colori che all’interno dello spettro sono abbastanza lontani per una maggiore o minore quantità di bianco. Esistono infinite coppie di coloro complementari: per ogni radiazione monocromatica o porpora, ne esiste un’altra il cui colore è complementare. Coppie di colori diametralmente opposti possono essere complementari (un giallo e un viola, un verde e un porpora, un arancione e un blu). - Concludendo, la nostra sensazione di luce, cioè quella che si ha quando si guarda direttamente una sorgente luminosa, oltre alla quantità maggiore o minore intensità, ha due qualità cromatiche: la tinta e la saturazione. LA VISIONE TRICROMATICA: TRE MECCANISMI PER VEDERE I COLORI La possibilità di descrivere qualunque sensazione luminosa mediante tre sole variabili – intensità, tinta e saturazione – ha fatto intuire già nel XVIII secolo che nel nostro occhio devono essere presenti tre tipi di recettori diversi: la nostra è una visione tricromatica. Teoria di Young Questa ipotesi fu formulata nell’Ottocento da Young; egli affermò che per spiegare la capacità dell’occhio di percepire e discriminare i colori delle varie regioni dello spettro era sufficiente supporre tre sole sensazioni distinte, risultanti dalla stimolazione prodotta in ciascun punto della retina dai raggi corrispondenti a tre colori puri (rosso, verde e violetto) e che i raggi che occupano nello spettro le regioni intermedie tra questi tre sarebbero capaci di produrre sensazioni intermedie (il giallo, tra il rosso e il verde; e il blu, tra il verde e il violetto). L’ipotesi di Young, che riduceva a tre i meccanismi richiesti per spiegare tutta la varia gamma di colori delle radiazioni spettrali, fu ripresa qualche decennio più tardi da Helmholtz. Teoria di Helmholtz Secondo Helmholtz ognuno dei tre meccanismi doveva essere sensibile a tutte le radiazioni dello spettro, ma in modo differenziato: uno doveva avere massima sensibilità nella regione delle lunghezza più d’onda più lunghe, il secondo alle lunghezze d’onda intermedie e il terzo a quelle più corte. I tre meccanismi, che si potrebbero indicare come fotorecettori sensibili al rosso, al verde e al blu, sarebbero così responsabili di queste tre sensazioni primarie→ ma essendo ciascuno di essi eccitabile da tutte le radiazioni dello spettro, in proporzioni diverse, proprio la loro eccitazione differenziata darebbe luogo alle sensazioni di colore intermedie fra le tre primarie. Coni sensibili al rosso, al verde e al blu L’ipotesi di Young-Helmholtz dell’esistenza di tre tipi di recettori ha trovato la sua conferma sperimentare nel secolo scorso, all’inizio degli anni Sessanta, quando si è dimostrato che nella retina sono presenti tre tipi di coni che contengono sostanze fotosensibili (pigmenti) diverse. I tre pigmenti dei coni assorbono in percentuali diverse le diverse radiazioni dello spettro, dando luogo nei rispettivi coni a una sensibilità che si estende in una regione abbastanza ampia dello spettro ed è massima in una particolare regione spettrale Il primo tipo di coni, i coni L (rossi), ha una gamma di sensibilità nelle lunghezze d’onda più lunghe; il secondo tipo di coni, i coni M (verdi), ha una gamma di sensibilità più spostata nella regione più intermedia dello spettro; il terzo tipo di coni, i coni S (blu), è sensibile alla regione di lunghezze d’onda corte. → Quando una radiazione monocromatica incide sulla retina, essa viene assorbita in percentuali diverse dai tre tipi di coni, e quindi li stimola in modo diverso. Quindi i colori che noi vediamo sono associati alle diverse percentuali di stimolazione dei tre tipi di coni: questo spiega perché con tre soli tipi di recettori si possa ottenere un grandissimo numero di differenti sfumature di colore. Combinazione additiva e sottrattiva dei colori combinazione additiva dei colori > il colore di qualunque radiazione può essere uguagliato dalla sintesi delle tre primarie regolando opportunatamente le loro intensità relative. Combinazione sottrattiva > per quanto riguarda i colori delle luci, essa si realizza filtrando una radiazione attraverso dei vetri o altri filtri trasparenti che lasciano passare solo una parte dello spettro. → la parola “sottrattiva” non va intesa nel suo senso aritmetico, ma a sta significare che i filtri via via che vengono sovrapposti attenuano ulteriormente o eliminano delle radiazioni. Il colore risultante da una sintesi sottrattiva obbedisce a leggi più complesse, riconducibili al prodotto delle trasparenze spettrali dei filtri, e non ad una sottrazione). Le stampe a colori ottenute con tre primarie si chiamano tricromie. Poichè però gli inchiostri che si utilizzano come primari nella stampa non hanno colori molto puri, la gamma di colori viene migliorata utilizzando in quantità più modeste il quarto colore: il nero, ottenendo così una stampa in quadricromia. Difetti della visione dei colori Daltonismo La discromatopsia, o daltonismo, è una inabilità a percepire i colori data dalla mancata presenza dei tre pigmenti primari dei coni retinici: infatti, chi ne soffre ne ha solo due. In questi casi si dice che i coni non sono tricromati ma dicromati. I due tipi di dicromati più comuni hanno i coni blu ma mancano dei coni rossi (protanopi) oppure dei coni verdi (deuteranopi). Entrambi questi difetti sono ereditari e colpiscono più frequentemente gli uomini che le donne. Tutta la gamma dei colori visibili si riduce quindi a due sole tinte (probabilmente ad un giallo e un blu, per i tipi più comuni di dicromati). Oltre a questo cambia anche, rispetto a chi possiede coni tricromati, nella fruizione dell’intensità relativa delle varie radiazioni monocromatiche: è più bassa nella regione rossa dello spettro per i dicromati privi di coni rossi. Esiste anche un altro tipo di dicromati, detti tritanopi, privi dei coni blu. Questo difetto tuttavia è molto raro. Colori degli oggetti Quando un insieme di oggetti è illuminato dal Sole, gli oggetti ci appaiono dei più svariati colori. Ciò dipende dal fatto che ciascun oggetto riflette in diversa percentuale le radiazioni monocromatiche di diversa lunghezza d’onda di cui è composta la radiazione solare. Al nostro occhio giungono infatti solo le radiazioni riflesse dalla superficie di un corpo, oppure, se questo è trasparente, le radiazioni trasmesse, cioè quelle che hanno attraversato il corpo. Costanza di colore In generale si può dire che al variare della lunghezza d’onda della radiazione che colpisce un dato oggetto, il suo colore, quello percepito, non varia di molto: mantiene sostanzialmente invariato il suo colore. Questo fenomeno percettivo è chiamato costanza di colore: è un carattere importante della percezione visiva, è come se il nostro sistema visivo fosse in grado di valutare le proprietà spettrali della radiazione illuminante così da poterne compensare gli effetti sull’apparenza degli oggetti quando l’illuminante cambia. Teoria di Land → una delle più famose sulla costanza di colore → il colore di un oggetto non risulterebbe semplicemente dalla radiazione riflessa da quell’oggetto e dall’eccitazione che questa produce nei tre tipi di coni: l’eccitazione prodotta dall’oggetto verrebbe considerata in rapporto a tutto quello che gli sta intorno (che si suppone illuminato dalla stessa sorgente) o, meglio, in rapporto all’eccitazione media che l’ambiente produce rispettivamente nei tre tipi di coni. → Questo confronto permetterebbe di scartare gli effetti che la sorgente illuminante ha tanto su quell’oggetto come su tutto l’ambiente, e farebbe dipendere il colore di ogni oggetto solo dalle sue proprietà di riflettenza. I colori opponenti Teoria di Hering → La teoria di Helmholtz trovò un oppositore in Hering, che innanzitutto riteneva inaccettabile che la sensazione di giallo fosse risultasse percettivamente da una somma di rosso e verde. → Hering afferma che, dal punto di vista percettivo, esistono quattro tinte elementari, non scomponibili (rosso, giallo, verde e blu) e ci sono quattro radiazioni nello spettro che corrispondono a queste quattro tinte elementari o uniche→ tutte le altre radiazioni spettrali danno luogo a sensazioni in cui si possono riconoscere due componenti. → Inoltre, Hering afferma anche che le nostre sensazioni cromatiche risultano dall’azione di meccanismi a due a due opponenti (si osserva infatti che il verde e il rosso non solo non sono percettivamente presenti nel giallo, ma sono sensazioni che addirittura si cancellano l’una con ACROMATOPSIA CORTICALE Nella corteccia cerebrale esiste un’area specializzata per l’elaborazione dell’informazione sul colore. Lesioni di quest’area per ragioni patologiche causano una cecità al colore detta acromatopsia corticale. Talvolta la lesione è limitata a uno solo dei due emisferi cerebrali; in questi casi solo una metà del campo visivo è priva di sensazioni di colore. I pazienti affetti da questa patologia vedono il mondo in toni di grigio e perdono la capacità di immaginare i colori. → la presenza di due vie neurali con proprietà opponenti per il rosso-verde e il blu-giallo conferma l’ipotesi di Hering e fa comprendere l’esistenza nello spettro di quattro colori elementari: un rosso, un giallo, un verde e un blu. → a livello di fotorecettori la presenza di tre tipi di coni con tre diversi pigmenti rende ragione alla teoria di Helmholtz, dalle cellule degli strati successivi della retina in poi l’organizzazione a colori opponenti è in accordo con la teoria di Hering. Il colore nel quadro L’albero dei colori La gamma dei colori visibili e riproducibili nella pittura può essere rappresentata da un campionario in cui i singoli campioni di colore sono ordinati secondo le tre variabili: luminosità (chiaro-scuro), tinta o tonalità, saturazione o purezza. 1 Si può costruire un albero dei colori il cui asse centrale è formato da campioni neutri, cioè non cromatici, ordinati dal basso verso l’alto secondo una scala che va dal nero al bianco lungo gradazioni di grigio via via più chiare. 2 Da questo asse si staccano dei fogli ciascuno dei quali contiene campioni della stessa tinta, per esempio un rosso, un verde, ecc … 3 In ognuno di questi fogli i campioni sono ordinati dall’asse dell’albero verso l’esterno in una scala di saturazione, con le tinte più sature più lontane dall’asse. Inoltre, dall’alto al basso i colori sono ordinati da una scala che dal chiaro allo scuro. Fin dai secoli scorsi psicologi o pittori hanno proposto vari tipi di alberi o solidi dei colori in forma di sfera o di doppio cono, di doppia piramide, ecc … Questi alberi dei colori, oltre a fornire una descrizione cromatica ordinata ed estesa per applicazioni scientifiche e tecniche,sono stati sviluppati anche per rispondere all’esigenza di comprendere quali siano i colori che si possono accostare con effetti più gradevoli. La regola generale è che due o più colori sono armonici se la loro combinazione dà un grigio neutro, cioè se i colori sono complementari. I colori nel quadro Nel realizzare un’opera, un pittore impiega più o meno consapevolmente il colore nel tentativo di: 1 creare equilibrio; 2 evidenziarne il soggetto; 3 creare effetti di profondità. In tutto questo giocano un ruolo importante vari effetti di contrasto che contrappongono zone vicine del quadro, così che si esaltino a vicenda. Si tratta di contrasti creati dal pittore contrapponendo colori diversi per tinta, o per saturazione, o per estensione spaziale, o per tonalità calde o fredde. CONTRASTO TRA COLORI COMPLEMENTARI Largamente usato in pittura, ne da esempio l’opera di Piero della Francesca intitolata Madonna di Monterchi. L’EFFETTO CHIAROSCURALE L’effetto chiaroscurale che accompagna il contrasto cromatico tra i complementari giallo e viola viene spesso utilizzato in pittura: nell’opera di Cézanne Mont Ste Victorie questo contrasto viene usato spietatamente per dare senso di profondità al paesaggio, accentuando il distacco tra figura e sfondo. CONTRASTO COLORI CALDI/FREDDI Un altro effetto di contrasto di notevole efficacia pittorica nasce dall’accostamento di colori caldi e colori freddi che può suggerire un contrasto tra ombreggiato e soleggiato, riposante ed eccitante, lontano e vicino. Nella pittura medievale e nelle vetrate delle cattedrali gotiche, il contrasto caldo/freddo tra rosso e blu simboleggia la dualità tra ciò che è materiale e ciò che è al di là della materia. Spesso la madonna porta una veste rossa sotto il manto azzurro, a simboleggiare l’umano coperto dal divino. CONTRASTO DI SATURAZIONE Altro tipo di contrasto è quello che si crea tra aree fortemente cromatiche, di colore saturo, e aree neutre. Questo contrasto di saturazione è presente in molte opere di pittura di tutte le epoche, dai manieristi fino agli astrattisti. Un ottimo esempio di questa tipologia di contrasto la troviamo ne Il neonato di Georges de La Tour. CONTRASTO DI QUANTITÀ Il contrasto di quantità si verifica quando su aree estese di colore relativamente uniforme è presente una piccola area di colore notevolmente diverso. Questa piccola macchia di colore viene evidenziata per contrasto. Così accade con la camicia rossa del contadino protagonista del Paesaggio con la caduta di Icaro di Bruegel. → In pittura si possono distinguere in generale il contrasto puramente cromatico ed il contrasto di chiaroscuro. Il secondo in particolare viene usato dal pittore per creare delle differenze di luminosità all’interno dell’opera. Gli effetti di profondità creati dal colore I colori caldi visti sullo sfondo dei colori freddi tendono a generare un’impressione di profondità: i gialli e i rossi avanzano verso lo spettatore, mentre i verdi e i blu retrocedono. Questi effetti di diversa profondità tra colori caldi e colori freddi possono essere esaltati oppure attenuati (e addirittura invertiti) giocando con la luminosità sia degli oggetti, sia dello sfondo. Le ombre colorate Il colore dell’ombra risulta da un effetto di contrasto: le parti in luce spingono le parti in ombra , meno intense, verso il colore complementare. Questo fenomeno percettivo è noto ai pittori ed è frequentemente rappresentato nei quadri: il colore dell’ombra contribuisce a creare contrasto. Pointillisme e divisionismo Nella seconda metà dell’Ottocento si svilupparono scuole pittoriche che furono notevolmente influenzate dal contemporaneo sviluppo delle conoscenze scientifiche sulla visione dei colori. Ciò accadde per l’impressionismo e per il postimpressionismo (o neoimpressionismo) in cui dominano ancora il colore puro e le sensazioni che derivano dal colore (si pensi a Seurat). Il neoimpressionismo è inizialmente caratterizzato dalla tecnica del pointillisme, nata con il proposito di frammentare la rappresentazione pittorica in piccolissime macchie di colori puri, vicinissime tra loro, tali da essere fuse dall’occhio. I colori del quadro risultano così da un’integrazione visiva dei colori puri delle macchioline nell’occhio dell’osservatore (Georges Seurat, Un dimanche d’été à la Grande Jatte). Gli indizi pittorici (visone della profondità su base di indizi monoculari di distanza) iniziano ad avere valenza grazie allo sviluppo corticale compreso tra i cinque ed i sette mesi dalla nascita. Percezione delle forme Già dalla prima settimana il bambino inizia a discriminare forme diverse: i volti hanno una valenza emotiva molto forte. → Queste conoscenze sull’immaturità alla nascita e sul progressivo sviluppo sia delle funzioni oculari motorie che delle capacità visive che sono alla base della percezione dello spazio permettono di ipotizzare che il mondo visivo del neonato sia limitato ad uno spazio molto ristretto intorno a lui, probabilmente quello che racchiude in sé il volto e il seno della nutrice. Questo mondo visivo si allarga poi progressivamente via via che si sviluppano le funzioni che permettono di valutare le distanze relative degli oggetti (1 stereopsi binoculare→ distanza minima; 2 indizi monoculari→ distanza massima). IL DISEGNO NEL BAMBINO Anche per lo sviluppo di doti artistiche o più semplicemente di capacità di rappresentazione visiva formale attraverso il disegno, l’essere umano attraversa diverse fasi di sviluppo: Maureen Cox nella sua opera Children’s Rewings of the Human Figure ne elenca le definizioni: - i bambini iniziano a scarabocchiare tra il primo e il secondo anno di vita; questa fase è denominata fase della rappresentazione gestuale, perché qui non è importante ciò che il bambino disegna (risultato) ma il gesto, ovvero quel comportamento che esterna la volontà di voler esprimere qualcosa attraverso il disegno; - tra i 18 ed i 30 mesi il bambino inizia ad interpretare i segni fortuiti dei propri scarabocchi anche perché iniziano ad avere una certa padronanza dei loro movimenti. La fase è quella del realismo fortuito, momento in cui si sviluppoa una primordiale volontà di ricerca formale; - tra i 3 ed i 5 anni il bambino, gradualmente, si propone espressamente una rappresentazione figurativa che realizza mediante forme stereotipate (la figura umana è realizzata mediante la forma “girino”). Successivamente il bambino sceglie le parti importanti di un oggetto o di un animale per definire ciò che vuole rappresentare: è la fase del realismo intellettuale. - Infine, con i tentativi di rappresentazione spaziale e la ricerca della prospettiva, il bambino entra nella fase del realismo visivo: una fase molto stimolante per il suo carattere sperimentale. Ricerca formale Jean Piaget spiega che quando i bambini cominciano a tentare di disegnare le forme geometriche, tendono a suddividerle in forme chiuse (cerchio, quadrato, ecc … ) e in forme aperte (croce, ferro di cavallo). Solo più tardi cominciano a distinguere forme chiuse curve e forme chiuse con angoli rappresentandole con cerchi e quadrati. → Si può dire inoltre che le le fasi sopra elencate sono solo indicative: ovviamente esistono delle fasi intermedie ed, inoltre, non bisogna dimenticare che lo sviluppo e le caratteristiche di queste capacità dipendono anche da fattori culturali e ambientali. I disegni dei bambini ciechi I disegni dei bambini ciechi (dieci-undici anni), così come quelli di bambini normali in un’età più precoce (prime fasi dello sviluppo del disegno) non sono correlati direttamente con una realtà percepita attraverso la visione: sono piuttosto l’espressione di schemi e modelli innati o acquisiti attraverso esperienze non necessariamente visive. Questi disegni presentano nella loro espressione concettuale somiglianze con i disegni di popoli le cui rappresentazioni figurative non si proponevano di raffigurare la realtà così come la vedevano (es. i disegni degli Egizi associati alle loro regole di rappresentazione pittorica). I due emisferi cerebrali e le arti visive Il cervello umano è formato da due emisferi che presentano delle asimmetrie, sia fisiche che funzionali. Una tra le differenze emisferiche più importanti è la lateralizzazione del linguaggio, i cui centri cerebrali sono localizzati nell’emisfero sinistro, almeno nei destrimani. Nei mancini le aree del linguaggio, invece che nell’emisfero sinistro, possono essere nell’emisfero destro, anche se ciò non è vero in tutti i casi. I centri del linguaggio sono suddivisi in aree separate ciascuna delle quali responsabili della comprensione acustica e visiva o del controllo motorio dei muscoli responsabili dell’articolazione della parola (area di Broca). RUOLI DOMINANTI PER FUNZIONI DIVERSE Per queste ragioni, per molti anni si è ritenuto che questo emisfero fosse il dominante: sperimentalmente però si è dimostrato che nessuno dei due emisferi è dominante in senso assoluto e che ciascuno dei due è specializzato in funzioni diverse. Esperimenti: split-brain Ad alcuni pazienti, per ragioni terapeutiche, erano stati chirurgicamente interrotti tutti i fasci di fibre che connettono tra loro i due emisferi (tra cui il principale è il corpo calloso); di conseguenza i due emisferi cerebrali funzionavano indipendentemente l’uno dall’altro. Lo studio di questi pazienti chiamati split-brain ha confermato che l’emisfero sinistro è responsabile del linguaggio e che l’emisfero destro è muto, cioè non sa interpretare un messaggio linguistico, né dare un nome ad oggetti visti oppure percepiti mediante il tatto. EMISFERO DESTRO L’emisfero destro risulta essere principalmente quello visivo. Infatti, oltre che per il riconoscimento delle facce, l’emisfero destro ha un ruolo prevalente nel riconoscimento delle figure e forme geometriche, nella percezione della Gestalt, nell’orientamento nello spazio, nel riconoscimento di gesti ed espressioni mimiche, ecc… L’emisfero destro sembra anche essere specializzato per alcuni aspetti dell’espressione musicale, e cioè tonalità, timbro e armonia, oltre che per gli aspetti più musicali del linguaggio, e cioè la prosodia. Paradossalmente, altre qualità della musica, come il ritmo, sono di maggiore pertinenza dell’emisfero sinistro, e così pure attività mentali come il calcolo aritmetico e la classificazione dei colori. → Si potrebbe dire che l’emisfero sinistro è più analitico e lavora in maniera seriale, cioè analizza gli eventi così come si succedono nel tempo, mentre il destro è principalmente sintetico e gestaltico, e lavora attraverso un processo in parallelo che analizza simultaneamente eventi dislocati spazialmente o pertinenti ad attività sensoriali a modalità sensoriali diverse. La specializzazione di un emisfero per l’espressione figurativa e dell’altro per il linguaggio non è un fatto culturale: è provato sperimentalmente che tale specializzazione è di natura biologica, in quanto è presente nelle grandi scimmie antropomorfe, nei gatti, ne ratti e negli uccelli. Il pittore malato L’opera dell’artista nasce dalla combinazione della sua esperienza visiva e della sua interpretazione di quanto gli viene comunicato dal mondo esterno. Sia l’acquisizione visiva, che l’elaborazione interiore possono essere alterate da cause patologiche. Mentre la prima coinvolge selettivamente l’apparato della visione, e quindi può essere alterata da difetti o malattie dell’occhio e del sistema visivo, la seconda può coinvolgere la persona in modo più generale, per processi patologici del cervello e di altri organi. Schizofrenia Nella schizofrenia abbiamo una forma di pensiero divergente, la liberalizzazione delle associazioni, cioè la proprietà di associare in maniera bizzarra oggetti e persone. Si pensa che non siano soltanto dei sintomi propriamente schizofrenici (in quanto comportamenti distruttivi) quanto piuttosto dei sintomi schizotipici ad essere alla base di una aumentata creatività e fantasia, e lo siano proprio per questa loro interpretazione originale, anche dal punto di vista percettivo della realtà. Scriveva il poeta Arthur Rimbaud che la poesia deve nascere da uno sconvolgimento sistematico di tutti i sensi. Psicosi maniaco-depressive Nelle psicosi maniaco depressive si alternano stati di abbattimento e depressione profonda a stati euforici, caratterizzati spesso da una energia irrefrenabile che può portare a livelli di attività e quindi produttività eccezionali. Personalità Ovviamente con ciò non si vuole far passare il messaggio o anche solo alludere al fatto che gli artisti, in generale, siano affetti da una qualche patologia che li rende creativi. Molto spesso l’artista ricerca volontariamente l’allontanamento da regole precostituite, una fuga dall’omologazione. Nel corso della storia questo genere di comportamenti orientati per altro alla sperimentazione di nuovi modelli di pensiero, sono stati condannati ed etichettati semplicemente come folli, devianti e diabolici. Ne La storia della follia in età classica (1972) Michel Foucault dà una magnifica e appassionata descrizione della follia, attraverso il tempo, le malattie e l’organizzazione sociale: la follia aveva un significato complesso e ambiguo, certamente fuori dai limiti della malattia mentale, anche se in parte la comprendeva, e significava proprietà umane fuori dal contesto, proprietà di libertà e creatività. Consumo di sostanze stupefacenti Tra gli artisti il desiderio di affidarsi all’azione di sostanze eccitanti per aumentare la propria creatività è un fatto che si ritrova comunemente, sia in tempi antichi sia nei nostri tempi. Su questo argomento esiste una copiosa letteratura. In particolare è noto per l’eleganza della trattazione il breve saggio di Aldous Huxley, The doors of Perception, in cui l’autore descrive l’esperienza da lui vissuta quando, nel 1953, si sottopose a un esperimento sugli effetti di una sostanza stupefacente, la mescalina. Egli assunse volontariamente questa sostanza e descrisse nel libro le sensazioni che aveva provato. Moltissimi artisti hanno composto e strutturato le loro opere sotto effetto di una qualche droga. Una delle alterazioni psicotrope più famose nel mondo dell’arte è quella dell’assenzio, distillato della Artemisia absinthium. Il distillato, oltre ad avere una gradazione alcolica molto alta, contiene una serie di olii essenziali che ne defiscono il suo gradiente di tossicità: la sostanza più dannosa che contiene si chiama tujone, un terpene che può provocare allucinazioni visive e attacchi epilettici. → In definitiva si può dire che molte opere d’arte risentono molto degli stati psichici, delle patologie e più in generale dell’estrosità degli artisti che le hanno realizzate. La follia (termine che qui assume un carattere generale, sganciato dalla patologia clinica) può essere considerata come un input, come la volontà di considerare la realtà in altro modo, la ricerca di una nuova percezione delle idee e delle cose che può sfociare in comportamenti coattivi e autodistruttivi (come la dipendenza da sostanze). Nel quadro La nave dei folli di Bosch (1489) si erge l’albero della sapienza, l’albero di un altro modo di conoscere, che si piega alla tempesta, sopra la testa dei poveri naufraghi, i folli. Arte, fotografia, cinema e televisione Guardare un quadro Quando ci troviamo davanti a un quadro, potremmo dire che , più che guardarlo, lo esploriamo. La nostra attenzione infatti si sporta più o meno inconsapevolmente da un punto del dipinto a un’altro, poi a un altro ancora, e così via. → Questi spostamenti dell’attenzione guidano i movimenti dei nostri occhi, così che dapprima sostiamo con lo sguardo sul punto del quadro che ci interessa (pausa di fissazione) e poi li muoviamo rapidamente per portare lo sguardo sul nuovo centro di attenzione e così via. Le pause di fissazione hanno durata variabile, a seconda di quanto è attratta la nostra attenzione dal punto osservato; i movimenti dello sguardo indotti dallo spostamento dell’attenzione (movimenti saccadici) hanno ampiezza variabile, e quindi durata variabile, ma sono in ogni caso molto veloci. Durante l’osservazione di una figura più complessa, e di un’opera d’arte, lo sguardo si posa spontaneamente sulle zone di maggior interesse. In un volto, i tratti più significativi sono i lineamenti (occhi, naso, bocca) e questi attraggono più frequentemente lo sguardo che non le guance o la fronte. In questo caso, le tracce dei movimenti oculari quasi ridisegnano i contorni della figura. La sequenza dei movimenti oculari può cambiare notevolmente davanti a scene più complesse, a seconda dell’interesse mostrato nei confronti di diverse componenti della figura. Nell’osservazione del quadro Un visitatore inatteso di Il’ja Repin (un pittore russo vissuto tra il 1844 e il 1930), il soggetto veniva invitato a concentrare la sua attenzione per qualche minuto su un aspetto particolare del dipinto, su cui successivamente avrebbe potuto riferire. Si trattava per esempio dei mobili, o dei vestiti dei personaggi, o della loro età. Le zone del quadro su cui lo sguardo si fissava con maggiore frequenza erano quelle inerenti alle istruzioni. → Talvolta i pittori introducono voltamente nel quadro dei particolari che servono ad attrarre l’attenzione senza che l’osservatore se ne renda conto. → Ci possiamo domandare perché uno spostamento dell’attenzione induce uno spostamento dello sguardo. Ciò avviene perché normalmente vogliamo vedere con la massima nitidezza ciò che in quel momento ci interessa: poiché la nostra capacità di distinguere i particolari fini degli oggetti è massima nella piccola regione centrale della retina, la fovea, gli occhi vengono ruotati in modo che l’immagine del centro di interesse si formi nella fovea di ciascun occhio. Il resto del quadro osservato rimane in quel momento meno chiaramente percepibile, poiché la sua immagine si forma sulla retina periferica: qui la visione è più povera li, più indistinta. Dipingere il movimento Il movimento è una qualità primaria della percezione, non è riconducibile a sensazioni più elementari. Mentre fisicamente il moto è uno spazio percorso in un certo tempo, percettivamente il movimento non è riconducibile alla percezione di spazi e tempi. Vi sono infatti nel sistema visivo vi nervose specializzate per il movimento. Già nell’aria visiva primaria vi sono dei neuroni che rispondono preferenzialmente ad oggetti che si muovono in una direzione, ma non nella direzione opposta. Inoltre vi sono aree cerebrali specificatamente dedicate al movimento. Se per cause patologiche si verifica una lesione di queste aree, la visione del movimento viene compromessa, pur rimanendo normale la visione delle forme, dei colori, ecc … oltrepassarono questi spunti rappresentando aspetti del movimento di maggiore agitazione. Era una ribellione contro la staticità delle forme classiche e una esaltazione della macchina come espressione della nuova civiltà tecnologica. Alla cronofotografia è chiaramente ispirato il Dinamismo di un cane al guinzaglio di Giacomo Balla, del 1912. Nel bronzo Forme uniche di continuità nello spazio (1913) Umberto Boccioni esprime la forma dinamica di un uomo che corre. In Francia, il più noto seguace del Futurismo fu Marcel Duchamp, che pure si ispirò in alcune sue opere alle cornofotografie di Marey (Nu descendant un escalier, 1912). Ancora, pensiamo all’opera di Paul Klee intitolata Il folle in trance, del 1927. Cinema e televisione: l’apparenza del movimento Quando si riuscì a immobilizzare le immagini fotografiche di forme in movimento ed a riproiettarle in sequenza, le fotografie si animarono e sembrarono muoversi come nella realtà: era nato il cinema. Rapida successione di immagini→ impressione di movimento Questa impressione nasce da alcune proprietà del nostro cervello. Il nostro sistema visivo, come ha dei limiti nella risoluzione spaziale, così ha dei limiti nella risoluzione temporale. Se una luce viene lampeggiata due volte consecutive con un intervallo di tempo abbastanza lungo, i due lampi di luce ci appaiono come due eventi successivi. Se però l’intervallo di tempo tra i due lampi si accorcia, non riusciamo più a vederli come eventi separati nel tempo, ma ci appaiono come un unico lampo luminoso; al di sotto di un certo intervallo di tempo avviene un’integrazione temporale dei due lampi di luce. Questo tempo di integrazione è dell’ordine di alcune decine di millisecondi, ma varia notevolmente al variare dell’intensità degli stimoli e della loro posizione nel campo visivo. Se le luci sono ripetitive, con una frequenza di ripetizione costante, per frequenze relativamente basse possono dar luogo a un apparente alternarsi di luce e buio o ad una luce sfarfallante. Aumentando la frequenza di alternanza lo sfarfallio diminuisce fino a cessare del tutto e dar luogo, a partire da una certa frequenza critica, a una sensazione di luce apparentemente continua. La frequenza critica di fusione cresce con l’intensità dello stimolo. Un fenomeno percettivo fondamentale per la comprensione del cinematografo è il cosiddetto movimento apparente. IL MOVIMENTO APPARENTE Se due punti luminosi a una piccola distanza tra di loro vengono presentati alternativamente a breve intervallo di tempo l’uno dall’altro, non si vedono i due punti apparire alternativamente, bensì di vede un unico punto che si muove dalla posizione occupata dal primo punto a quella del secondo e viceversa. Questo movimento apparente è un’illusione inevitabile e si verifica anche con oggetti estesi, linee, figure geometriche, ecc… L’illusione avviene anche quando i due punti sono così vicini che l’occhio non è capace di distinguerli se essi vengono presentati simultaneamente. Questo prova che il fenomeno riguarda processi di puro movimento senza coinvolgere direttamente la percezione della posizione spaziale. Sul fenomeno percettivo del movimento apparente si basano insegne pubblicitarie luminose ma è anche alla base della percezione del movimento nel cinema (sullo schermo vengono proiettate delle immagini in rapidissima successione, ovvero 24 al secondo: in ciascuna di queste immagini le figure sono leggermente spostate rispetto all’immagine precedente). Il movimento apparente è un fenomeno che si sottrae a un controllo dell’attenzione ed è indipendente dal fatto che il soggetto sia a conoscenza del reale succedersi di singole immagini leggermente diverse tra di loro→ si può dire che il fenomeno si verifica in modo automatico, e non è sotto controllo di centri corticali superiori. Gombrich, beholder’s share: ha a che fare con la partecipazione dello spettatore e di quanto questa sia importante nell’osservazione di un quadro. → In una sala cinematografica questa partecipazione diviene quasi inevitabile per lo spettatore: egli è catturato dalla sequenza degli eventi e trasportato nella vicenda che fluisce sullo schermo. Da questo punto di vista l’esperienza televisiva è meno totalizzante, poiché l’ambiente è meno favorevole alla concentrazione e possono essere presenti altri stimoli sonori o visivi di un certo rilievo. Il regista a scuola dal pittore Il cinema narra vicende, eventi e li fa vivere togliendo loro, almeno fino ad un certo punto, il fluire del tempo. Anche i pittori più antichi si erano proposti lo scopo di narrare gli eventi per supplire il libro e la parola, per narrare ad esempio la storia di Cristo. Una vera e propria arte protocinematica è quella dei pittori del Quattrocento e del Cinquecento olandese, come Van Eyck, Vermeer (La donna che versa il latte, 1658-70) e Rembrandt. Le principali caratteristiche di questo tipo di pittura sono in sintesi il soggetto della rappresentazione e il gioco della luce e delle ombre. → il soggetto nei quadri di questi pittori è la realtà familiare e quotidiana, priva di riferimenti religiosi e filosofici. Il pittore narra un momento della vita, e l’osservatore è subito invitato ad immaginare che quel momento è preceduto e seguito da altri momenti di quotidianità. Nell’arte protocinematica l’osservatore è invitato, così come nel cinema, a partecipare alla vicenda; la sua risposta al quadro in termini estetici ed emozionali è diretta e non mediata dalla conoscenza dello stile di quel periodo e di quel particolare artista, come invece avviene nella pittura del Rinascimento italiano. I soggetti di questi quadri non sono re o déi, ma uomini comuni, come l’osservatore. → Nell’arte protocinematica, come nel cinema, un fascio di luce inquadra il personaggio in primo piano oppure quello sul quale si vuole attirare l’attenzione. Ciò corrisponde, nel racconto scritto, a dare la parola al personaggio protagonista. Il gioco della luce è la seconda caratteristica di questo tipo di pittura. Il tentativo dell’artista è di dare l’impressione che la luce sia nel quadro, anziché provenire dall’esterno ed essere semplicemente riflessa dal quadro. I sentieri della memoria visiva Il cervello è un organo dinamico, che subisce cambiamenti oltre che con il tempo anche con l’uso che se ne fa. L’apprendimento e il ricordare implicano un cambiamento del cervello che può essere di tipo funzionale o strutturale; la cosiddetta memoria a lungo termine, quella cioè che può durare anche per mesi e anni, richiede sempre delle variazioni della struttura cerebrale. → Apprendimento e memoria rientrano dunque nel grande capitolo della plasticità del sistema nervoso, cioè della proprietà che questo organo ha di variare funzione e struttura dei propri circuiti nervosi sotto l’influenza di stimoli esterni o anche interni. Esistono numerose forme di memoria, e ognuna di esse ha sede in particolari strutture cerebrali, corticali o sottocorticali. Wilder Penfield grazie a dgli esperimenti compiuti tra il 1940 e il 1950, si accorse che la stimolazione elettrica del lobo temporale del cervello produceva quello che chiamò experential response cioè un armonico ricordo che poteva comprendere immagini visive, parole ma anche odori e altre sensazioni legate a fatti avvenuti nel passato. L’interpretazione scientifica di questi risultati fu che la stimolazione elettrica risuscitava dal magazzino della memoria avvenimenti lì depositati. Una interpretazione suggestiva che oggi è stata in parte rivista, perché i risultati si aprono anche ad altre ipotesi interpretative. MEMORIA A BREVE TERMINE E MEMORIA A LUNGO TERMINE La memoria viene normalmente suddivisa in una memoria a breve termine e in una a lungo termine. La prima porta a variazioni funzionali del cervello che sono di regola transitorie, la seconda, come accennato sopra, a variazioni strutturali, prodotte dall’accensione di geni e quindi dalla produzione di nuove proteine. SUDDIVISIONE DELLA MEMORIA A LUNGO TERMINE Una suddivisione a lungo termine, basata invece sul contenuto del ricordo, è quella tra memoria esplicita (conscia) e memoria implicita (inconscia). → il primo tipo di memoria implica la coscienza e riguarda tutte quelle esperienze della vita che possono essere espresse esplicitamente (per esempio in un racconto). Si tratta di una memoria cognitiva che si basa su un codice astratto collegato al nostro metodo principe di comunicare, cioè il linguaggio. La memoria esplicita appare tardivamente nell’evoluzione, probabilmente a partire dai mammiferi superiori e che anche nello sviluppo ontologico ha nel bambino uno sviluppo relativamente tardivo. È la memoria per antonomasia e riguarda i fatti e gli eventi della vita. Il suo mantenimento dipende dallo stato fisiologico della corteccia, nella quale questa memoria risiede, ed è comunque relativamente labile. È la prima a sentire l’invecchiamento e in particolare della patologia spesso associata ad esso (è severamente compromessa nel morbo di Alzheimer). → La memoria implicita non è conscia e riguarda principalmente i movimenti per fare, per agire e non è collegata a concetti astratti. È una memoria di servizio che guida il comportamento, il come fare una determinata azione. È questa la memoria delle abitudini, delle routine principalmente motorie e percettive ed è richiamata inconsciamente. È la forma di memoria più antica che compare precocemente nell’evoluzione ed è presente fin dagli organismi più primitivi. Nello sviluppo del bambino è già presente nel feto.
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