Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Arte in Europa in Età medievale, Sbobinature di Storia dell'arte medievale

Il documento tratta gli spazi del sacro nell’ Italia medievale, vengono approfonditi svariati edifici religiosi dal punto di vista architettonico e liturgico. In seguito vengono analizzate le croci trionfali europee e fatti dei parallelismi con quelle italiane.

Tipologia: Sbobinature

2022/2023

Caricato il 28/04/2023

vanessa-guerrini
vanessa-guerrini 🇮🇹

4.9

(14)

7 documenti

1 / 62

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Arte in Europa in Età medievale e più Sbobinature in PDF di Storia dell'arte medievale solo su Docsity! Arte in Europa in età medievale 31/01 Il tema delle grandi croci apre al problema della loro collocazione all’interno delle chiese medievali e di come le opere d’arte devono essere inserite in uno spazio che non esiste più e che si è trasformato nel corso dei secoli. Parleremo del rapporto tra la cattedrale di Canterbury e l’Italia, che riguarda spazi, personaggi, attraverso fonti giunte fino a noi o completamente perdute. Nell’immaginario comune il medioevo è un periodo buio, ma è una storia falsa quella che abbiamo in mente, perché in realtà è stato un periodo molto ricco di scoperte e sfarzoso. Il medioevo, inoltre, è un periodo lunghissimo, tant’è che l’idea di medioevo come periodo della caccia alle streghe e della peste nera si avvicina più che altro solo al periodo del basso medioevo. La chiesa del medioevo porta con sé un’idea di spazio completamente diverso. Le chiese che noi oggi vediamo possono avere al massimo i lineamenti architettonici medievali, ma tendenzialmente sono state tutte rifoderate da dipinti barocchi. Comprendere le opere di Giotto, per esempio, significa avere anche un punto di vista di uno spazio che è uno spazio completamente diverso rispetto allo spazio che ci è stato tramandato fino ad oggi. Anche le istituzioni ecclesiastiche sono istituzioni che si trasformano nei secoli. Così come la liturgia non è unitaria, è diversa da luogo a luogo nel medioevo. Noi sappiamo poco di questa liturgia che cambia costantemente, complice il Concilio Vaticano II. Questo perché i liturgisti sono stati invitati a studiare la liturgia delle origini, quella che il Concilio voleva tramandare, ovvero quella della chiesa di oggi. Si è quindi creata una lacuna sulla liturgia medievale, che è rimasta poco studiata fino ad oggi. Ci sono anche sempre meno liturgisti. Questo è un problema per gli storici dell’arte. Ancora oggi la liturgia è costantemente in mutazione, perché ci sono piccoli cambi da un papa all’altro. Ma avveniva soprattutto in epoca medievale. Per quanto riguarda la geografia degli ordini religiosi, bisogna tenere a mente che anche questi possono avere nature completamente diverse. I frati monaci sono religiosi, ma sono di natura diversa rispetto ai francescani. L’ordine dei francescani nasce nel XIII secolo, in un secolo che vede la nascita dei cosiddetti ordini mendicanti. Sia i francescani che i domenicani sono ordini mendicanti, chiamati così perché mendicano, cioè si aprono alla società, si aprono all’orto laicalis, a un mondo nuovo. Gli ordini mendicanti si contrappongono ai monaci, perché vogliono vivere una vita cenobitica, isolati nei grandi monasteri, che non a caso sono sempre extra moenia. Se quindi i monasteri dei monaci si trovano sempre al di fuori delle mura cittadine, i mendicanti si inurbano, si fanno donare dalle chiese, litigano con il vescovo. Un esempio interessante è quello di Santo Stefano a Limoges, che è andato distrutto. In questo monastero Santo Stefano inizia a fare dei miracoli e i pellegrini andavano a visitare la tomba, posta ai piedi dell’altare maggiore. Se la tomba si trovava ai piedi dell’altare maggiore vuol dire che ci troviamo in pieno santuario, la zona dei consacrati dove tendenzialmente i laici non sono abilitati ad avvicinarsi. Si affastellano in questa zona però personaggi di ogni natura che chiedono un miracolo al santo. Il priore, arrabbiatissimo, riunisce i confratelli intorno alla tomba e iniziano a parlare con il santo, il loro predecessore. Si rivolgono al santo dicendogli che non hanno bisogno dei suoi miracoli per credere e che tutta quella gente non la vogliono, perché vogliono essere solitari secondo la regola. Lo minacciano di tirare fuori le ossa dalla tomba e di gettarle nel fiume. Jacobsen apre il saggio con questo episodio. Questo ci fa capire che piuttosto di avere tutti quei pellegrini attorno, il priore preferirebbe buttare le ossa del santo nel fiume. È un’idea straordinaria, che sia vera o falsa, che ci dà un’idea di un bivio. A un certo punto tutta la chiesa come istituzione e come spazio si trova da una parte la volontà di rimanere isolati e dall’altra le chiese che sulle reliquie, e quindi sul pellegrinaggio, fondano il proprio prestigio. I monaci vogliono stare isolati, vogliono una vita contemplativa. Ci sono poi però dei monasteri memoriali che conservano reliquie da venerare e che hanno uno spazio uniformato a questa loro doppia natura. Si pensi a Cluny, benedettina, ma c’è un rito perenne, ci sono più di 300 monaci e un via vai continuo di pellegrini. Jacobsen afferma che Cluny vende l’anima al diavolo. Quando analizziamo le opere dobbiamo considerare anche questo ragionamento. Le opere costruiscono uno spazio e lo spazio si sostanzia attraverso questo doppio punto di vista. Da una parte abbiamo i monaci, che vogliono una vita isolata e rifuggono il contatto con i laici. Paradossalmente, proprio perché nel caso dei monasteri non è previsto l’incontro con i laici, non hanno nemmeno barriere che possano impedire loro l’accesso. Dall’altra i mendicanti che si fondano proprio perché vogliono un rapporto con i laici. I mendicanti entrano in città, sono pellegrini loro stessi, si spostano continuamente. Sono proprio i francescani che fanno nascere il breviario, perché si spostano da una casa all’altra e si devono portare dietro qualcosa di piccolo, ma con tutto il prontuario necessario alla liturgia delle ore. Sono proprio loro che hanno dato un incentivo importante alla costituzione del rito romano del breviario, che si costruirà in tempi molto lunghi. Sono una grande novità i mendicanti, si affacciano come tale e creano anche disordine. Subito la chiesa deve andare ai ripari e accettare le regole di san Francesco, perché era più gestibile all’interno della chiesa che all’esterno. Il papa, quindi, impone il chiericato a tutti i frati francescani, cioè tutti devono diventare preti, così sottostanno alla diocesi e dunque al vescovo e diventano essi stessi preti nel territorio in cui sono presenti. Sono aspetti legati alla storia degli ordini, ma che aiutano a comprendere la storia delle opere. Vediamo l’immagine della tomba di San Sebastiano a Roma, molto simile a quella che c’era a Bologna a San Domenico. La tomba del santo è su colonne e attorno sono rappresentati tutti questi personaggi che si accalcano attorno alla tomba del santo. Quest’immagine è chiarificatrice anche dell’idea di spazio e dei grandi pellegrinaggi europei. Anche Canterbury è sede di grandi pellegrinaggi. In un dipinto come questo c’è il paradigma di come lo spazio debba tenere conto del pellegrino, del chierico, di come gli oggetti hanno una funzione ben precisa. La forma diventa funzione. Vediamo una miniatura dei Corali di san Giacomo Maggiore. La miniatura rappresenta un vescovo inginocchiato davanti a un altare con un trittico. È quindi un altare tutto allestito. Si capisce che c’è una partizione, vediamo dei limiti lignei. Il vescovo sta benedicendo e un accolito tiene dietro di lui una cassettina. È un atto di consacrazione. Il vescovo sta consacrando l’edificio terminato. Questo apre al problema degli spazi, delle suppellettili e di come viene allestito. I trittici oggi noi li vediamo decontestualizzati nei musei, stavano sull’altare. Anche questo corale viene posto sul badalone all’interno del coro o su strutture apposite. Al di là di un timido scorcio dell’altare l’immagine è impalcata in verticale, non c’è un costrutto prospettico. Nei volti c’è naturalismo, ogni volto è diverso, sembra quasi che il vescovo abbia qualche carattere di Fisserai per il popolo un limite tutto attorno, dicendo: “Guardatevi dal salire sul monte e dal toccarne le falde. Chiunque toccherà il monte sarà messo a morte”. (19:12) Segue poi: Mosè disse al Signore: "Il popolo non può salire al monte Sinai, perché tu stesso ci hai avvertito dicendo: "Delimita il monte e dichiaralo sacro" (19:23) Ecco questi limiti. Questi passi si fanno spazio reale in questo periodo cronologico preciso. Siamo tra l’XI e il XII secolo, qui nasce quella che Andrea da Strumi chiama “res nova”. Si tratta di un muro che doveva circondare il coro dei canonici riformati. Nel mezzo di questo muro c’era un ostium, cioè una porta d’ingresso al coro. Era un tramezzo, quello che Piva chiama “coro murato”. Per coro si intendono le sedute in legno che oggi vediamo spesso dietro l’altare. Si tratta delle sedute per la comunità che officia, quindi per monaci, frati o chierici e canonici, ed erano le sedute dove stavano per le “ore liturgiche”, ovvero per la scansione della giornata cantando le ore liturgiche. È un luogo che dopo il Concilio di Trento tende ad essere posto nell’abside, dietro l’altare. Nel medioevo però la chiesa era diversa e il coro stava in navata, non si chiudevano dietro l’altare. L’altare stava nel santuario, non c’era il coro. Vedremo che nella liturgia romana le cose sono diverse, come sono diverse nella Basilica d’Assisi essendo una basilica papale. Per Assisi dobbiamo considerare anche la grande croce perduta di Giunta Pisano che influenzava lo spazio della basilica superiore. Il coro era un basso coro a queste date. Quando il coro è in abside parliamo di “alto coro”, quando è in navata, a diverse altezze, è “basso coro”. Quando il basso coro viene distrutto le sedute vengono solitamente spostate in zona absidale. L’inizio di questo smantellamento del basso coro si tende a considerarlo in occasione del Concilio di Trento, ma di fatto inizia prima. Il Concilio di Trento rappresenta comunque una grande frattura per la Chiesa, perché sancisce la chiesa moderna, quella che porta all’idea di spazio e di istituzione ecclesiastica per come la vediamo oggi. Lo spazio post-Concilio è uno spazio che non è più medievale, ma è uno spazio completamente aperto, che si apre a un’idea moderna di chiesa. Non a caso abbiamo fonti che parlano di chierici che litigano con il vescovo che imponeva l’abbattimento di questi muri che li dividevano dai laici grazie alla struttura del coro. Non era solo un abbattimento dei muri fisici, è stato proprio un cambiamento destabilizzante. Il Concilio di Trento ha avuto un effetto incredibilmente destabilizzante sugli spazi liturgici. Dalla lettura di questi tipi di passi tratti dalle sacre scritture, non solo dell’Esodo, nasce una teorizzazione della liturgia oppositiva. Parliamo quindi di Dio che vuole che si tenga diviso, che ci sia un divieto. Vediamo il Trittico dei Sette Sacramenti di Rogier van der Weyden del 1445 e il ruolo prominente del crocifisso in medio ecclesiae. È soprattutto un ruolo trionfale. Quando si parla di croce trionfale non vuol dire che è tale per la sua grandezza, ma per la sua funzione liturgica. Durando è molto chiaro: non è la dimensione che la rende trionfale, ma il suo carattere liturgico. È un oggetto strettamente legato alla liturgia eucaristica. Eric Palazzo afferma che “l’essenziale agli occhi dei contemporanei era che l’immagine di fosse là presente al momento dello svolgersi della liturgia. Le immagini fanno parte del rituale, allo stesso titolo dei testi sacri, del luogo di celebrazione, delle vesti e degli oggetti liturgici”. Questa frase dà il senso profondo di come l’oggetto vada inserito in un contesto che è molto complesso, che parte e presuppone una capacità di lettura dell’oggetto in sé per arrivare alla capacità di far dialogare l’oggetto con lo spazio. La liturgia va capita quando guardiamo le immagini, perché sono diverse e cambiano nel tempo. Le liturgie sono tante, esistono anche liturgie locali che continuavano ad esistere anche se Roma voleva uniformare. Oggi possiamo dire che la liturgia è uguale per tutti, ma una volta i riti erano radicati nelle usanze locali, che plasmano anche gli oggetti. Il fatto che l’immagine fosse là sta a indicare che non è vero che l’immagine era la bibbia dei poveri. Anche questa idea nasce con la Controriforma. Non è vero che le immagini sono la Bibbia dei poveri, perché non c’era la capacità per leggere le opere. Spesso erano persone che non sapevano né leggere né scrivere, quindi non sanno leggere nemmeno i tutula in latino. Non a caso in alcune chiese francesi ci sono, nel deambulatorio, la parte legata al passaggio del popolo in volgare francese, e la parte del coro in latino. Le immagini servivano a dare un contesto spaziale e liturgico. La croce è chiaro che si comprendeva, era il simbolo basilare, ma questi rimandi non venivano fatti agli occhi del popolo, ma agli eroditorum oculus. Nel 1997 si è tenuto il convegno “Arte e liturgia nel Medioevo”. Adesso c’è una forte attenzione alla liturgia e agli spazi, ma negli anni ’90 erano studi che venivano più dall’estero, soprattutto da parte di studiosi tedeschi. Si era messo in evidenza come nessuno a quelle date studiasse la liturgia medievale, perché tutti i liturgisti erano legati a quella che il concilio vaticano premeva per studiare, perché era quella la base per la liturgia attuale. Vediamo un foglio dalla Cronaca di Giovanni da Brera in cui è interessante la presentazione degli spazi. Questa è la congregazione degli Umiliati. Vediamo un gruppo che si è convenuto, gli Umiliati, davanti all’altare con il loro leggio e le loro sedute. C’è poi un altro ambiente attiguo con delle monache. Ancora una volta gli spazi si gerarchizzano anche in base al genere. Uomini e donne sono separati. Ci sono però anche grandi comunità, soprattutto tra XI e XII secolo, doppie, che vivono in totale comunità, ma con ambienti ecclesiastici separati. Come nel caso della Congregazione degli Umiliati di Milano che vediamo qui. La suddivisione degli spazi è un elemento che caratterizza lo spazio sacro di questi anni. Vediamo la Messa di Sant’Egidio, dove è raffigurato il celebrante di fronte a un altare maggiore di Saint-Denis. L’altare è sontuosamente decorato ed è presente anche un dossale, grande pannello dorato, che in realtà è un antependium. Anche l’orientamento dello spazio non è scontato. Si pensa sempre che le chiese abbiano sempre un orientamento verso est, ovvero dove sorge il sole. A est, quindi, dovrebbe essere rivolta l’abside. In realtà è un falso mito anche questo. Nel basso medioevo si iniziano a fondare chiese con tutti gli orientamenti possibili, anche in base agli spazi che si hanno a disposizione. A un certo punto, però, l’abside la rivolgono possibilmente ad est. Questo perché c’è l’idea che il sacerdote debba essere rivolto ad est. In realtà questo orientamento nasce da una continua frizione con l’orientamento di stampo romano, che è l’esatto opposto. L’orientamento romano è occidentale, ovvero con l’abside rivolta ad ovest. L’abside è posta ad occidente perché era fondamentale poter guardare costantemente l’oriente e anche le chiese paleocristiane hanno quasi tutte l’abside a occidente, così come San Pietro in Vaticano. Braun afferma che è dove sorge il sole che si trova il Paradiso, il luogo dove ha avuto inizio la storia dell’umanità e in cui ogni essere spera un giorno di tornare, lì è apparso Dio all’inizio dei tempi e lì apparirà alla fine. Queste parole fanno capire la centralità dell’est. L’abside esposto ad est è una semplificazione. Vediamo la sistemazione di san Pietro voluta da Gregorio Magno intorno al 600. Questa è la sistemazione di un’abside rivolta ad ovest e guarda costantemente l’est. Abbiamo questa enorme struttura sopraelevata, il santuario, che si trova sopra la cripta con le reliquie dell’apostolo. Quella non è altro che una finestrella da cui si può guardare e vedere la parte memoriale. Vediamo l’entrata alla cripta lateralmente. In questo orientamento ovest-est c’è la cattedra del papa e vediamo l’altare al di sotto del ciborio. Per quanto riguarda l’altare maggiori si scontrano due punti di vista: gli italiani pensano che il Polittico Stefaneschi sia stato fatto per l’altare maggiore, mentre i tedeschi, gli olandesi e gli anglosassoni pensano che sia per il coro dei canonici. Anche nel Canone del messale che si trova a Francoforte il sacerdote è posto coram popolo, guarda costantemente il popolo, quindi la chiesa è rivolta a occidente e il sacerdote guarda a oriente. Nella Messa di Sant’Egidio, invece, il sacerdote dà le spalle al popolo e ha un dossale. È chiaro che nel caso in cui il sacerdote guarda al popolo sull’altare non si deve mettere nulla. L’orientamento è importantissimo per i liturgisti e per gli storici dell’arte. Gli oggetti che stanno sopra all’altare fanno riferimento a orientamenti liturgici specifici. L’edificio romano per eccellenza, san Pietro, è un edificio ovest-est, quindi con una liturgia plasmata per guardare costantemente il popolo. Questo pone qualche problema, perché in Europa spesso gli edifici non sono occidentati, ma assumono comunque una liturgia di stampo romano, quindi gli edifici si devono in qualche modo adeguare e riorganizzare dal punto di vista dello spazio per andare incontro a questo sistema liturgico prevedeva un orientamento ovest-est. L’orientamento architettonico e l’orientamento liturgico tendono a non coincidere. Quando si ha un edificio orientato verso occidente e si assume la liturgia romana (sacerdote rivolto ad est), è chiaro che certe cose non tornano, quindi bisogna adeguarsi. stazionaria anche già all’interno dell’edificio, viene posto a latere. Il gruppo dei canonici, di cui Stefanischi faceva parte, si riuniva in questo coro per le celebrazioni quotidiane, poiché l’altare maggiore viene utilizzato solo per le solennità. Il polittico viene quindi posto nell’altare del coro laterale. Doveva essere opistografo quindi perché era posto sull’altare del coro, quindi era visibile anche a chi percorreva dall’esterno la parte cintata. Serena Romano pensa che il polittico sia troppo sontuoso per essere posto di lato. La mobilità delle opere fa sollevare costantemente la pellicola pittorica, lo spostamento è sempre un trauma per le opere. non ci sono sollevamenti che ci possono far capire che il dipinto è stato costantemente mosso. Il problema del polittico stefaneschi è quello dell’orientamento liturgico, il problema della presenza o meno di un’opera dell’altare è determinata dalla coincidenza dell’orientamento architettonico con quello liturgico. Questo allineamento tende a indebolirsi molto presto. La liturgia a un certo punto rincorre l’assetto architettonico e si deve riallineare. Nel momento in cui l’abside è a est si trovano accorgimenti per riadattare la liturgia di stampo romano. Il vescovo Crodegano di Metz ha canonizzato i canonici regolari. Il fenomeno cistercense sta a valle di una riforma consumata tra il X e XI secolo. Ancora prima del 1235 le regole dei canonici sono diverse, ovvero quelle dei preti che vivono in comunità. Crodegano impone un capitolo nella sua cattedrale, dopo che era andato a roma per studiare il canto gregoriano. Rimane affascinato dalla liturgia romana, la importa a Metz, nella sua cattedrale. Nella sua cattedrale però si ritrova una liturgia romana, che include il canto gregoriano, quindi schola cantorum (= coro in navata), ma con andamento architettonico che non coincide con quello romano. È lui che aiuta a diffondere il rito romano in Europa, perché è poi lui che nella sua cattedrale impone una tripaartizione tipica del modello romano, cioè di una navata, un coro che è schola e di un santuario. Sappiamo dagli scavi che la cattedra era posta in abside, anche se l’abside è orientata ad est. Questo comporta per lui una serie di limature alla propria liturgia perché l’orientamento architettonico è diverso da quello romano. Il suo sacramentario, il sacramentario di Drogone che si trova a Parigi, è importante anche per le placchette che rivestono la coperta, perché lì si trovano gli indizi dell’aggiustamento liturgico che Drogone fa per riuscire a naturalizzare il rito romano a Metz. Vediamo Drogone con i suoi accoliti. Nella cattedrale non c’è un muro divisorio, ma alla romana una pergola con delle colonne e dei velaria. Durante il gloria Drogone è voltato sicuramente verso est, perché il gloria è un elemento nella liturgia fondamentale, e dunque era importante essere rivolto ad est. Si capisce che è rivolto ad est perché si vede la sua cattedra. Lui deve voltarsi e dal le spalle ai presenti e mettersi tra l’altare e guardare l’abside (cfr. tra la cattedra e il muro dell’abside/altare). Lo vediamo anche durante il canone della messa. Questa liturgia oppositiva comporta un frazionamento dello spazio, sia che sia una cesura forte o no, come la pergola o un vero e proprio tramezzo, un muro divisorio. Si arriva anche a un frazionamento basso dello spazio liturgico, che determinano una sorta di geroglifico in pianta di una moltiplicazione di altari. La fonazione di tanti altari va giustificata, sono commissioni private, sono altari per messe private o dei monaci stessi. La commissione degli altari non sempre coincide con una commissione privata nel basso medioevo. La pianta di san Gallo presenta absidi contrapposte e una selva di altari dove vediamo le colonne che sono costantemente chiuse da cancelli o muretti che creano situazioni in cui non si può andare, ma si piò vedere. È una situazione più vicina a quella tardo antica dove non c’era la necessità di oscurare fino in fondo. Vediamo la trascrizione moderna con tutte le titolazioni degli altari dove è presente l’altare della croce, posto nella parte più occidentale dell’edificio. Rispetto a tutto il resto sta quasi al centro geometrico dell’edificio, perché è l’altare del popolo, dove anche la comunità monastica è riluttante al rapporto con i laici, ma tende nei casi in cui necessario ad accettare un incontro. Lo sappiamo da tante consuetudini, ovvero le regole di vita. Abbiamo il caso delle reti monastiche, ovvero una il fatto che la casa madre pone continuamente monasteri nella propria regione o in tutto il continente. Cluny ammanta con le proprie abazie tutta l’Europa. Questa dipendenza che fa capo alle reti monastiche (Cluny luce del mondo) riguarda il ruolo di Cluny nella sua capacità di tenere insieme tutte le affiliazioni in Europa. I priori locali vogliono essere autonomi, non vogliono essere eletti dal priore cluniacense, quindi presto iniziano i contrasti per l’autonomia. La rete monastica diventa il modello per riuscire a interpretare anche la filiazione di tipo artistico e architettonico. Polirone vecchia si plasma su Cluny II e Cluny III. Le reti monastiche teorizzate dagli storici agivano anche sui modelli. (recupera) È all’interno di uno spazio frazionato come è esemplificato dalla pianta di San Gallo che noi abbiamo la possibilità di conoscere un certo tipo di gerarchizzazione degli spazi. Un altro esempio è quello di Centula con l’instituzio Angilberto Abbatis. Quest’ultima ha absidi contrapposte, tipiche di questi secoli. Nei primi secoli non abbiamo solo un coro, ma possiamo avere coro e contro coro, uno serve per attività solenni e un altro è feriale. Esistono anche le cattedrali doppie, una per le festività maggiori e una per le consuetudini quotidiane. Sono andate tutte in dismissione, ma era tipico del basso medioevo. L’esempio bolognese è quello di san Vittore, una canonica a regime doppio, ha anche la propria canonica in San Giovanni in Monte. A date alte pregregoriane le fondazioni sono private, il che significa che l’abazia può essere privata, di un ricco che decide di mettere la comunità monastica lì. Significa assoggettare a sé quell’abbazia, ovvero intervenire nell’elezione del priore. Le reti monastiche verranno indebolite da questa cosa. La riforma gregoriana abolisce le fondazioni private. Anche Cluny risentirà di questo. Polirone è una fondazione per nomina di Matilde in persona, San Giovanni in Monte era una fondazione privata, dei Clarissimi. La regola comunitaria vieta la proprietà privata. I regolari sono esito della riforma gregoriana. A Centula vediamo uno spazio frazionato. Nella zona occidentale c’è un altare della croce che ha anche un coro. Le due polarità sono possibili già in secoli molto alti. La chiesa di san eginardo presenta ancora nei muri perimetrali delle rimanenti di quello che era un muro divisorio, un setto che divide. Siamo all’interno di una chiesa abbaziale, ma qui è presente un setto molto alto che divide il santuario dalla zona della navata. Si crea una doppia possibilità se consideraimo anche san Gallo. A date molto alte, significa che questi tipi di elementi divisori nascono subito anche in ambito carolingio. È una teorizzazione degli spazi nuova per questi secolo (res nova), esito di un clero riformato. I canonici sono dei veri e propri preti e hanno una necessità pastorale che li spinge a confrontarsi con i laici. (recupera) Teorizzazioni delle decretali, in particolare il terzo libro delle decretali, ovvero de vita et honestate clericorum, è il punto fermo della chiesa nei confronti di come deve vivere onestamente un clerico. Si riporta un passo del concilio di Tur del 597, dove si afferma che i lairic non possono stare nei pressi dell’altare mente si celebrano i sacri misteri. Il concilio di Tur dice che uomini e donne possono andare all’altare per la comunione. È il rito gallicano che prevedeva che uomini e donne potessero avvicinarsi all’altare per la comunione. Nella copertina vediamo che la categoria dei laici è completamente separata. C’è ancora questa teorizzazione dei decretarium di Gregorio IX che ha valore di legge. La chiesa si è espressa a riguardo sulla base di emanazioni fatte nei secoli precedenti. I laici sono bloccati da una sorta di pontile. Non possono accedere perché nel liber tertius si dice che devono essere separati da un cancello. (recupera) Le decretali dicono che nel sancta sanctorum possono andarci uomini e donne, e ce lo dice già il concilio di Tur. Gli storici erano convinti che l’altare maggiore fosse sempre inaccessibile, soprattutto per le donne. Si spiegano quindi quelle che per noi erano delle contraddizioni nelle miniature. In realtà uomini e donne potevano accedere all’altare maggiore in alcune occasioni. Vediamo l’esempio di Halbestadt e di Havelberg per quanto riguarda le croce trionfali. (boh) Queste strutture mancano in Italia un po’ perché sono state smantellate con il concilio di Trento e in parte perché in ogni caso non sono mai state così monumentali. Noi abbiamo una grande tradizione di croci erratiche, fuori contesto, ma sono molto piccole, non fanno pensare a una tale monumentalità. Una grande peculiarità italiana rispetto al resto d’Europa sono le grandi croci dipinte. (recupera) 3/02 Vediamo il crocifisso di Chioggia, una croce che in origine non andava probabilmente in processione. Non solo gli edifici e l’arredo liturgico si trasforma, ma gli stessi oggetti d’arte vivono vite diverse nel corso del tempo. Ad un certo punto in età contemporanea questo crocifisso viene portato in processione Durando era stato rettore di Romagna, aveva insegnato anche a Bologna, un uomo di grande cultura, un compilatore che nel suo trattato mette varie informazioni ed è importantissimo per comprendere il medioevo. Era un testo molto consultato già in età medievale. Della croce trionfare afferma che si trova nella parte mediana della chiesa. È trionfale nel suo ruolo liturgico, non perché è grande. È necessariamente grande, a non per questo è trionfale. Le grandi croci trionfali, che hanno un ruolo liturgico strategico, invece, hanno anche un ruolo geometrico nell’edificio. Questa centralità entra in sottordine molto rapidamente, perché la croce rimbalza in ogni dove nel luogo liturgico. Sono le croci che vengono dislocate nelle cappelle laterali e negli altari in media ecclesiae. Nell’età carolingia in mezza alla chiesa, comunque, c’è l’altare della croce trionfale. Il ruolo liturgico è importante e la troviamo anche a margine delle bibbie. Vediamo questa croce che sembra posta su una trave nella miniatura della Bible Moraliseé. È il nesso simbolico tra la croce nella sua fisicità e la serietà dell’altare maggiore dove si consuma il rito eucaristico. Lanfranco da Pavia ha un grosso ruolo in questo e si divide tra Italia e Inghilterra. Abbiamo anche l’esempio del giudizio universale del salterio di Winchester, dove un’enorme croce è posta sull’altare. Le croci sono croci gemmate, incrostazione di ori e pietre preziose. A titolo esemplificativo di questa tipologia di croce, che magari è piccola, ma è comunque trionfale abbiamo le grandi croci d’oro delle badesse. Abbiamo la croce dell abadessa beatrice seconda, di teofano e un’altra di matilde. Fanno tutte parte del tesoro di Essen, ora cattedrale, ma una volta abbazia benedettina. Sono croci che non stavano sull’altare, ma avevano un fusto ed erano croci processionali. Ci sono diverse tecniche Vediamo un crocifisso in avorio di Bamberga, alta 83 cm. Per essere in avorio è grande. C’è tutta una letteratura tedesca che spiega che aveva un ruolo trionfale. Per l’altezza non si direbbe che aveva un ruolo trionfale. Questa croce va considerata all’interno di una chiesa con un’abside contrapposta. Siamo di fronte a un edificio con fuochi liturgici bipolare, con due absidi e coro e controcoro. Questa croce è il soggetto di tantissime consuetudini legate all’edificio a Bamberga. Le fonti ci narrano che la croce aveva un ruolo strategico per la settimana santa e negli ultimi giorni in particolare. La croce era oggetto di una processione interna all’edificio. Veniva posta, sembrarebbe di capire, in un luogo non visibile durante il resto dell’anno. In una fonte del 1516 si afferma che la croce eburnea si trovava in un arco nella medianità della navata. Ci si è chiesti se la croce avesse assunto un ruolo trionfale nel XVI secolo. In età moderna sembra finire su un arco che adesso non c’è più. È improbabile che avesso ruolo di croce trionfale, dato che aveva un ruolo pasquale. La Baungartel (?) ipotizza che stesse sull’arco durante l’anno liturgico e poi venisse spostata durante la pasqua. Altri affermano che una volta posta su un arco lapideo aveva concluso la sua funzione attiva nella liturgia pasquale. Il XVI secolo magari ha segnato un cambio funzionale. Nella parte del letner (pontile) occidentale abbiamo del 1237 delle fonti interessanti, perché ci dicono che c’è una candela davanti alla croce di legno posta in trave. È chiaro che la croce eburnea convive con un’altra croce. È una moltiplicazione di croci, ce ne possono essere più di una. Una fonte ci dice che l’arcivescovo di York, che fece innalzare un pulpito sopra il quale viene issata una croce di manifattura tedesca. Siamo in Inghilterra, eppure la manifattura è tedesca. Queste croci probabilmente hanno in germania il loro punto fermo, è un centro di produzione. Anche questo crocifisso sta su un arco. Il pulpito è un altro termine che indica il tramezzo o il pontile. Il pulpito è la parte per il tutto, può essere innestato nel pontile. Spesso se si legge “pulpito” spesso è presente anche il pontile o il tramezzo. Parla di un pulpito che è anche un arco e su cui c’è una grande croce in lamina. Doveva essere un’anima di legno rivestita di metallo, gemmata, con un cristo trionfante con la corona. Sono opere tipicamente tedesche. In questa fonte siamo nell’XI secolo questo tipo di croce è tipicamente un’opera teutonica. Lanfranco da pavia con i suoi decreta sta alla base delle consuetudini di cattedrale ed erano (?). questo è un edificio che lanfranco ricostruisce a partire dal 1070, dopo che un incendio l’aveva distrutto. Attraverso i decreta lanfrancii riusciamo a ricostruire gran parte delle funzioni liturgiche dell’edificio, come l’altare matitudinalis. Dalla cronaca di gervasio sappiamo che sopra il pulpito c’era una trave trasversale alla chiesa, sopra la quale c’è una grande croce che aveva anche due cherubini, l’immagine di santa maria e san gioanni apostolo. questo gruppo che gervasio ci descrive dice che è invenzione di lanfranco da pavia. Questa trave non esiste più, ma ha un riflesso in un altro edificio inglese, Westminster Abbey, grande sepolcreto reale. Vediamo in un disegno una trave con la croce, i dolenti e due cherubini a Westminster. È un’immagine di metà del XVI secolo. Vediamo che questa immagine, che è successiva cronologicamente, sembra esattamente quello che descrive gervasio per canterbury. È interessante vedere cosa succede tra canterbury e sant’agostino. Lanfranco per cantebury e il grande arcivescovo stigand per sant’agostino. I due sono in competizione. Attraverso queste committenze comunicavano il proprio potere. Sant’agostino era un grande edificio, che aveva goduto di grande fortuna. Nell’anno 1064 avviene la donazione da parte dell’arcivescovo stigand. Si parla di un grande croce tutta coperta d’argento e posta nella nave sopra il pulpito. Era l’esito della longa manus del potentissimo arcivescovo sull’abbazia. Anche questa è “al modo teutonico”. È un gusto carolingio/ottoniano che si protrae anche nel XVI secolo. A queste date si è già diffusa la croce dipinta. Stigand era stato anche il grande factotum della vedova di racanuto I di danimarca, aveva retto la cattedra di winchester e la regina emma, moglie di racanuto, gli aveva donato un enorme gruppo. Ci dice che la trave era tutta rivestita di oro e di argento, non solo la croce. Lui arriva a sant’agostino con alle spalle l’esempio della regina emma. La trave in sant’agostino stava con ogni probabilità in una zona alta della navata centrale. Lanfranco fa uno scatto più moderno. Lanfranco propone una croce lignea, più povera. 7/02 La cattedrale di Canterbury, come tutte le cattedrali inglesi, è retta dall’ordine dei benedettini. Sant’Agostino, sempre a Canterbury, è molto vicina. La croce eburnea della cattedrale di Bamberga non ha avuto probabilmente sin da subito una funzione trionfale. Si parla di un arco lapideo con la croce. Lo studio delle fonti porta a un tipo di rapporto comparativo che può aiutarci a capire. Abbiamo poi parlato della grande trave di Canterbury. La pianta, grazie agli studi di Klukas, si riesce a ridisegnare nella struttura posteriore al 1070, quindi ricostruita da Lanfranco dopo l’incendio. Noi ci rifacciamo ai Decreta Lanfranci che ci descrivono gli orpelli liturgici all’interno dell’edificio, ma anche alla Cronaca di Gervasio, un monaco della cattedrale che scrive nel XIII secolo e che fa riferimento a una documentazione perduta. Gervasio attribuisce a Lanfranco questa enorme trave in media ecclesiae e che aveva i dolenti e due enormi cherubini. Vediamo a confronto il dettaglio di Westminster. Johan Islip muore nel 1532. È una Westminster molto rimaneggiata. Vediamo la cappella funeraria di Islip, abate e vescovo, amante dei rebus di cui dissemina tutta la sua cappella. Vediamo il disegno delle esequie dell’abate di Westminster. Vediamo il grande catafalco con degli enormi candelabri. Al di sotto si trovava la salma del vescovo. Stava di fronte al tramezzo di Westminster, che ha una struttura praticabile. Aveva anche la grande trave con il Cristo, i dolenti e i cherubini. Questo ci fa capire visivamente cosa c’era anche a Canterbury. C’era quindi una tradizione che da Canterbury arriva a Westminster. Si chiama “the funeral of middle ages”, perchè da lì a poco la furia distruttiva di Enrico VIII si sarebbe imbattuta sull’Inghilterra distruggendo tutte queste suppellettili ancora fortemente medievali. Si capisce che è un gruppo ligneo. In qualche modo soppianta l’importanza delle croci di età ottoniana e carolingia, cioè le grandi croci in lamina. Noi sappiamo, perché è stato scavato, dove poter porre la trave di Lanfranco a Canterbury. La parte presbiteriale era mastodontica, tant’è che lo si chiamerà “il glorioso coro”. Il coro è enorme, noi non abbiamo dimensioni di questo tipo in Italia. I due edifici si raffrontano. Da una parte c’è la spinta di Lanfranco di dare dignità alla cattedrale inglese perché già Stigand continuava a dare un ruolo fortissimo alla primazia dell’abbazia di Sant’Agostino. Non parliamo di Agostino di Ippona, non parliamo degli agostiniani (nascono nel XIII secolo), ma parliamo di Agostino di Canterbury. Siamo intorno al VI secolo e ha in qualche modo evangelizzato parte dell’Inghilterra e le sue reliquie risiedevano nell’edificio, tant’è che veniamo anche a sapere che l’abate traslerà in una nuova struttura queste reliquie. Le reliquie vengono traslate perché il popolo le possa venerare più facilmente. Sono tutti elementi connessi alla grande trave e alla grande croce lignea. Nel 1064 Stigand dona una croce che non è lignea come quella di Lanfranco, ma è ancora tutta in lamina. Lo sappiamo dalla Chronica di Thorne. Fa riferimento a una tradizione di origine teutonica, tedesca. Tant’è che si dice “more theutonica”, al modo tedesco. Già per l’epoca è tipico dell’area tedesca. Stigand è il grande personaggio che fa da corollario alla grande scena dell’arazzo di Bayeux del XI secolo, di oltre 60 metri. Ci si è sempre chiesti dove fosse collocato, ma con ogni probabilità si trovava nelle pareti della navata dell’abbazia di Sant’Agostino. Ci sono anche molte altre ipotesi. Stigand, essendo un uomo colto, ma anche in antagonismo con Lanfranco, guarda alle grandi donazioni di cui lui stesso era stato oggetto. La Regina Emma, vedova del re di Danimarca, aveva donato una croce tutta in argento e oro, persino la trave era totalmente rivestita, e l’aveva donata proprio a Stingand. È chiaro che poi lui ha questi prototipi in mente quando deve donare una croce lui stesso. Se si vanno a vedere le cronache, la cattedrale di Ely aveva un enorme tramezzo e anche qui Stigand dona una grande croce con i dolenti, in oro e argento. È quindi una geografia sistematica di un arcivescovo potente che segna tutti gli edifici di pertinenza dell’Inghilterra cristiana. Vediamo la ricostruzione della pianta dell’abazia di sant’Agostino. In base agli scavi sappiamo dove stava il coro e quindi la grande trave di Stigand. Vediamo le mappe a confronto. I due edifici avevano delle somiglianze, ma soprattutto si presentavano con l’enorme gruppo ligneo da una parte e dall’altra il gruppo di Stigand con la croce in lamina. Quando è una croce su lamina, vuol dire che è una lamina metallica su un’anima di legno. Per quanto costosissima in lamina, è comunque meno costosa di una in oro massiccio. In Italia si impone la croce dipinta anche per un aspetto economico oltre che per tradizione di bottega. Si capisce quindi che Stigand è più ricco di Lanfranco di Pavia. I due edifici si fronteggiano e i due personaggi si rispondono con questi allestimenti. Lanfranco avrebbe vinto su lungo termine, perché si sarebbe imposta la croce lignea dipinta in tutta Europa, e in sottordine sarebbe andata la costosa croce in lamina. Abbiamo prima il gruppo di Lanfranco dell’XI secolo, poi dalle fonti abbiamo il gruppo di Saint Bertin del XII secolo, poi quello di Westminster del XIII secolo, poi quello di Halberstadt del XIII secolo. Tutti questi sono caratterizzati dai cherubini che affiancano i dolenti. Anche a Roskilde, in Danimarca, è rimasto un gruppo ligneo sulla trave fino a fine ‘800, poi venduto e di cui è rimasta solo la testa del Cristo. Capiamo che c’è una traiettoria cronologica che mette insieme un inizio e un eventuale proseguo, ma dove, prima del gruppo di Canterbury, non abbiamo notizie. Alcuni studi dicono che l’invenzione avvenga poco a Canterbury, ma non si può dire nulla per certezza. Abbiamo citato la differenza tra la trave e la pergula. La trave è un’enorme trave che va da pilastro a pilastro ed è molto grande, è retta da dei supporti. Sappiamo anche che a un certo punto a Vercelli si mette una grande trave di metallo per reggere la grande croce. La pergula, come abbiamo visto nell’ambito della grande struttura di Gregorio Magno di San Pietro, è più piccola se non si considera l’ambito romano. Le pergule sono di dimensioni più ridotte e non vanno mai da pilastro a pilastro. Si tratta di architravi sorrette da più colonne. È l’idea della pergula costantiniano del Laterano che arriva in san Pietro. Quello che vedremo nel cuore di Montecassino, però, lo vediamo anche a Canterbury. alcuni studiosi, di pensare a Lanfranco come l’iniziatore della grande tradizione delle grandi croci trionfali. In realtà è collegato al grande mistero eucaristico. Lanfranco inizia a combattere con Berengario la grande disputa sull’Eucarestia. Berengario non pensava che nell’ostia ci fosse il corpo di Cristo, mentre la posizione di Lanfranco vincerà al consiglio lateranense del 1059. Niccolo II aderisce alle teorie di Lanfranco. Nel frattempo, però, papa Leone IX era molto indispettito da queste diatribe su questioni sul valore eucaristico della liturgia. Molti pensano che non sia un caso che queste grandi croci vengano innalzate proprio in questo momento. Infatti abbiamo un Cristo crocifisso ortogonale sull’ambiente dell’altare dove avviene il rito eucaristico. Sta di fatto che Leone IX nel 1050 convoca un sinodo, uno dei tanti prima del concilio lateranense, a Vercelli. Convoca Berengario e Lanfranco e li vuole in disputa diretta. Berengario non si presenta e manderà molte lettere. Partecipa però Lanfranco, che era al seguito di papa Leone IX. Nell’occasione ha sicuramente aver visto la grande croce della cattedrale di Sant’Eusebio, ottoniana, del vescovo Leone. Questa grande croce è stata oggetto di vilipendio intorno agli anni ’80 del ‘900. È una grande croce in lamina, vista da Lanfranco ancor prima che diventasse arcivescovo di Canterbury. Quindi conosceva le grandi croci in lamina ancora prima della scelta di Stigand. C’è stata una volontà quindi di non aderire a questa tradizione e di aderire a un gruppo molto diverso, quello dei gruppi dipinti con i dolenti e i cherubini. Non sappiamo dove possa aver visto prima questo sistema, tant’è che alcuni sostengono che se lo sia inventato lui per primo. La croce si presenta sospesa perché noi sappiamo che la croce si trovava sulla trave, che aveva opposta a se stessa un’altra per le luminarie coram majori crucifisso. È un cristo trionfante, ha la corona. Leone è colui che avvia il rifacimento della cattedrale dopo il grande incendio del 997. Leone rimane vescovo fino al 1026 e questa croce doveva essere posta sull’altare, in una situazione analoga a quella che abbiamo visto in Inghilterra. Siamo di fronte a un’opera che le fonti inglesi definirebbero “opera teutonica”. In realtà è probabile che il centro di produzione sia Pavia. Si è sempre citato anche il legame con Bernward di Hildesheim, parte della corte di Ottone III, e che sicuramente era stato a Vercelli. Lui opta per una croce su colonna, dove era presente la croce fino al 1544, distrutta durante i tumulti della riforma. Vediamo due possibili varianti in un disegno e in un avorio. Questo rapporto con Hildesheim di Leone poteva avergli aperto gli occhi per questa specifica scelta della croce in lamina. Più che Berward probabilmente in realtà ha inciso di più la croce di Benna su Leone. Se si guarda alla biografia di Leone appare un dato illuminante, perché l’anno precedente lo scoppio dell’incendio, nel 996, Leone è registrato come episcopus palacii e collaboratore di Ottone III a Magonza, dove si trovava la croce di Benna. La fonte che ci tramanda la mitica croce di Benna è il Liber de calamitate ecclesiae Maguntinae, che si trova nel Monumenta Germaniae Historica, volume 25. Nel Liber calamitate si apprende di questa croce più grande del naturale tutta in oro massiccio. Questa croce in oro massiccio era completamente piena di reliquie di santi. Era tutta concava, vuota, e anche il ventre del Cristo era piena di reliquie. Non c’era niente di paragonabile in tutto l’impero, era un unicum. Questa enorme croce veniva posta sulla trave alla presenza dei re, dei principi e del pontefice durante le feste di Pasqua e del Natale e i momenti liturgici salienti. Capiamo che non è sempre in trave questa croce. Anche questa è una croce che sta in un luogo eminente della chiesa, con ogni probabilità o in media ecclesiae o nell’arco trionfale. Era un Christus triumphans, le pupille sono spalancate e aveva queste due pietre rosse che scintillano nelle tenebre durante la notte grazie alle candele. Quando Leone si trova a Magonza, lui può vedere la croce di Benna, perché veniva issata quando c’era l’imperatore. Lui era proprio vescovi palacii e stava seguendo Ottone III. È molto probabile che Leone avesse visto questa croce. All’indomani in cui lui tornerà Vercelli, quando dovrà rimettere in piedi la cattedrale, segue la tradizione carolingia e ottoniana delle grandi croci trionfanti sulla morte. Leone da Vercelli molto probabilmente si ricorda dell’impressione che deve aver avuto di fronte alla croce di Benna. Questa croce è piena sia di reliquie che di pietre preziose. La croce di Vercelli sembra molto ricca, ma in confronto è una croce povera. Anche le pietre che ci sono sulla corona della croce di Vercelli in realtà non sono preziose. La croce di Benna la allestivano e disallestivano perché era tutta smontabile. È anche per quello che non l’abbiamo più. Iniziano a vendere i pezzi e poi con le guerre viene trafugata. Era una macchina ingegneristica. Tutte le croci, compresa quella di Stigand, non erano nulla in confronto a questa vera opera teutonica, completamente smontabile e con un ventre pieno di reliquie, compresa la vera croce, e di pietre preziose. Vediamo il dettaglio degli occhi della croce di Vercelli. Vediamo qui il riflesso delle pietre del crocifisso di Benna che si vedono anche nella notte. Ripropone questi occhi con la pupilla azzurra e l’iride rossa. Quelle di Vercelli sono semplici paste vitree, mentre a Magonza venivano utilizzate pietre preziose. Quelle della corona sono pietre, ma non di particolare valore. Non ha quindi nulla a che vedere con Bernward di Hildesheim, qui c’è dietro il prototipo della croce di Benna. Le pietre hanno taglio cabochon, ovvero piatte sotto ed estroflesse fuori. La croce di Vercelli tra il 1982 e il 1983 è oggetto di un’operazione di distruzione totale. Vediamo la ricomposizione dell’anima in coccio pesto e legno. Vediamo il nuovo supporto in vetro resina che sostituisce il coccio pesto. Si era intervenuto perché nel ’39 era stato eseguito un calco che aiuta la ricomposizione del crocifisso. Questa struttura non era più autoportante, perché mancavano i pezzi. Nel 1984 dei malintenzionati hanno distrutto la croce perché volevano rubarne alcune parti. Hanno divelto le lamine e hanno staccato la testa. Capiamo comunque da queste immagini che la lamina viene collocata su una parte di supporto, mentre la croce di Benna è in oro massiccio. Si sono trovati anche dei pezzi di tessuti che probabilmente tenevano all’interno delle reliquie. Foderare il corpo di cristo di reliquie era un’idea che proveniva sempre dal crocifisso di Vercelli. Hanno trovato anche un tessuto che doveva essere parte di una tovaglia d’altare antico, e anche dei tessuti con dei frammenti di ossa. 10/02 Le decretali di Gregorio IX della metà del ‘200 ci dicono che durante la funzione liturgica i laici non potevano accedere. È probabile che durante le grandi celebrazioni eucaristiche i cancelli del deambulatorio fossero chiusi. Da Compostela sappiamo che cancelli venivano chiusi a determinati orari e anche a Canterbury. Il tramezzo è una struttura osmotica, ma sembra che dal ‘200 in poi fosse inaccessibile in questi momenti. Non sembra comunque esserci una regola vera e propria, probabilmente dipendeva dall’ambito locale. Le decretali dicono che uomini e donne potevano fare la comunione all’altare, ma questo è un grande lascito della liturgia gallicana. Non sappiamo quindi esattamente dove avvenisse la comunione e come venissero usate queste partizioni. Le decretali di Gregorio dicono che al di là del tramezzo uomini e donne potevano andare a pregare. Tant’è che nell’immagini di Parma abbiamo visto uomini e donne che pregavano. Le decretali dimostrano che c’è una certa elasticità. Le decretali sono lettere del papa che hanno valore di legge su quel determinato elemento. Si parla di divisione durante le funzioni, non dopo. Sembra che durante le funzioni non si possa accedere nemmeno se esisteva il deambulatorio. Le decretali dicono chiaramente che il sancta sanctorum è accessibile sia a donne che uomini. Noi abbiamo documenti che dicono che la donna può accedere solo il giorno del patrono. Sono consuetudini locali. vediamo in un’immagine una donna che fa elemosina all’altare maggiore, quindi è chiaro che in determinati casi l’accesso era possibile. Vediamo la grande croce di Casale Monferrato che oggi si trova nella cattedrale di sant’Evasio. La croce di Vercelli segue la tradizione carolingia ottoniana. L’oreficeria si fa mastodontica e diventa monumentale. Segue una tradizione delle grandi croci liturgiche. Un croce simile, forse anche più ricca di quella di Vercelli era la grande Croce di Stigand, che dissemina l’Inghilterra di croci. Quelle croci non ci sono più, ma la croce di Vercelli ci dà l’idea di queste croci di metalli che venivano messe su queste grandi travi, more teutonico. Nel caso di Vercelli l’officina è pavese però. Lanfranco usa il legno, Stigand si rifà alla tradizione carolingia. La croce di Casal Monferrato non ha un semplice riempimento. Nel caso di Vercelli l’orafo sbalza un Cristo che deve già avere tutte le sue forme, il riempimento è importante per questa lamina che è già stata sbalzata e l’appoggia su un’anima esclusivamente riempitiva. mentre in Casal Monferrato c’è uno scultore che abbozza un cristo ligneo, che è autoportante, ma deve avere finitezza maggiore perché guida lo sbalzo dell’orafo. L’orafo in questo ultimo caso “ricalca” l’anima in legno. Bisogna ricordare che i pittori erano anche orafi. Sono sovrapposizioni di skills. C’era la possibilità che ci fossero artisti con più capacità. Nel caso di Casal Monferrato si apre il problema su chi fa cosa. Queste sono date troppo alte per avere dei documenti. Dalle operazioni comparative e dalle indagini diagnostiche ci si può fare un’idea. Sappiamo che i carpentieri lavoravano nei polittici, ma spesso lavorano su disegno del pittore per la cornice. Non è sempre così ovviamente. C’è comunque un’interazione. Quando un pittore deve dipingere un polittico c’è interazione tra maestranze. In botteghe molto grandi il carpentiere può già essere attivo all’interno. A Canterbury abbiamo la pergula di Anselmo d’Aosta che circoscrive la zona absidale con l’altare, mentre in navata, a sottolineare la zona liminale tra le grandi navate e la zona del coro, la trave della gloria di Lanfranco. Questi due elementi sono presenti anche in Sant’Agostino, che però anticipa sempre Canterbury. Gli anni di Canterbury sono anni un po’ depressi prima dell’arrivo di Lanfranco, perché i vescovi si concentravano su Sant’Agostino, dove si trovavano le reliquie del santo. È Lanfranco che scardina questa usanza. Stigand dona la trave a cui risponde Lanfranco con la propria trave. Arriva poi Wido a Sant’Agostino che trasla le reliquie e in quel momento riqualifica la zona dell’altare maggiore con un’enorme pergula ricca di reliquiari. Fa la stessa cosa Anselmo d’Aosta a Canterbury e avvia un’enorme pergula. Le date che si rincorrono fanno capire questo antagonismo. coordinata al pontile della cattedrale di santo Stefano e san Sisto ad Halberstadt, dove sono presenti i cherubini che fiancheggiano il gruppo dei dolenti. Uno dei primi gruppi con i cherubini in realtà è quello inglese. Non sappiamo se fosse il primo o se Lanfranco se lo sia inventato. In Italia non abbiamo una tradizione di cherubini e non abbiamo fonti a riguardo. L’Inghilterra è ricca di fonti in cui si descrivono questi gruppi. Vediamo come fosse una tradizione radicata. Nella Bibbia di William di Devon, confezionata a Canterbury, il tema della crocifissione è ancora presente con i cherubini. Tra miniatura e arte monumentale questi cherubini fanno capolino in combo con la crocifissione. È un tema legato alla crocifissione in ambito comunque liminare. Un'unica traccia di cherubini in una struttura liminale, ovvero in una pergula o in un tramezzo, lo troviamo a Rosciolo, nella pergula di Santa Maria di Porclaneta. Nella pergula di Rosciolo, il fastigio è ligneo e doveva essere anche policromatico. Ci sono anche qui due cherubini in zona liminare. Forse alla base della presenza dei cherubini in queste strutture di cerniera ci può essere il Cherubicon, un testo che, soprattutto per l’ambito bizantino, rievocava i cherubini nel momento in cui l’imperatore attraversava la zona del santuario. Non sappiamo se c’era qualcosa di analogo a questo testo e se fosse molto conosciuto. Un’altra trave è quella di Albert II di Krummendiek, che però è già del 1477. Abbiamo la croce trionfale e il tramezzo, un vero e proprio pontile perché è praticabile. I due elementi sono coordinate, nonostante la trave sia successiva al pontile. Ad Halbertstadt i due elementi nascono nello stesso momento, mentre qui è il vescovo che decide di segnare questo punto in cui lui si sarebbe fatto seppellire. Si sarebbe fatto seppellire subito al di sotto. Come avviene già in età carolingia, se pensaimo al vesvoco Jero che vuole farsi seppellire sotto alla croce che lui fa costruire in medio ecclesiae. È una tradizione molto alta. Per segnare questa posizione mediale allìinterno della navata di Lubecca, farà costruire un’immensa e colossale trave. Diventa anche il palcoscenico di un vero e proprio teatro animato. In Italia non si arriva a tanto, o per lo meno non abbiamo indizi a riguardo. In verità, molte croci lignee che abbiamo in Italia stavano comunque sulla trave, mentre fino a qualche tempo fa la critica andava più per le cappelle. Anche in Italia queste travi dovevano esistere, ma non così. Tra l’altro siamo già nella seconda metà del ‘400 e la trave ha un revival per la quale diventa uno spettacolo. Vediamo un ritratto del vescovo di Bernt Notke. Hanno visto durante i restauri che dentro le statue della vergine e di san giovanni c’erano dei cartigli con i nomi dell’artista e dei suoi aiutanti. La croce con il cristo risente del naturalismo francese, è molto imponente. Quello che da lontano sembra una croce fogliata, tradizione che troviamo molto anche qui in Italia, in realtà sono una teoria di profeti con i cartigli che costruiscono quindi un disegno iconologico profondo. La passione di cristo in qualche modo è prefigurata e gli esegeti cercano sempre di connettere il vecchio testamento e quello nuovo. Vediamo anche il naturalismo che sfocia nel grottesco della grande croce. C’è del pathos nella vergine. Ci sono delle finiture pittoriche che noi sappiamo, per l’Italia, essere un intervento di pittori che intervengono in un secondo momento. Il vescovo è anche molto alto, quindi questo teatro si impone sul personaggio. C’è anche la Maddalena, vestita in maniera lussuosissimo e un copricapo che ne segna la mondanità- La grande trave di Lubecca, che è coordinata al pontile, che ha delle sovrastrutture. Il pontile è datato ancora nel XIII secolo, ma la sovrastruttura è successiva. Il grande orologio segna le ore liturgiche. Spesso questi orologi c’erano nel coro per segnare le ore, in questo caso dei canonici di cattedrale. Questa grande struttura è un esempio di cosa può fare l’Europa in termini di grandi travi decorate. Cose di questo tipo in Italia non ci sono indizi per pensarle, soprattutto in pieno ‘400. In Italia, anzi, a queste date tendenzialmente si cominciano già a smantellare i pontili. È molto precedente la distruzione dei pontili e dei tramezzi rispetto alle direttive della Controriforma. In Europa, invece, ancora fioriscono. In Europa abbiamo visto solo esempi di grandi croci monumentali, lignee, oppure abbiamo visto le grandi possibilità attraverso lo studio di Canterbury. La croce lignea è una res nuova che Lanfranco impone per ovvie ragioni, perché costava meno rispetto alla tradizione carolingia-ottoniana in lamina. Abbiamo visto l’esempio della croce di Benna in oro massiccio. Poi si impone la tradizione della grande croce dipinta, tipica italiana. Le croci dipinte però sono croci che la letteratura che si è occupata molto del fenomeno della croce le vede come una caratteristica tipicamente italiana. Non ci sono esempi di croci dipinte al di là dell’Europa. Anche gli studiosi tedeschi parlano di croci dipinte con il termine italiano “croci dipinte”. Se noi andiamo in San Domenico a Bologna troviamo la croce di Giunta Pisano che svetta sui 3 metri. Non è una croce piccola. È la croce che doveva stare sul pontile di san Domenico entro l’anno della consacrazione dell’edificio. Eppure è una croce piccola se la confrontiamo con la croce di Giotto a Rimini, che tocca i 5 metri. Ovviamente era prevista anche una cimasa e gli scomparti laterali, quindi doveva essere anche più grande. In un’Europa che non vedeva le croci dipinte, c’era comunque una croce distrutta nel 1945, la croce di Wimpassing, che superava i 7 metri. Non è chiaro dove fosse collocata la croce di Wimpassing, ma ha uno stile molto italiano. È chiaro che l’Italia fa da centro propulsore di certe tipologie di oggetti. Sono quindi meno frequenti nel resto d’Europa le croci dipinte. C’è una fonte benedettina che sottolinea come non si debbano usare croci lignee dipinte, perché sono troppo lussuose. Sembra quasi che la croce dipinta su tavola in questo modo corrisponda a una maggiore austeritas. Eppure la ritroviamo di 7 metri. C’è una contraddizione. Con ogni probabilità la croce di Wimpassing veniva da ambito benedettino. Doveva essere pesantissima e ancora oggi facciamo fatica a ricostruire la sua ubicazione effettiva. Vediamo anche la croce di Schulpforta, opistografa, che doveva forse prevedere dei dolenti sagomati, forse i Wernigerode che stilisticamente si avvicinano. Entrambi gli elementi sono andati distrutti durante la Seconda guerra mondiale. È probabile, a meno che non siano stati sagomati in un secondo momento, ma che siano stati sagomati successivamente per ricoprire la funzione. I grandi esempi italiani sono quelli che vengono esemplificati da Giotto, ovvero il Presepe di Grecio e le Stimmate. Nel Presepe Giotto costruisce un semplice tramezzo di origine canonicale. È un setto murario molto semplice, stretto, su cui si innesta il lettorile e poi la croce imbragata con una struttura. Ci sono diversi modi per ancorare le croci. Poi nelle Stimmate abbiamo la grande trave. Da una parte abbiamo la croce su tramezzo e dall’altra la possibilità di un altare. al di là dell’Europa abbiamo visto una sintassi vera e propria, poiché le travi non sono solo la base per innestare la croce, ma sono palcoscenico per un dialogo tra personaggi. È pensabile che le croci italiane presentassero anche i dolenti che sono andati perduti. In Italia abbiamo una caratteristica tipicamente mendicante che non si trova nel resto d’Europa. In ambito mendicante nasce il sistema triadico. È un sistema che vedremo anche in ambito femminile e prevede la grande croce dipinta senza dolenti. Sono invenzioni completamente diverse che non arrivano in Europa, nonostante esista la rete mendicante. Non abbiamo i dolenti, ma una tavola con la Madonna col bambino e, in questo caso, un arcangelo. Alcuni sostengono che l’arcangelo sia una scultura vera e propria, altri che possa essere un arcangelo sagomato. Questa struttura triadica amplifica le intitolazioni degli altari sottostanti, che sono nella tribuna. L’altare della vergine e l’altare di San Michele sono nella tribuna e si riconnettono a quanto vediamo sull’altare. I francescani usano questa invenzione triadica, ma al posto dell’arcangelo metteranno un vita panem del santo. Sarà di grande fortuna anche per le clarisse, infatti Santa Chiara ha un sistema triadico in cui abbiamo croce, vergine e santa fondatrice. San Francesco vive nell’immagine della croce, ha un legame molto forte ed è alter christus. Mentre Chiara è la plantula francisci che nel dialogo con la vergine è di ispirazione costante dlela vita spirituale della santa. Queste strutture hanno dietro anche una concezione teorica che caratterizza molto l’Italia. Italia ed Europa sono modi diversi di concepire lo spazio del sacro anche se si tratta dello stesso ordine religioso. Abbiamo poi il tramezzo Balken. Vediamo una ricostruzione. Doveva esserci una grande croce perduta di Frate Elia del 1236. La grande croce si trovava nella trave, dove c’è quello che rimane delle mensole che la doveva reggere. Abbiamo molte fonti anche per l’Italia, per il duomo di San Zeno a Pistoia. Qui sicuramrnte non c’era un pontile o un tramezzo, ma c’era una trave. Siamo nel 1469, stesso periodo di Lubecca. A Pistoia abbiamo la trave delle lampanare e si dice già che nel 1469 si levasse. Anche in anticipo rispetto a Lubecca, dove si costruisce la trave nel 1477, a San Zeno viene smantellata. Nel 1471 è scritto che si leva il crocifisso (quello di Salerno) e nel 1484 si toglie la trave. Spesso queste travi avevano altre travi, chiamate delle lampanare, da cui pendevano delle lucerne per tenere illuminati i gruppi. Un altro esempio lo abbiamo nell’affresco con il martirio di san Stanislao nella basilica inferiore di san Francesco, in cui vediamo una trave con la croce sopra. Si è sempre pensato che le croci si innestassero come è raffigurato nel Presepe, ma c’è sempre più al convinzione che di fronte a grandi croci ci troviamo davanti a strutture coordinate, quindi con la croce sulla trave coordinata al pontile. Tramite le fonti abbiamo individuato a Ponte Capriasca, nella chiesa di Sant’Ambrogio, una nicchia in cui troviamo un gruppo con un crocifisso e due dolenti. Si trovano spesso questi gruppi posti in una nicchia ed è vero che molti di questi sono nati per stare nelle nicchie. Questa però è il lascito di un sistema molto più vasto che è andato perduto. Ci dice qualcosa la visita pastorale di Borromeo del 1567. È stata tentata una ricostruzione da soprintendenza. C’era un sistema con l’ecce homo, la flagellazione e la crocifissione, dalla navata fino all’altare maggiore in tre travi differenti. Lo spazio era scandito da questi gruppi aerei. L’idea di allestire anche le altezze era radicata anche in secoli molto precedenti e continuerà. Vediamo la veduta del presbiterio di Milano del 1881, dove c’è un gruppo con i dolenti, e gli angeli. La grande trave che viene smantellata già nel ‘400 in italia, poiché considerato obsoleto. Nella costante distruzione dei pontili voluta dalla Controriforma si ricominciaa riallestire le travi per segnare quel limiti che altrimenti non ci sarebbe più. C’è un revival della trave e dei gruppi al di sopra delle travi. Questo sistema della trave a Ponte Capriasca ci fa capire come anche in Italia una teatralizzazione aerea poteva essere possibile anche in scultura. Fermo restando che in pieno medioevo già i sistemi triadici sono una teatralizzazione. moderna. Il supporto originario non c’è più. A quel punto anche da lì è stato un indizio per chiedersi quale dovesse essere il supporto quattrocentesco. Massaccesi ha ricostruito la collocazione per vie documentarie e attraverso dei disegni in collaborazione con degli architetti. È molto bella la croce di Santa Croce a Forlì, di cui non sappiamo nulla nell’ambito alto medievale. È una croce monumentale che adesso si trova sulla porta della sagrestia. È legata al vescovo Alessandro tra il 1160 e il 1190, quindi a date simili a Bologna. L’ambito di cattedrale in date molto alte, soprattutto nel XII secolo, vede una presenza massiccia di queste croci trionfali anche in Italia. Il crocifisso in Santa Maria del Tiglio a Gravedona è un altro crocifisso monumentale. Sono opere variegate e di natura anche popolare. Vediamo Antico battistero di Gravedona di Luigi Bisi, dove è rappresentato l’inerno dell’edificio e vediamo come doveva essere allestitia la grande croce in modo più legato al nuovo culto. Le grandi croci vengono smantellate, ma il culto è ancora molto forte, quindi non vengono buttate ma poste in cappelle laterali. Ci sono anche croci che vengono allestite e murate all’esterno. Sono sempre croci trionfali. Questa croce si trova a Longford, nell’Oxfordshire, in una parrocchie. La grande croce è murata. Le tipologie sono le più diverse. Noi facciamo spesso riferimento agli interni, ma anche gli esterni le hanno. Le croci hanno un ruolo in base a dove sono incastonate. Ci sono croci che fanno un tutt’uno con i dipinti parietali, come questa in Andorra. Ci sono tantissime possibilità di studio all’interno di questo filone. Basilica di Assisi La Basilica è un edificio occidentato ed è un edificio papale. Nasce sulla tomba del santo, quindi è un edificio di pellegrinaggio, memoriale. La inferiore è dove è sepolto il santo ed è collegata alla memoria del santo. C’è un rapporto diverso tra l’uso delle grandi tombe su colonne. La tomba di Francesco invece ha una grata in cui si stazione sopra, la stessa che verrà fatta anche per Chiara. C’è un rapporto diverso anche nel modo in cui viene allestita la tomba del santo. Vediamo le bolle di Niccolò IV Reducentes ad sedulae in cui afferma che i confratelli possono costruire, decorare e abbellire gli edifici. Questo è un aspetto interessante. Vediamo l’altare maggiore. Vediamo il trono del papa, l’altare e la navata. Il coro non stava in navata, perché è sempre stata in abside. Gli stalli sono quattrocenteschi. Gli affreschi di Cimabue non arrivano fino a terra, quindi tenevano conto degli stalli dei frati. È una sorta di sincrono che c’è anche nella basilica di san pietro. Quella struttura nell’abside maggiore su cui se ne stava la cattedra del papa. Alcuni hanno sostenuto che forse la parte ancora tardoduecentesca doveva presentare anche molti elementi cosmateschi. L’altare è molto alla romana, qui capiamo che c’entra roma e dei papi romani. Alcuni elementi di riuso cosmatesco anche nella inferiore fanno pensare anche a delle strutture smantellate e riutilizzate nella basilica inferiore. Sul transetto sono addossati gli altari, quindi l’officiante guarda a est. C’è una corrispondenza tra gli arredi e gli affreschi. Vediamo il rapporto tra le pitture e la funzione liturgica degli altari addossati. Il sacerdote guarda costantemente verso oriente, perché la chiesa è occidentata. Siamo nella madre chiesa di un ordine religioso, quindi di un ordine di cui il papa deve confermare la regola. La regola francescana è stata accettata molto velocemente perché i francescani hanno un grande consenso popolare e la chiesa si spaventa di tutto ciò che può diventare facilmente eresia. Confermando la regola devono sottostare alla chiesa. Per far sì che questi frati ubbidissero alla chiesa li obbliga a diventare anche dei preti. Per questo l’officiante è un sacerdote, ma è un sacerdote francescano, perché nel frattempo è stato costretto a diventare chierico. Negli ordini religiosi serpeggia ancora oggi questa dissidenza, tant’è che non è detto che i frati siano anche sacerdoti. Il sacerdote di cui parliamo è un francescano che ha i voti per diventare sacerdote. Questi altari, già quando Innocenzo IV consacra nel 1253 la basilica, questa era già in uso con questi tre altari dedicati alla liturgia ordinaria. In principio erano maggiormente al centro del transetto e poi slittano molto più a ridosso della parete opposta. Sono altari di cui noi conosciamo l’intitolazione, ovvero l’altare di Michele, l’altare di Pietro e Paolo quello centrale, e l’altare della Vergine. In realtà già dal 1267 era molto forte anche l’intitolazione alla Vergine per l’altare maggiore, ma alla Vergine è intitolata anche la cappella. Nel medioevo per “cappella” si intende non la cappella rinascimentale, ma un altare che può essere addossato a un muro. Questa è una cappella perché a quel determinato altare è istituita una cappellania. Le visite pastorali sono occasioni in cui si controlla che tutti i benefici siano corrisposti. Nelle visite pastorali si controlla che a livello amministrativo sia tutto corretto. Su un altare di natura privata il privato paga per far dire la messa, il che vuol dire che ci deve essere una tassa costante. Si deve controllare che questo denaro arrivi. Ogni altare aveva un beneficio, che era molto spesso delle rendite. La cappellania non è l’ambiente, ma il beneficio sull’altare. Una cappella è un altare nel medioevo. Poi sempre più la cappella diventa una struttura spaziale che ne trasla il significato. L’altare era sopraelevato e aveva degli elementi in cotto. Vediamo le intitolazioni dell’altare di san Michele. Vediamo l’altare del papa sotto una sorta di struttura che lo ingloba. Ha come esempio molto evidente la cattedrale di Anagni per la presenza dei leoni ed elementi cosmateschi. Siamo di fronte a un’assisi che vede Giotto da una parte, ma anche un allestimento alla romana. Il basamento del trono presenta degli animali. Il Salmo 90 dice “camminerai sul serpente e sul basilisco e calpesterai il leone e il drago”. Il leone non sempre ha una connotazione positiva, ha anche connotazioni negative nella Bibbia. Questa iconografia è posta proprio sullo scalino del papa, il che vuol dire che il papa li pesta con i suoi piedi. Nel trono è adattata la tradizione iconografica del cristo vittorioso che calpesta le creature, per mostrare il papa come vicario di cristo che si comporta allo stesso modo. È un’iconografia assolutamente papale. Questo è il trono del pontefice e ha un richiamo molto forte nell’iconografia, la stessa che troviamo spesso nei troni papali romani. Sono iconografie tardo antiche che vengono rievocate. La chiesa madre di san francesco, soprattutto con niccolò IV, sarà stata una chiesa che entra a far parte completamente con la Chiesa, anche se prima era in polemica. Vediamo san Giovanni in Laterano e il trono con la stessa iconografia. Il trono è stato installato nel 1290 e fa parte del vasto programma di ristrutturazione di Niccolò IV. Le influenze fluirono da Assisi a Roma, piuttosto che il contrario. Il Laterano è stata la prima sede papale ed è caput et mater omnium ecclesiarum, così come san francesco è la madre chiesa dei francescani. Non sono copie identiche, la sintassi, l’idea che sta alla base dell’uno viene ripresa nell’altro. Anche la pianta di san francesco d’assisi ha un forte legame con quella che era la pianta del laternao. È la stessa medesima struttura dell’idea del trono papale in abside. Questi troni erano completamente bloccati e molto romani. Nell’indebolimento dell’orientamento liturgico i troni di qualsiasi tipo tendono a essere mobili proprio perché questo assetto risulta molto complicato. Anche ad assisi, a date basse, l’asse liturgico coincide con quello architettonico, ma abbiamo visto che questa è una coincidenza che tende a disgregarsi perché gli edifici hanno diversi orientamenti. Ad Assisi orientamento architettonico e liturgia coincidono. Si è pensato che ad assisi ci fosse una struttura divisoria, si è anche pensato a un’iconostasi o a una pergula. Non sappiamo se ci fosse stato. In ogni caso viene smantellato molto presto e viene istituito proprio in questa zona l’accesso al pulpito nel pilone occidentale. Che nella stessa zona ci fosse una struttura di cerniera è stato ipotizzato. Vediamo la veduta dell’abside senza gli stalli dopo il terremoto. Il coro era in abside perché si capisce molto bene che Cimabue non dipinge sotto lo zoccolo e quindi sin dall’inizio erano addossati gli stalli. Questa struttura di cori alti viene ripresa dall’ambito francescano. Domenico Indivini negli anni ’90 del ‘400 ricostruisce gli stalli in una forma più elegante e fiorita, aggiungendo anche dei ranghi agli stalli stessi e rendendoli più svettanti. Gli stalli originali erano più bassi. Era stato ipotizzato che ci fossero degli stalli anche nel transetto, ma ci sono gli affreschi di Cimabue, quindi probabilmente non ci sono mai stati. Reducentes ad sedulae è un documento chiave per capire il rinnovamento della Basilica. Si permette con questa bolla di riparare, costruire, modificare, ampliare, arredare e decorare le nostre chiese e i loro conventi. (recupera) nel 1253 Innocanzo IV consacra gli altari della basilica e di decorazione pittorica non c’era quasi nulla. La croce di Giunta Pisano era un grande catalizzatore degli sguardi di chi si trovava in basilica. Viene smontata nel 1622 per essere pulita perché doveva essere montato un grande palco su cui il papa avrebbe fatto una predica. La croce poi passa alla controfacciata. A un certo punto il papa la fa smontare perché viene montato un enorme palco per la predica nella 4° navata. Non viene più rimontata perché era monumentale e aveva bisogno dei cavi tiranti che la reggessero. Gli intacchi della trave nell’omaggio del semplice sono la testimonianza del fatto che la trave esisteva. Lo studio delle giornate fa capire che gli intacchi erano presenti e preesistevano agli affreschi di Giotto. A metà del ‘700 la grande croce in controfacciata cade perché c’erano delle infiltrazioni, la croce si fa in mille pezzi e viene buttata via. Quando nel 1560 Vasari la nomina, attribuisce la croce a Margaritone d’Arezzo, perché Vasari non leggeva quello che c’era scritto. Quando nel 1622 la croce viene smontata si capisce che è una croce nell’iconografia della croce parlante, ovvero la croce che parla in prima persona e dice “Frate elia lo fece fare; Gesù Cristo pietoso abbi pietà di elia orante; Giunta Pisano mi ha dipinto nel 1236”. Vasari non riusciva a leggerla perché era troppo in alto. L’iscrizione viene riportata prima che venisse buttata via la croce. La croce è importante perché ai piedi del Cristo c’è frate elia, che poi verrà sempre sostituito con San Francesco. La croce di Giunta è servita da prototipo per una serie di grandi crocifissi in umbria, toscana e emilia romagna. Noi vediamo la croce di Bologna di Giunta Pisano. Si attribuisce la croce di Giunta Pisano in San Domenico al 1251, anno della consacrazione, quindi in questo anno la croce era issata sul pontile. effettivamente in questa collocazione sin dalle origini. Vediamo a confronto anche il tramezzo balken assisiate nella ricostruzione di Cavalcaselle. Assisi è il modello per questa croce francescana e probabilmente anche per le altre. Una fonte e un documento sono due cose diverse. Un documento è un dato assolutamente oggettivo, come una commissione o un atto notarile, che sono conservati in Archivio di Stato. Una fonte potrebbe essere anche una fonte letteraria che ci dice qualcosa inerente all’argomento, ma non è un dato del tutto oggettivo. Vasari è un’ottima fonte, ma fa comunque tanti errori. Un documento invece è inconfutabile (attenzione, per i secoli alti esistono anche documenti falsi). Anche l’oggetto è un documento, è il primo documento dello storico dell’arte. Alcune fonti ci dicono che Frate Elia era stato anche nella chiesa di San Francesco a Mercatello. Sono le fonti che ce lo dicono, quindi vanno lette cautamente se non considerarle false solo per dare lustro all’edificio. Mercatello è vicino ad Arezzo, siamo nella zona liminare con la provincia santi francisci. Non sorprende che ci fosse in questo edificio un tramezzo balken sin dall’inizio e non un tramezzo in muratura. La mostra recente ci ha permesso di indagare anche la struttura della croce che aveva un enorme problema di tarli. Era totalmente tarlata, quindi è stata disallestita e restaurata. L’aggancio alla trave moderna è del tutto rettilineo, cosa molto innaturale per queste croci. Come vediamo anche dagli affreschi di Giotto, infatti, le croci tendono ad essere sempre inclinate. È molto complicato, proprio perché ci troviamo in situazioni di questo tipo, capire come esattamente erano innestate le croci sulla trave. Con ogni probabilità aveva un effetto inclinato, ma come si posizionasse sulla trave non è semplice da immaginare, anche se vediamo queste strutture che Giotto ci tramanda. Non essendoci pervenuto, non sappiamo fino in fondo come fossero allestite. Sta di fatto che questa struttura è semplicemente appoggiata e poi fissata con del metallo. Non c’è il tentativo di riproduzione dell’aggancio originario. È stato fatto in età moderna e non rispetta la natura dell’oggetto. Vediamo dalle foto della mostra che non siamo in presenza di croci monumentali, non sono croci che stanno tutte per aria e dobbiamo capire di volta in volta come venivano collocate. La croce di Mercatello è stata esposta alla mostra dantesca di Ravenna e poi tra il 1965-6 si trova al Laboratorio di restauro di via della Ninna a Firenze. Ha subito danni nell’alluvione. Si arriva poi al disallestimento recente per il restauro. Quella di Mercatello non è tra le più grandi, ma è una croce abbastanza grande. Nella mostra la croce di Mercatello di Giovanni da Rimini era messa in dialogo con la croce di Talamello, sempre di Giovanni. La scuola riminese, di cui fa parte Giovanni da Rimini, nasce dalla costola di Giotto a Rimini Hanno mostrato anche i retri delle croci. Vediamo i dettagli del perizoma, che richiama fortemente quello di Giotto. Nel retro della croce vediamo i grandi anelli originali con le traverse originali. La struttura è originale eccetto le parti di metallo aggiunte per imbragare questa enorme croce. Le carpenterie sono molto complesse, e questo discorso si può riallacciare al polittico Stefaneschi. Non è così semplice pensare che queste strutture venissero effettivamente disallestite. Il Tempio Malatestiano di Rimini era in origine la Chiesa di San Francesco, per cui effettivamente è stata realizzata la croce di Giotto. È molto evidente come da un punto di vista stilistico questa scuola derivi da Giotto. Non è solo una questione di stile, questa scuola si capisce che deriva da Giotto anche per la struttura della carpenteria. Non solo la sagoma, quindi, ma anche il modo in cui la struttura è allestita. Purtroppo non abbiamo il retro del Crocifisso di Giotto, anche se di Giotto conosciamo altre carpenterie. La Croce di Giotto doveva avere una carpenteria molto simile a questa e possiamo immaginare come fosse quella di Rimini. vedremo anche il retro di un altro pittore in cui il maestro d’ascia, chi costruisce l’impianto, segue una tradizione più antica, a monte delle croci di Giotto. In una croce successiva c’è una struttura molto più semplificata. Ci sono effettivamente dei buchi anche qui, cosa che fa pensare che ci fosse un elemento verticale, ma il pittore lavora su una carpenteria ancora di stampo duecentesco. È una carpenteria più antica. Questo aveva indotto alcuni a ritenere questa croce precedente rispetto a quella di Mercatello, proprio perché c’era l’idea che la carpenteria fosse più vecchia. Probabilmente invece o riutilizza una carpenteria più vecchia o il committente vuole una carpenteria di un certo tipo. In ogni caso è posteriore. Si capisce che c’è anche un’altra logica costruttiva. Siamo di fronte a un carpentiere che utilizza una modalità di assemblaggio della croce che sembra precedente a quella di Giotto. Giotto rivoluziona anche il modo di allestire questi tipi di croci monumentali. Per la mostra è stato fatto uno schema in cui si vedono tutti i pezzi che compongono la croce di Mercatello. Non sono semplicemente due traverse, ma è un dispiego elaborato di elementi strutturali che la compongono. Vediamo una ricostruzione di San Francesco ad Arezzo. L’autore si è posto il problema dell’allestimento della croce. Ha usato il modello di giuntura al tramezzo come fa Giotto. Vediamo qui la croce dal retro. Ha ipotizzato che ci fossero due grandi catene che fa innestare alle travi traverse del soffitto. Possiamo chiederci se ci fosse una trave anche più bassa. Ha ipotizzato quindi la croce inclinata come nell’esempio di Assisi con le grandi catene che la reggono. Q Vediamo la Croce di Talamello. È un pittore che è a valle della Croce di Mercatello. La carpenteria dal fronte sembra molto arcaica, non sembra di risentire la grande croce polilobata di Giotto. Il perché fosse stata scelta a date più basse questo tipo di carpenteria non lo sappiamo. La carpenteria non è arcaica solo nella foggia, ma, confrontata con quell’altra, anche nel modo di costruirla. Ci sono due fratture verticali molto nette, non sono dei sollevamenti. Se andiamo a vedere il retro però non si vedono. Da dietro è un unico pezzo, ma dal fronte sembra che siano due pezzi diversi perché ci sono le cesure. Inoltre, dal retro si vede che gli anelli sono posti in posizioni diverse rispetto alla croce di Mercatello. Addirittura un anello è rialzato. Il tirante era una catena verticale che tendeva a svitare l’anello, quindi aveva subito un allestimento non in linea con la sua struttura originaria. Evidentemente anche questa era una croce inclinata, ma con queste catene era allestita ad una certa altezza. sicuramente non era appesa a un muro. In Mercatello Giovanni da Rimini rievoca la croce di Giotto, mentre in quella di Talamello è in una fase più stanca, in cui si congela di più, si monumentalizza. È uno stile più progredito all’interno di una carpenteria però più antica. Non è da escludere che si sia semplicemente usata una carpenteria vecchia. Nella croce di Mercatello sembra che il suppedaneo ci sia, che non proseguisse tanto di più sotto. In quella di Talamello il suppedaneo c’è. A volte si dice che servisse per inserire per l’allestimento, ma spesso questa zona della croce è dipinta, quindi è improbabile. Giovanni da Rimini ha un forte legame dal punto di vista della carpenteria con la Croce di Rimini di Giotto. Uno dei tabelloni è stato pubblicato da Zeri nel 1957, il Redentore apicale. Di questo Redentore c’è un riflesso nelle miniature di ? da Rimini, datate 1300, soprattutto nell’uso plastico. Il 1300 è l’ante quem per la Croce di Rimini di Giotto. Giotto è nel cortocircuito importante per l’ordine mendicante. Vasari afferma che Giotto è stato chiamato a Rimini dai Malatesta. In realtà sono stati i francescani a chiamare Giotto. Vasari però ci conferma che Giotto lavora a Rimini. Infatti questa croce, ancora nel 1935, quando andrà nella mostra del Trecento riminese, non era ancora attribuita a Giotto, ma al Romagnolo anonimo. Longhi aveva già attribuito a Giotto questa croce. Vasari afferma che sono i Malatesta a chiamare Giotto perché è un pittore che scrive e dipinge in epoca mecenatizia, epoca di grandi signori. Anche in epoca di Giotto ci sono i grandi signori, ma qui siamo in ambito mendicante. Vasari proietta le proprie modalità su Giotto, ma in questo caso è l’ordine francescano che lo chiama. I Malatesta in quel momento sono una famiglia importante, ma non sono i signori di Rimini. All’epoca di Giotto sono un’importante famiglia che aveva assunto San Francesco come sancta sanctorum familiare, dove seppellivano i parenti. Non solo in san Francesco, ma anche in altri luoghi in cui i Malatesta donano. La logica della rete monastica è la stessa che utilizzeranno i mendicanti. Giotto lavora ad Assisi, quindi dopo la famiglia riminese lo chiama a lavorare in San Francesco a Rimini. Sono i francescani che hanno tutti i contatti per chiamare Giotto. Poi possiamo pensare che i Malatesta abbiano lasciato del denaro per questi lavori. I mendicanti accettano i soldi dei privati, i grandi lavori si fanno grazie all’elargizione dei privati. Quella di Vasari è la mentalità di un artista mecenatizio. Da Vasari sappiamo che probabilmente Giotto aveva fatto anche un ciclo di pittura, che però è andato perduro, ma il cui riflesso è la nascita della scuola riminese, che reagisce alle grandi innovazioni di Giotto in città. Alcuni hanno anche pensato che Giovanni da Rimini sia stato uno degli aiutanti sui ponteggi di San Francesco a Rimini, ma non abbiamo prove. Nella croce di Mercatello (?) c’è un’iscrizione che ci dice data 1309 e committente. Questa parte sembrava quasi applicata successivamente. Non è lo stesso elemento, ma è incastonato. Questa struttura potrebbe essere stata applicata in un secondo tempo manomettendo il suppedaneo. C’è il segno di una testa di chiodo, quindi è uno strato sottile di legno che è stata applicata sopra. Il restauratore ha confermato che il chiodo sia originario, perché il pigmento è buono. Non abbiamo altri esempi in cui l’iscrizione è stata messa con una placchetta, ma il chiodo indica che è stato proprio Giovanni da Rimini ad aggiungere la placchetta. Il suppedaneo forse proseguiva ulteriormente, ma non di tanto. La croce di Mercatello ha avuto varie collocazioni. È stata in controfacciata nel 1840. Poi viene riallestito il coro dei frati con delle finte porte con finte tende che fanno accedere al coro. vediamo l’altare maggiore. Nel 1910 viene allestita la croce assieme a tutti questi elementi di altra epoca in maniera assolutamente irreale. Non c’era nessuna cultura di come potessero essere gli allestimenti in età originale. Nel 1840, nella fotografia in cui la vediamo attaccata in controfacciata, sappiamo che prima veniva da una cappella laterale. Addirittura prima era in una legnaia e si pensava di venderla come legna da ardere. Arriviamo infine al riallestimento sulla trave. Ci si chiede quindi se la trave originale riallestita nel 1926 fosse effettivamente così. Altri documenti ci dicono che l’altare di santa Marina, a cui il culto agostiniano era molto legato, si trova presso quello che era l’altare della croce poi si parla di un muro, che dovrebbe essere il muro dove ora si trova la porta che dà sulla via, aperta nel XVI secolo. Abbiamo con certezza l’accesso alla sagrestia, che è tutt’ora lì, ma viene chiamata sagrestia vecchia. La posizione della sagrestia vecchia è al di qua del pontile. La sagrestia è di appannaggio dei consacrati, perché lì si vestono e tengono i libri liturgici. L’apertura è in asse con il coro basso. Il coro poi viene spostato in zona absidale. In realtà il maestro del coro di sant’Agostino è un nome che nasce da una conoscenza relativa degli spazi perché il coro lo si pensava sempre in zona absidale, ma il coro nel ‘300 non stava qua. Lui non ha decorato il coro, ha decorato la tribuna. Si è sempre detto che la cappella sia stata tamponata perché qui insiste il campanile. Questa cosa avviene anche in San Giacomo maggiore. Il pontile doveva avere una ragguardevole altezza e sotto aveva gli altari di cui conosciamo quello della Vergine, quello della Croce e quello di Marina. L’altezza l’ha calcolata perché a destra c’è un pulpito con una porta. Nello spessore della parete c’era un camminamento che portava all’organo moderno. La porta dell’organo era sicuramente la vecchia porta d’entrata al pontile. L’altezza è di 5 metri. Nel 1318 in questo edificio c’è il capitolo degli agostiniani, quindi sicuramente i lavori per questo allestimento sono finiti entro questa data. La raffigurazione con la vergine in trono con il bambino dava sul coro. Gli Agostiniani sono molto legati al culto mariano e il capitolo del 1318 impone a scelta alla fine delle ore liturgiche il magnificat della Vergine. La croce si allinea anche al timpano soprastante che raffigura il Giudizio Finale. Al di sopra dell’arco trionfale c’è un enorme Giudizio Finale, con una teoria degli apostoli. Ovviamente sotto doveva continuare con i reprobi e gli eletti. C’è un angelo che si strappa le vesti a cerniera tra i buoni e chi va con le armi a far indietreggiare i peccatori. Giotto li raffigura nel compianto di Cristo. Questo angelo è perpendicolare alla croce. Evidentemente dialogano. 22/02 Sant’Agostino a Rimini entra in competizione con il cantiere dell’edificio di San Francesco, dove lavora Giotto. L’ante quem è il 1318, anno del primo capitolo degli Agostiniani che si è tenuto a Rimini con il favore della famiglia Malatesta che aveva lasciato dei soldi. Ovviamente non c’è una regia dei Malatesta dietro a questo capitolo, avevano semplicemente lasciato dei soldi. Nel primo chiostro potevano entrare i laici. C’è un secondo chiostro che doveva essere quello inaccessibile, perché non viene mai menzionato come legato alla possibilità di accesso ai laici. Sul pontile si poteva camminare sopra, lo sappiamo grazie al racconto di Clementini della congiura ai danni degli Alidosi. Sappiamo quindi che ci sono 3 altari, quello della Vergine, quello della Croce e quello di Santa Marina. Oggi la struttura è completamente rimaneggiata. Tutt’ora nella cappella 4 vediamo i resti degli affreschi di Giovanni da Rimini sulla vita della Vergine. probabilmente era intitolata alla Vergine. Vediamo però che anche la 3 è intitolata alla Vergine, ma non è raro che ci siano due altari intitolati allo stesso santo. Sappiamo di un altare che è sub pontili e che è molto precoce, ma di questo non abbiamo nessun documento, anche se l’iconografia è totalmente mariana. Quindi è probabile che anche questo fosse un altare della vergine. Sicuramente sappiamo che è presso la porta che porta al primo chiostro e da altri documenti sappiamo che stava sotto il pontile. Abbiamo quindi una cappella che presenta affreschi trecenteschi attribuiti a Giovanni da Rimini. prima del 1318 ipotizziamo 2 campagne di lavoro. La cappella è precoce, eseguita prima del 1303, mentre la tribuna è realizzata da un altro maestro che ha scattivato la dipendenza del primo Giotto assisiate e molti studiosi hanno ipotizzato che quella parte dell’edificio debba essere stata elaborata entro il 1318. La ricostruzione in scala del pontile, alto circa 5 metri, con al di sotto ipotizzati gli archi gotici. Vediamo il timpano con il giudizio universale, il catino con gli affreschi che tutt’ora si vedono e al di qua del pontile un parato murario con delle cappelle e una porta centrale che conduceva nel basso coro dove i consacrati si riunivano per cantare le ore liturgiche. Il coro quindi era basso, non stava in abside. Dopo il concilio di Trento i cori tendono a passare nella parte dell’abside, perché queste strutture vengono abbattute. Erano strutture piene di opere. Era una struttura che aveva ben quattro cappelle sicuramente decorate. Sopra queste strutture campeggia sempre una croce monumentale, quella che tutt’ora si trova nella chiesa a latere. Non tutte le croci stanno sul pontile, la grandezza ci fa capire anche la funzione che ricoprivano. Questa croce svetta oltre i 4 metri. Qui la croce dialoga con gli affreschi che sono dietro di essa e il dialogo avviene grazie allo schiacciamento prospettico. La croce è in asse con la seconda venuta di Cristo, il Cristo in maestà. Vediamo un angelo che si strappa le vesti, tipico dell’iconografia della passione di Cristo. Si trova al culmine del timpano, da spartiacque tra gli angeli che vanno da una parte e quelli che vanno dall’altra nel giudizio universale. Quell’angelo diventa perpendicolare alla croce, sembra dialogare non tanto con i personaggi che ingombrano e affollano il giudizio universale nell’arco trionfale (di solito si trova il giudizio universale in controfacciata) ma con la croce. Le suppellettili come questa croce dialogano con il proprio ambiente. Vediamo quella che pensiamo essere la cappella della Vergine, con le scene legate alla vita della Vergine e della giovinezza di Cristo. La Vergine è il motore del disegno divino. Abbiamo un documento che data gli affreschi ante 1303. È un ante quem dettato da una pergamena in Archivio di Stato, in cui Umizolo di Neri come lascito testamentario dispone per l’altare della Vergine una croce e una maestà con la vergine e il bambino. Sappiamo quindi che nel 1303 una cappella della Beata Vergine c’è. Eppure c’è anche un’altra cappella della Vergine nel pontile, che viene iniziato molto presto. Ci si chiede se questo documento non si riferisca in realtà all’altare del pontile. Vediamo la derivazione giottesca di questi affreschi nella cappella. Nella mostra riminese del 1995 inaugurata da Zeri, Benati, curatore della mostra, ipotizzava che le opere fossero la croce Diotallevi, oggi nel museo di rimini, e il trittico di Giovanni da Rimini al Museo Correr a Venezia. Chi però va in questa cappella nota che è molto piccola, mentre la croce e il trittico sono abbastanza grandi nelle dimensioni. Non è detto che il documento ci stia parlando di opere dipinte o di queste dimensioni. Anche il trittico di Venezia è molto grande. È probabile che la croce fosse una croce di metallo e semplicemente il materiale non viene menzionato nel documento. La ragione per cui Benati ha individuato queste opere per lo stile. Lo stile di Giovanni da Rimini nel crocifisso Diotallevi e del Trittico, coincide con quello degli affreschi della cappella. Il problema però non deve essere visto solo dal punto di vista dello stile. Quando si parla di spazi e restituzioni dello spazio lo stile non basta più, perché l’oggetto deve avere senso dentro un sistema più complesso e articolato. Queste due opere stanno bene nella cappella dal punto di vista stilistico, ma dal punto di vista delle dimensioni non hanno molto senso. È probabile che queste opere non fossero pensate per questa cappella. Nella Cappella Scrovegni si è ipotizzato che sulla trave stesse una croce di Giotto che ha più o meno la stessa dimensione della croce Diotallevi. Ovviamente alla croce Diotallevi manca la base, che tendenzialmente viene tagliata durante il disallestimento. La base, però, doveva essere simile. Abbiamo quindi certezza che le travi fossero anche a latere. Queste croci potevano stare sul tramezzo, ma anche su delle travi coordinate con il pontile stesso e che poteva stare anche sulle cappelle laterali. Troviamo quindi il fronte della cappella alla Vergine. Massaccesi ipotizza che in linea con il marcapiano dei santi, così come avviene alla Scrovegni, ci fosse innestata una trave dove era collocata la croce Diotallevi. Sia nella Scrovegni che in questa cappella le misure coincidono a un’altezza di 3,40 metri. Le croci sono simili e la collocazione coincide. Il crocifisso quindi non era posto sulla mensa dell’altare, ma sulla trave. In navata abbiamo visto che il crocifisso dialoga con l’angelo. Qui sembrerebbe che la croce dialoghi con la lunetta mal conservata che riporta la presentazione al tempio della Vergine. la presentazione al tempio, dal punto di vista iconologico, è il motore del disegno divino, il momento in cui si innesta il grande disegno salvifico. Il primo step del disegno divino coincide quindi con la croce, in cui anche Cristo si abbandona alla bontà di Dio. La croce Diotallevi è in qualche modo incastonata e circondata dai santi cari all’ordine agostiniano. Questa carpenteria era stata sempre vista come una carpenteria di una croce un po’ sgraziata. Ha i bracci un po’ larghi, ma collocata nella cappella è perfetta perché i bracci prendono in larghezza tutta la strombatura della finestra dietro. È un gioco ottico, ma sono valori che gli artisti già hanno, ovvero il valore ambientale delle opere. Questa carpenteria ha significato nel suo valore ambientale. Noi non abbiamo dei documenti riguardo a questo assetto, ma è un ottimo indiziato questo crocifisso, perché ha più senso nella cappella che sull’altare a latere. Con il pontile ovviamente la croce a latere non si vede, perché ha una visione privilegiata al di là del pontile. Al di qua del pontile si vede solo la croce monumentale centrale. Nella cappella della Vergine vediamo che ci sono due donne, una vecchia e una giovane che non guardano l’altare, ma verso la tribuna. Le due porte che vediamo in foto non c’erano, non vanno considerate. Noi abbiamo sempre detto che le donne tendenzialmente non possono attraversare il pontile. Queste due figure alcuni sostengono che non fossero le committenti, ma che raffigurassero in maniera generica delle categorie sociali. C’è una forte presenza femminile in una cappella a tema femminile. Nel Noli me tangere c’è la vergine con il bambino, ad un certo punto si impone il Magnificat in una delle ore liturgiche e abbaimo anche l’affresco centrale delal vergine che guarda il coro. anche la presenza di un tema come il noli me tangere che parla della resurrezione di cristo con una notevole presenza femminile all’interno del coro. forse le donne potevano accedervi in determinati momenti della giornata. Anche al di là delle alpi, in ambito domenicano, nel die natalis del santo le donne possono attraversare il pontile. Lo abbiamo visto anche nelle decretali di gregorio IX dove nel capitolo III ci riporta che uomini e donne, non durante la cerimonia, possono entrare nel coro, per esempio, per la comunione. Noi nnon sappiamo quando è stata aperta la porta, ma possiamo immaginarcela con una grata. Ovviamente non in pieno medioevo, ma magari già nel ‘500. Possiamo immaginarci uomini e donne che durante la funzione liturgica si univano in questa cappella, che ha già un sapore laicale per la presenza femminile, e che dalle grate guardano ciò che avviene sull’altare maggiore. Da questa posizione c’è una visione privilegiata del Noli me tangere, ovvero della donna che deve credere nel Cristo risorto. tabernacolo mariano che doveva aver avuto una grande fortuna in ambito femminile ed è molto probabile che questi tipi di tabernacoli fossero posti anche all’interno del coro delle monache. Questo perché un tabernacolo di questo tipo attivava la meditazione sulla vita della vergine, alla quale costantemente la santa chiara si richiama nella sua stessa vita. Molto spesso i cori delle monache hanno molto cara la vita della vergine nell’arredamento e nell’allestimento. È probabile che abbia ragione Zappasodi e che questo tipo di manufatto non provenga dall’altare dedicato alla vergine nel transetto, ma possa provenire dall’interno del coro. sappiamo che all’interno del coro di santa chiara c’era un altare, sappiamo che c’era la deroga per cui il sacerdote poteva dire messa al suo interno. Dello stesso autore è il dipinto del monastero della beata mattia, e guarda caso anche questo dipinto deriva da un ambito francescano a Matelica. Questo tipo di manufatti in parte possono essere quindi legati in alcuni casi femminili a questo tema, soprattutto manufatti che stanno all’interno del coro. Vediamo il Trittico Marzolini per il monastero damianita di S. Agnese a Perugia. Non sappiamo dove fosse collocato, ma ha dimensioni colossali. Se fosse ad ali chiuse si vedono san francesco e santa chiara. Sicuramente ha una collocazione femminile. Sempre per il monastero della beata mattia, deriva anche questo dipinto che è un dipinto che ha una particolarità iconografica. È un cristo trionfante, è inusuale a queste date. qui Rainaldetto di Ranuccio non propone un cristo dolens, ma un cristo triumphans. In ambito damianita si chiede un cristo triumphans perché la croce di san damiano è trionfante. Le daminite di matelica chiedono al pittore di riproporre la croce di san damiano che era nel coro della chiesa madre. Anche qui c’è costruzione delle reti, in questo caso non monastiche, ma conventuali di ambito femminile. All’interno del complesso damianita di matelica il riferimento è la croce di san damiano, che parla a san francesco. La croce di san damiano nel ciclo di Assisi Giotto la pone sull’altare, quindi probabilmente a quelle date era già posta sull’altare, forse quello maggiore. questo è il modello per la croce di matelica. Ha come riferimento preciso la grande croce parlante. Prima di essere seppellito in Basilica, il corpo di San Francesco è stato deposto in San Giorgio, stessa chiesa che volevano le damianite. È la stessa chiesa in cui è seppellita santa chiara. Dove c’è il coro insisteva la vecchia chiesa di san giorgio. La croce di san damiano passa sull’altare del coro delle monache. Successivamente con ogni probabilità viene inserito negli affreschi di Bartolo. La croce di san damiano viene attaccata su questa parete. I laici non ne vedevano il fronte, ma il dietro, dipinta a finto marmo. Era fatta per essere vista anche dalla parte posteriore che era per i laici. Il tabernacolo del maestro di cesi è un altro esempio importante di manufatto che va letto all’interno di una commissione femminile. C’è un’assunzione della vergine, accolta con iconografia molto umana del cristo. Lei si appoggia sulla spalla del figlio. Ci sono le scene della vergine. il maestro di cesi fa tutt’uno con la croce che oggi si trova nel museo del ducato a spoleto e che con ogni probabilità questo sistema proveniva dal monastero femminile della stella a spoleto. Il maestro di cesi replica anche qui il cristo trionfante di san damiano. Il sistema triadico è solo una parte di una sintassi tutta femminile dello spazio sacro. Le moniales potevano dunque meditare sul mistero della morte della vergine leggendo la propria condizione di morte al mondo, aspirando a quell’unione perfetta incarnata dalla vergine e dalla madre che è anche sposa di cristo come vediamo in questa iconografia. Ricordiamo la lettera di innocenzo IV alle clarisse di Pamplona, che le definisce “come morte al mondo vivete in cristo recluse”. La clausura femminile verrà inasprita in certi momenti. Sappiamo di francescane a piacenza che la domenica andavano in chiesa uscendo dal convento, quindi non erano poi così recluse. Abbiamo un’immagine di loro molto rigida. Il braccio femminile dei francescani plasma l’iconografia e lo spazio. In san Pier Maggiore abbiamo ancora una volta un coro a latere. Siamo in ambito benedettino. L’ambiente del coro aveva due aperture che permettevano la visione sull’altare maggiore. c’erano degli affreschi con crocifissione e santi nella parete che dà sull’altare. crocifissione e santi quindi in prospettiva parlano con l’altare maggiore. a destra nascita e passione di cristo e dietro le storie della vergine. da sinistra a destra c’erano la nascita e la passione di cristo perché entrando erano visibili dal loro ingresso, quindi potevano continuare a meditare. Anche nella posizione questi affreschi vanno messi in rapporto con l’uso dello spazio, in questo caso con l’entrata e l’uscita che dava sul chiostro di clausura dove i laici non avevano accesso. Un caso di ricostruzione è il gran dio di Altestadt nella basilica di san michele, che è gigantesco. Siamo in baviera. È un gruppo del XIII secolo. In Italia noi abbiamo qualche esempio, come quello della cattedrale di san pietro a Bologna. Questo gruppo di san pietro è posto oltre l’altare maggiore all’interno di un edificio completamente ricostruito. Un gruppo di questo tipo di cui noi non abbiamo documenti relativi al periodo in cui c’era la croce, stava sicuramente in una basilica di altre proporzioni. Siamo di fronte a un rifacimento che inizia nel 1570. È probabile che il gruppo stesse sulla trave. Non sappiamo però nulla sull’antica trave della cattedrale di bologna. È impossibile ricostruire un edificio di XII secolo. Massaccesi ha ricostruito il pontile della cattedrale di tardo ‘200. Quando nel 1570 la cattedrale viene abbattuta per fare spazio al nuovo complesso, l’edificio era di fatto ancora quello medievale. La croce opistografa è sicuramente la riqualificazione del crocifisso ligneo precedente. Queste croci molto antiche o vengono buttate via o vengono vendute o smaltite, se invece sono più o meno miacolose si mantengono in cappelle laterali. Nel ‘400 viene riqualificata questa croce. Il cristo infatti lo vediamo su una croce moderna, che non è quella originale né quella di riqualificazione. Nel ‘400 al cristo ligneo viene dato un nuovo supporto, ovvero la croce opistografa di prima. Questo episodio si è ricostruito da un documento del 1415 in Archivio di Stato, erogato dal notaio Rolando Castellani. Questo documento dice che Jacopo di Paolo si impegna a dipingere e dorare una croce che lui fa. La carpenteria è stata fatta da Tommasino. Nel 1417 Jacopo di Paolo si impegna con i canonici della cattedrale per la realizzazione della croce per san Pietro. Si è sempre ipotizzato che questa croce fosse andata perduta, anche perché si pensava che il documento parlasse di un crocifisso e non di una croce. Sta parlando di un crocifisso opistografo per un crocifisso intagliato. Loro stanno mettendo in opera il supporto di un crocifisso di XII secolo. Lui infatti non parla di crocifisso, ma di croce. Nel 1417 diventa vescovo a Bologna l’Albergati. Questo riallestimento della cattedrale è collegato alla nomina del nuovo vescovo. Capiamo che la parte dipinta è dietro perché davanti c’è un crocifisso scolpito. La croce quindi è dipinta Jacopo di Paolo e scolpita dai maestri d’ascia Dabaiso, Tommasino e il figlio Arduino. Questa collaborazione c’è stata anche per il polittico bolognini per la cappella dei magi. Nel 1415 Jacopo di Paolo si impegna a dipingere e dorare la carpenteria, eseguita materialmente da un carpentiere. Tra il 1415 e il 1417 la croce viene eseguita. Sia il documento che la cronaca ci parla di un crocifisso che non dice che è stato fatto dai un Dabaiso. Questo dipinto si trova appeso in san giacomo maggiore e tutti hanno sempre pensato essere per questa chiesa. Nella chiesa di san giacomo c’è anche la croce di simone di filippo, una grande croce monumentale che si trova nel deambulatorio. C’è l’ipotesi che questa croce non fosse fatta per san giacomo, ma che sia la croce di san pietro. L’impressione è che questa croce che si pensa perduta sia quella della cattedrale. Per qualche ragione questa croce finisce in san giacomo. Quando smantellano tutto viene venduta e finisce in san giacomo. Il cristo si inserisce perfettamente all’interno dello spazio che Jacopo di Paolo e i Dabaiso progettano. Nel ‘400 di Paolo e i Dabaiso riallestiscono questo crocifisso. Vediamo il risparmio perché sopra c’era evidentemente una cornice che è stata tolta. L’ipotesi è che ci sia una cornice staccata, fogliata, tolta per semplificarlo. Le misure sono state un’ultima prova, l’ipotesi parte dal documento. Un’altra fonte importante è quella di Giovanni Marescalchi che ci racconta che il pontile (si parla di un pontile nel primo documento) della cattedrale è in realtà un corridore che viene abbattuto per fare spazio alla nuova tribuna. nel 1570 viene abbattuto, ma al di sotto c’erano due altari. sappiamo che su questo pulpito si trovava questa croce. 28/02 Committenza benedettina tra Italia e Francia nell’XI secolo e uso strategico del linguaggio musivo – prof.ssa Vaccaro Parliamo di mosaici policromi in opus sectile, soprattutto nei due contesti monastici più importanti per l’Europa medievale, legati alla nascita e al consolidamento dell’ordine benedettino: l’Abbazia di Montecassino e l’Abbazia di Fleury, o con il nome corrente di San Benedetto in Pericolo. La valle della Loira è un’area territoriale con riconoscimento UNESCO e all’estremità orientale è situato il paese di San Benedetto sulla Loira, oggi in un’area provinciale, nella periferia di Orleans, città che fino all’invenzione di Parigi capitale nel tardo medioevo è stata sede del potere regale francese. San Benedetto è un’are territoriale appena fuori le foreste di Orleans, quando è sede regia nell’alto medioevo. Questo è un elemento fondamentale per localizzare la collocazione di queste due importanti abbazie. Italia-Francia è il legame che si innesta tra queste abbazie già nel VII secolo. San Benedetto è una di quelle persone che contribuisce a meglio definire il monachesimo occidentale, che già esisteva in forme “primitive”. Nel 529 San Benedetto, nel centro Italia, dopo un’esperienza quasi eremitica, fonda un cenobio sulle alture di Montecassino, un monte nel Lazio, abbastanza isolato rispetto all’area circostante, un’area dove probabilmente era già presente un tempio dedicato ad Apollo. La chiesa fondata è intitolata a Giovanni Battista. Le vicende di San Benedetto non le conosciamo di primissima mano se non attraverso alcune narrazioni, soprattutto grazie a papa Gregorio Magno, quindi sempre intorno al VII secolo. La prima regola di Benedetto viene poi incentivata in età carolingia, quindi entro il IX secolo. Tra la fondazione di Montecassino nel 529 e la ripresa della regola nel IX secolo, Montecassino ha subito delle distruzioni. Negli anni ’60 del VI secolo i Longobardi entrano in Italia da nord-est, e prograssivamente si espandono verso l’area padana, capitale sarà Pavia, ma anche verso il sud Italia con la fondazione dei ducati longobardi della lombardia minor, quindi il ducato di Spoleto e di Benevento. Montecassino si trova al centro di queste vicende e subisce distruzioni già da queste prime incursioni. In seguito alla minaccia di queste distruzioni, da parte di Fleury, da parte del vescovo di Orleans, alcuni monaci vengono mandati a Montecassino a prendere le reliquie del “padre Benedetto”, padre fodnatore dell’ordine. Questo sarà l’elemento che avviene nell’XI secolo con Gozlin è esattamente questo. All’inizi odell’XI secolo, in qualità di personaggio di alto rango, riesce a entrare in contatto con quell’ambiente di scambio politico che coinvolge la corte ottoniana e Roma. Entra in contatto con alti personaggi che permettono a Gozlin di creare quel canale commerciale che fa arrivare i mosaici dall’Italia all’area di Orleans. Questo non è attestabile a livello documentario. In Italia conosciamo pochi pavimenti in opus sectile. Abbiamo due esempi, San Vitale del VI secolo e Pomposa dell’XI secolo. Dall’altra abbiamo il contesto di Roma. Roma alto medievale è un ambiente che è stato studiato soprattutto da Guidobaldi , che hanno studiato i pavimenti in opus sectile della Roma medievale tra IV e X secolo. Hanno consentito di studiare vari contesti della Roma alto medievale, ma di pavimenti alto medievali ne restano pochissimi. Resta il pvaimento di Santa Maria in Cosmedin, nell’are dell’altare con uso di rote e nastri incrociati, il pavimento diSan Giorgio al Velabro, e il pavimento di quello che era la parte orientale della chiesa abbaziale di Farfa, che ha molto sostegno imperiale in età carolingia. Molto probabilmente Gozlin, nel momento in cui deve far commissionare il pavimento per riallestire il presbiterio della propria chiesa ha in mente molti esempi di Roma, ma “Roma” come concetto molto ampio. Per dare una forma romana alla porpria abbazia, assume un linguaggio che parla romano. Lo fa costruendo il blocco occidentale che le fonti chiamano ex quadri lapidibus, con grandi conci quadrati che rimandano all’opus romano. dall’altra fa realizzare un mosaico alla romana facendo arrivare i pannelli ex partibus Romanie. Questo episodio potrebbe sembrarci isolato, ma se allarghiamo il nostro panorama anche ai territori dell’impero germanico vediamo che non è distante dal linguaggio monumentale che usa anche un altro committente dei primi decenni del XI secolo, ovvero Bernwald di Hildesheim. Bernwald è figlio di un conte palatino in diretto contatto con la corte ottoniana, nominato vescovo nel 993. È in stretto contatto con Ottone II, poi diventa precettore di Ottone III. A partire dal 996 fa costruire annesso a san Michele un edificio che diventa esemplare per cultura architettonica, matematica e materiale. All’interno di san Michele, Berwald fa commissionare opere che parlano un linguaggio romano. tra queste opere ricordiamo non solo la porta bronzea, in bronzo a cera persa con le storie dell’antico e del nuovo testamento e che ha forse come referente narrativo le porte tardo antiche di Milano e Roma, come quella di Santa Sabina, ma anche un cero pasquale che non è altro che una reinterpretazione delle colonne coclidi di età romana. I grandi referenti sono romani. Questo lo possiamo ricostruire perché sappiamo che Bernwald agisce per ocnto degli imperatori romani anche come figura di diplomatico, viaggia più volte in Italia sia negli anni ’80 del ‘X secolo, ma anche ni primi del 1000. Roma è un orizzonte noto e programmatico per Bernwald per dar vita a delle committenze originali e certamente anche di grande peso per rafforzare l’idea di una imperialità ottniana legata a Roma. Se l’orizzonte romano è valido per Berwald dobbiamo pensare che anche per Gozlin, che vive questo rapporto di progressivo rafforzamento e di necessità di rafforzamento della corona capetingia, la scelta di parlare un linguaggo romano è programmatica e valida. Il mosaico se lo andiamo a collocare nella chiesa di Gozlin si accompagnava a una serie di arredi litugici che possiamo ricostruire tramite le fonti. I tipi lapidei utilizzati sono antichi, come il porfido, sono materiali prestigiosi. Questo pavimento diventa in sé anche un grande tappeto scenografico su cui ernao posti gli arredi liturgici che costituivano il coro dei monaci. L’arredo del coro dei monaci lo possiamo costrure non solo per l’età di Gozlin, ma anche per l’età di Abbone. Durante l’età di Abbone vediamo che l’altare della Vergine è addossato alla terminazione piatta e vengono commissionati fronti d’altrare in oro e argento. Sui lti del coro sono posizionati gli stalli dei monaci. Gli stalli più vicino ai cancelli era detinato ai monaci più anziani perché più esperti a comnbattere le tentazioni del diavolo. C’è una gerarchia interna. È presente un crocifisso monumentale e al centro del coro era posizionato la cassetta che conteneva a vista i resti del “padre Benedetto”. San Benedetto era conservato in un grande reliquiario al centro del coro a vista. I monaci nel VII prendono il corpo di Benedetto e lo portano in Francia. Questo ha sempre creato un forte dibattito e contrasto con la comnunità cassinese, che ha sempre sostenuto che i monaci di Fleury non sono riusciti a prendere il corpo di Benedetto, al massimo solo una piccola parte. Si crea un contrasto tra le due comunità che si contendono il corpo di Benedetto, cosa normale in età medievale. Il mosaico diventa la grande scenografia in cui il corpo di Benedetto viene costantemente esposto all’incrocio del trasnetto. Non è una cosa tanto normale mettere il corpo del santo al centro del coro, perché di solito le reliquie sante si tengono o presso l’altare o in un luogo custodito, non così esposte. È come se tutto questo tapppeto musivo e tutti questi arredi che continuano ad essere aggiornati vadano a creare una scenografia in cui il coro dei monaci va ad abbracciare il corpo del santo costantemente esposto. A partire da questa querelle sul corpo di Benedetto vediamo cosa accade a Montecassino. Montecassino, cenobio fondato da Benedetto, ha delle vicende molto difficili. L’abbazia ha subito invasioni sin dai primi anni, di nuovo viene distrutta attorno agli anni ’80 dell’800 a causa dei saraceni. La comunità si sposta in questa occasione in altre zone che costituiscono un rifugio. La comunità torna a montecassino solo dalla fine del X e dell’XI secolo. Le vicende di Montecassino restano travagliate. Nel 1349 un terremoto distrugge buona parte dell’edificio e nel 1944 viene bombardata dagli alleati. Montecassino è stato uno dei grandi siti di custodia, ma si trovava sulal linea augusta e viene segnalata come sito di conservazione di materiale bellico, così gli alleati ne decidono il bombardamento. La segnalazione era errata, sembra che grazie a una soffiata SS il soprintendente sia stato in allerta. I capolavori custoditi lì vengono spostati e custoditi in altri siti e messi in salvo. L’abbazia però viene distrutta dal bombardamento. Montecassino viene ricostruita, viene recuperato con lo slogan “dov’era com’era”, già messo in atto per il campanile di San Marco. Dopo la guerra si decide di ricostruire l’abbazia dov’era com’era proprio per la sua importanza per la cultura europea, perché è sede di fondazione del monachesimo benedettino occidentale. Viene ricostruita. Si opta per darle le forme cinquecentesche dei Sangallo e viene del tutto obliterata l’abbazia medievale desideriana. Montecassino viene ricostruita nell’XI secolo, ai tempi dell’abate Desiderio, di origine longobarda. Desiderio diventa papa. Vediamo la fonte che diventa il nostro appiglio nello studio dell’abbazia, Leone Marsicano, Chronicon monasterii Casinensis, libro III. Questa fonte è scritta da Leone Marsicano, ma è stata voluta da Desiderio, quindi è di parte. Desiderio va a recuperare a Roma colonne e capitelli, materiali di reimpiego. Nel frattempo manda ambasciatori a Costantinopoli per trovare gente esperta nell’arte dell’intarsio e del mosaico. I mosaici sono anche a parete, perché la chiesa di desiderio aveva mosaici parietali e pavimentali. Non solo chiama artisti da Roma e Costantinopoli, ma fa sì anche che i monaci del monastero imparino creando una sorta di scuola. All’inizio del ‘900 un importantissimo studioso, Emile Bertaux, dà vita a quel concetto di “scuola benedettina”, che entrerà nella storiografia italiana e ci resta tutt’oggi. Questa idea della scuola benedettina è come se l’ambito monastico benedettino abbia creato maestranze che circolano nei monasteri e danno vita a delle filiazioni. Oggi sappiamo che non è così. Questa istruzione delle maestranze è stata fondamentale per dare una forte identità artistica al contesto cassinese. Distrutta Montecassino c’è una forte filiazione in Sant’Angelo in Formis. Vediamo l’immagine di Desiderio che dona il modellino di Sant’Angelo in Formis dipinta nell’abside. Conosciamo Montecassino anche grazie a studi critici iniziati già negli anni ’20 e ’30. Le restituzioni nella sua faces di XI secolo sono disegnate da Kenneth Conant, che aveva lavorato anche alla restituzione del grande monastero distrutto di Cluny in Francia. Oggi rimane un braccio del trasnetto di Cluny. Ci restituisce le architetture, ma ci dà anche un’idea dello spazio interno di organizzazione del coro. grazie alla cronaca di Montecassino e alla storia del monastero e dei disegni di Gattola possiamo conoscere e restituire quella che doveva essere questa grande chiesa distrutta. Si aggiungono gli studi di Cantoni, che segue gli studi dell’abbate Quondel ?. entrambi hanno una capacità che altri monaci non hanno, perché sono ingegneri e hanno una formazione che gli consente di interessarsi alle trasformazioni che il monastero ha avuto nel corso dei secoli. Mettendo insieme tutti questi dati, dopo la seconda guerra mondiale nascono le informazioni che consentono di verificare ciò che normalmente sarebbe stato impossibile. Vengono fatti scavi e perlustrazioni nella chiesa che in condizioni normali non sarebbere avvenuti perché nessuno avrebbe osato. Si scopre che il pavimento medieavle non era stato distrutto, ma coperto. Ir estuari del ‘900 l’hanno ricoperto. Vediamo come il disegno di Pantoni, che parte da Gattola e lo verifica sulla base delle parti scoperte dopo il bombardamento (non viene distutto ciò che è rimasto in piedi, quindi non tutte le parti sono state analizzate). Vengono trovate le mandorle nella parte occidentale, le rote. Quello messo in salvo viene parzialmente riallestito in alcune parti del monastero. Altri frammenti di mosaico fanno parte di altre cappelle del monastero. Altre parti sono in mostra al museo dell’abbazia. Grazie a questi lacerti sopravvissuti possiamo fare la riflessione sui motivi decorativi per andare a ragionare sul progetto originale di Desiderio. Verificato che l’opera esisteva, che le parti sono effettivamente di XI secolo, noi possiamo chiederci che idea aveva effettivamente Desiderio quando ha commissionato il mosaico. Il pavimento viene spesso definito come bizantino, perché ha chiamato maestranze da Costantinopoli. Ma lo è? Ma soprattutto, Desiderio inventa o riusa materiali? I bombardamenti hanno consentito di fare gli scavi e di andare ad analizzare le parti predesideriane. Si sono ricostruite anche le parti predesideriane e di età carolingia. In blu vediamo le strutture più antiche. C’è continuità sempre in corrispondenza del coro. la fase entro l’VIII secolo viene poi ampliata con l’abate Gisulfo. La chiesa di Gisulgo viene poi ampliata a ovest. C’è una progressione negli spazi. La chiesa predesideriana era un po’ inclinata. Già all’interno di questa chiesa era presente un pavimento con varietà di pietre policrome. Evidentemente doveva già esserci un mosaico policromo altomedievale in opus sectile. Questo è attestato anche in un’altra chiesa di diretta dipendenza a Montecassino, San Germano, ai piedi del monte. Desiderio riusa o inventa? Molto probabilmente Desiderio fa un’operazione molto intelligente. La chiesa desideriana viene ribassata per la parte delle navate di 2 m. L’inclinazione viene spostata di vari gradi, viene raddrizzata. Le fonti recenti ci dicono che questo è motivato anche dal cambio di dedicazione. Le chiese antiche erano dedicate a San Giovanni, quindi dipendeva dall’andamento del sole Il pontile di san Pietro è documentabile e doveva qualificare non solo la tribuna dell’antica san Pietro prima dei rifacimenti di Paleotti legati alla Controriforma, ma è una riqualificazione anche id questo gruppo scolpito che poi finisce sull’altare maggiore. Vediamo San Giacomo Maggiore a Bologna, chiesa degli agostiniani. Per aria c’è una croce. Non si vede bene perché è controluce, inoltre appenderla così è pericoloso. Questa croce la confrontiamo con quella di Simone di Filippo, che si trova nel tornacoro, appesa in una parete della cappella laterale. È anche questa una croce monumentale. La croce è di Jacopo di Paolo. Da sempre è stata attribuita a lui ed è una croce opistografa. In questa chiesa quindi ci sono due croci monumentali, una di Simone di Filippo che sicuramente era in quell’edificio perché abbiamo un documento che lo attesta, e una di Jacopo di Paolo. Per la seconda non abbiamo documentazione che la lega alla chiesa. La croce di Jacopo di Paolo è del ‘400, quindi avrebbe sostituito quella di Simone di Filippo. San Giacomo Maggiore aveva un pontile molto importante in cui stavano diversi altari, anche nel camminamento sopra. Qui si ipotizza la croce di Simone di Gilippo, ancorata al pontile e in connessione con l’entrata al coro, dove, nell’altare maggiore c’era il polittico di Lorenzo Veneziano e il polittico di Paolo Veneziano. Lo sappiamo perché è in relazione con la cappella del pontile, tant’è che è un reliquiario della croce. Distrutto il pontile queste opere vengono sparpagliate un po’ ovunque. Si pensa che la croce di Jacopo di Paolo non sia stata fatta per questa chiesa. È una croce opistografa. Si parte quindi dalla croce di Simone de Filippo che non è dipinta sul retro, mentre quella di Jacopo di Paolo sentono il bisogno di dipingerla su entrambi i lati. Massaccesi pensa che sia plausibile che quella croce non fosse fatta per la chiesa di San Giacomo, che potesse esserci arrivata in un tempo moderno. Nelle chiese spesso ci sono opere che non sono fatte originariamente per quella chiesa. Pensando che la croce non venisse da San Giacomo, è andato a vedere un documento, un contratto tra Jacopo di Paolo che si impegna a eseguire certe cose con il capitolo della Cattedrale di Bologna. Nel 1415 Jacopo di Paolo si impegna a dorare la grande croce che sta in mezzo alla chiesa. La croce è legata al popolo e segna la cesura tra la parte dei laici e quella dei consacrati. La croce è stata fatta dalla bottega dei Dabaiso, falegnami. Si parla di un crocifisso intagliato. La critica non aveva recepito che il documento sta parlando di due cose: della croce grande fatta da Jacopo di Paolo e dai Dabaiso, e di un croce intagliata. Sembra il crocifisso che si trova in San Giacomo Maggiore. Si pensa che fosse o una croce fatta per San Giacomo, identica a quella perduta, oppure è quella della Cattedrale. Anche questa croce in San Giacomo Maggiore è opistografa, come ce lo fa capire il documento. Questo documento la leggiamo insieme alla fonte di Pietro di Mattiolo, che scrive una cronaca di Bologna del XV secolo. Alla data 1417, tra le cose importanti di quell’anno, dice che viene inaugurato il nuovo allestimento della Cattedrale, dove viene posta una grande croce nuova conficcata nel pulpito. Il pulpito spesso è la parola con cui si designa il pontile. Questa croce è considerata straordinaria, probabilmente era un unicum in città. Torna a dirci che la croce “sola” fatta dai Dabaiso e dipinta da Jacopo di Paolo. Aggiunge che sta davanti al crocifisso, senza dire che è stato fatto anche questo dai Dabaiso. Il documento e la cronaca distinguono croce e crocifisso, ed entrambi ci parlano di una croce fogliata. Nella croce di san Giacomo maggiore vediamo la perdita della cornice e il risparmio. Manca la cornice, ma è probabile che fosse fogliata. L’ipotesi è che questa croce è davvero la croce che veniva da San Pietro, quella del documento del 1415 e inaugurata nel 1417. Se viene da san pietro cosa ci faceva anche la croce più antica? Il fraintendimento è che la croce di Jacopo di Paolo fosse da sempre in san Giacomo. L’idea che il crocifisso “mazziso” di cui ci parla il documento è che fosse il cristo trionfale del gruppo. Stava avendo luogo un processo di riqualificazione degli ambienti nella cattedrale. Riqualificano il pontile. Il 1417 vede la salita alla cattedra vescovile di Albergadi. È come se la cattedrale avesse salutato l’elezione di questo vescovo con una serie di lavori legati all’edificio stesso. Collocando in scala il cristo, notiamo che è perfettamente allocabile su questa croce. Si è rivitalizzato questo gruppo venerato riqualificandolo in una croce monumentale che parlasse meglio alla devozione popolare di allora e andasse incontro a un gusto cambiato. (recupera) Il cristo pantiens sottolinea la natura umana di cristo. La croce è opistografa e forse da una parte c’è un cristo trionfante e dall’altra un cristo patiens (?). Spesso i pittori lavorano con dei maestri d’ascia. Una riqualificazione di questo tipo, ovvero utilizzare croci nuove con un cristo più antico è lo stesso caso del crocifisso del maestro del crocifisso cini e Simone di Filippo, collocata su un supporto che è una riqualificazione posteriore al cristo stesso. Al di là delle alpi spesso nei tabelloni non ci sono i dolenti, ma degli angeli con delle coppe con il sangue di cristo. È dopo il concilio di Trento che si fa un po’ di ordine, per il resto il medioevo è ridondante. Non dobbiamo stupirci se il gruppo del 1417 presentasse anche i dolenti, che vengono ripetuti poi dalle statuine del gruppo. Quando viene abbattuto il pontile il cristo ligneo viene staccato dalla croce e la croce di Jacopo di Paolo da una certa si perde. Dopo finisce in San Giacomo Maggiore. Il gruppo ligneo finisce in una cripta, e poi vengono ricollocati molto recentemente sull’altare maggiore. Massaccesi ha ricostruito il pontile partendo da Marescalchi che scrive la cronaca di Bologna tra il 1561 e il 1573. Nel 1570 ricominciano i lavori della tribuna di san Pietro, voluta da Paleotti. Si abbatte quindi la cattedrale medievale. Fino a quelle date l’ingombro dell’edificio era medievale. C’era un “corridore”, ovvero un pontile praticabile nella parte alta. Questo corridore faceva in modo che non si vedesse perché siamo in una liturgia oppositiva. All’interno di questa liturgia era necessario tenere separati laici e ecclesiastici e lo si fa con diversi modi, come sopraelevando le tribune (cripta-lettner) o creando queste strutture semplici come setti murari o anche complessi con cappelle e praticabili. Sappiamo che nel caso di San Pietro questa struttura è presente. Nel Liber Beneficiorum all’Archiginnasio si parla di una cappellania (intitolazione) della Vergine dove c’è l’altare con la croce sopra il pontile con l’organo. Sappiamo quindi che san Pietro aveva un organo sul pontile. Sono stati fatti degli scavi, ma la pianta non è mai stata letta bene. Si vede la cripta nella versione che vediamo oggi. Dalla cripta verso l navata c’è un’infilata di gradini. È una situazione di discesa molto diversa dalla situazione medievale. Nella zona della navata insistono delle scale. Si vede una prima testata triabsidata, che fa parte della fase precedente di X secolo dell’edificio. La parte di XII e XIII secolo è dove si impostava poi la cripta paleottiana. A noi interessa solo la fase medievale dell’edificio, soprattutto la zona della navata cerchiata in rosso. Marescalchi ci dice che i lavori iniziano dalla tribuna, come sempre. Ci sono delle scale nei vecchi pilastri sotto la quota della navata. Questi scavi dovrebbero essere coordinati con il disegno di Tibaldi. Non tutto torna però. Nel disegno di Tibaldi vediamo tre rampe, mentre nello scavo non ci sono. Per alcuni queste tre rampe sono interpretabili come le scale di discesa alla cripta. A Tibaldi però non interessa della cripta, lui disegna la navata. Lui disegna tre rampe di salita, non di discesa, che portano a un coro sopraelevato. Nel 2007 Terra propone una ricostruzione con cui Massaccesi non è d’accordo. Per Terra il corridore è formato da due terrazzi con un sistema di scale. Massaccesi si accorge che, partendo dal disegno di Tibaldi con il balzo di quota, nella zona dove si impongono le tre rampe rappresenta la cesura tra navata e coro rialzato. I due pilastri dove insistono le scale sotto la quota della navata, insiste il pontile di Marescalchi (cfr. come il duomo di Modena. Te lo dico io). La visita pastorale ci dice che la cripta è piena di colonne, ma ne abbiamo trovate poche nello scavo archeologico. Si capisce però che, come tutte le cripte, è sostenuta da un reticolato di colonnine. Vediamo le rampe di salita al coro, quelle voluta da Paleotti, e il sistema di gradini che sono in discesa. Vediamo il possibile pontile con tre aperture, la prima di salita al coro e due di discesa. Marescalchi dice che si vedevano due altari. I due varchi sotto il pontile e dove ci sono le scale in discesa individuano due piccole cappelle. Probabilmente parla di queste Marescalchi. Sappiamo che sopra il pontile della cattedrale stavano delle cappelle. Sicuramente un altare della croce. Mentre in san Giacomo maggiore erano sotto il pontile. L’ipotesi di prima tribuna per la chiesa di X e XI secolo è probabile che non fosse così in avanti. Le cappelle del pontile erano la vecchia tribuna più antica, c’è una sorta di memoria delle antiche intitolazioni delle cappelle laterali. La cattedrale doveva presentare un balzo di quota di più di 2 metri. A Nonantola non si è tenuto conto del documento del 1461, che ci fa capire che non è un pulpito piccolo, ma qualcosa di più importante. A Chartres, le scale che portavano sopra il pontile avevano una sorta di curva per salire al camminamento superiore. Forse erano così anche in San Pietro perché occupano meno spazio. Un pontile del genere era palcoscenico per allestire la croce. Nel 1417 la croce viene messa su questo pontile. La croce che guarda la navata ha il cristo ligneo, mentre quello che insiste sul coro è quello dipinto di Jacopo di Paolo. Un’ipotesi di Massimo Medica è che questi angeli che sono al Louvre è che fossero di proprietà di Raffaello Angiolini e poi compranti dal senatore Zanolini nella villa a Bologna. Medica li mette in sintonia con il santo diacono che si trova nel museo di santo stefano. Ipotizza che forse l’importanza dei frammenti fa pensare che facessero parte del cantiere della cattedrale. Il duomo di Magonza aveva un Westlettner con qualcosa di simile. Ci sono dei rilievi che sono come quelli del Louvre. Gli studiosi tedeschi hanno sempre ipotizzato che provenissero dalla fronte del pontile ricostruito oggi distrutto. Ci sono i frammenti di questo pontile. Si può ipotizzare che anche quelli della Cattedrale potessero essere disposti in questo modo. Probabilmente c’era un fronte decorato. Nella cattedrale c’è anche una leonessa. Questa leonessa, che oggi è un’acquasantiera, era alla base di una colonna non troppo grande. Tigler ha sempre sostenuto che provenisse dal portale dei leoni, che era su via Altabella. Tigler afferma che la leonessa stesse sopra, perché per lui il Le stelline del power point segnano i fulcri in cui si costruisce per tappe la santità all’interno dello spazio sacro. L’anno scorso era l’anniversario dell’assassinio. È stato pubblicato un manoscritto in cui si racconta, grazie a informazioni di XV secolo, di quando il monumento sepolcrale di Becket è posizionato. Hanno ricostruito lo spazio del santuario con il grande sarcofago di Becket, che rimane in questa posizione fino al 1535, quando Enrico VIII distrugge mezza UK, tutti i monasteri e gran parte delle chiese. Viene completamente smantellata la struttura. Abbiamo una base, lo scrigno con le reliquie di Becket, e un enorme cappuccio che si alzava e scendeva in maniera molto teatrale. Abbiamo visto in passato pergole che sorreggevano reliquiari. Qui siamo nel 1408, età moderna, ma dalle fonti emerge che c’erano come delle travi che circondavano il sarcofago ed erano piene di candele. Torna quindi il tema della luce, utilizzata in maniera scenografica. Ci sono una serie di cancelli che chiudono. I pellegrini potevano anche entrare. Sappiamo da questa fonte tarda, ma che ci racconta quello che avveniva anche nei secoli precedenti, di questi cancelli chiusi e di questi pellegrini che dormono fuori da questi cancelli facendo la fila per aspettare l’apertura e avvicinarsi alla tomba del santo. Vediamo il presbiterio ricostruito. Sappiamo di monaci che venivano pagati e che davano l’accesso per avvicinarsi all’altare. Quando la tomba arriva qua, ha già subito spostamenti. Ad un certo punto la tomba è in cripta. Oggi vediamo il ruolo che il deambulatorio ha. Il deambulatorio ha un livello al piano alto e un livello alla cripta. Noi sappiamo che il deambulatorio esiste anche in strutture romane che non sono necessariamente strutture di pellegrinaggio. Si passa da una forma strutturale connaturata alle scelte architettoniche, ma che con il tempo acquista anche una propria funzione di scorrimento, come nel caso di Canterbury che serve per lo scorrimento dei pellegrini. Con il gotico va in sottordine l’idea del semplice scorrimento, perché al deambulatorio, come avviene a Canterbury, aprono delle cappelle. Non è più solo di scorrimento, ma c’è una trasformazione anche di questo tipo di possibilità legata al concepimento dello spazio in funzione del pellegrino. Canterbury è una tipica scelta di cattedrale. Come anche nel Santo di Padova, non abbiamo strutture con l’idea di deambulatorio. Il deambulatorio non è tipico dell’ordine mendicante. Solitamente le scelte sono di tragitto longitudinale. In questo caso, già dal ‘200, il deambulatorio come forma funzionale di semplice scorrimento va in sottordine, perché improvvisamente si aprono grandi cappelle radiali, dove lo scorrimento non è l’unica funzione, perché c’è la possibilità di accedere ad altre cappelle di quella zona. (non ho capito) Era una tomba per contatto quella di Becket. Il valore taumaturgico era tale da essere espressa dalla forma più arcaica della tomba stessa. Vediamo due vetrate di Canterbury, Foramina tomb shrine, che rappresentano un mendicante che viene spogliato ed adagiato sulla tomba del santo. La forma della tomba rispondeva alla funzione taumaturgica, non solo per contatto. Gli infermi venivano adagiati sulla tomba del santo per farli guarire. In un primo tempo la tomba è in cripta. La parte presbiteriale era, per chi arriva, una sorta di facciata con un pontile. (recupera). Dalla parte opposto c’è l’altare di Becket. I pellegrini avevano accesso a questa zona. In questa zona c’è il grande tramezzo, e qui si apre il grande coro, la parte con l’altare maggiore e poi la chapel dove viene inserito una reliquia di Becket stesso, la parte del cranio che si era staccata con un suo reliquiario a parte. Nella parte F c’è l’altare maggiore, la zona che coincideva con la prima pergola di Anselmo d’Aosta più o meno. Dietro vediamo l’enorme coro dei monaci. Dietro c’è il pontile. A sinistra, dietro il pontile c’è l’altare e sotto c’è la galleria con le due entrate. Una rampa porta nel deambulatorio e una rampa fa scendere nella cripta. Il pontile è molto ricostruito dal XIV secolo in poi, ci lavorano ancora nel XVI secolo. È una struttura in cui non rimane nulla di medievale. In Italia una cosa del genere non c’è mai stata. C’è in questa struttura una forte presenza scultorea, dove molto spesso i pontili e i tramezzi italiani sono molto dipinti. Noi decoravamo queste strutture (recupera) Oggi hanno creato un altare in piena navata, di fronte al grande santuario. È l’altare dove oggi fanno le cerimonie. Vediamo il grande balzo di quota della rampa per accedere al pontile. Sotto c’è la galleria. Il pontile ha dimensioni colossali. Il dislivello per salire sul deambulatorio che circonda il coro dei monaci è molto ampio. Sotto c’è la porta che conduce alle scale per la cripta. C’è una gerarchia di passaggi. La cattedra è molto antica ed è posta poco prima della zona pavimentale che presenta un tema che ha un precedente molto forte per il grande pavimento “cosmatesco” italiano romano, che viene invece fatto per Westminster a Londra. La cattedra è in pieno assetto romano. Canterbury in qualche modo segue l’assetto romano, ovvero di San Pietro, anche se è orientato. Dall’entrata del coro vediamo l’imponenza rispetto all’altare maggiore. Già dall’entrata del coro si vede a stento. I pellegrini possono camminare dietro ai muri che chiudono il coro, possono sentire, ma non vedere. Il rito che avveniva in questa zona non era fatto per i pellegrini. È tutto un progredire di balzi di quota. Nella zona oltre la cattedra c’era lo shrine di Becket, che ci arriva in seconda battuta e rimarrà qua per il basso medioevo fino a quando non viene smantellato. (recupera) Essendo una comunità di monaci c’è un chiostro dove si apriva la clausura maschile. Ci sono i reticolati tipici inglesi nelle volte del chiostro. La sala capitolare è perfettamente conservata e presenta la cattedra e i banchi dove si siedono tutti i monaci e il vescovo. La cappella della Nostra Signora è impressionante. Nella parte della cripta c’è la cappella di Gabriele, con dei dipinti, che in Inghilterra sono molto rari. In UK non hanno una buona tecnica come in Italia, quindi ci è rimasto poco. Ci sono rimasti dei cicli molto belli nella cappella della cripta, con un cristo in gloria, un cherubino sulla ruota. Ci sono una serie di capitelli nella cripta, con dei leoni che hanno una dimensione mostruosa e legata all’iconografia dei capitelli della cripta. Sono capitelli figurati con simbologie variegate. Molti studiosi hanno affrontato il problema dei percorsi cercando di comprendere come queste entrate e uscite. Il luogo si è sempre identificato come il luogo del martirio. La tomba è stata spostata nel tempo. Le traslazioni interne non sono rare. Gli studiosi inglesi e tedeschi hanno cercato di ipotizzare in una fase della ???? dalla zona in cui si trovava la tomba del martire, si scendeva in cripta. Questo perché dal luogo del martirio si andava a cercare lo shrine di Becket, che era posta nella parte presbiteriale. I pellegrini potevano girare. È ipotizzato che ci fossero dei cancelli qui e probabilmente in certi momenti potevano entrare, sicuramente potevano vederla, girarci attorno e risalire dalle scale della parte opposta. Usciti dalla parte opposta prendevano le scale e salivano fino al punto con l’altare maggiore e la reliquia della testa. Secondo gli studi degli storici non tornavano verso il luogo del martirio, ma tornavano indietro secondo un percorso longitudinale e si finivano nella zona da cui erano partiti. (recupera fine)
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved