Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

ARTE MEDIEVALE 2020/21 DEMARCHI (I-II MODULO), Sbobinature di Storia dell'arte medievale

Sbobine complete di entrambi i moduli del corso di Arte medievale tenuto dal prof. De Marchi, UniFi

Tipologia: Sbobinature

2020/2021

In vendita dal 27/02/2021

Giulia.Voltarelli
Giulia.Voltarelli 🇮🇹

4.6

(52)

11 documenti

1 / 258

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica ARTE MEDIEVALE 2020/21 DEMARCHI (I-II MODULO) e più Sbobinature in PDF di Storia dell'arte medievale solo su Docsity! 1.Inquadramento storiografico, l’arte medioevale fra mimesi ed astrazione Approcciandosi all’arte medievale, la prima cosa da fare è individuare una periodizzazione. Il Medioevo inizia con la fine dell’Impero romano (476 a. C.), ma è in realtà un processo che attraversa gli ultimi secoli della romanità. Si può far coincidere questo processo con l’epoca di Costantino (inizi IV sec.) e con l’affermazione dell’arte paleocristiana. Vasari introduce il concetto di “rinascimento delle arti” (tra 1200-300) che vede come protagonisti Arnolfo di Cambio e Nicola Pisano (architettura), Cimabue e Giotto (pittura) di contro ad una decadenza delle arti che avrebbe caratterizzato il periodo medievale. Prende a paradigma della decadenza l’Arco di Costantino. Arco di Costantino→ Vasari riconosce nella parte alta dell’attico e nei tondi delle sculture una certa novità formale. Nota poi i fregi orizzontali più bassi in cui riscontra una caduta qualitativa e una concezione in qualche modo irrazionale. Possiamo considerare l’Arco ai primordi dell’arte medievale in quanto opera composita (misto di opere fatte ad hoc e di spoliazioni). Il fatto di non essere progetto organico, caratterizzerà moltissimi monumenti medievali e si porrà in opposi- zione alla razionalità progettuale classica. Molto comune il fenomeno degli spolia. In qualche modo stigmatizza l’arte medievale in negativo, come un periodo che nasce dal disfacimento del tardo impero e che verrà riscattata a partire dal 1200-300. Molti monumenti medievali sono opere composite. Tra Ottocento e Novecento la storiografia ha letto in maniera diversa la fine dell’arte antica. Alla fine dell’Ottocento, nella Scuola di Vienna, gli studiosi si impegnarono a studiare il tardo impero in quanto genesi dell’arte medievale e trovare nella decadenza l’emergere in positivo di qualcosa di diverso. “Kunstwollen”→ intenzione artistica, formale ed espressiva che varia da epoca ad epoca per cercare e perse- guire valori diversi, che non necessariamente sono quelli della naturalezza, ma possono anche essere inten- zioni altamente espressive, più astratte, che si affermerebbero anche nella decadenza linguistica. Il latino in questo periodo viene sgrammaticato e la stessa sgrammaticatura artistica apre la strada ad un modo di figurare impregnato di tensione simbolica attraverso la resa mimetica della realtà. La figurazione deve rimandare a una dimensione trascendente. Base dell’obelisco di Teodosio I, (imperatore dal 379 al 395) – Costantinopoli (Istanbul) Base composta da cubo su parallelepipedo. Sulla fronte del parallelepipedo c’è la rappresentazione dei giochi del circo, ma vista irrazionalmente dall’alto con l’intento di chiarezza comunicativa e didascalica. Si connette alla raffigurazione dei giochi il palco imperiale. Su ogni faccia del cubo è rappresentato un momento diverso della corte affacciata. In dettaglio vediamo l’omaggio delle province s ottomesse ai piedi del palco. No profondità, figure allineate su superficie, regolate da proporzioni gerarchiche. Le figure più importanti sono frontali, mentre quelle meno rilevanti di profilo. Il doppio registro (frontalità-profilo) ha una valenza simbolica precisa: contrappone la maiestas alla medio- critas. Sacralizzazione del potere imperiale, mentre figura di profilo (grande dignità del mondo classico nella mo- netizzazione, recuperato poi nel rinascimento con profilo numismatico). A partire da Costantino imperatore di faccia. Il profilo diventa nel medioevo quasi grottesco, quindi collegato a personaggio di condizione inferiore o malvagio. Già nel IV secolo si fa avanti questa concezione antinaturalistica che comporta la perdita della tridimensio- nalità. Gli studi viennesi si applicarono ad intercettare gli elementi incisivi del nuovo Kunstwollen. Non si tratta di trovare una spiegazione univoca alla nascita dell’arte medievale, in passato hanno preso campo molte teorie: - alcuni sostenevano che provenisse dall’arte plebea dell’Impero - alcuni pensavano fosse stata portata dai popoli del nord Europa - molto accreditata era la teoria che fosse stata portata dall’Oriente, in particolare quando vennero scoperte le pitture murali del III secolo sull’Eufrate “Genesi di Vienna”→ uno dei rarissimi libri illustrati dei primi secoli. (Fine del diluvio universale: uscita dal’arca e sacrificio di Noè, prima metà del IV sec., Vienna, Österrei- sche Nationalbibliothek) Il “libro”, codex, si afferma tra IV e V secolo, prima si conoscevano solo le pergamene. Questo dimostra che questi secoli di crisi sono anche secoli di innovazione. Si tratta di una bibbia. Pergamena purpurea (rosso porpora attributo della nobiltà imperiale), crisografato in greco (scritto in oro) e ampiamente illustrato (metà inferiore della pagina impegnata dalla figurazione). Nello specifico vediamo gli animali che escono dall’Arca e Noè che effettua il sacrificio. In termini di raffigurazione dello spazio notiamo che il miniatore ha disegnato una sorta di passerella (sfrut- tando l’Arca incagliata sul Monte Ararat) su cui passano gli animali e la famiglia di Noè in modo da potere dividere lo spazio e raffigurare due scene diverse. Irrazionalità nella resa dello spazio da vedere in positivo in quanto funzionale allo squadernamento di una narrazione efficace e ricca. La pittura è libera, erede della pittura compendiaria antica e tardo antica (poche pennellate per rendere tanto). Questo pittoricismo si sta schematizzando, si traduce in scrittura, in grafia. Per es. La roccia è lumeggiata, ma c’è un contrasto tra il bianco e le ombre su cui affonda la roccia. Poi il cavallo, dipinto in maniera abbastanza schematica (marrone chiaro, scuro, bianco e nero). Questi 4 toni preludono alla disgregazione del modo di dipingere da cui nascerà poi l’arte bizantina, che pro- cede per schemi e dove non esisterà più la lumeggiatura in senso naturalistico, ma delle striature di luce so- pra campiture tendenzialmente più piatte e omogenea. La Genesi immortala questa fase di transizione e l’incubazione della concezione che darà origine all’arte bi- zantina. Crocefissione con Stefano e Longino (Vangeli di San Gallo, Irlanda, fine VIII sec.) La disgregazione radicale del concetto organico della forma classica è al massimo. Codici fiammati che hanno aura sacrale, sono oggetti sacri di grandi dimensioni. Questi vangeli hanno coperte orafe e vengono esibiti sugli altari per essere ammirati. Forte astrazione con cui è tradotta la figurazione. Si tende a geometrie e placcature di colore, a forti demarcazioni grafiche in quanto la pittura diventa subal- terna a quello che è il valore massimo dell’arte, ovvero le oreficerie. E’ come se le placcature volessero imitare gli alveoli degli smalti, anche con la giustapposizione dei colori. Cristo è avvolto in una tunica smanicata (colobio), ha braccia rosse e gambe azzurre. Molto lontano dall’idea di naturalezza. C’è sicuramente una tensione ideologica e religiosa dietro questa astrazione crescente. In questi secoli si mette in discussione la legittimità della rappresentazione antropomorfa delle storie sacre, nonostante la religione cristiana si differenzi dalle altre per l’idea basilare che un Dio abbia assunto le fat- tezze umane, “Cristo che si è fatto uomo”. Si sente forte imbarazzo davanti ai caratteri di potenziale idolatria. Imago Leonis (simbolo dell’Evangelista Marco), Vangeli di Echternach (Irlanda, fine VII sec.) La grafia diventa oggetto di una raffinata deformazione espressiva. Il leone ha una silhouette volutamente sproporzionata perchè vogliono rendere l’idea mentale del movi- mento che si traduce in questi segni. Il linguaggio stesso procede per segni e sigle astratte caricate di fortissima valenza decorativa. Ultima cena, Pietro Lorenzetti, (particolare Assisi, Basilica inferiore di San Francesco, transetto sinistro, 1317-19) In questa scena di cucina verso il caminetto vediamo un gatto addormentato e un cane che va a leccare le briciole. Il fuoco provoca da vicino queste ombrette proiettate. Sono i primissimi esempi di riscoperta di ombre proiettate dopo quasi un millennio. Il tributo, Masaccio (Firenze, Santa Maria del Carmine, Cappella Brancacci, 1424-25) Già Masaccio ci colpisce con la distribuzione razionale di luci e ombre che sbozzano corpi, panneggi e ar- chitetture. In questa scena il pittore ragiona nell’ottica della luce naturale (che colpisce questa parete da destra). Madonna col Bambino orante (Roma, Cimitero maius, affresco del IV sec.) Notiamo subito una figura frontale immobile e la grande dilatazione degli occhi, che ci fanno capire la ten- sione a voler essere comunque comunicativa, ma catalizzando l’attenzione su contenuti forti come l’intensità di uno sguardo, che nella raffigurazione sacra deve avere un’autorità veneranda. Non si può dire che si tratti di Madonna col bambino. Stentiamo a riconoscere in questo dipinto come Madonna con Bambino perché non sono ancora stati definiti degli attributi convenzionali, per es. L’aureola (nimbo). I primi nimbi li conosciamo a partire dal V secolo (Arco trionfale Santa Maria Maggiore a Roma). Sembra una matrona romana, ingioiellata, capigliatura scoperta. Codificandosi poi l’arte bizantina prevederà una cuffia a coprire la testa e il maforio (mantello rigirato sul capo). E’ una raffigurazione molto terrena, in cui comunque notiamo una pittura sciolta: ombra sul collo, punti luce su zigomi e naso. Composizione: braccia sollevate della Vergine e bambino in grembo. In arte bizantina si diffonderanno schemi come quello della NIKOPEIA (→ colei che arreca la vittoria e che tiene il bambino in asse). E’ uno schema che deriva da questo tipo di composizione. Cristo benedicente (Sinai, convento di Santa Caterina, icona VI sec) Notiamo una notevole sterzata, ma stanno ancora sul crinale. Questo importantissimo monastero nel VII secolo cadde in mano islamica, ma i soldati lo rispettarono e in epoca iconoclasta queste si salvarono. Cristo tiene il Vangelo (con coperta gemmata), figura centrale, ma ancora presenta dettagli di naturalezza affidati a certe asimmetrie, negli occhi e soprattutto nelle sopracciglia. Va decifrata come il residuo di una testa di tre quarti che viene ricondotta alla pura frontalità senza aggiu- stare il tiro. Pittura impastata che tende a scremare le luci e a scriverle (non ancora pura graficizzazione), le luci si con- centrano intorno alla parte interna degli occhi, alle ciglia e sullo zigomo (→ in cui notiamo delle pennellate che successivamente diventeranno rigide e astratte, non più lumeggiature, ma puri segni). Clipeo con Cristo benedicente (Castelseprio, Santa Maria foris portam, affreschi della fine del VI sec o del IX sec) Ha delle somiglianze con quello del Sinai, ma è più geometrizzato (canna nasale e arcate). L’età bizantina fino all’XI-XII secolo avrà questi nasi affusolati e le arcate sopraccigliari definite. L’incresparsi del sopracciglio dona al Cristo del Sinai un aspetto più corrucciato e pensieroso, mentre lo sguardo del Cristo di Castelseprio è più astratto. San Pietro (Sinai, convento di Santa Caterina, icona VI sec) Si allude a un’architettura posteriore (trono o nicchia), ma si tratta di elementi che si stanno svuotando della loro tridimensionalità. Vediamo soprattutto nei panneggiamenti la riduzione a segno grafico, linee meno morbide e segni decisi. Concetto di disgregazione→ le pennellate vanno per conto loro e a costruire giochi di superficie rispetto alla loro funzionalità di volumi e forme precise. “Hagiosoritissa” Madonna nel gesto dell’advocata, (Roma, Santa Maria del Rosario a Monte Mario, dal monastero del tempulo, icona, fine VI sec.) L’opera che rimane è solo un residuo, probabilmente si è abraso nel tempo anche per l’uso, in età bizantina, con la sovrapposizione della “rizza” (→ una lamina che copre la raffigurazione sacra, tranne i carnati). L’immagine rappresenta la Vergine che prega per l’umanità peccatrice, mediatris, advocata. Le mani poste in questo modo hanno proprio il significato di intercessione. Normalmente è posta da lato opposto (a destra di Cristo, a sinistra di solito sta il Battista). Vediamo compresenza di una pittura impregnata di luminescenze e con tridimensionalità del volto che tende ad una geometria astratta, a disgregarsi. Le ombre del naso si addensano in maniera quasi bidimensionale. Simmetria molto vistosa. Dà l’impressione di un volto inizialmente di ¾ che via via è stato modificato per arrivare a schiacciarsi sul piano frontale, conservando il disegno asimmetrico degli occhi. Il dolore umano trova in qualche modo una forza che buca i tempi. Hagiosoritissa – Vergine advocata (Roma, Galleria nazionale d’arte antica, Santa Maria in Campo Marzio, XII sec) + Hagiosoritissa – Vergine advocata (Roma, Santa Maria in Aracoeli, XII sec.) Altre riproposizioni della vergine advocata. Nella prima è stata aggiunta la figura di un Cristo benedicente e benevolo ad indicare l’efficienza dell’inter- cessione. Entrambe queste tavole riprendono il modello, ma il linguaggio è ridotto a colore e segno, a intarsio bidi- mensionale, accentuando la gestualità, ma non l’illusione del naturalismo. Testa dell’imperatore Costantino o Costanzo (Roma, Musei capitolini, bronzo 1,77 mt, IV sec.) Carni flaccide, ancora naturali ma formate in maniera simmetrica e cedono nelle palpebre e nelle sopracci- glia ad una codificazione più geometrica. Forte la caratterizzazione dello sguardo: occhi grandi e sbarrati. Testa femminile (imperatrice Ariadne?) (Parigi, Louvre, marmo, inizio VI sec.) Ritroviamo gli occhi sbarrati. Forte geometrizzazione delle palpebre, le pupille avevano in origine una pasta di riempimento. Il naso è rifatto. Le labbra fini hanno fossette cedevoli, ancora molto naturalistiche a fronte di una composizione più schema- tico a livello degli occhi (Arcata sopraccigliare). Si potrebbe anche pensare che le labbra siano state rilavorate. Le perle affondano nella morbidezza della cuffia, i valori sensibili coesistono con l’astrazione geometrica. L’imperatrice Teodora e le sue ancelle (particolare) (Ravenna, San Vitale, presbiterio, mosaico, quinto de- cennio del VI sec.) Ultimo guizzo di intensità dello sguardo nel mosaico che ritrae l’imperatrice Teodora, si tende verso una crescente astrazione. Testa di martire (particolare) (Salonicco, San Giorgio, mosaico della cupola, metà V sec.) Forte deriva degli sguardi verso l’astrazione. Soffre dell’influenza bizantina e risulta più simmetrico, con meno irregolarità. Troviamo simmetria anche nella distribuzione delle tessere. Sia qui che in San Cosma vediamo un’arcata sopraccigliare sollevata, in un’espressione di cruccio. Volto di San Cosma (particolare) (Roma, San Cosma e Damiano, mosaico absidale, 525 ca.) Nonostante la forte deriva verso gli sguardi astratti, questo è più realistico. 2. La riscoperta dei dati di natura, la resa dello spazio e degli affetti. Il ritorno allo stile naturalistico si connota come un riagganciarsi all’antichità, che viene rivissuta come de- tentrice della qualità autentica dell’arte. L’uomo medievale si rapporta col mondo antico, che però è un mondo lontano verso il quale si scatenano tensioni di riappropriazione e lettura soggettive e particolari. Questa tensione al recupero dell’arte classica e della sua concezione, verso la fine del Medioevo si sistema- tizza, diventando la base per la civiltà gotica, premessa indispensabile per il Rinascimento quattrocentesco. Il mondo gotico nasce in Europa nel XII sec., ma vedrà l’apice nel corso del Duecento, ma i suoi sviluppi arriveranno addirittura oltre il Quattrocento (Gotico Internazionale). E’ un mondo molto vasto, che associa il termine (concepito negativamente) all’idea di un’esasperazione delle eleganze decorative, mentre uno degli aspetti fondanti dell’arte gotica è la riscoperta della natura. Cfr. “Battesimo di Cristo” - mosaicista veneziano, Battistero s. Marco, Venezia, 1345 ca. → il Battistero viene ricostruito negli anni dal doge Andrea Dandolo. Persistono stilemi bizantini: schematizzazioni lineari a cui si affida la figurazione, uso di cifre semi-conven- zionali per definire la realtà (montagna: rocciosa, ma non 3D, è realizzata tramite giustapposizione di colori e luci che si schematizzano secondo forme geometriche delimitate; acque: stilizzate come fossero dei ser- pentoni, popolate di pesci e in primo piano, in acqua, la personificazione della divinità fluviale classica). Nel mondo bizantino era depositario di elementi classici, che però venivano trasmessi desemantizzati. Spazio in verticale, gli angeli si flettono uno dietro l’altro in un gesto di venerazione con le mani sotto le ve- sti. Dietro il Battista c’è un’accetta che dovrebbe essere conficcata alla radice del tronco, che è invece giustap- posta. - Giotto, Cappella Scrovegni, Padova, 1303-05→ Cappella commissionata da Enrico Scrovegni. La costruzione non è più basata su schemi astratti, la novità è la riconquista della consistenza e del distri- buire le figure con pieni e vuoti che determinano un senso di volumi. La resa dei volumi è affidata alla somma dei dettagli (scorcio dei volti, profili; panneggi con toni medi). La resa plastica di Giotto non passa dal contrasto tra luci e ombre, ma dalla modularità. Dalla veste del Battista emerge il braccio grazie alla crescente luminosità del panneggio e l’allisciarsi delle pieghe. La figurazione deve ripartire dalla realtà, non da schemi astratti. Importante è il saper raffigurare i personaggi frontali, ma quelli che si torcono nello spazio (Gesù di tre quarti e figure di profilo). Nel Medioevo si perde la capacità di raffigurare in maniera convincente i volti di profilo, quindi solitamente si usava questo metodo per rappresentare i personaggi malvagi o popolareschi. Giotto esibisce invece la sua capacità di porre i volti in profilo, senza sminuirli. Il panneggio colonnare definisce i personaggi quasi come un’architettura umana. Gli angeli hanno le mani coperte, ma stavolta per reggere le vesti di Gesù, hanno i nimbi scorciati. Anche la rappresentazione del divino (nel Medioevo solo dextera dei), in questo caso appare velato dalla nuvola di luce. Giotto è interprete del “volgare figurativo”, una lingua moderna in quanto parla con l’immediatezza visiva della capacità di captare l’immediatezza sia fisica che morale delle figure. Storia di San Silvestro e Costantino: Costantino riceve l’investitura del potere imperiale da San Silvestro papa (pittore romano, Chiesa Santi Quattro Coronati, Roma, 1246) Al tempo il signore di Roma era Stefano Conti, vescovo e senatore di Roma, in quanto il papa era esiliato a Lione per la lotta contro Federico II. Conti risiedeva in questa chiesa. Le figurazioni sono come pezzi di un ritaglio e la struttura è gerarchica. La scena mostra una forte simbologia politica contro la rivendicazione di Federico II, qui si sottolinea che anche l’investitura dell’imperatore viene dal papa. Costantino è sceso dal cavallo e dietro di lui vediamo il suo scudiero. Le figure non poggiano su un piano, è un incastro bidimensionale, le figure interagiscono in maniera impac- ciata, schiacciata. Negli ultimi decenni del Duecento si fa strada questa riscoperta, a fronte di una maniera dominata da stilemi astratti che prevedono le profusioni di dorature e le schematizzazioni grafiche dei panneggi (es. Maestà del Maestro di Santa Chiara, basilica Santa Chiara, Assisi, 1280 ca.). Nella scia di Cimabue si pone Duccio nella Madonna Laudesi, in cui gli angeli stanno uno sopra l’altro, in- ginocchiati nel vuoto, ma l’idea del trono in tralice cattura nel dettaglio dei particolari che ammiccano alla ricerca di una terza dimensione. Anche nelle figure degli angeli emergono, a tratti, le cosce. Le pieghe sulle ginocchia della Madonna ricadono verticalmente, facendo strada all’idea che poi Giotto svi- lupperà. Cfr. Maestà di Ognissanti (Giotto, Uffizi, 1302-03) Odeghetria. Si vede come Giotto sappia scorciare in profondità, facendo emergere le ginocchia dal panneggio, con un’essenzialità dei panneggi tutta nuova rispetto alle vibrazioni di Duccio. Alcuni dei santi emergono oltre l’apertura del trono. Rimane l’idea medievale delle proporzioni gerarchiche. I due angeli in primo piano hanno il volto di profilo e il corpo di tre quarti, a dimostrazione della capacità di misurare lo spazio (le ali cadono ad uno davanti e ad uno dietro le gambe). La grandi aureole coprono la figura dietro, per privilegiare l’effetto di scansione. La Vergine stringe saldamente la coscia del Bambino con la mano destra. La resa degli affetti La resa degli affetti era già nota anche agli artisti bizantini e medievali, ma attraverso dei linguaggi conven- zionali di tipo simbolico. Tema: rapporto materno tra Madonna e Bambino. Motivo iconografico: la Vergine ripone il Bambino nella mangiatoia. - Natività di Cristo (mosaico, cappella Palatina, Palermo, 1143)→ volti di tre quarti, rivolti verso l’esterno e sembrano persi nel vuoto. Non c’è interazione. - Natività di Cristo (allievo di Giotto, coll. Privata, 1320)→ c’è un dialogo tra le due figure principali. La capacità di scorciare il corpo della Vergine rende possibile un’interazione sia fisica che sentimentale tra i due. - Natività di Cristo (Giotto, oratorio degli Scrovegni, Padova, 1303-05)→ ci introduce nel vivo di una ge- stualità colta nel suo divenire, con movimenti che si intersecano e l’intensità dello scambio di sguardi. Questo è possibile grazie alla capacità di scorciare. Anche Venezia, realtà più legata al mondo orientale e bizantino, si schiude alle novità dell’arte giottesca. Non tanto nella resa delle ambientazioni e delle architetture, quanto nella capacità di narrare in maniera con- vincente, come nella scena del miracolo dalle storie del beato Leone Bembo (Maestro del 1324, Museo par- rocchiale di Dignano, Istria, 1321). La scena mostra una donna che si prende cura di un neonato malato. La gestualità mostra tentativi di scorcio, oltre ai panneggi colonnari che cadono in verticale, quindi non è un mondo del tutto indifferente alla novità giottesca, ma tende a dissimularla. Le idee giottesche aprono dei nuovi orizzonti di resa delle realtà interiori e sentimentali. Il tema viene esplicato principalmente nel tema della Madonna col Bambino. Il mondo bizantino aveva elaborato delle sigle a cui corrispondevano anche dei nomi (es. Odeghetria). - Madonna col Bambino (Maestro dei crocifissi blu, 1260 ca.)→ dipinto umbro, intriso di bizantinismo (cri- sografia sulla veste del Bambino, stilizzazione di pieghe e volti). E’ un’Odeghetria in quanto il Bambino ha il rotolo ed è benedicente, ma si stringe alla Madre vicino alla guancia. La tipologia di Madonna col Bambino è generalmente nota come Eleusa. - Madonna col Bambino (A. Lorenzetti, Pinacoteca naz. SI, 1340 ca)→ dopo Giotto questo tema dell’ab- braccio si carica di una nuova intensità. Lorenzetti disegna bambini solitamente molto disinvolti, abbracciati al collo della madre. Questa capacità di articolare la fisicità permette di rendere questo tema in maniera più intima e coinvolgente. L’arte di Cimabue è invece molto diversa, più “urlata”, estremizza i gesti, mentre Giotto modera le punte estreme della gestualità, per suggerire una dimensione del dolore più delicata, per esempio nel Compianto su Cristo (Giotto, oratorio Scrovegni, 1303-05). Le donne sembrano trattenere il pianto, la Vergine non abbraccia con trasporto il figlio, ma lo guarda distac- cando il volto e accarezzandolo. Gli angeli hanno gesti più estremi, motivati però dall’inserimento nello spazio e nella terza dimensione. San Giovanni spalanca le braccia, ma in diagonale e non verso il cielo. Simone Martini si confronta molto con le novità giottesche. Crocifissione, part. San Giovanni dolente (S. Martini, polittichino Orsini, Musée des Beaux-Arts 1336-38)→ vediamo un patetismo più sfibrato e tenero. Altro esempio sempre di S. Martini è il San Giovanni dolente (Barber Art Institute, Birmingham, 1320)→ ha la naturalezza del post-giottismo, con le labbra che sembrano stringersi per evitare il pianto. A cfr. con il San Giovanni dolente realizzato da Cimabue nella Croce di Arezzo (Chiesa S. Domenico, AR, 1265)→ recupera un gesto pensoso proveniente dall’antichità però legato alle stilizzazioni grafiche, come il segno che solca lo zigomo che sembra un graffio (per caratterizzarlo in maniera malinconica). La scoperta della resa naturalistica delle espressioni ha un precedente nella scultura europea. La scultura, a livello europeo, era stata più precoce a esplorare la terza dimensione e tirare fuori la rotondità dei corpi, l’emancipazione della figura dal piano (seguita quindi dalla naturalezza dei gesti, vesti fascianti e fisicità che preme da sotto). Il sorriso si affaccia nella figurazione, per la prima volta, negli anni ‘40 del Duecento. Ne sono un esempio; l’Angelo dell’Annunciazione c/o Cattedrale di Reims, 1240 oppure la Contessa Re- glindis c/o la Cattedrale di Naumburg, 1250). La rappresentazione della moda, degli oggetti della vita quotidiana e della natura La figurazione assume anche valore documentale riguardo la vita del tempo, la moda e la cultura materiale. Il ciclo di Assisi giottesco è una delle prime rappresentazioni sistematiche di questa raffigurazione della moda e dei costumi. Possiamo risalire quindi non solo alla moda del tempo, ma anche ad altre informazioni. Grazie agli affreschi nell’oratorio Scrovegni e nel ciclo di Assisi sappiamo per esempio che l’altare era soli- tamente illuminato da una lumiera metallica a cui erano appese delle ampolle. Il materiale è reso in pittura dalla lamina di stagno. Ci sono degli elementi inediti per il tempo che si affacciano alla figurazione, rendendola un documento. Oppure lo sguardo si estende alla realtà circostante (non è ancora “vedutismo”→ resa analitica delle realtà sia urbane che paesaggistiche). C’è però la volontà di rendere riconoscibili certi scenari. Sempre nel ciclo di Assisi, la prima storia del ciclo è l’Omaggio dell’uomo semplice che avviene in piazza ad Assisi, davanti al palazzo del Comune e al Tempio della Minerva. Non c’è aderenza totale, ma un criterio di riconoscibilità. La realtà riguarda anche la natura. I paesaggi bizantini erano rocciosi ed astratti, anche il paesaggio di Giotto è roccioso, ma perché gli è co- modo per rendere l’aggetto dei piani. L’interesse per la realtà naturalistica, botanica, che inizia nella scultura del Nord Europa quando si elabo- rano dei capitelli con foglie di vite, grappoli d’uva e uccelli (es. capitello a crochet, St. Chapelle, Parigi, 1241-48). L’individuazione delle foglie di quercia nella pala di San Francesco al Louvre ha quindi una sua premessa nella scultura europea. Interessa in generale la resa della massa frondosa. Questo sguardo sulla realtà, che in Giotto principia dagli oggetti (roccia, fronda) si arricchisce grazie ai se- nesi, che nel Trecento massimizzano il tentativo di rendere a volo d’uccello un paesaggio ben più articolato di quello giottesco. Es. Effetti del Buongoverno (A. Lorenzetti, Palazzo Pubblico, SI, 1337-39)→ descrizione del paesaggio agrario e silhouette dolci delle colline sul fondo. Descritti anche i lavori che si svolgono (semina, mietitura, trebbiatura etc.). Un frutto maturo della civiltà gotica è il riflesso dell’attività dell’uomo. Questa raffigurazione principia, tra XII – XIII sec., nei cicli dei mesi. Sono rappresentazioni di lavori stagionali. Le troviamo in Antelami (a Parma) e in un suo seguace che lavora a Venezia. Rappresentate anche Corporazioni e Mestieri (sulla facciata di S. Marco). Il realismo prepara a quello che poi realizzerà Giotto in pittura. Se nel Duecento la pittura era ancora intrisa di bizantinismo, la scultura si affacciava già ad un nuovo sguardo sulla realtà. La nuova mentalità si fa strada nel corso del Duecento, in particolare c’è la corte di Federico II che vede lo sviluppo di una mentalità proto-scientifica, come testimoniano questi due disegni: - Leone (dal taccuino “Album” di Villard de Honnecourt, 1230)→ Honnecourt era un architetto franco-fiam- mingo. Vicino al leone c’è un porcospino (più piccolo) per far capire le proporzioni. Interessante la scritta “ecco qui un leone come si vede da davanti, sappiate che è stato ritratto dal vivo”, vo- lendo attestare che non è copiato da un modello, ma frutto dell’osservazione (→concetto di fondo). - Elefante inviato da Luigi IX a Enrico III d’Inghilterra (Matthew Paris, Chronica maiora, 1255)→ elefante ritratto in maniera schematica, posto in proporzione con la figura umana. Nell’ambiente di Federico II l’interesse per la natura passa anche attraverso la passione per la caccia. Alcuni trattati diventano occasione per ritrarre la varietà zoologica. La descrizione è molto più analitica e veridica. La figurazione rimane bidimensionale. Altro esempio è la Creazione di pesci e degli uccelli (mosaico, cupola con storie della Genesi, San Marco, Venezia, 1260)→ raffigurazioni di pesci e uccelli di un sorprendente naturalismo, eccetto il drago. Sono così naturali perché i mosaicisti attingevano a miniature del VI sec. Il tema della ripresa del mondo animale e della natura avrà un ulteriore sviluppo con Giotto, il quale fornirà una rappresentazione estremamente puntuale della fauna nella Predica agli uccelli (San Francesco riceve le stimmate del Louvre). Meteorologia Anche la resa metereologica rientra nella rappresentazione della natura. Sarà una sfida importantissima (sviluppata poi soprattutto dai pittori fiamminghi e nordici), ma già nel cuore del Trecento si cimentò A. Lorenzetti, per esempio nella raffigurazione dell’Inverno (da Effetti del Buongo- verno, 1337-39) con una tempesta di neve. Nel Quattrocento poi si svilupperà la resa del cielo atmosferico, per esempio, Beato Angelico, Martirio di San Marco (predella del tabernacolo dei Linaioli, Museo di San Marco, 1434) dove raffigura un’importante tempesta. A partire dai miniatori francesi vediamo le prime rappresentazioni del cielo atmosferico (fino a quel mo- mento fondo oro), es. Breviario du Berry – Mese di Febbraio. In Italia si passerà per Gentile da Fabriano. Un’enciclopedia visiva tra vita agreste e gusto cortese: contadini, animali, cacce, tornei L’interesse per la varietà del lavoro umano e per il suo rapporto con la natura passa attraverso i cicli dei mesi (descrizione dei lavori occasionali). Si pongono le premesse di un gusto descrittivo per i dettagli che il Gotico Internazionale svilupperà al mas- simo. Nel Gotico questo sguardo enciclopedico sulla varietà della realtà troverà in Gentile da Fabriano e Pisanello due dei massimi interpreti. Anche Michelino da Besozzo si cimenterà nel tema animalista. Ci interessa l’inserimento nei cornicioni di gemme → anche nel Duecento con Federico II vedremo la realiz- zazione di cammei. Apollo medico, Isidoro di Siviglia (in Etymologiae, dall’abbazia di Nonantola, miniatura, sec. IX) Ritratto come un dignitario di corte bizantina, con clavide all’antica fibbiata su una spalla, orpello della di- gnità imperiale classica. Ha anche il nimbo di un vivente (rettangolare), per rispetto della gerarchia. Renovatio ottoniana→ seconda rinascita del Sacro Romano Impero (stavolta germanico) a partire dalla fine del X secolo, con la dinastia degli Ottoni. Rapportarsi più esplicitamente ai modelli bizantini. Mettiamo a confronto due miniature che rappresentano l’imperatore ottoniano. Ottone II (o Ottone III) riceve l’omaggio dalle Province, (Maestro del Registrum Gregorii, San Gregorio, Dialogi, Chantilly, Musée Condé, Treviri 995 Ottone III riceve l’omaggio dalle Province (Vangeli di Ottone III, 1000 ca.) Nel primo caso le Province sono raffigurate da quattro donne incoronate e recano le sfere (immagine del po- tere universale). La volontà di rifarsi a Roma è molto importante nella costruzione della legittimazione ottoniana. Ottone II si fa costruire una residenza sul Palatino, quindi legame con Roma come fonte di legittimazione. Uno dei personaggi più in vista è il vescovo Bernward di Hildesheim. Il vescovo fa un viaggio a Roma e quando torna decide di far realizzare delle porte bronzee (le più antiche figurate del Medioevo) e poi fa fare una colonna isolata, in bronzo e istoriata. E’ probabilmente rimasto affascinato dalle colonne Antonina e Traiana viste a Roma e decide di riproporle in chiave cristiana, perché a nastro, sulla figurazione intorno al fusto abbiamo le storie di Cristo. Capitello cubico scantonato, in questo caso è fregiato. La riscoperta del bronzo avviene in età ottoniana e poi continua nel XII secolo. Il mondo bizantino è il principale custode delle tecniche e delle iconografie legate al mondo classico. Spesso si tratta di abilità tecniche, ma per quanto riguarda lo stile spesso è ridotto a schemi e le iconografie spesso sono desemantizzate. Ingresso di Cristo a Gerusalemme (avorio bizantino di età macedone, X secolo) Virtuosismo tecnico nella capacità di intagliare a sottosquadro, scavando sotto le figure in modo che sta- glino. Composizione ricca. In primo piano vediamo un fanciullo con piede in mano. Non è una reference casuale, ma riguarda un’opera che fa parte anche dei memorabilia urbis, lo Spinario → statua bronzea nei Musei Capitolini che sarà oggetto di riprese per tutto il Medioevo. Spolia Prelevare conci marmorei e riutilizzarli in edifici cristiani/chiese medievali sancisce superiorità della chiesa cristiana/medievale rispetto a quelli pagani che erano stati spoliati Duomo di Modena: uso di rilievi romani rimurati (Torre del Ghirlandaio) Wiligelmo, sempre a Modena, inventa un rilievo che ha come modello un monumento sepolcrale romano (genio funerario con face riversa a terra)→ elemento ricorrente in arte sepolcrale romana. A Modena abbiamo sia lo spolia che il tentativo di imitare i modelli classici cristianizzandoli. In un cantiere come quello del Duomo di Modena la tensione alla ripresa dell’antico non è soltanto la riap- propriazione dei singoli frammenti, ma anche un tentativo di rapportarsi all’antico. Storia della Genesi; Uccisione di Caino; Arca di Noè, Wiligelmo (Modena, Duomo, facciata) Lanfranco sceglie di svolgere sulla facciata un altro fregio narrativo con le storie della genesi si srotola in quattro frammenti senza soluzione di continuità. Wiligelmo si confronta con la narrazione a fregio continuo, per accentuare il senso della storia che vede il concatenarsi degli episodi. Rilievo funerario romano di spolio (Massa Marittima, Duomo, metà sec.XIV) Arcosolio trecentesco con finto trittico di Ambrogio Lorenzetti che ha reincastonato la fronte di un sarco- fago classico con la imago clipeata del defunto portata in gloria da due angeli e poi agli angoli il tema di Amore e Psiche. Battistero, esterno della scarsella, rilievo romano di spolio (Firenze, Battistero) Frammento ritagliato su due lati, con una scena di vendemmia probabilmente. Inserito in scarsella duecentesca, depotenziato del valore pagano e posto in contesto cristiano. Paramento esterno con conci contenenti epigrafi romane (Pisa, Duomo) Nel rivestimento marmoreo molti marmi sono ricavati dall’abbattimento di edifici classici, talvolta anche importanti, come si capisce dalla grandiosità delle epigrafi che sono state evidentemente ritagliate sui lati, di traverso o addirittura rovesciate per connotare la riappropriazione. Santissima Trinità (Venosa, sec.XII) Questa abbazia è un monumento significativo per la ricchezza degli elementi di spolio. Queste murature con conci regolari vedono innestati epigrafi e frammenti di steli funerari. Capitelli Un punto di osservazione interessante per la dialettica tra volontà di imitare i modelli antichi e la loro altera- zione sostanziale. Riguarda gli ordini architettonici e in particolare i capitelli, determinanti per la definizione dell’ordine archi- tettonico classico (ionico, dorico e corinzio). Soprattutto il corinzio è il paradigma del cartello classico. Lungo tutto il Medioevo il capitello classico è fonte di imitazioni quasi ossessive, ma osservandoli bene no- tiamo la distanza dal modello classico. Questo discorso si collega a quello degli spolia perché talvolta possiamo trovare capitelli antichi riutilizzati, a fianco delle loro imitazioni. Capitello corinzio Alla Santissima Trinità di Venosa abbiamo un capitello corinzio di età romanica (XII sec.). Da confrontare con il capitello corinzio del Tempio di Apollo in Circo risalente all’età augustea (30 a.C.). Il capitello corinzio ha due corone di foglie di acanto frastagliate, dalle quali fuoriescono i caulicoli, fasci cinghiati (sempre fogliacei) con una terza corona da cui fuoriescono le volute angolari e le elici, volute più piccole che convergono verso il centro di ogni faccia del capitello. Sopra abbiamo generalmente l’abaco, al cui centro c’è il fiore. E’ una struttura complessa che deve dare l’idea dello sbocciare naturalistico del fogliame. Nella traduzione romanica ritroviamo questi elementi, ma l’intaglio è molto più geometrico ed è questo che segna la distanza rispetto all’originale. A Venosa abbiamo anche capitelli ispirati a modelli del VI sec., momento della rinascenza giustinianea. In quella fase di rinascenza vengono inventati nuovi capitelli, come quello a doppia zona, “a cestello” che viene imitato in età romanica. Ne troviamo un esempio nella Basilica Eufrasiana di Parenzo (Istria). E’ un esempio più traforato rispetto a quello di Venosa. Questo ci fa capire come vengano presi a modello non solo i modelli antichi, ma anche quelli tardo antichi di V e VI secolo, più vicini all’artista medievale per due ragioni: 1. Avevano già subito una semplificazione linguistica 2. Erano cristianizzati Già nel VI sec. il modello del composito classico è tradotto in un modo di intagliare le foglie meno naturali- stico e più come effetto di ricamo bidimensionale, come vediamo in San Vitale a Ravenna Questa idea di svuotamento bidimensionale la troviamo nei Faltenkapitellen di VI sec., i cosiddetti “capitelli a melone” che creano come una guaina con la trabeazione superiore, anche se il rapporto è spezzato dal pul- vino (tronco di piramide rovesciato) e tutto tende a depotenziare il senso robusto, organico strutturale di un’architettura classica. Il VI sec. è un momento di straordinaria inventività nell’elaborazione di capitelli che hanno come schema di base hanno il “capitello imposta”, un tronco di cono rovesciato che raccorda il fusto della colonna al dritto sovrastante. Questa semplificazione geometrica è anche all’origine dei capitelli alto medievali come quelli ottoniani, che si chiamano capitelli “cubici” e “scantonati”. L’elemento più qualificante dei capitelli del VI sec. è l’intaglio, che trasforma le superfici in trine ricamante che svuota il capitello stesso di consistenza. Spostandoci all’età tardo-longobarda e soprattutto carolingia abbiamo un’ulteriore semplificazione. Il residuo dei motivi costitutivi del capitello classico diventano delle ornamentazioni superficiali. C’è un’unica corona e i caulicoli, ma sono elementi svuotati dalla loro forza strutturale e strutturante. Puro disegno superficiale. (Es. capitello-imposta longobardo, VIII sec, MI – capitello longobardo di imitazione corinzia, Spoleto) Firenze, sec. XII: il Battistero I tentativi di riappropriazione del classico si palesano a Firenze nel Battistero. Capolavoro del romanico fiorentino che rivisita il classico (nei dettagli come incorniciature finestre o nella trabeazione) al punto da far pensare che si trattasse in origine di un tempio romano dedicato a Marte, fin dalla fine del Trecento. Nel corso del Novecento gli studi hanno smentito questa teoria, la fondazione risale agli inizi del XII sec. E’ un’impresa importante per questa costruzione che ha una grande volta mascherata da questa struttura su 3 ordini: 2 maggiori + 1 attico. Anche questa tripartizione rimanda al modello classico degli archi trionfali. C’è distanza dal mondo classico attraverso gli intarsi geometrici creati attraverso l’uso del serpentino verde di Prato e il marmo bianco. Nel giro di finestre riscontriamo il tema classico dell’alternanza di timpani e lunette. Le chiese battesimali era di norma a pianta ottagonale, in riferimento all’ottavo giorno (Giudizio Finale). E’ eccezionale l’architettura di questo interno, dove notiamo il fatto che le murature sono scavate in basso da triplici aperture per ogni faccia dell’ottagono e inquadrate da due colonne di ordine trabeato. Questo schema rimanda al Pantheon. Nel romanico spesso abbiamo l’emergere di ripresa dell’antico, più in architettura che in pittura/scultura/mi- niatura. Nei dettagli del paramento esterno del Battistero emergono elementi classici, con motivi ad ovuli e dardi op- pure il chimalesbio (= foglioline e puntine - intorno alla finestra). Proporzioni diverse dalle classiche. Nell’attico le paraste sono scanalate (tema classico) anche i fregi hanno motivo a ovuli e dardi, ma al centro c’è un fregio a marmi policromi che disegnano losanghe o motivi floreali stilizzati (lontani dal classicismo). Lessico del capitello corinzio abbastanza fedele al tema antico. Venezia dopo il 1204 e il classico marciano Questa volontà di rifarsi all’antico la troviamo nei centri che vogliono affermarsi per il loro potere politico e religioso. E’ interessante notare come sia cresciuta, dall’XI al XIII sec., questa volontà simbolica sia forte a Venezia. Venezia è una città giovane e priva di tradizioni, pertanto ha necessità di costruirsi il mito intanto di essere una città protesa verso l’Oriente (=luoghi santi), ma poi è come se si proponesse come nuova Roma cri- stiana. Lo fa abbellendosi di riferimenti all’antico e questo trova uno straordinario acceleratore in un momento sto- rico cruciale per Venezia: la quarta crociata (1204). I veneziani dirottano i crociati su Costantinopoli, non arriveranno mai in Terra Santa. Costantinopoli fu saccheggiata dagli italiani, che se ne impadronirono fino al 1261. mano stringe le ganasce del leone. C’è la riscoperta dell’anatomia, della ponderatio classica, una tensione formale e stilistica di riappropria- zione dell’antico che diventa molla per la riscoperta naturalistica. Pisano si ispira ai sarcofagi romani nel Camposanto di Pisa, ma non li copia. Presentazione al Tempio, pulpito Battistero Pisa, Nicola Pisano, 1255-60 Altro esempio di ripresa puntuale di un cratere nel Camposanto. Dietro a Simeone e alla sacerdotessa Anna (quella che grida verso al cielo) c’è una figura barbuta quasi bar- collante e sorretta da un fanciullo che rappresenta il mondo pagano vinto dall’avvento di Cristo, per il quale Pisano trae ispirazione da un cratere del Camposanto dove il soggetto originale è un Sileno ebbro retto da un satiro. Anche qui la ripresa è evidente, ma in Pisano la mano è più venosa e la barba si espande nello spazio. Il modello classico viene quindi preso di spunto e rivitalizzato. Arnolfo di Cambio Stabilendosi a Roma sviluppa ulteriormente queste tendenze, con uno stile paludato e naturale. Uno dei suoi capolavori è San Pietro in cattedra (bronzo, San Pietro, Roma) che rivisita così intensamente l’antico da aver fatto credere per moltissimo che si trattasse di un originale. In realtà è di fine Duecento. Anche la Madonna sulla cima della Tomba de Braye (1284) a Orvieto è in realtà una rilavorazione di una scultura classica. Queste pieghe fascianti e aderenti ad un corpo sono la rilavorazione di una scultura antica. Simone Martini, Petrarca e Virgilio Martini, quando riprende l’antico lo fa quasi a livello letterario più che autentica tensione. Nella raffigurazione dell’imperatore Giuliano l’Apostata all’interno della conversione di San Martino (San Martino rinuncia al cavalierato davanti all’imperatore Giuliano l’Apostata, Basilica inferiore di Assisi – Cappella di San Martino, 1317 ca.) lo staglia contro il nero, rivisitando l’idea di profilo imperiale coronato d’alloro, però lo tramuta in una testa realistica e carnosa. Il modo in cui Martini si rapporta con l’antico è esemplificato dalla miniatura che gli commissiona Petrarca, Virgilio poeta ispirato coronato d’alloro. Intorno a lui ci sono Enea e Servio e poi le personificazioni dei temi letterari di Virgilio, ma siamo molto lontani da una ripresa antiquaria come sarà nel Rinascimento.Questa miniatura con toni così luminosi ri- corda un po’ un cammeo su fondo azzurro e in quello c’è una velleità antichizzante. Firenze nuova Roma – La porta della Mandorla, circa 1400 Porta dei Cornacchini, leonessa e leone stilofori, Santa Maria del Fiore, Firenze, 1380 Porta della Mandorla, stipiti con Abbondanza ed Ercole, Santa Maria del Fiore, Firenze, 1397 Linguaggio di un gotico ruspeggiante nei fogliami, ma il programma iconografico rappresenta divinità clas- siche: Cerere come immagine di abbondanza ed Ercole, eroe prediletto dell’antico. Siamo nella Firenze di Coluccio Salutati (Cancelliere di Firenze), allievo di Petrarca e Villani, del Protou- manesimo, che comincia ad elaborare il mito di Firenze come erede delle virtù di Roma repubblicana. La resa dell’anatomia è cedevole. Uno dei motivi per cui Ghiberti vinse il concorso del 1401 è la sua capacità di rendere i corpi nudi che incar- navano l’eleganza. 4.Il ruolo dell’artista nel Medioevo e la rappresentazione del potere Lungo il Medioevo le opere hanno avuto prevalentemente un ruolo religioso, ma anche di autorappresenta- zione della società del tempo. Zelstdastellung→ cultura dell’immagine. Da questo punto di vista le opere d’arte hanno valore storico al pari delle fonti scritte. La fama dell’artefice In primis va affrontato il problema della consapevolezza degli artisti. Spesso si parte da un luogo comune che va parzialmente sfatato: nel Medioevo l’artista era considerato alla stregua di lavori meccanici, artigianali, senza dignità intellettuale e sociale e solo con l’Umanesimo la sua immagine viene riscattata, attraverso il paragone con la poesia. Non è vero che nel Medioevo, ad altissimi livelli qualitativi, la figura dell’artista non fosse riconosciuta come prestigiosa. In certi casi poteva anche essere avvolta in un’aura sacerdotale, perché in fondo è l’artista a dare forma al Dio che si è fatto uomo. Oltretutto non è mai venuta meno la consapevolezza dell’esistenza di una produzione artistica che si distin- gue per una qualità superiore, che sa interpretare a livelli straordinari certi interessi espressivi. Altare di Sant’Ambrogio (dettaglio), Sant’Ambrogio, Milano Commissionato da Angilberto vescovo di Milano. L’altare è rivestito da lamine dorate, d’argento, tempestate di pietre e smalti. Opera di età carolingia, IX secolo. Sul retro del rivestimento orafo abbiamo l’iscrizione e l’auto-raffigurazione dell’artista, Vuolvino. Questo retro presenta due sportellini che prendono il nome di finestrella confessionis e permettevano di ve- dere le spoglie del santo. In basso abbiamo due clipei, entrambi con Sant’Ambrogio, ma in quello di destra accoglie il dono del com- mittente Angilberto e nell’altro impone una corona all’artista. La corona che impone Ambrogio è quella della gloria, quindi comunque il concetto classico che la grande arte perpetua la memoria è condensato in questa immagine. Le due grandi cattedrali romaniche sono la Cattedrale di Modena e il Duomo di Pisa. Entrambe hanno iscrizioni straordinarie (tipiche dell’epoca romanica). Nel caso di Pisa noi vediamo il frutto di due cantieri diversi, ma di entrambi abbiamo il nome del “capomae- stro”, che nell’iscrizione viene chiamato magister e operarius (architetto e amministratore) ed è Buscheto. Buscheto è responsabile della prima parte a cominciare dalla zona absidale, la facciata è invece dovuta a Rainardo. Questi due magistri sono architetti e scultori, hanno ruolo di direzione nelle fabbriche. I ruoli che hanno gli vengono riconosciuti, tanto che Buscheto ha una tomba per cui è stato riutilizzato un sarcofago classico strigilato, con sopra un’iscrizione che lo celebra “Questo tempio di marmo candido non ha paragoni”. Fondazione: 1064 Facciata: secondo quarto del XII sec. L’altra iscrizione straordinaria è quella del Duomo di Modena. Lì abbiamo una targa sorretta da due profeti (Enoc e Elia). Sono tutte iscrizioni metriche e contengono in primis la data di fondazione dell’edificio, (1099). Da altre fonti, tra cui la Relatio sulla costruzione di questo edificio, sappiamo il nome dell’architetto: Lan- franco. Nel caso di Modena, a differenza di Pisa, c’è una specializzazione dei ruoli: Lanfranco è architetto e Vili- gelmo è lo scultore. Nell’epigrafe che celebra la fondazione sono state aggiunte in basso delle righe che celebrano Viligelmo. La targa è retta dai profeti Enoch e Elia (in Wiligelmo ci sono spesso queste figure imponenti ben salde a terra e una sagoma un po’ piramidata, con le pieghe che cadendo si allargano verso la base a conferire impo- nenza). La variatio è sempre il canone estetico dominante del romanico, il mantello di Elia si solleva nel risvolto con effetti stilizzati, ma suggestivi, diversi dalla caduta verticale del mantello di Enoch. Volti dai piani larghi, con barbe e capelli stilizzati con grande imponenza e grinta. Come la corona imposta a Volvigno, il grande tema è la fama attraverso l’eccellenza. Un grande scultore dopo Viligelmo, che opera nell’Italia del Nord nel secondo quarto del XII sec., si chiama Niccolò (Nicholaum). Abbiamo delle epigrafi in quattro chiese, lontane e distinti tra loro. L’iscrizione più antica è nella Porta dello Zodiaco (Sacra di San Michele, Pavia), poi lo ritroviamo nel Duomo di Ferrara e finalmente negli anni 30 del XII sec. a Verona, prima in Duomo e poi nella facciata della grande abbazia benedettina di San Zeno. Ricorrente nelle iscrizioni è una celebrazione con una formulazione curiosa: Niccolò viene celebrato come “artificem gnarum”, artista sapiente. Questa prima iscrizione riguarda il protiro (corpo architettonico) e fa capire che lui è architetto scultore. Le altre due iscrizioni, sempre a San Zeno, le troviamo sui rilievi della facciata. Nuovo Testamento a sinistra e Antico Testamento a destra e vediamo proprio a livello stilistico che si tratta di due scultori molto diversi. A sinistra abbiamo Guglielmo e a destra Niccolò. Le due iscrizioni hanno anche una connotazione differente: quella di Guglielmo rientra nella categoria delle “iscrizioni devozionali”, è come se l’artista sfruttasse il fatto di aver realizzato un’opera di particolare presti- gio per affidare all’opera stessa la sua intercessione. Si rivolge alla Vergine, che salvi colui che ha scolpito queste cose. Quella di Niccolò invece ci parla di un altro valore: quello esemplare. Nel Medioevo è fondamentale il ricorso a dei modelli, non si crea mai da zero, si possono modificare le opere, ricalcare su uno stile diverso, ma sempre partendo da un exempla. Da qui la straordinarietà dell’iscrizione “Qui possono essere tratti (dagli artisti) gli esempi dell’eccellenza di Niccolò”. E’ come un invito a venire a trarre ispirazione da questi modelli di eccellenza. Oltre alle epigrafi e alle immagini stesse, abbiamo altre fonti importanti, come la Relatio de innovatione ec- clesiae Sancti Geminiani relativa all’innovazione della chiesa di San Gimignano (Duomo di Modena, rifon- data). Risale a circa un secolo dopo i fatti che racconta. Questa volontà di scrivere un testo con un codice illustrato è segno dell’auto-consapevolezza dell’ecceziona- lità di questa fabbrica. E’ un manoscritto molto interessante con immagini (che non vanno prese in modo realistico) che ci trasmet- tono come l’uomo medievale percepiva sé stesso e il cantiere. Era una percezione molto gerarchica; il magister Lanfranco non solo dà ordini, ma è anche abbigliato con una toga all’antica (non realistica) e tiene un bastone di comando ai lavoratori. Altre raffigurazioni degli artisti all’opera abbondano nella miniatura. L’illustrazione libraria si presta alla libertà dell’artista di infilare una propria raffigurazione. In età carolingia e ottoniana la miniatura è stata molto presente. Un aspetto importante è che nel Medioevo la scrittura dei libri e la loro decorazione è prerogativa dell’am- bito monastico, canonicale. Le cose cambieranno nel Duecento con le città universitarie (Parigi, Bologna etc.) quando cominceranno a sorgere botteghe laiche di confezionamento dei libri. Anche questa evoluzione del ruolo sociale dell’artista è importante, nel Medioevo l’artista è un uomo di chiesa, mentre nel Basso Medioevo vi si affranca un ruolo laico dovuto allo sviluppo delle civiltà urbane. Su questo si innesterà lo sviluppo delle civiltà cortesi, che ha l’apice nel Quattrocento con il gotico interna- zionale che coinvolge gli ambiti di committenza fino al Rinascimento. Possiamo quindi individuare tre step: 1. Il ruolo del miniatore dentro il chiostro 2. Affrancamento delle botteghe 3. Miniatore come artista di corte, stipendiato dal signore della corte Leggendario (Frate Ruffillo, Biblioteca Bodmeriana di Ginevra, fine XII sec.) Esempio di come il monaco miniatore abbia inserito una propria raffigurazione e il proprio nome all’interno di un’iniziale abitata. Nei limiti di una raffigurazione schematica c’è comunque un importante intento descrittivo, con gli stru- menti di lavoro. Mare Historiarum (Giovanni Colonna, Biblioteca Nazionale di Parigi, 1448-49) Abbiamo una rappresentazione totalmente diversa del miniatore. In primis perché laico e poi vive nella corte. Al tempo stesso fa un’operazione politica di auto promozione in quanto uomo ricco, ambisce a diventare il signore della situazione, fallendo e andando in esilio a Venezia. Madonna col Bambino, angeli e papa Pasquale I (mosaico absidale in Santa Maria in Domnica, Roma, 817- 24) Papa Pasquale I è raffigurato con il nimbo dei viventi intento ad afferrare il piede della Madonna. Nell’avorio di San Maurizio e la Madonna presentano Ottone II e la moglie Teofano a Cristo (Museo del Castello Sforzesco, 973-84) Ottone II è raffigurato nello stesso atteggiamento. Sono casi eccezionali in cui il papa e l’imperatore hanno il ruolo di intermediario diretto con la divinità. Normalmente la committenza visibilizza quanto ha commissionato, quindi l’erezione di una grande chiesa e lo fa con i modellini (termine un po’ improprio che ricorda il progetto architettonico). Uno dei più antichi esempi di queste raffigurazioni è quello nella parete di fondo della chiesa di San Bene- detto (Malles Venosta, Bolzano), affresco di epoca carolingia in cui vediamo una Maiestas Domini ai cui lati si trovano il miles (a sinistra) e il clericus (a destra). In questo caso è il religioso a tenere in mano il modello, che in realtà è poi finanziato dal laico. Questo aspetto della convergenza del potere ecclesiastico e di quello secolare è fondamentale in questo ge- nere di raffigurazioni. Modelletti oppure, nei libri, il libro stesso. La “scena di dedica” ci presenta momenti in cui è l’autore dell’opera ad offrirla al personaggio di corte o in ambito monastico (soprattutto a Montecassino) abbiamo dei codici in cui l’abate (nimbo del vivente) offre a San Benedetto, in un caso la regola (914-34) e nell’altro il Lezionario (1058-87). Viene messa in scena una sorta di rappresentazione allegorica. La regola è stata scritta da San Benedetto, alle sue spalle c’è l’angelo che l’ha ispirato e di fronte l’abate Giovanni che gli offre questo codice. Nel secondo caso invece abbiamo l’abato Desiderio che si china nell’offrire il Lezionario a San Benedetto. In basso è rappresentata la potenza dell’ordine benedettino da tutti i monasteri affiliati. L’abate Desiderio (nella seconda metà dell’XI sec.) lo vediamo dipinto in maniera monumentale nell’ab- side della chiesa di Sant’Angelo in Formis, una chiesa strettamente dipendente da Montecassino, fatta eri- gere da lui stesso. Si tratta del ciclo di pittura murale più esteso e significativo in Italia nel periodo romanico. Nell’abside è raffigurata una grande Maiestas e ai lati abbiamo la figura di San Benedetto (a destra) e a sini- stra Desiderio (per l’osservatore, quindi destra del Padre). L’abate offre la chiesa stessa. Questo modelletto è monumentale, è simbolo il ruolo di questo committente, il motivo per cui deve essere celebrato. Figurazione caricata di forte espressività con occhi dilatati, ombre marcate a contrasto ed evidenziazione della gestualità. Il modelletto è schematicamente riconoscibile grazie al portico. E’ una chiesa ad impianto basilicale, con tre navate. Un caso diverso di celebrazione del committente è quello affidato all’iscrizione, ma in un luogo speciale: le cattedre abbaziali o episcopali, in fondo all’abside. Nel modello delle basiliche romane il coro era basso e dietro all’altare, in alto, il trono nell’esedra con i mas- simi dignitari. Cattedra dell’abate Elia, Chiesa San Nicola, Bari (1098-1105) L’abate Elia è abate di San Nicola e vescovo di Bari, quindi signore della città, in un momento storico in cui da Bari parte la prima crociata. Si fa fare questa cattedra al fondo dell’abside, con queste figure di telamoni deformati e urlanti che incar- nano le forze malefiche e ribelli che vengono dominate dalla forza della Chiesa. Nell’epigrafe viene celebrato il “famoso e buono, patronus Elia”. Altro esempio di celebrazione del committente esemplificata nel modelletto è quello realizzato da Giotto nella Cappella Scrovegni. Enrico Scrovegni offre l’oratorio da lui fondato. La cappella di Santa Maria della Carità, dedicata all’Annunciazione, era annessa al palazzo, ma comunque semipubblica. Scrovegni si fa raffigurare ai piedi del Giudizio Finale, ad indicare che tutto è finalizzato alla salvezza della sua anima. Anche qui il modelletto è molto riconoscibile. C’è una teoria secondo cui Enrico, figlio di Reginaldo (usurpatore) fa fare questa cappella per espiare i pro- pri peccati. E’ una versione che non esaurisce la realtà, perché in realtà le fondazioni sacre sono finalizzate alla salvezza dell’anima, soprattutto nel basso Medioevo. A questo si aggiunge un progetto politico, in quanto Enrico era intenzionato a diventare signore di Padova. Monumenti funerari La raffigurazione dei committenti ha un suo luogo privilegiato nei monumenti sepolcrali. Questa usanza cresce in maniera esponenziale negli ultimi secoli del Medioevo. Sebbene conosciamo monumenti sepolcrali grandiosi in epoca rinascimentale, è una novità che emerge alla fine del Duecento. Arnolfo di Cambio sarà il primo a realizzare monumenti a parete così vasti. Già il diritto di sepoltura in chiesa era un privilegio (rispetto magari a quella sul sagrato o comunque all’esterno) e da principio abbiamo al massimo delle lastre terragne (in Santa Croce c’è la collezione più va- sta di lastre funerarie antiche al mondo). In alcuni casi c’era solo il chiusino (stemma di famiglia) che ora troviamo rimurato sulle pareti. E’ una realtà sempre più diffusa, soprattutto considerando che i signori pagavano per poter usufruire della sepoltura in chiesa. Gli ordini mendicanti (francescani o domenicani) vivono di elemosina intesa proprio come il pagamento in sede di lasciti o testamenti dei diritti di patronato o sepoltura. Lastra tombale terragna dell’abate Isarno (Saint Victor, Marsiglia, fine dell’XI sec., morto nel 1047) Esempio molto antico di celebrazione di un abate importante legato appunto all’abbazia di San Vittore. Su tutto domina un’iscrizione, che copre quasi del tutto il gisent. Le lastre funerarie standard sono sul modello di quelle in Santa Croce (es. Lastra funerale di Ludovico degli Obizi realizzata da Filippo di Cristofano su disegno ghibertiano), inizio del Quattrocento. Spesso sono molto consumate perché ci si cammina sopra. Tra i primi esempi di raffigurazioni slegate dalla funzione di committenti religiosi c’è Carlo I d’Angiò (che segue il modello di Federico II). Diventa, con l’appoggio sia della Francia che del Papato, senatore di Roma. Il senatore è il capo politico, il governatore secolare. Carlo I verrà poi arginato da Niccolò III che metterà suo nipote Orso Orsini come nuovo senatore. Prima di questo Carlo I è signore di Roma e come tale si fa celebrare commissionando ad Arnolfo di Cam- bio la realizzazione di una statua in suo onore. Si tratta di un monumento colossale posto in una nicchia all’esterno della porta del transetto dell’Aracoeli, quella che dà sul Campidoglio. E’ impressionante questa celebrazione del potere in vita. Lo riprenderà papa Bonifacio VIII, papa teocrate. La scultura di Carlo I è al contempo realistica (nell’espressione del volto) e ieratica (nella sacralizzazione un po’ come nella statua bronzea di Costantino/Costante in Campidoglio). Nei monumenti sepolcrali è prepotente la presenza di quest’auto-celebrazione (es. cenotafi). Il monumento a parete è una grande novità, legata sempre a di Cambio. Uno dei più antichi è ad Orvieto (Tomba card. de Braye, morto nel 1282). Ha più livelli, con il sarcofago sul lit de parade. Si mette in scena il rito delle esequie, con i due chierici che scostano la tenda a mostrare il defunto. Di contrasto lo stesso de Braye presentato mentre accede alla vita eterna, inginocchiato, presentato da San Marco (il card. Era titolare della Chiesa di San Marco a Roma) alla Vergine (= commendatio animae). A partire da Arnolfo, il modello sepolcrale a parete avrà enorme successo. Un esempio sostanzialmente integro, anche se spostato, è quello della tomba del vescovo Riccardo Petroni (Duomo di Siena, 1315-17). Opera di Tino di Camaino, allievo di Giovanni Pisano, quindi non legato ad Arnolfo. Riprende dal monumento fatto dal suo maestro per Margherita di Brabante a Genova. In questo caso sarcofago istoriato con le storie di Cristo Risorto e della resurrezione dell’anima. Sotto ancora troviamo le Virtù cariatidi e il lit de parade è scostato dagli angeli, manca la commendatio. Abbiamo poi le arche libere. Quelle poste a terra sono per definizione quelle dei reali di Francia oppure sono sollevate su colonna (sono quelle dei beati e dei santi, S. Domenico a Bologna e Sant’Agostino a Pavia etc). Libere sui 4 lati per permettere ai pellegrini di toccarle ed essere salvati. Questo modello riusato in ambito secolare, ad es. Tomba di Rizzardo IV da Camino a Serravalle (Treviso), in cui il sarcofago è sorretto da 4 cortigiani. Cenotafi All’inizio c’è più pudore per questa forma di auto-rappresentazione, ad esempio in Santa Croce la prima tomba a parete è del patriarca di Aquileia Gastone della Torre, sempre di Tino da Camaino. La grande famiglia di committenti Baroncelli fa realizzare dei cenotafi, anche perché le sepolture stavano sotto la cripta. I quattro cugini Baroncelli fanno realizzare a Giovanni di Balduccio un cenotafio in Santa Croce, posizio- nato sul muro diaframma tra la cappella gentilizia e il transetto destro. E’ un finto avello con il Cristo morto tra i dolenti e in alto un’epigrafe a memoria. Anche questo cenotafio diventa luogo di celebrazione e promozione, si vede la data di fondazione della cap- pella in volgare e non in latino. Il messaggio fondamentale è “per rimedio e salute delle nostre anime e dei nostri morti”. Si intrecciano comunque il valore religioso e politico. Devoti offerenti La raffigurazione dei committenti si moltiplica nel basso Medioevo e assume la forma di “oranti”, figure in ginocchio o in preghiera che si raccomandano alla Vergine o a Cristo e al contempo si mettono in mostra. E’ il tema della commendatio animae dei monumenti sepolcrali. Con lo sviluppo del polittico e del polittico gotico avremo una grande proliferazione di questo tipo di raffi- gurazione, che è anche un modo da parte dei committenti di firmare l’opera. Le iscrizioni possono contenere la data di esecuzione, il nome del pittore, ma anche il nome del committente e i suoi stemmi di famiglia, fino alla raffigurazione stessa del committente. Questa è una realtà che riguarda principalmente l’età gotica. Tomba di Bertoldo Stefaneschi (Pietro Cavallini, mosaico in Santa Maria in Trastevere, Roma, anni 90 del XIII sec.) La chiesa in cui si trova questa tomba è molto importante. Nel XII sec. si sviluppa un catino absidale mosaicato che nella parte inferiore vede al lavoro Pietro Cavallini (a fine Duecento). Nel coro destro avviene la realizzazione della tomba di Bertoldo, fratello del card. Jacopo Stefaneschi, com- mittente dell’abside a San Giorgio a Velabro (sempre di Cavallini, con Cristo nel gesto dell’adventus). Bertoldo, tra i SS. Pietro e Paolo, è identificato dall’iscrizione centrale, la Vergine è appena sopra, in un cli- peo con nastro iridato intorno (come in un’apparizione celeste). La scelta del mosaico accompagna una soluzione più simbolica e solenne rispetto all’affresco. Interessante il contrasto rispetto invece alla tomba del card. Matteo d’Acquasparta (Cavallini, affresco in Santa Maria in Aracoeli, 1302c.), dove vediamo la raffigurazione di un prelato francescano (padre generale dei francescani alla fine del Duecento), il quale si fa seppellire a Roma. La chiesa dell’Aracoeli è la chiesa francescana di Roma, vicino al Campidoglio. In questo caso la Vergine non appare in una visione, ma è saldamente seduta sul trono marmoreo e la com- mendatio assume l’aspetto di un’udienza celeste in cui il donatore viene accolto (sempre rispettando le pro- porzioni gerarchiche). L’immagine della Vergine è una Madonna della Misericordia, un’iconografia nuova che si sviluppa nel Tre- cento. Vediamo la Madonna in piedi col Bambino in braccio e gli angeli che la aiutano a tenere aperto il mantello per proteggere i “raccomandati”. Gli uomini si trovano a destra della Vergine, mentre le donne a sinistra, intravediamo un papa, due cardinali, figure laiche e religiose ad indicare l’universalità. I committenti sono i battuti, dei flagellanti e sono rappresentati incappucciati, con il dorso ferito. La genesi del tema della Madonna della Misericordia arriva alla fine del Duecento con quest’opera di Duc- cio Madonna dei francescani [Pinacoteca di Siena, 1286-7] che è un dipinto molto piccolo commissionato appunto per un convento francescano. Si tratta di un “dipinto individuale” in quanto doveva stare nella celletta del frate. I tre frati raffigurati sono genuflessi ai piedi della Vergine, la quale apre il suo mantello in un gesto di prote- zione che sarà poi codificato. Autorappresentazione del potere da Bisanzio agli Ottoni, ai re normanni, a Federico II San Vitale a Ravenna corrisponde a questo momento di rinascita dell’impero sotto Giustiniano. La città diventa sede dell’esarca, ovvero il rappresentante dell’imperatore di Costantinopoli. Si sente il bisogno di rimettere in scena questo potere ricompattato dopo le guerre greco-gotiche contro i Goti che si erano appunto stabiliti a Ravenna al tempo di Teodorico. Giustiniano non era probabilmente mai stato in città, ma nell’area absidale gli viene reso omaggio con un mosaico in due pannelli. Sinistra→ Giustiniano e la sua corte (540 ca). Situazione processionale che inscena l’offertorio eucaristico (Giustiniano offre le ostie). La divinizzazione è portata al massimo livello dalla nimbatura tonda dell’Imperatore. Dietro di lui le figure si sovrappongono, ma mostrano la scala gerarchica. Immediatamente dietro troviamo il Vescovo di Ravenna Massimiano, volto molto realistico, così come quello della figura ancora dietro che è Giuliano Argentiere (committente della chiesa). Anche il volto di Giustiniano ha un che di realistico, ma non è un ritratto. Per il catino absidale di San Vitale viene anche realizzata una cattedra eburnea, composta da placchette di avorio che ricoprono il legno. Sappiamo grazie al monogramma che fu commissionata da Massimiano. Il predecessore di Massimiano, Ecclesio, era già morto quando furono realizzati i mosaici e fu omaggiato nel catino absidale. Simbologia: vengono celebrati il fondatore e il titolare della chiesa. Da un lato vediamo un angelo porgere una corona gemmata al santo e rappresenta la corona della gloria in ringraziamento per il sacrificio del martirio. Dall’altro c’è Ecclesio che offre il modelletto della chiesa (è uno dei più antichi esempi di modelletto). Ecclesio lo porge con le mani velate attraverso la casula vescovile. Il paradiso terrestre è simboleggiato in particolare dai 4 fiumi. Analizzando le singole scene, dobbiamo ricollegare al contesto architettonico, vicino al presbiterio dove tro- viamo una cattedra marmorea e un giro di sedute. Inoltre va tenuta di conto la luce proveniente dalle finestre a rilanciare la rifulgenza celeste. I tabelloni con Giustiniano e Teodora accompagnano il giro absidale, a dare movimento. Destra→ Teodora e il suo seguito. La Basilissa offre il calice con vino. Imperatrice rappresentata di fronte, riccamente accessoriata. La sua sagoma si sovrappone alle figure che la accompagnano, mentre le altre via via si assiepano in ordine gerarchico. Teodora veste un mantello porpora, attributo imperiale. Sulla balza inferiore è ricamata in oro la scena dei tre magi con il berretto frigio nell’atto dell’offertorio. I Longobardi sono un popolo guerriero e barbarico che cerca di assimilare in qualche modo la cultura della classe senatoria romana. I primi risultati si possono riscontrare ad esempio nella lamina di Agilulfo (591-615) conservato al Bargello. Raffigura re Agilulfo, secondo marito di Teodolinda (colei che ha convertito il proprio popolo dal culto ariano a quello cattolico-romano). Agilulfo è rappresentato frontale con due guerrieri ai lati, vediamo due figure alate a simboleggiare le “vitto- rie” che tengono delle tabelle con scritto “vittoria”. Ci sono poi i popoli sottomessi, le due figure che accorrono con gli omaggi e due torri gemmate. Riecheggiano iconografie sia sacre che classiche. I Longobardi crebbero culturalmente nell’VIII sec. e assimilarono forme derivanti dall’eredità classica e bi- zantina, soprattutto nel periodo delle rinascenze carolingia e ottoniana. Analizziamo una decorazione ormai andata perduta, ma che doveva essere molto importante. Corrisponde al secondo viaggio romano di Carlo Magno, quando si fece incoronare imperatore (800) da papa Leone III. Era un triclinio, la sala da pranzo del papa, ma che veniva usata anche come sala per le udienze e di rappre- sentanza (S. Giovanni in Laterano). In fondo aveva un catino absidale con Gesù circondato dagli apostoli. Nel pennacchio di sinistra c’è una rappresentazione simbolica della doppia investitura del potere. Comincia a codificarsi un concetto, centrale nel Medioevo, della distinzione e poi del rapporto più o meno subordinato tra potere civile e potere ecclesiastico. Qua vediamo la doppia investitura, tutto promana da Dio attraverso la chiesa di Roma simboleggiata da San Pietro, il quale porge una stola al pontefice (Leone III, raffigurato con il nimbo quadrato), dall’altra Carlo Magno riceve l’orifiamma, uno stendardo. Altre raffigurazioni del potere carolingio le troviamo nelle miniature¸ forse la più spettacolare è nel contro-frontespizio della prima Bibbia di Carlo il Calvo. Carlo il Calvo era nipote di Carlo Magno, a cui spetta la parte franca dell’impero. In questa miniatura (Scena di dedica da parte dell’abate di San Martino a Tours, il conte Vivien, Parigi, Bi- blioteca Nazionale) vediamo al centro, in trono, la figura di Carlo il Calvo, che non è rigida, ma si volta di lato in un gesto di accoglienza del dono che gli viene fatto. La scena ha un aspetto di grande fasto cerimoniale che ci dà idea delle cerimonie e della teatralità di rappre- sentazione del potere, dove il grande modello proveniva da Costantinopoli dove non era mai finita la messa in scena della teatralità. In asse con Carlo il Calvo abbiamo il conte Vivien, abate di S. Martino a Tours, il quale addita l’enorme Bibbia rossa offerta a Carlo da tre chierici con le mani velate. Tutto intorno religiosi in basso e soldati in alto. Nella struttura gerarchica della società medievale si individuano tre grandi classi: - bellatores→ soldati, cavalieri e in generale classe dirigente composta per lo più da guerrieri - oratores→ uomini di chiesa, il clero - laboratores→ il resto I carolingi e gli ottoniani riprendono dal tardo antico la sacralizzazione del potere e quindi la raffigurazione del dinasta frontale e benedicente, che si dice “cristomimente” (dalla Maiestas Domini). Modello riproposto nel frontespizio dell’Evangeliario conservato ad Aquisgrana in cui è rappresentato Ot- tone III circoscritto dentro una mandorla, proprio come Cristo. L’investitura divina gli viene data da destra dei che gli impone la corona. Poi abbiamo un rotulo tenuto dal tetramorfo, a fornire una legittimazione direttamente dal Vangelo. Al di sotto abbiamo bellatores e oratores. Riflette quindi in maniera schematica l’organizzazione politica e sociale. Un altro esempio è quello che ritrae Enrico II con le mani sollevate come Mosè tra Aronne e Hur, tra Sant’Emmeran di Ratisbona e Sant’Ulderico di Augusta (c/o Staatsbibliothek, Sacramentario, Monaco). In questo caso non è equiparato a Cristo in quanto è Cristo stesso ad imporre la corona. Qua è molto sapiente la ripresa del passo della Bibbia che narra la battaglia di Mosè contro gli Amaleciti, quando Mosè deve tenere alzate le braccia, altrimenti gli ebrei perderanno la battaglia, quindi Hur e Aronne lo aiutano a sostenerle. Enrico II è quindi equiparato a Mosè, uno dei grandi profeti dell’Antico Testamento. Il modello di questa cerimonialità sacralizzante del potere promana da Costantinopoli, soprattutto in età otto- niano, visto che l’imperatore ottoniano si considera vassallo dell’imperatore di Costantinopoli. Es. Imperatore Giovanni II Comneno (mosaico nella galleria meridionale, Santa Sofia). L’abito riccamente gemmato e perlinato caratterizza i dinasti, inoltre è connotato con il nimbo cerchiato no- nostante probabilmente fosse ancora in vita durante la realizzazione del mosaico. Nel XII sec. i sovrani dell’Italia meridionale guardano al modello di Costantinopoli, a partire dal 1064-65 con l’invasione di Roberto il Guiscardo, i Normanni scacceranno bizantini e arabi per poi instaurare un re- gno che sarà quello degli angioini e poi degli aragonesi. C’è in questo periodo un’esplosione di cultura e civiltà intorno alla corte normanna. Periodo di maggior splendore di Puglia e Sicilia. Santa Maria dell’Ammiraglio (detta la Martorana), 1145 ca. L’ammiraglio è il capo delle flotte del re normanno Ruggero II, è un orientale di nome Giorgio d’Antiochia. Abbiamo due pannelli musivi, uno con la Vergine e l’altro con Gesù, dove si celebrano sovrano e ammira- glio. I due sono riprodotti in due posizioni molto diverse. Ruggero è vestito come l’imperatore, con l’oros (una stuola che si avvolge intorno al corpo, attributo degli angeli). La corona gli viene imposta direttamente da Cristo. La figura si flette, ma si atteggia con i gesti che sono dell’advocata. Ruggero II, vicario della chiesa di Roma in Sicilia, si propone come intermediario presso Cristo atteggian- dosi a un gesto di intercessione. La Vergine ha un gesto benevolo, il braccio proteso indica perdono e misericordia, nei confronti di Giorgio di Antiochia che si butta a terra in un gesto che in greco si chiama proskinesis (genuflessione con il corpo interamente buttato a terra). Nello stesso periodo, re Ruggero II fa erigere una cappella a palazzo reale, al piano nobile. Sarà la cappella Palatina, interna al palazzo. In controfacciata c’era la cattedra del sovrano, sotto al Cristo in maestà (sovrano quindi che imita la figura di Cristo stesso). La cappella è dedicata ai SS. Pietro e Paolo, a sottolineare questo ruolo in stretta dipendenza dalla chiesa di Roma. Il re normanno ha una politica molto aggressiva, la sua vera ambizione sarebbe scalzare addirittura l’impera- tore di Costantinopoli ed espandersi nell’Oriente del Mediterraneo, dal meridione d’Italia i Normanni hanno mire espansionistiche in tutto il Mediterraneo. Quindi anche la messa in scena del potere di questo genere si iscrive in un disegno molto ambizioso che poi sarà ripreso dagli Svevi e a modo suo anche Federico II il secolo successivo. Guglielmo II, nipote di Ruggero II, fa erigere la cattedrale di Monreale. A Monreale, nel presbiterio, abbiamo a sinistra la cattedra di Guglielmo II e a destra quella del vescovo, so- vrastate da due pannelli musivi dove viene celebrato solo Guglielmo II. Quando il potere secolare è così esuberante mette in ombra quello della chiesa e lo vediamo nei due mosaici all’interno della Cattedrale in cui vediamo la Vergine e Cristo, entrambi si rivolgono in un caso con Cristo che impone la corona e nell’altro Guglielmo è donatore del modelletto della Cattedrale. Guglielmo II si farà raffigurare anche nel chiostro con capitelli istoriati con figurazioni e sono capitelli ge- mini, che permette di srotolare la narrazione da un capitello all’altro. Vediamo Guglielmo II offrire il modelletto della Cattedrale alla Vergine col Bambino. Nell’Italia del nord, sempre nel XII sec. si sviluppa invece la società comunale. C’è la frammentazione di realtà urbane che si stanno fortificando e sono in lotta con l’impero. Verona è la città più legata al mondo ghibellino (filo-imperiale). San Zeno è l’abbazia che si trova lungo l’Adige, fuori dalla città e dove molti imperatori hanno risieduto (Federico II per molti anni visse nella torre abbaziale di San Zeno). Niccolò fa il portale dentro la lunetta del protiro: al centro c’è San Zeno in gesto benedicente che schiaccia il demonio e intorno c’è tutta Verona con gerarchicamente i cavalieri da un lato e i pedites. La città intera si raccomanda al suo vescovo e protettore. Rappresentazione della realtà cittadina e non più di una realtà dinastica. Sempre a San Zeno abbiamo la torre abbaziale. Al piano nobile Federico II fa realizzare un’aula di udienza (che esiste ancora) con gli affreschi che rappre- sentano proprio gli anni in cui lui si trovava lì (1235-38). Dal transetto destro, nei registri alti abbiamo questa loggetta che prende il nome di triforio di un’architettura degli anni 30 del Duecento che è già tra le prime architetture di formulazione francese in Italia. L’intervento di questi maestri rende ancora più gotica l’articolazione dell’architettura reale. Il pittore ha dipinto delle ghimperghe e dei pennacchi che slanciano l’architettura reale, già gotica e france- sizzante. C’è una specie di paradosso: nel mondo delle cattedrali del nord Europa (Francia e Germania), la decora- zione parietale era l’ultima ruota del carro, predominavano le strutture e le facciate. Questo aspetto ancillare della pittura murale nordeuropea, catapultato in San Francesco e nell’esigenza di squadernare, sulle pareti nude della navata e dei transetti, dei cicli storici sul modello delle basiliche romane, innesca questo meccanismo rivoluzionario per cui la sensibilità per la pittura non azzera le superfici, ma si innesta su di essa. Da qui, attraverso Cimabue e Giotto, siamo arrivati al concetto di struttura illusionistica (pittura che dialoga con le strutture reali e con lo spettatore, creando questi effetti coordinati di sfondamento). Questo maestro oltremontano poi scompare velocemente e gli subentra Cimabue. Nel transetto sinistro realizza anche lui delle finte architetture, ma all’opposto del maestro oltremontano, in- vece di goticizzare l’architettura reale ne modera gli aspetti di slancio ascensionale e francese per riquadrare l’architettura reale con una trabeazione continua, con delle arcate a pieno centro trilobate, con dei decori sul lato marmoreo, cioè l’opus romanum cosmatesco, fa più romana l’architettura gotica della Basilica. Queste finte architetture di Cimabue sono bidimensionali, come quelle del maestro oltremontano. Il terzo fondamentale passaggio è quello introdotto da Giotto: la stessa idea assume consistenza. Decorazioni a patchwork dalla Cappadocia all’Abruzzo Ritornando al rivestimento delle superfici che annulla la percezione tridimensionale e architettonica, ab- biamo detto che è un concetto principalmente orientale e una bella esemplificazione la troviamo nelle pitture della Cappadocia. Le pitture nelle chiese rupestri della Cappadocia, che si svolgono dal VI-VII sec. fino al IX-X sec. presen- tano soprattutto una pittura aniconica. Stesso periodo di esplosione dell’iconoclastia. Campeggiano grandi croci e simboli, pittura vegetale stilizzata e geometrica che va a ricoprire ogni angolo di superficie azzerando la percezione reale. Ci sono esempi di capitelli intagliati direttamente nella roccia, definiti con elementi minimalisti ed essen- ziali. Gli elementi classici sono tradotti in un decoro con pochi colori steso sulla superficie, il canone estetico è quello della varietas. Anche avvicinandoci alla decorazione parietale romanica, per esempio guardando all’oratorio di San Pelle- grino, Bominaco, Abruzzo (1260) abbiamo una prova di questa decorazione parietale che si spalma sulla su- perficie che si presenta in maniera apparentemente anarchica, ma analizzando c’è una ratio che vede privile- giare certi soggetti. Si tratta di una hallenkirche con arco gotico, chiesa monastica. La prima metà della chiesa è quella dove transitano i laici. Domina su tutto il San Cristoforo, le storie della Passione raggiungono il clou nell’area laica, alla prima campata mentre la seconda campata (del coro) è dominata dal calendario, la terza campata è quella del coro vero e proprio. Questo mosaico ha comunque una disciplina ed organizzazione. Se prendiamo alcune scene della Passione vediamo che la raffigurazione deborda rispetto alla cornice, rien- trando nel canone dell’horror vacui e accettazione della superficie. Tutto è organizzato in maniera bidimensionale secondo un’ostensione di figure, gesti e sagome che pre- scinde da un’idea naturalistica, sormonta la volontà di coinvolgere il devoto. Santa Maria d’Anglona (affreschi bizantini tardo-comneni, Basilicata, 1180) Abbiamo un ciclo molto importante che vede lo svolgersi nella navata centrale e nelle navatelle, dell’Antico e del Nuovo Testamento secondo il modello delle basiliche romane del V e VI sec. Va notare la griglia di rettangoli che è ritagliata dalle finestre e dagli archi, quindi non parte dall’architettura reale, ma gli si sovrappone. Santa Maria in Vescovio (affreschi di scuola romana, Sabina, 1295-1300) In Lazio abbiamo alcuni cicli, come questo, che sono improntati alla pittura di Cavallini. Anche qui la griglia non è organizzata in funzione dell’architettura reale. Cappella degli Scrovegni (Giotto, Padova, 1303-5) Spazio simile a San Pellegrino, unica aula con volta a botte. Lo spazio in realtà non è così grandioso, ma Giotto con la sua genialità riesce a far lievitare lo spazio reale. Svolge tre registri narrativi. La narrazione inizia dal fondo della chiesa dall’alto e poi scende con un andamento spiraliforme fino alle storie della Passione e del Cristo risorto. Questo registro drammatico si innesta oltre il limite d’imposta architettonica, che fa sembrare la parete an- cora più grande. A Padova modera l’aspetto provocatorio del finto loggiato in favore dei finti marmi, un’illusione più sculto- rea che architettonica. Parete organizzata da cornici modanate, fregi con medaglioni, trilobi e quadrilobi e un poderoso zoccolo ba- samentale a finti marmi. La scelta di porre lastre in finto marmo nella parte bassa è un segno della competizione con Venezia (San Marco era celebre per l’esposizione di marmi pregiati). Analisi dell’organizzazione del ciclo partendo dall’architettura reale: l’aula ha delle finestre (5) solo sul lato destro, quindi il modulo delle scene è dato dal passo tra le finestre. Giotto lo ribalta sull’altra parete, ma sfalsandolo in maniera asimmetrica e organizzando un fascione che di- vide a metà della navata e facendo sì che a destra il registro alto sia, come in una scacchiera, sfalsato per simmetria con la parete di fondo. Risolve l’asimmetria indotta dalle finestre con questo gioco a scacchiera. Il ciclo inizia con le storie di Anna e Gioacchino (infanzia della Vergine) e va dalla cacciata di Gioacchino allo Sposalizio della Vergine (occupa il registro più alto). Sull’arco trionfale troviamo invece l’Annunciazione, enfatizzata perché a questo evento era dedicato l’orato- rio. La collocazione dell’Annunciazione è canonica perché sovrasta l’altare maggiore. L’Annunciazione è l’origine di tutto e dentro di essa è presente il destino di Cristo e la salvezza eterna. Il ciclo prosegue poi con la Visitazione e tutte le storie dell’infanzia di Cristo (registro mediano) fino ad ar- rivare al Tradimento di Giuda. Nel registro più basso sono raffigurate le storie della Passione, dall’Ultima Cena alla Pentecoste. Tutta questa orchestrazione, nei registri bassi della parete di fondo, deroga dalla narrazione. Nella parete di fondo abbiamo due tribune (tradizionalmente chiamate “coretti”), che sono due illusioni ar- chitettoniche. Come ad Assisi, anche qui il loggiato opera campata per campata in funzione di una visione assiale dal cen- tro della chiesa, tutto è coordinato secondo dei punti di fuga in base all’asse e alla visione dal basso. Le lumiere contribuiscono a dare concretezza a queste due tribune astratte. Lo svuotamento strutturale del concetto bizantino In senso opposto a quanto realizzato da Giotto a Padova c’è questa sorta di disancoramento dall’architettura reale per suggerire effetti bidimensionali e decorativi. E’ quello che succede nella chiesa di Sant’Apollinare in Classe, Ravenna (550 ca). Si parte da una concezione illusionistica che era già presente nell’antico (se si pensa alla scrittura parietale romana, l’illusione architettonica è caratterizzante del quarto stile pompeiano). In sant’Apollinare le colonne che inquadrano le nicchie sono gemmate, illudono pietre preziose e perle. L’angolo mosaicato è smussato con il motivo bizantino della fascia gemmata. Dentro gli sguanci delle finestre ci sono delle finte colonne, quindi finta architettura, ma viene destrutturata e svuotata di senso. Il capitello è vagamente corinzieggiante e si stagliano sul fondo. Nel VI sec. si arriva alla smaterializzazione totale della valenza illusionistica dettata dal mondo classico. Questo è un fil rouge che percorre tutto il Medioevo. Se andiamo al XII sec. a Palermo, nella Cappella Palatina, nei marmi vediamo questo prodigio di opus sec- tile del setto presbiteriale e vedete che i plutei sono delimitate da finte colonne annegate nel marmo e riem- pite da motivi a medaglione e zigzaganti e altri stili all’insegna dello svuotamento dell’effetto policromo bi- dimensionale e non strutturale. Sono puri motivi decorativi. La concezione dominante nell’ambito propriamente bizantino trova nei mosaici il luogo d’elezione. In Italia sarà Roma ad avviare una tradizione di mosaici mai interrotta e poi Venezia in San Marco e la Sici- lia normanna. In piena età bizantina il fondo oro, superfici di tessere dorate in cui la figurazione annega senza piani di posa. Nartece, mosaici (Osios Loukàs, Grecia, 1060) Vediamo la figura di San Pietro contro l’oro abbagliante. Definizione di spigoli e angoli mediata senza soluzione di continuità e poi ci sono delle passamanerie, delle greche che imitano le arti suntuarie, l’effetto è quello di smalti cloisonné con fiori rossi, verdi e orlati di bianco. Al di là dell’astrazione decorativa del dettaglio va notato come questi elementi non qualifichino in maniera strutturale la definizione in rapporto alla misura reale, ma la commentino come liminare. Devono suggerire nello spettatore un aspetto avvolgente, deve voltarsi per ammirare tutto via via. Ogni momento è separato dall’altro (intravediamo una Crocifissione e una Maiestas). La Sicilia è una terra un po’ di incrocio tra prestigio bizantino e modelli storici e romani. La Martorana, Palermo Edificio bizantino a livello architettonico. La pianta è una croce greca inscritta in un quadrato, con 5 cupole (1 grande al centro e 4 più piccole ai lati). La predilezione della pianta centrale si riflette nell’ornamentazione e nell’ideologia che sta dietro all’orna- mentazione, in opposizione allo schema latino che parte da una basilica quindi una pianta longitudinale (3 navate, abside al fondo) quindi un percorso dalla facciata verso il fondo della chiesa, un’ascesa accompa- gnata dalla narrazione storica della salvezza e quindi una lettura orizzontale. Nei cicli bizantini la narrazione è verticale, si predilige la teofania, l’irruzione del divino che promana dall’alto, dal vertice. La cupola centrale ha il Cristo Pantocrate, onnipotente e poi segue una gerarchia: angeli, profeti, evangelisti e scendendo il Dodekaorton, ma ognuna slegata. Nel mondo bizantino la Trasfigurazione ha più valore della Crocifissione in quanto rivela la natura divina di Cristo, mentre nel mondo occidentale si predilige la natura umana, per inseguire i valori empatici in chi guarda e quindi la Passione, la Crocefissione, la Deposizione etc. Questa figurazione che promana dall’alto è così orchestrata: scandita da fascioni smaglianti come fossero smalti, a girali estremamente stilizzati, con pochi colori, filettature di nero e bianco, motivi a cuore, spirali geometrizzate e clipei. Come ad Aquileia ci sono pennacchi con alberelli allo scopo di riempire gli spazi di risulta. Nella Martorana, sotto la cupola abbiamo nei due archi (arco santo e arco occidentale) la raffigurazione dell’Annunciazione e della Purificazione di Maria (2/12). L’Annunciazione è nell’arco trionfale, in quella posizione sopra l’altare maggiore. Non c’è piano di posa o ambientazione, la raffigurazione è ridotta al minimo. Per esempio nella Purificazione ci sono soltanto Simeone e Maria che gli offre il Bambino, in mezzo un ci- borio molto stilizzato. Non è la qualità narrativa che si fa strada in Occidente, è un modo più astratto ed emblematico, sia nella nar- razione che nel rapporto con l’architettura reale. Il dettaglio dell’arcangelo Gabriele nell’Annunciazione ne è un esempio lampante, come si capisce dalle ali e dallo svolazzo che non si interrompono all’angolo, ma sbordano nella parete accanto. Soprattutto nei mosaici tardo antichi l’allettamento è irregolare, per consentire alle tessere dorate di creare uno scintillio che tenda al cangiante. Narrazione a fregio continuo Lo possiamo definire concetto antitetico a quello bizantino, tipico del mondo occidentale. Il modello più chiaro è quello della colonna istoriata (es. Colonna Traiana). Questo tipo di narrazione ci suggerisce la fluidità del tempo, il concatenarsi degli eventi e della narrazione. La grande civiltà post giottesca vede l’orchestrazione di cicli straordinari. A Firenze ci si arriva per gradi e gli esempi più belli si hanno alla fine del secolo, con Agnolo Gaddi che dipinge le Storie della vera Croce nella cappella maggiore di Santa Croce. Si sceglie questa narrazione per via della titolarità della chiesa. La narrazione è orchestrata dall’alto in basso, prima a destra e poi a sinistra e con un ritmo che procede ten- denzialmente da sinistra a destra e invece in basso in entrambi i lati si rivolge al centro. Questo concetto di narrazione nasce nel mondo classico e romano, il resto più significativo è in Santa Maria Maggiore con le storie della Vergine e l’infanzia di Cristo nell’arco trionfale, organizzate su tre registri. Nell’angolo in basso ci sono le città gemmate. La narrazione è molto ricca. Il concetto di narrazione a fregio continuo è oggetto di rivisitazioni nei periodi di rinascenza medievali. Nella rinascenza ottoniana viene realizzata una colonna bronzea istoriata (Colonna con scene cristologiche) su commissione del vescovo Bernward per la sua chiesa di San Michele a Hildesheim (1020). Vediamo questi valori anche nella miniatura durante la rinascenza carolingia (quella del IX sec, con i nipoti di Carlo Magno). ES. Prima Bibbia di Carlo il Calvo Vediamo tre scene della storia di san Girolamo: 1. Si reca in Terra Santa 2. Traduce la Bibbia 3. Le Bibbie sono affidate ai chierici perché siano diffuse La narrazione ricorda in questo ritmo i valori narrativi del mondo classico, ma è anche proiettata in ambiti più simbolici. In ambito carolingio vediamo alcuni avori che provano a raccontare in maniera fluente. A Parigi è conservato un avorio che racconta la Passione di Cristo, va letto dal basso verso l’alto, significa- tivo per il valore simbolico. Duomo di Modena, 1099 Idea che la figurazione scultorea irrompa in facciata con questa fascia alta con le storie della Genesi e della creazione del Peccato fino a Noè. Quattro grandi rilievi, ognuno con tre/quattro storie che si avvicendano secondo il principio del fregio conti- nuo. Il fluire del tempo è suggerito dagli archetti, diversi tra loro. Non è un loggiato illusionistico, le colonne quando ci sono vanno dietro le figure, perché il senso consiste nella diacronia, lo scivolare dell’occhio da una scena all’altra. In età romanica, nelle Bibbie atlantiche, si vedono su quattro registri discensionale. E’ la storia del Peccato fino alla condanna. Continuità data dall’impostazione, con lo sfondo azzurro, il marrone, simbolico piano di posa etc. Anche in ambito secolare troviamo la continuità, dove l’intento affabulatorio e didascalico domina. Striscia di Bayeux (1077)→ ricamo monumentale di 60 mt. Che veniva appeso nella cattedrale della città. E’ un manifesto politico in quanto celebrava la conquista dell’Inghilterra da parte del re normanno Gu- glielmo il conquistatore. In alto abbiamo un messo che comunica a Guglielmo la sconfitta di Haroldo e una scena di saccheggio di una città. I gesti eloquenti sono enfatizzati dai colori. Scena di incendio costruita con proporzioni gerarchiche, poi una scena di battaglia dove vediamo i cavalli disarcionati in maniera irrealistica. Navate latine, lettura longitudinale Nelle basiliche romane la narrazione era scandita in riquadri (S. Pietro e poi S. Paolo fuori le mura). Abbiamo dei disegni di inizio Seicento, quando vennero distrutte le pareti, che mostrano i cicli dell’Antico e Nuovo Testamento. Sono vastissimi e su due registri: sulle finestre, all’altezza del claristorio ci stanno gli apostoli e i profeti. In basso a destra abbiamo l’Antico T., in basso a sinistra il Nuovo. Antico T. a destra, ovvero a sinistra rispetto all’abside, quindi in una posizione inferiore. Cicli tipologici perché si studiava a specchio la corrispondenza tra Antico e Nuovo T. Il concetto teologico di fondo è che la storia del Vangelo è il completamento dell’Antico T. Nella parete a sinistra a un certo punto c’è la Crocifissione, unificata in quanto è il clou di tutta la scena. Storie di Cristo (navata centrale), Antico T. (navatelle), Giudizio (controfacciata), (Sant’Angelo in Formis, Caserta, XI sec.) Abbiamo ancora intatti questi cicli. Sull’abside c’è la Maiestas, mentre la Crocifissione occupa lo spazio del ? puntuale riflesso del valore esem- plare dei cicli romani. 6.Tecnica e stile, conservazione e restauro La percezione originale dei materiali Capire lo stato di conservazione di un’opera è preliminare perché noi vediamo sempre opere che hanno su- bito il processo del tempo. Studiare le tecniche artistiche è fondamentale anche per recuperare la qualità della percezione originale. Presentazione al tempio, dettaglio (Fra Carnevale, Museum of Fine Arts, Boston, da Santa Maria della Bella a Urbino, 1467) L’architettura è albertiana e riproduce l’interno di una chiesa, con il tramezzo nel quale sono intagliate delle cappelline e si intravedono dei polittici gotici con un intaglio fogliaceo esuberante tipico delle carpenterie tardo gotiche. Con il colore Fra Carnevale fa dei trattini che danno il senso del luccichio dell’oro, saggio della percezione dei materiali. Dobbiamo sempre cercare di capire la percezione delle opere. Nello stesso periodo abbiamo un dipinto di Konrad Witz, pittore fiammingo. In un dettaglio della Madonna col Bambino e Maddalena si intravede una tavola dorata, che noi percepiamo attraverso le lucentezze, i candelieri che si riflettono sull’oro e il riverbero della luce. La pittura murale che a partire da Giotto vede l’affermarsi della tecnica del “buon fresco” che però non si usa mai da sola, è sempre integrato da pitture a secco o a calce. A Saint Philibert (Tournus, Borgogna) abbiamo un esempio di pittura interamente a secco. Sull’intonaco era stato fatto il disegno con un pennello intinto di sinope che però non si doveva vedere (non è quindi la sinopia che nella pittura a fresco indica il disegno preparatorio che viene realizzato sull’arriccio e serve per studiare la composizione. Poi il tutto viene smaltato con l’intonaco e quando è ancora umido si procede alla decorazione per affresco). In questo caso invece strappando l’intonachino si è potuto recuperare un disegno sottostante che è stato erro- neamente definito sinopia in quanto realizzato su intonaco liscio e non sull’arriccio. Qui il pittore ha lavorato con pittura a secco e leganti (che non si usano nelle tecniche a fresco in quanto il colore si attacca direttamente sulla calce e asciugandosi, attraverso la carbonatazione, il colore viene inglo- bato in maniera irreversibile nella malta). Le pitture a secco sono più fragili, il colore viene meno con il tempo. Martirio di San Marziale, (Matteo Giovannetti, cappella di S. Marziale, Palazzo dei Papi, Avignone, 1345 ca) Vediamo Cristo apparire in cielo, circondato da segni bianchi che partono dalla testa e dal corpo. Questi sono i segni dello “strappo” dell’oro, prima c’erano raggi dorati attaccati con un legante, anche il nimbo era dorato. Anche l’azzurro è applicato a secco infatti sul mantello si è screpolato ed emerge la colorazione rossa che serviva a scaldare l’azzurro. Crocefissione, (Cimabue, Basilica superiore S. Francesco, 1277-80) Quello che vediamo oggi è solo lo scheletro di un qualcosa di molto più delicato che ormai non c’è più. In basso a destra nella composizione vediamo giusto due/tre calzari che hanno ancora colore. Nel resto dell’opera vediamo che di base è stata data una preparazione rossastra, poi le ombre date con la pittura a secco sono cadute, mentre le luci hanno resistito perché realizzate con la biacca (bianco di piombo), però si è ossidata e annerita. Abbiamo quindi una sorta di “effetto negativo”, con i colori scuri ormai diventati chiari. Peccato originale e cacciata dei progenitori, (Piedimonte Matese, Caserta, 1430) Mostra il residuo di sinopia a seguito della caduta dell’intonachino. Le pennellate sono rapide in quanto non dovevano essere visti, ma era funzionali allo studio degli ingombri. L’intonachino si dà “per giornate” stabilendo la scansione del lavoro in porzioni di intonaco. Le pezzature sono di grandezza variabile perché se nell’affresco non c’è un legante, è l’intonaco stesso a di- ventare legante, però questo non è trasparente, ma bianco. In questo modo diventa perfetto per le superfici luminose e per gli incarnati in quanto sfrutta il bianco della calce. Diventa un problema fare i colori scuri, ecco perché devono essere completati a secco. San Giovanni dolente – Crocefissione, dett. (Matteo Giovannetti, Villaneuve-les-Avignon, Chartreuse Saint- Jean) Giovannetti usa ampiamente la pittura a secco. Si vede bene la differenza tra incarnato (fresco e quindi duraturo) e il colore del mantello (secco e ormai ca- duto). Quello che vediamo sotto non è la sinopia, ma il disegno preparatorio sull’intonachino. Nel nimbo rimangono solo minimi frammenti di stagno ossidato. Sempre di Giovannetti vediamo la Natività di San Giovanni battista e Crocefissione, particolari. Vediamo altri elementi della costruzione dell’opera. Dove ci sono cadute di pittura a secco o addirittura di intonachino possiamo vedere alcuni elementi di co- struzione, per esempio le linee rosse→ si chiamano “linee battute” e servono per le linee di guida prospetti- che e geometriche. Per realizzarle: traccia lasciata sulla parete da una corda fissata alle due estremità con chiodi e sporcata di polvere di colore ( nero o rossastro). Allontanandola dalla parete e lasciandola scoccare su di essa, la corda lasciava un segno ben dritto sul muro con cui inquadrare scene e figure architettoniche. Cennino Cennini ha redatto un testo in cui enuncia le corrette modalità per la realizzazione del lavoro a fre- sco (Il libro dell’arte o trattato della pittura, cap. LXXVII inizio 1400). Stimmate di San Francesco (Giotto, Basilica superiore, 1290-92 ca) Fornisce un esempio di rilievo della pittura murale. Si disegnano le cosiddette pezzature di intonaco (giornate), le frecce (frecce di sormonto) e indicano che il pezzo indicato va sopra, quindi dal più recente al più antico (contrario delle frecce di sequenza), i numeri ipotizzano una sequenza diacronica del lavoro, che procede dall’alto verso il basso. Nel mosaico invece l’allettamento delle tessere procede dal basso verso l’alto. I rilievi insegnano la difformità delle pezzature. La scena delle stigmate mostrano pezzature molto piccole che riguardano le mani e il volto del Santo e altre molto più estese come per le rocce sul fondo. Prima delle giornate si procedeva con il sistema delle pontate, cioè l’intonaco veniva dato in grandi porzioni a livello di ponteggi (una pontata) e poi ci si lavorava a secco. C’erano comunque le pezzature, ma erano vastissime. Il Ciclo Francescano di Giotto vede al suo interno la grande evoluzione del pittore stesso, anche sul piano tecnico. Notiamo infatti come nelle prime scene le pezzature siano poche e vaste, per poi diventare sempre più pic- cole e numerose nel corso del Ciclo. Con la venatura del legno si riconosce la sequenza. Discorso diverso per il rapporto tra campo pittorico e cornice. Come per gli affreschi, anche per i dipinti su tavola è importante il rapporto con la cornice. Vale sia per i polittici che per gli oggetti di devozione (genere che si sviluppa in età gotica). Nella fabbricazione della pittura su tavola e nel rapporto con la cornice il canone è che questa è un’opera- zione preventiva. L’opera passa prima dal legnaiolo dove l’opera è assemblata e poi va alla bottega del pittore, dove viene pre- parata con tela e gesso. Solo dopo si procede all’applicazione dell’oro. Questo procedimento vede al di sotto la tela (nei casi delle croci romane può esserci addirittura la perga- mena). Queste incamottature servono per attutire i movimenti del legno e per pareggiare la superficie. I rilievi fatti sulla Croce di Giotto in SMN evidenziano le pezzature della tela sottostante. La tela è sempre presente, nel Quattrocento però verrà limitata ai punti di giuntura. Cennino descrive i procedimenti di impannatura della tavola, poi l’applicazione del gesso (prima quello grosso e poi quello fine). Le colature di gesso ai lati di una tavola dimostrano che questa non è mai stata segata, ma usata per intero. Dopo si passa al disegno. Solitamente è realizzato con pennello (la diagnostica fondamentale in questo caso è la Riflettografia IR). Nel disegno dell’Annunciazione di Duccio notiamo le pennellate. Duccio usa un disegno lineare, definendo ogni piega. Giotto si comporta in maniera molto diversa, lui studia i chiaro scuri. (San Giovanni Evangelista, polittico di Badia, Uffizi, 1295) Sono chiare le pennellate verticali realizzate con la mozzetta, un pennello mosso e tagliato. La preparazione è al tempo stesso un fondo cromatico, un po’ serve per definire l’ombra. Nel caso della pittura su muro prima si incide e poi si applica la lamina, mentre per la pittura su tavola si ap- plica il procedimento opposto. Prima di procede alla pittura si lavora l’oro, che deve essere brunito. La brunitura è questa operazione che si fa mediante l’uso di una pietra preziosa (d’agata). C’era la credenza che più la pietra era preziosa e più la brunitura veniva bene. L’oro andava lavorato finchè non fosse lucente (risultato che noi non vediamo mai). Si passa quindi alla punzonatura, l’incisione. Su tavola le linee più minute sono incise con righello. Sono dettagli che si evidenziano con la riflettografia o con la luce radente. Le linee guida per l’architettura sono incise o disegnate. Cennino si dedica molto alla costruzione dei tessuti e degli incarnati e descrive il procedere, partendo da una base cromatica (per gli incarnati, nella tradizione duecentesca, è il verde terra). Santa Massima (dett. Mano) di Memmi da trittico dell’Annunciazione di Martini (Uffizi, 1333) E’ palese l’uso della base verde per rendere l’incarnato più trasparente. Cennino descrive bene che si parte dal tono medio per costruire ombre e luci. Nella mano si intravede la tessitura delle pennellate. Si nota ancora di più, sempre in Memmi, nella Madonna col Bambino (Pinacoteca di Siena, 1335). Le pennellate sono molto distinguibile nell’insieme. La tessitura crea la sfumatura dal rosa ai toni più lattei, molto diversa per esempio dai “pomelli” rosa di Sant’Angelo in Formis. Cennini chiama il bianco puro “bianchetto” e dice di usarlo con parsimonia. La sapienza in pittura è data dalla capacità di dosare l’uso del bianco o nero puro. Applicazioni e operazioni delle lamine metalliche Oltre alla brunitura ci sono altre operazioni possibili per l’animazione dei metalli, anche in relazione alla pit- tura. Non è il caso della Madonna col Bambino realizzata da Meliore e conservata presso il Museo comunale di Certaldo. (1270-80). Per realizzare le grandi campiture dorate e i nimbi si ricorre alla tecnica della doratura a guazzo (→ le foglie vengono applicate sfruttando il bolo, quello per eccellenza è armeno, che bagnato diventa allappante e funge da collante). Sulle vesti ci sono delle linee, è la crisografia (dal greco: scrittura in oro), Cennino parla di “cardatura”. Si tratta di decorazioni geometriche realizzate con la doratura a missione (→ la missione è un legante). Una volta stesa la missione basta prendere la foglia e applicarla sulla superficie e poi spolverarla con un pen- nellino (dove non c’è missione la lamina si sgretolerà in automatico). Si preferisci per decori più minuti e sottili. Dove questo tipo di doratura cade rimangono macchie scure, è la missione stessa. Tra l’altro la missione può essere corpulenta e quindi forma una sorta di rilievo (es. Annunciazione di Duc- cio, National Gallery, 1311). Pulendo i dipinti in maniera troppo aggressiva (soda caustica) si rischia di grattare via la parte aggettante della doratura quindi riusciamo a vedere l’anima al centro e la doratura solo sui lati. Se la doratura a missione cade, noi la vediamo in negativo attraverso l’impronta. Es. San Giovanni evangelista, Maestro di San Torpè (1348 ca) → il restauro deve restituire condizioni di visibilità il più possibile simili all’originale, ma con il giusto equilibrio per non sfociare nell’artefatto o nella falsificazione. Il primo compito del restauro è la conservazione, dovrebbe valere il principio del minimo intervento (= un restauro è fatto bene se permette di non ritoccare l’opera per il maggior tempo possibile). Nel caso del San Giovanni, se si intraprende una teoria del restauro non critica (tolgo tutto ciò che è sporco) si va a perdere anche il disegno (che è visibile grazie allo sporco del tempo). Per questo motivo la pulitura deve essere equilibrata, lasciando la patina, che protegge l’opera. Un altro tipo di doratura è quello in polvere anche chiamato oro di conchiglia perché veniva lavorato dentro una conchiglia per unirlo al legante. In questo caso quindi si ha un colore più opaco e granuloso, si sviluppa nella miniatura e nel Quattrocento. Gli effetti sono ancora più sottili rispetto alla missione, quasi sabbiature, puntiforme (es. Madonna col Bam- bino e Lionello d’Este, Jacopo Bellini, Louvre), ma è meno splendente. Nel corso del Quattrocento in molti contestano l’eccesiva esibizione del metallo. LBA nel De pictura sostiene che alcuni “lodano l’oro per la maestà che dona alle opere” mentre lui preferi- sce “chi sa fingere l’oro con la pittura”. La reda del lusso è ben studiata nella pittura fiamminga. Per quanto riguarda la lavorazione dell’oro a guazzo abbiamo parlato della punzonatura, ma questa viene introdotta solo nel Quattrocento da Simone Martini. All’inizio si incideva: - “a tratti” -“a punti”→ chiama granitura, mentre a mano libera si chiama stiletto. Prima della punzonatura gli artisti come Giotto o Duccio giovani, nei nimbi incidevano il fondo a tratteggio e in negativo emerge in negativo il motivo decorativo. Nel Polittico di Badia Giotto inserisce due dischi concentrici: uno con girali vegetali, l’altro ha una scritta pseudo araba. Nel caso della Madonna col Bambino del Maestro di Narni (Musée du Petit Palais, Avignone, 1409) la gra- nitura non è solo nel nimbo, ma anche nello sfondo (fantasie vegetali). Il drappo d’onore è invece dorato a missione, meno splendente per via della mancata brunire. Il paradigma della stoffa è l’oro a missione, ma un’altra tecnica è quella dello sgraffito. Nasce con Simone Martini e ne abbiamo un primo esempio nella sua opera l’Annunciazione (Uffizi, 1333). L’angelo è interamente sull’oro salvo mani e piedi (oro a guazzo). Su questo, le vesti sono state realizzate prima stendendo il colore sull’oro, poi raschiando per definire delle fantasie, dove c’è la raschiatura viene poi granito e in u-ltimo ombreggiato e colorato. In questo caso si tratta di una veste cangiante (rosa e azzurro). Come colorante non si usa la tempera ad uovo, ma un legante oro residuoso per cui si parla di vernice. La differenza è che con la vernice il colore è traslucido e non opaco come la tempera. Ci sono alcuni colori, come la lacca di garanza (pigmento rosso) che può essere utilizzata solo con vernici. Anche l’interno della mantelletta dell’angelo è in vernice color verderame (che però tende ad alterarsi). Il vertice del lavoro di incisione e pittura è il vasetto che vediamo in primo piano. Martini utilizza tre punzoni diverse come granitura che si addensano e diradano nei punti di luce, mentre per le parti in ombra ha usato una vernice bruno-rossastra, per creare un effetto di lucentezza piegata all’illu- sione dei materiali. Tecniche dell’oreficeria La filigrana è una tecnica orafa in cui eccelsero i veneziani. La Croce di CF è decorata a filigrana e cabochon (montatura delle pietre) di pietre preziose. In oreficeria una delle tecniche più note è quella dello smalto. Sono paste vitree che vengono cotte dentro supporti metallici. I bizantini sono tra i primi a sviluppare questa tecnica ad alti livelli. Smaltatura cloisonné → dato da membrane d’oro che definiscono l’alveolo all’interno del quale viene colata la pasta traslucida. Due esempi: - Vergine orante, copertina di evangeliario, Biblioteca Marciana, XI sec. - San Giovanni battista, tesoro di San Marco, Venezia, X-XI sec. Oltre al cloisonné abbiamo la tecnica dello smalto champlevé → si sviluppa a partire dalla grande oreficeria renana e limusina (Germania e Francia). Questo smalto è meno pregiato dell’altro, la lamina di base è ramata e viene incisa per creare gli alveoli con la scavatura e non con le membrane, perciò la delimitazione tra gli alveoli sarà più spessa. Es. Cassa di Champagnat, MET, NY, 1150 ca. Lo smalto è opaco e non traslucido. Ci sono poi smalti più complessi, come lo smalto niellato→ uno dei maggiori artisti è Nicolas de Verdun. Nelle sue placchette usa lo smalto solo per i piani di fondo, mente le figurazioni hanno solchi riempiti con mastici. Il niello è proprio il riempimento a mastice dei solchi. Es. Mosè rientra in Egitto, altare di Klosterneuburg, Vienna, 1181 Nella smaltistica ci sarà un ulteriore sviluppo che vedrà protagonista Siena. Contemporaneo di Duccio è l’orafo Guccio di Mannaia, realizza il primo esempio di smalto traslucido. Lo troviamo nell’unica opera accertata, ovvero il calice che realizzò con questa tecnica per Niccolò IV tra 1288-92 e ora conservato nella Basilica di Assisi. Il termine indica uno smalto pittorico che contempla la sfumatura e la resa dei volumi (si differenzia dal cloisonné e dallo champlevé per il fatto che questi erano campiture). Il vertice di questa smaltatura è a Orvieto nel reliquiario del Corporale, opera di Ugolino di Vieri, Duomo, 1336-39. Questa tecnica consiste in una lamina di base argentata lavorata con un bulino (quindi incisa) e su questo si cola la pasta (in diversi colori) che viene cotta. Essendo una pasta traslucida, dove il solco è più profondo ci sarà più pasta e quindi un colore più scuro e viceversa. Commessi marmorei: opus sectile e opus tessellatum Opus tessellatum→ tessere quadrate di uguale dimensioni (=mosaico). Il mosaico tardo antico usa anche tessere vitree, di norme sono tessere marmoree. Può essere anche pavimentale a rappresentare storie dell’Antico Testamento o dei mesi (mai storie di Cri- sto). Es. mese di Maggio, Tournus, Borgogna, sec. XII Opus sectile→ il commesso marmoreo, marmi pregiati intagliati. A Ravenna, nelle zoccolature basse abbiamo marmi pregiati (porfido e serpentino), ma nei decori minuti parliamo di opus sectile. Vi si fanno anche figurazioni (in ambito bizantino, per es, Sant’Eudocia¸ Museo archeologico, Istanbul). San Jacopo, San Filippo e San Luca, Grecia, sec. X-XI → riempimento di mastice. Rilanciata da Venezia in età romanica. Elia rapito sul carro di fuoco Elia viene quasi trascinato dall’angelo, sta perdendo il mantello che viene recuperato da Eliseo. Si trovano nel deserto, quindi il paesaggio è aspramente roccioso, con due pastori, lucertole, serpenti. Le vesti svolazzanti dell’angelo rappresenta una sigla che verrà codificata. Crocifissione Va verso la riduzione al piano e alla superficie. Non si vedono neanche le croci, solo le braccia in posizione. Fondale architettonico elementare che allude a Gerusalemme. Mentre a Ravenna, tra IV e V sec. abbiamo una serie di sarcofagi organizzati in maniera schematica e con figurazioni emblematiche (pavoni affrontati ad una palma, il monogramma, l’agnus dei), nel IV sec. ab- biamo una raffigurazione ricca di figure. Es. Sarcofago del Buon Pastore (Musei Vaticani, Roma, IV sec.) Vediamo un intrico vegetale (viti) che unifica l’immagine. Ci sono puttini che vendemmiano e pigiano l’uva, che mungono una pecora. Quindi predominano il tema vitineo e pastorale. Più stagliato sul piano liscio e poi geometrizzato nell’andamento è il Sarcofago porfiretico di Elena, madre di Costantino (Musei Vaticani, Roma, IV sec.). Insieme a questo è conservato anche quello (presumibilmente) di Costanzo. In quello femminile il tema è la vendemmia, con putti e pavoni (immagine ricorrente anche a Ravenna). Il Sepolcro porfiretico di Costanzo ha scene di assoggettamento dei barbari, popoli sottomessi all’impera- tore. E’ un po’ come i rilievi del tempo di Costantino, senza piano di posa e su fondo liscio. Sarcofago di Giunio Basso (Musei Vaticani, Roma, 360 d.C.) In alto c’è l’iscrizione col nome del console che lo ha commissionato e la data. Siamo in età teodosiana. Strutturazione architettonica su due registri, con colonne spiralate mentre altre hanno dei racemi vegetali, erbe rampicanti. Sopra è a trabeazione continua, sotto si alternano lunette e timpani. Abbiamo 10 scene dal N e dall’A T non in sequenza diacronica. In asse una maiestas (Cristo tra Pietro e Paolo) con l’ingresso di Cristo a Gerusalemme (→ a sua sx Daniele nella fossa dei leoni e a dx il Peccato). Nella scena dell’Ingresso vediamo un fanciullo arrampicato sull’albero e l’altro che getta il mantello ai piedi di Gesù. Le colonne ai lati sono completate da capitelli compositi. Le scene hanno solitamente tre figure e sono animate e con aggetti importanti, si va nel sottosquadro, hanno il senso del tutto tondo. Il panneggio è molle, ad evidenziare il corpo ed il movimento. Cristo è giovane→ nell’arte paleocristiana fino al VI sec., quindi anche a Ravenna nella Maiestas è un cristo giovane. Verrà rimpiazzato dalla figura più matura con il Cristo Pantocrate. Nella scenetta centrale dell’ordine superiore Cristo sta consegnando la Legge a Paolo e le chiavi a Pietro. Il modo di scolpire è sensibile. Arco di Costantino (Roma, 312-15 d.C) A: epoca di Traiano (98-117 d.C.) B: epoca di Marco Aurelio (161-180 d.C.) C: epoca di Adriano (117-138 d.C.) D: epoca di Costantino I fregi lunghi raffigurano la messa in scena della corte imperiale che si affaccia dai podi, in gesti quasi rituali (Adlocutio e Liberalitas Augusti). Sull’arco troviamo anche dei tondi, uno dei quali raffigura il Carro del sole, da confrontare con quello di spolio di età adrianea in cui è raffigurata la Caccia all’orso. Bisogna distinguere tra arte ufficiale e privata. Nell’età di Teodosio queste due strade si separano nettamente. Vetro dorato e graffito (poi inserito nella Croce di Desiderio). Sul vetro viene applicata una lamina d’oro poi graffita in punta di stiletto e colorata. Si pensa che raffiguri Galla Placidia (figlia di Teodosio e moglie di Costanzo III) con i due figli Giusta Grata e Valentiniano III. Galla Placidia è una figura centrale del V sec. in quanto moglie di un imperatore e madre di un altro (per il quale fu a lungo reggente). Importantissimo il genere degli avori, dono prediletto dai consoli quando venivano eletti. Di conseguenza gli avori celebrano il console, nel caso di quello dei Lampadi (fine V sec.) lo vediamo in- tento a dare il via ai giochi. Oltre agli avori c’è la realizzazione di vassoi in argento sbalzato. Gli aggetti sono realizzati lavorando dal dietro e sul davanti si aggiunge il lavoro di cesello. Prendono il nome di missori. Mausoleo di Galla Placidia – Ravenna (inizio V sec.) I centri di potere più importanti oltre Roma sono Milano e Napoli. In entrambe abbiamo testimonianze di mosaici del tempo di Galla Placidia. Galla succede ad Onorio e sposta la capitale da Milano a Ravenna, morirà e sarà seppellita a Roma. E’ un monumento straordinario, molto piccolo. L’impianto è a croce greca imperfetta, comunque non è longitudinale. La struttura ruota intorno alla cupola centrale, che all’esterno è mascherata da un tiburio quadrangolare. Nell’architettura ravennate gli esterni in laterizio sono essenziali, a contrasto con l’articolazione ricca degli interni, a giocare sull’effetto sorpresa. I quattro bracci della croce sono voltati a botte. All’interno tutto è rivestito da mosaici fino al livello di imposta degli archi, oltre ai quali c’è il marmo. Le tessere musive sono vitree o con marmi pregiati che danno grande intensità luminosa. In realtà più che un mausoleo era un oratorio dedicato a S. Vincenzo. L’oratorio era annesso al nartece della chiesa della Santa Croce (che ora non c’è più). Questa testimonianza è importantissima anche in relazione alla nascita dell’arte bizantina, perché le raffigu- razioni monumentali di questi secoli sono tutte andate distrutte con l’iconoclastia. Tutto è dominato dalla cupola, non c’è ancora il Pantocrator, ma il trionfo del simbolo. La croce dorata è al centro dell’universo ricoperto da cerchi concentrici di stelle che decrescono verso il ver- tice e si disciplinano (da caos all’ordine). Nei pennacchi c’è la simbologia ricorrente del tetramorfo, i quattro viventi dell’Apocalisse, ma in realtà era già la visione di Ezechiele che poi ritorna nell’Apocalisse. La religione cristiana vi riconosce i 4 simboli degli Evangelisti: - San Marco = leone - San Luca = toro/vitello - San Giovanni = aquila - San Matteo = angelo Nel tiburio ci sono le quattro lunette ognuna delle quali con una coppia di apostoli che indicano tutti verso l’altare maggiore. I due apostoli dalla parte alta della croce sono Pietro e Paolo. In questo caso gli angoli smussati per l’allettamento delle tessere sono percorsi da fasce con tralci di vite o con nastri spiralati, tridimensionali. Si va verso decori bidimensionali ed elegantemente stilizzati. Gli apostoli sulla parete indossano la toga clavata e i simboli (come la valva e la fontanella) rimandano all’origine della vita. San Vincenzo o San Lorenzo (?) che sceglie il martirio in testimonianza della fede (lunetta sopra la parete di fondo, Mausoleo Galla Placidia, inizio del V sec.) Santo dedicatario. Si intravede volta a botte con stoffe stilizzate e le incorniciature hanno motivo di retaggio classico (cani cor- renti). La scena raffigurata non è narrativa, è emblematica. Non si raffigura il martirio, ma la sua scelta volontaria del martirio. Vincenzo si fa uccidere per volontà sua, a dimostrazione della sua fede. Si rifà alle parole del Vangelo “chi vuole seguire me, prenda la sua croce”, mentre nella mano sinistra tiene il Vangelo stesso. La figura è in pieno movimento, enfatizzato dalla toga clavata svolazzante (prototipo del movimento che nei bizantini sarà attribuito anche alle figure statiche). Vincenzo si dirige verso le fiamme e di fronte a lui l’armadio contenente i Quattro Vangeli. Possiamo dividere l’arte ravennate in tre momenti: 1. Tempo di Galla Placidia (Mausoleo e Battistero neoniano) 2. Età di Teodorico 3. Età di Giustiniano Battistero neoniano o degli ortodossi, Ravenna (440 ca) Fondato per volere del vescovo Neone. Pianta ottagonale con all’interno una decorazione complessa e ricca. Due registri di arcate: - Inferiore→ alterna esedre negli angoli a pareti lisce con opus sectile e pennacchi con racemi color oro e toni azzurro - Superiore→ claristorio con finestre in grande luce, inquadrate tra trifore riempite ai lati da stucco con fi- gure di santi, profeti etc. dentro delle edicole. Al di sopra c’è l’imposta della cupola, anche questa su tre registri: - al centro clipeo con Battesimo di Cristo Il dettaglio quindi del mascherone fogliato è indicativo, perché le ombre sono molto aggressive, ma iniziano a schematizzarsi. Lo sguardo è corrucciato e sugli zigomi si delinea una graficizzazione del passaggio da luci a ombre. Avori dell’età di Giustiniano Questo tipo di complessa evoluzione si coglie bene negli avori. Un avorio di tipo narrativo è la valva con le Marie al sepolcro e ascensione di Cristo (Dittico eburneo, Bayerische Nationalmuseum, 400 ca.). Vediamo le prime formulazioni di temi cristiani in maniera fortemente animata, vivace e naturalistica. Descrizione molto analitica del sepolcro (edificio cupolato a pianta centrale) sui cui lati stanno due soldati addormentati. La figura in primo piano è un angelo che per noi non è immediatamente riconoscibile perché aptero, ma chiaramente è l’angelo che parla con le tre pie donne. Si nota la delicatezza del panneggio che avvolge il corpo, emerge una parte di coscia dell’angelo. Anche delle donne si vedono spalle e braccia. La scena in alto è invece l’Ascensione, realizzata secondo una formulazione tardoantica che verrà poi supe- rata in ambito bizantino da una figurazione ieratica, con il Cristo all’interno di una mandorla, in asse con la Vergine orante e gli apostoli intorno. Arianna (avorio, Musée de Cluny, Parigi, prima metà VI sec.) Sul crinale tra eredità del naturalismo sensuale tardo antico e questa geometrizzazione. Altri avori di inizio VI sec.: - Impertrice Ariadne, Bargello→ inizio VI sec. Edicola con aquile e festone, cortine annodate sulle colonne ai lati che fanno parte di una fastosità scenogra- fica illusionistica di tradizione tardo antica. Esagerazione nel marcare le perle, le vesti, le pietre preziosi e la corona fanno parte di una deriva decorativa. Avorio Barberini (Imperatore Giustiniano a cavallo), Louvre, VI sec. Uno dei capolavori della rinascenza giustinianea. Imperatore raffigurato nell’adventus, mentre una figura di donna supplice rappresenta i popoli sottomessi all’imperatore. Questo concetto viene esplicitato più in basso con la rappresentazione di cinque province che rendono omaggio all’imperatore. In alto Cristo benedicente con sole, luna e stelle a rappresentare la dimensione universalistica di Cristo, sor- retto da due angeli in volo. In questo caso va notato come l’avorio centrale sia più aggettante rispetto al resto (quindi abbiamo due li- velli, uno di basso e uno di alto rilievo). L’altorilievo di Giustiniano evidenzia il movimento turbinoso della figura in fase di torsione. Ancora notevole dinamismo, ma intaglio più schematico (come Arianna a Cluny), corpo ancora muscoloso. Impreziosimento decorativo (smeraldo su fronte cavallo). Figurazione sull’orlo tra senso vivace ed espressivo e l’astrazione grafica. Cattedra eburnea di Massimiano, Ravenna, Museo arcivescovile, 540 ca. Viene da San Vitale. L’anima è in legno, poi ricoperta con placche di avorio ricavate da zanne di elefante. Anche schienale rivestito con storie dell’A. e N. T. e sull’alzata vediamo temi vitinei, pavoni e il mono- gramma di Massimiano. Storie del Battista contro una nicchia e ai lati 4 evangelisti: i due più vicini al Battista sono in qualche modo altorilievi, mentre i due più esterni sono bassorilievi schiacciati. Si riproduce in qualche modo il doppio registro di rilievo già visto nell’avorio del Louvre. Il panneggio è fasciante e a pieghe fitte, con un braccio avvolto nel panno. La figura si anima in un gesto quasi benedicente, mentre con l’altra mano tiene il Vangelo. Da notare anche l’importanza dell’incorniciatura architettonica, anche se le nicchie stanno diventando ele- menti di fondale. Ravenna sotto Teodorico: Sant’Apollinare Nuovo Prima di questo momento c’è un periodo di forte crisi. Sant’Apollinare Nuovo era la cappella interna al Palazzo. Rimangono ad oggi i mosaici delle due pareti. Vediamo disporsi tre registri nelle pareti lisce cadenzate da claristorio: 1. Basso → processione dal palazzo di Teodorico per i martiri, che si dirigono verso Cristo tra gli angeli, mentre le vergini partono dal porto di Classe e si dirigono verso una maiestas mariana con l’Adorazione dei Magi. Figure specchiate. 2. Centrale→ una serie di apostoli e profeti. 3. Alto→ scene del Vangelo e valve (sopra i santi). Le raffigurazioni sono molto bidimensionali e schematiche. Al tempo di Giustiniano e Massimiano ci fu una damnatio animae nei confronti del periodo di Teodorico, al punto che parti dei mosaici furono coperti (ma rimangono ancora i segni, es. Palazzo di Teodorico – mano dalla cortina). Nella tradizione medievale Teodorico verrà associato ad una figura malvagia, nel duomo di Verona c’è un rilievo di Niccolò (XII sec.) con la Caccia di Teodorico. Le valve poste sopra i santi non sono rette da elementi costruttivi, con colori vivaci e perle. Il grande tema è la corona gemmata, che sovrasta tutti i santi, sopra c’è la croce gemmata e i due colombi. Le scenette del terzo ordine sono riquadrate e stagliate sull’oro, mentre nella basilica Liberiana erano contro fondali rosseggianti e atmosferici. Ricerca della chiarezza didascalica. Conversione di Pietro e Andrea→ invece che interagire con loro Cristo è rivolto all’osservatore, il gesto be- nedicente laterale è quello che si connette con i due apostoli. Il modo di narrare è sempre più concentrato in pochi e rigidi gesti. Ultima cena→ messa in scena come un triclinio romano, figure recumbenti e distese, Cristo da una parte e apostoli attorno a questo emiciclo. Tra V e VI sec. si mettono a punto iconografie nuove e nuovi schemi compositivi che saranno poi trasmessi nei secoli. Questa impostazione della Cena verrà riproposta, un po’ riadattata a Sant’Angelo in Formis (XI sec.). Mausoleo di Teodorico, Ravenna, 510 ca. Struttura in pietra d’Istria formata da due registri decagonali, coronata da cupola monolitica decorata all’in- terno con un mosaico con la pura croce stagliata su fondo abbagliante. All’esterno vediamo motivi decorativi “a tenaglia” di origine barbarica nel fregio. Costantinopoli: Hagia Sophia Dopo Teodorico e le guerre greco-gotiche c’è stata la riconquista da parte dell’imperatore di Costantinopoli dell’Italia e il ristabilimento di Ravenna come capitale. Anche con l’invasione dei Longobardi, per due secoli, il controllo delle coste rimane all’imperatore bizan- tino quindi convivono entrambe le realtà. Possiamo conoscere un po’ l’arte monumentale dell’età giustinianea grazie ad una delle più grandi chiese della cristianità: Chiesa della divina Sapienza (Santa Sofia). Costruita tra 532-37 (architetti: Antemio di Tralle e Isidoro da Mileto), pianta quasi quadrata e dominata da cupola inscritta in un quadrato dal quale si aprono due esedre, una a oriente e una a occidente, a loro volta rette da 3 esedre per parte. Le esedre minori sono organizzate su tre registri da una serie di arcate. Guardando dentro le cupole e i catini si aprono sulla linea di imposta una serie di finestre molto cospicua. Altre ancora si aprono sulle pareti laterali. Il quadrato della cupola è orientato ad est. In qualche modo abbiamo quindi due navate laterali che stanno oltre le arcate e il matroneo (galleria supe- riore che si trova sul lato meridionale e settentrionale). E’ una specie di unione dello schema a pianta centrale e di quello basilicale, ma domina quello centrale con la cupola. Sotto alla cupola si trovavano l’altare maggiore e il pulpito. Forte ricerca di effetti illuministici che nell’arco del giorno fanno sì che la luce scorra e crei degli effetti che smaterializzano la consistenza quadrata dell’edificio stesso. I contemporanei rimasero esterrefatti dall’edificio e Procopio di Cesarea scrisse una descrizione della sua bellezza, nel quale sottolinea proprio l’effetto dei raggi di luce che penetrano nell’edificio. I mosaici e le figurazioni all’interno della chiesa sono andati tutti distrutti con l’iconoclastia (→ momento della distruzione delle immagini idolatre che colpisce l’Impero bizantino nell’VIII e ancora nel IX sec.). Possiamo ancora apprezzarne i capitelli, che sono una rottura rispetto alla tradizione classica. Abbiamo ancora volute che in qualche modo rimandano al capitello composito, ma ora è diventato una forma di raccordo geometrica, con un imbuto che si stringe sulla colonna e il piedritto. La struttura continua che raccorda la colonna all’abaco è detta “capitello-imposta”. Notiamo la lavorazione virtuosa, a sottosquadro, che va a creare un effetto di trina che riveste le superfici con motivi fogliacei a linee seghettate o a girali ma di tipo molto modulare. La modularità e la geometrizzazione minuta sono caratteri tipici dell’arte protobizantina. L’effetto finale è la smaterializzazione. Noi capiamo quest’arte protobizantina dell’età di Giustiniano anche grazie a Ravenna, sede dell’esarcato e quindi in stretto legame con Costantinopoli. Alla fine delle guerre greco-gotiche conosce quello che è probabilmente il suo massimo periodo di splen- dore. Rimarrà in mano bizantina fino al 752, quando la conquistarono i Longobardi e non avrà più la stessa impor- tanza. Grazie a questo declino è stata garantita una conservazione che è mancata nelle altre città. Basilica di San Vitale,(Ravenna, iniziata nel 526, consacrata nel 547 ca.) Possiamo considerarla l’Hagia Sofia ravennate. Edificio a pura pianta centrale con grandi finestre e aperto sulle pareti che sorreggono la cupola da una serie di esedre, per creare senso di dilatazione. All’esterno invece è nudo ed essenziale in laterizio. Nella pianta si vede l’ottagono interno/esterno e il giro di esedre (7 in totali perché l’ottavo lato è sfondato dal presbiterio). Proprio nel presbiterio si trovano i mosaici superstiti e nell’abside le scene di Giustiniano e Teodora. Il nartece è leggermente slittato per essere allineato su un angolo dell’ottagono per ricavare gli spazi per l’accesso alle torri scalari che danno accesso al “matroneo” (forse meglio tribune o gallerie). All’inizio del Novecento la cupola centrale aveva delle decorazioni tardo barocche che sono poi state di- strutte per mettere a nudo uno spazio che in realtà doveva comunque essere più ricco anche nel VI sec. La percezione dello spazio è molto simile ad Hagia Sofia perché cangiante, via via che si gira nell’ambula- cro abbiamo un gioco di spazi dilatati e variabili. Nel vestibolo abbiamo resti di stucchi, in origine dorati e colorati, in forma di lacunari e girali che si stiliz- zano in forma di horror vacui come a Galla Placidia. Capitello-imposta: di raccordo geometrico tra il collarino (connessione con il fusto della colonna) e quello che una volta era l’abaco, ora è l’attacco del pulvino. Ci sono anche note di colore e dorature che danno l’idea della percezione colorata e preziosa che anche l’arte giustinianea doveva avere, evidenziando nei pulvini le simbologie tipiche ravennate, gli animali af- frontati ad una croce o colombe/pavoni che si abbeverano a vasi di tipo classico, tradotto in maniera bidi- mensionale. Il corpo di questo capitello è traforato con un motivo molto interessante che sono le “rote” che nei pavimenti bizantini e romani e nell’opus sectile saranno legate da fettucce continue nel motivo del quicunx. In San Vitale non abbiamo solo i capitelli-imposta, ma anche l’imitazione dei capitelli corinzi e compositi con un taglio però più schematico. C’è poi tutta una varietà di nuove tipologie sorte in età giustinianea e in generale tra V e VI sec.: - Faltenkapitellen→ “capitelli a piega” o “a melone” che hanno questa forma su cui si distende un decoro a foglie minute. - A foglie ventose→ questo tipo avrà un recupero nel Duecento, nei capitelli di San Fortunato (Todi) e avranno un seguito anche in ambito bizantino, per esempio a San Demetrio (VII sec.) a Salonicco. Fogliame corinzio scomposto in una doppia corona di foglie animate in entrambi i sensi. Scendendo abbiamo due palme che riempiono i pennacchi e due arcangeli maggiori (Michele e Gabriele) con l’abito tipico bizantino, con la clamide fissata sulla spalla e reggono il trialion (tabella processionale con scritto “santo santo santo”). L’arcangelo è posto su una pedana gemmata con scorcio un po’ incerto. Scultura ravennate Testimonia la deriva verso le simbologie in tendenziale aniconismo. Pulpito di Sant’Apollinare Nuovo→ la forma di questi pulpiti aveva una scala di salita da una parte e una di discesa dall’altra (i prolungamenti laterali segnano il punto d’arrivo delle scale). Questo è lo schema tardo antico dell’ambone. Il rigonfio è il lettorino, l’affaccio del pubblico. L’ambone di Sant’Apollinare è aniconico, con sfere sormontate da croci e basta. Nel caso di quello di SS. Giovanni e Paolo è tutto decorato con pesce, pavone, agnello, colombo (simbologie cristologiche). Anche nei sarcofagi ravennati, fin dal V sec., predomina la simbologia. In quello di Valentiniano III o Onorario (c/o Galla Placidia) abbiamo due nicchie ai lati e un’edicola timpa- nata al centro piegate a ospitare le croci, l’agnello, gli uccelli. Quello che invece si trova in Sant’Apollinare in Classe vede trionfare il chrismon (monogramma dal greco Christos). Il Chrismon è spesso completato dall’alfa e dall’omega, che sono un riferimento all’Apocalisse (il Cristo della Parusia si annuncia dicendo di essere “il primo e l’ultimo”). Vediamo poi due pavoni affrontati e i tralci vitinei. Malinconia romana (sec. VI) Abside di SS. Cosma e Damiano Sembra che a Roma la continuità con il pittoricismo viva di più, ma anche qui il tenore visionario è fortis- simo. Non si ha ancora lo sfondo dorato, ma azzurro e il Cristo non è in ascensione, ma troneggiante in gloria nel gesto dell’adventus. Nella mano sinistra tiene una pergamena. Ai suoi lati abbiamo Cosma e Damiano e poi SS. Pietro e Paolo, papa Felice I che la consacra nel 525 e dal lato opposto San Felice. Interessante questa scala di nubi rosseggianti che crea questo effetto di sfondamento verso l’infinito e dà una grandiosità al gesto del Cristo che sovrasta. Possiamo confrontare il volto di S. Cosma con i mosaici di mezzo secolo prima a Salonicco. In entrambi i casi abbiamo gli occhi dilatati, ma a Salonicco (che gravita su Costantinopoli) c’è maggiore regolarità geometrica. La testa di S. Cosma è più naturalistica. 9. Le invasioni barbariche e l’arte dei longobardi Da metà VI a metà dell’VIII sec. Nel 568 d.C. Alboino dilaga con i suoi uomini un po’ in tutta Italia, a partire dalle valli e dalla dorsale ap- penninica. “I longobardi ci hanno messo due anni a conquistare l’Italia, ma due secoli a conquistarla culturalmente”. Fu un momento traumatico e il momento a cavallo tra VI e VII sec. fu di grande smarrimento. Fu il tempo di Gregorio Magno, periodo fondamentale per l’avvio della trattistica medievale e il tramanda- mento dei testi classici (es. Isidoro da Siviglia). Quello che avviene con questi popoli barbarici e militari, che creano dei loro insediamenti e solo per gradi si uniscono all’etica senatoria della classe romana, è un fenomeno complesso. Per questo si parla di “arte dei longobardi” e non di “arte longobarda”. Bisogna innanzitutto distinguere il primo secolo di dominazione (VI sec.) dall’VIII sec. Da principio i longobardi portano con sé gli usi barbarici e i corredi nelle sepolture (le forme d’arte che co- nosciamo sono legate a questi usi, quindi gioielli e oreficeria destinati ai defunti). Il salto di qualità che avviene nel passaggio all’VIII sec. è la dimensione dell’arte monumentale. Gli studiosi dell’arte di questo periodo usano il termine “evergetismo” (→ l’investimento da parte di vassalli e principi longobardi nella costruzione e decorazione di chiese, costruzione di monasteri). Questo avviene appunto con gli ultimi re longobardi, in particolare Liutbrando. Il regno longobardo non è una dinastia ereditaria, ma un re elettivo e questo fa sì che anche la capitale del regno cambi: nel corso dell’VIII sec. si passa da Pavia (Liutbrando) ai duchi di Cividale e alla fine Desiderio (Brescia). Verso l’astrazione Quando si parla di popoli barbarici c’è chi “accusa” la cultura nordica di aver portato a questa sterzata verso l’astrazione, ma queste tendenze in realtà arrivano da ovunque. Pitture murali sinagoga di Dura Europos, Siria ai confini con Iraq (244 d.C.) Scoperte a inizio Novecento. Raffigurate narrazioni della Bibbia (Mosè che fa scaturire l’acqua dal deserto o mentre separa il Mar Rosso, le tribù d’Israele con la Menorah) con colorazioni vivacissime, bidimensionali e con il sormontare dell’in- tento didascalico, quasi fumettistico. Siamo molto prima della Genesi di Vienna, ma l’aspetto gerarchizzato sembra già medievale. Da un sepolcreto di primissima età longobarda all’Isola della Scala (vicino Verona) è stata scoperta una serie di missoria con varie scene, ad es. Scena di combattimento in cui vediamo un vittorioso a cavallo e un fante perdente (raffigurato prima vivo e poi sconfitto). Questa raffigurazione della diacronia sarà un leitmotiv medievale che arriverà al Trecento (Maso di Banco nelle Storie di San Silvestro in Santa Croce mostrerà i morti e i miracolati uno di fianco all’altro). Inoltre questo missorium è in argento sbalzato e mostra una certa qualità plastica. All’inizio i longobardi prendono artisti locali, con tradizioni diversi. Però è evidente che il mestiere va semplificandosi e decadendo, come vediamo da questo sarcofago (Urna funeraria, Museo di Castelvecchio, Verona, VI sec.) che riprende i temi ravennati delle arcate con le nic- chie, i colombi, ma la semplificazione è brutale. Nei grandi centri (Ravenna e Roma) questo passaggio è un po’ più morbido. Soprattutto a Roma c’è un tono più sostenuto e aulico che si perpetua nel VII sec. San Lorenzo al Verano (Basilica pelagiana), dett. Arco trionfale (Roma, fine VI sec.) Doppia basilica. Si vede l’arco trionfale di un’abside con una maiestas ai cui lati vediamo SS. Pietro e Paolo contornati da altri due santi, fra cui S. Lorenzo che presenta il vescovo Pelagio, fondatore della basilica. A differenza del mosaico di SS. Cosma e Damiano c’è grande appiattimento delle figure, disposte secondo una linea simmetrica. Agli estremi le due città gemmate. La semplificazione consiste anche nell’annegare le figure nell’oro, decontestualizzarle e creare questo vuoto senza tempo, come dimostra l’abside di Sant’Agnese fuori le mura (Roma, 625-38) in cui vediamo la santa in mezzo a due pontefici: Simmaco e Onorio. Sant’Agnese è raffigurata come regina perché la corona indica la dignità del martirio, lei fu arsa su un rogo e quindi ai suoi piedi ci sono delle fiamme. La figura è ieratica e si staglia sull’oro e anche il firmamento è molto schematizzato, con la dextera dei che porge la corona gemmata. Al tempo della Basilica pelagiana risale anche il Vangelo miniato di Rabbula (586 d.C.) ora conservato alla Laurenziana. Noi possiamo intercettare il tipo di raffigurazione che si usava al tempo nell’ambito dell’oriente del Mediter- raneo. Anche l’ambito bizantino è variegato, abbiamo una perpetuazione del linguaggio di tradizione ellenistica più sofisticato a Costantinopoli, forse ad Antiochia e ad Alessandria. Se poi andiamo verso l’Egitto copto, nei monasteri sirio-palestinesi, il linguaggio si fa più colorito, icastico e astratto come nel Vangelo di Rabbula. Il Vangelo di Rabbula ha un modo di dipingere liquido però non tanto illusionistico, i profili sono ben mar- cati, silhouette che evidenziano i gesti. Si codifica la composizione per esempio dell’Ascensione di Cristo (poi ripresa dai bizantini), assiale, sim- metrica, Vergine orante con braccia sollevate e ai fianchi due angeli che additano agli apostoli il Cristo che ascende. C’è ancora un linguaggio dinamico, non è rigidamente assiale. Unisce il carro di Ezechiele con il tetramorfo. Nella genesi delle nuove iconografie è molto importante la Crocifissione. Il Vangelo di Rabbula ci fornisce uno dei primi esempi. Gesù è in croce con la tuta smanicata (colobio), nell’alto Medioevo questa raffigurazione è ricorrente, poi anche la tunica con le maniche. Ai lati i ladroni doloranti e poi due figure (che nel Medioevo saranno costantemente ripetute nella stessa po- sizione: il longino che trafigge il costato e Stefano che gli porge la spugna imbevuta di aceto. Sempre dal Vangelo di Rabbula vediamo le tavole canoniche. All’inizio del Vangelo ci sono le concordanze tra i quattro evangelisti, organizzate sotto a presunte nicchie architettoniche, ma è già impressa una forte deriva bidimensionale e i motivi degli ornati si codificheranno nella miniatura bizantina. Ci sono gli evangelisti al lavoro sotto queste edicole bidimensionali e notiamo l’arco oltrepassato, normal- mente noi lo riteniamo islamico, ma si deve stare attenti perché l’arte islamica è una filiazione di quella bi- zantina. Da principio esaspera l’aspetto aniconico e decorativo, sviluppa temi viridari e verzieri come vediamo nella moschea Omayyadi (VIII sec.) con un vocabolario tardo antico mediato dai bizantini. In quel caso abbiamo documentato che il sultano omayyade chiama artisti da Costantinopoli per venire a la- vorare. Quindi l’arco oltrepassato è di origine orientale, ma le origini orientali possono provenire da molti filoni di- versi e le mediazioni sono il mondo dell’impero d’oriente in cui irrompe l’Islam (VIII sec.). L’enigma di Castelseprio Castelseprio (Varese) è una città di fondazione longobarda decaduta alla fine Medioevo e poi riscoperta nel 1944 da Bognetti. L’edificio è un triconco (una pianta tipica dell’Asia minore) ovvero un quadrato su cui si affacciano tre ab- sidi uguali e la maggiore ospita il ciclo. Già la scelta di questa pianta fa capire che i longobardi puntavano a copiare modelli dal mondo bizantino, quindi si evidenzia la commistione delle culture. Le pitture oggi sono molto rovinate e non datate, ma dobbiamo immaginare colori più vivi. La velocità e l’intensità espressiva eredi della pittura compendiaria tardo antica, ma già geometrizzata. Proprio la commistione aveva portato gli studiosi a datare la chiesa in continuità con la rinascenza giustinia- nea (quindi i primi momenti di insediamento dei longobardi). La tendenza prevalente oggi è di datarli al IX sec., ma non hanno nulla a che vedere con la rinascenza caro- lingia, opera di artisti venuti dall’oriente, dal mondo greco. La forza dell’impero bizantino è tale che a Roma stessa, tra VII e VIII sec., si parla greco, come dimostrano alcune iscrizioni ad esempio in Santa Maria Antiqua (Roma). Il sogno di Giuseppe Il tema di quest’abside è la verginità di Maria. Un angelo compare in sogno a Giuseppe per confortarlo e convincerlo a non ripudiare Maria. La figura dell’angelo è avventante e il panneggio è geometrico, ma sfumato dal rosa all’azzurro. Anche il nimbo è azzurro e ci sono dei colpi di luce che poi hanno una pittura ancora cremosa, liquida. La figura di Giuseppe quasi si contorce nel sonno e nonostante la geometrizzazione ancora esprime forte energia patetica (storcimento polso=sonno inquieto). C’è ancora forte carica espressiva e residui di illusionismo, per esempio nella coscia, che è diventata un vo- lume geometrico e astratto, però è ancora rotonda, evidenziata da pennellate bianche (che poi diventeranno questi stilemi puramente decorativi e astratti dell’arte bizantina). Anche se la datazione è al IX sec. questo ciclo testimonia l’incubazione del linguaggio bizantino. I codici irlandesi viaggiano, c’è un movimento di ritorno anche storico. I monaci irlandesi scendono a rievangelizzare l’Europa. La vicenda più esemplare è quella di San Colombano, monaco irlandese che tra il VI e VII sec. fondò un monastero a Bobbio. Un aspetto dei codici irlandesi insulari è il gioco con le iniziali che diventano oggetto di manipolazione de- corativa. Nel Libro di Kells abbiamo un esempio di Chi Rho (monogramma di Cristo), ma si fa fatica a riconoscerle per via del corpo sottilmente deformato. Le parti completamente astratte prendono il nome di carpet pages. Sempre nel Libro di Kells possiamo trovare una pagina sinottica con il tetramorfo dentro una struttura archi- tettonica tetrarchica, ma anche l’angelo di San Matteo con in mano il Vangelo. Il Vangelo di Lindisfarne (Northumbria, secondo decennio del sec.VIII, ora alla British Library) rappresenta un chiaro esempio di carpet page. Questo Vangelo offre anche esempi di iniziali lavorate, quasi ingioiellate, riempite di colori vivi. La grafia è a tratti spigolosa e con entasi (sistema dinamico). Ci sono anche piene pagine con gli evangelisti all’opera, stagliati contro il bianco della pergamena e con una semplificazione minimalistica dell’ambientazione. Anche i miniatori insulari hanno dei modelli di ispirazione, come nel caso del San Matteo di Lindisfarne ispirato al Codex amiatinus, un’opera in cui si indeboliscono gli ultimi echi di un mestiere tardo antico a fronte del quale il miniatore del San Matteo imprime un’energia fresca e giovane. Il secondo tempo dell’arte dei longobardi (sec. VIII): Pavia di Liutprando; Cividale di Ratchis; Bre- scia di Desiderio Questo è il secolo in cui i longobardi si sono assimilati alla classe senatoria e si sono “mischiati”. Della Pavia di Liutprando abbiamo fonti che descrivono i palazzi, i marmi, i mosaici, ma non rimane nulla di davvero importante. Residui monumentali resistono invece a Cividale e a Brescia. Brescia Con l’evergetismo dei longobardi nasce questa importanza dei monasteri femminili (accoglievano le donne dell’aristocrazia che non si sposavano). Erano centri di potere anche importanti, dai quali dipendevano grandi terre. Diventavano elementi identitari della cultura liturgica? Il monastero di Santa Giulia, fondato dalla regina Ansa (moglie di Desiderio) include la basilica di San Sal- vatore che imita quelle di Ravenna. Ha un impianto basilicale e possiamo notare i frammenti degli stucchi che decoravano i sottarchi con geo- metrie ad intrecci, nastri molto stilizzati. C’è un imprinting di forte geometrizzazione. Ci sono anche i resti delle pitture che possono richiamare Castelseprio. Cividale del Friuli Qui sono molte le testimonianze, in particolare il tempietto longobardo di Santa Maria in Valle, ma anche il fonte battesimale con iscrizione del vescovo Callisto → è già un monumento di spolio come si capisce dal parapetto che riusa plutei o paliotti (= fronte d’altare. Questo presenta una croce trionfante in mezzo al tetra- morfo) e anche gli archi sono stati ritagliati. Si tratta comunque di pezzi al massimo di 20 anni prima. Sono la prova della disinvoltura nell’accettare l’eterogeneità, gli spolia non sono solo cose antiche o raven- nate di un certo prestigio, ma anche elementi più ravvicinati. I capitelli imitano il tardo antico, mentre i rilievi sono schiacciati e bidimensionali e gioca per stacco, come disegnato in superficie. Analizzando a luce radente si nota che di fronte a questa semplificazione quasi barbarica in realtà c’è un modo di lavorare che emula cesellatura e sbalzo, per cui si vedrà che i giralini sono un po’ convessi e un po’ incavati. Uno dei vertici dell’arte dei longobardi dell’VIII sec. si trova sempre a Cividale ed è l’altare del duca Rat- chis (737-44). La forma è di un parallelepipedo intagliato su tutti e quattro i lati. Sul retro c’era la fenestrella confessionis dalla quale si poteva guardare la reliquia contenuta all’interno. Nell’Alto Medioevo gli altari prestigiosi sono santificati dalla reliquia che contengono. Inizialmente l’altare è reliquiario e in questa fase è il luogo più sacro, la decorazione ha tutto un fuoco sull’altare maggiore. Avvicinandosi ai rilievi si vede sulla parte frontale è l’Ascensione di Cristo, portato in cielo in una mandorla sorretta da quattro angeli. Queste sculture erano impreziosite da stagno, argento, oro, vernici sulle lamine e colori vivaci (sono un po’ un surrogato dell’oreficeria, ma meno costoso). Le roselline intorno sono scavate per fingere l’alveolo dello smalto del cloison. Cristo non è immediatamente identificabile, ma il nimbo crucigero è sempre un attributo suo. Sul lato destro c’è l’Adorazione dei Magi. La Vergine col Bambino è posta in maiestas con una torsione irrealistica, mentre i Magi sono in profilo e microcefali (al contrario della Vergine macrocefala). Poi c’è l’accettazione della superficie, il piano di posa è inesistente, ma ci sono degli emicicli decorati con rosette che diminuiscono o aumentano a seconda dello spazio di risulta, devono riempire via via le superfici. Sempre nel Friuli longobardo dell’VIII sec. abbiamo dei manufatti più sofisticati ma nei quali comunque do- mina la geometrizzazione, l’ornato proliferante, l’idea di rendimento dello spazio. L’urna di Sant’Anastasia (abbazia di Sesto al Reghena) si gioca su diversi livelli che dalle foto possono ap- parire più piatti della realtà. Pluteo con creature mostruose affrontate e fregio vitineo (Musei civici, Pavia) Siamo al tempo di Liutprando. C’è un modulo delle ruote di due dimensioni diverse con all’interno, in maniera alternata, grappoli d’uva con foglie o una rosetta. Questo modulo si interrompe bruscamente, come se l’artista non sapesse adattare lo schema allo spazio. Anche la raffigurazione centrale mostra due creature che di base partono dal modello di animali affrontati (forse risalente al mondo achemenide o sassanide), però qua c’è un’insofferenza radicale per ciò che è sim- metria e regola. Le foglie dello stelo al centro, per esempio, sono diverse sui due lati. Trionfo del puro intreccio, in genere a tre cappi, annodato e con linee spigolose (si differenzia dal mondo bizantino con la fettuccia continua). La linea spezzata è in qualche modo retaggio dell’arte barbarica, come abbiamo visto nel mondo irlandese. A Bobbio abbiamo un esempio di plutei dove i cerchi simpatizzano per lo stile bizantino, ma sono riempiti con intrecci di carattere barbarico. E’ una sorta di quincunx (i cerchi grandi hanno quattro ruotine angolari). La semplificazione brutale si riflette anche nei capitelli, a due fasce, imposta e di stampo corinzio. Sia a Brescia che a Cividale abbiamo episodi di maggior virtuosismo tecnico negli stucchi. Sono geometrizzati a confronto con quelli di S. Vitale (tralcio acantino frastagliato). I modelli a Brescia sono comunque ravennati, al punto che in San Salvatore vengono inseriti capitelli di spo- lio da Ravenna stessa. Gli stucchi erano colorati in origine e i fiorellini avevano al centro un cuore di vetro (li ritroveremo anche a Cividale). → stesse maestranze. Il tempietto longobardo di Cividale è la chiesa interna di un monastero femminile. Gli stalli sono quattrocenteschi. Di originale rimangono: il fastigio dell’arco, le pitture della lunetta con Cristo imberbe benedicente tra due angeli, degli evangelisti e profeti sopra e un registro in controfacciata con la Vergine e cinque sante martiri a costeggiare la finestra (sono in stucco). L’imitazione di Sant’Apollinare Nuovo è evidente. Le figure hanno un loro plasticismo ad effetto perché partono dal basso per poi diventare alto rilievi all’al- tezza del busto e della testa che è quasi a tutto tondo, in favore della visione da sotto in su. E’ evidente che c’è un registro totalmente diverso rispetto all’altare del duca Ratchis, ma siamo temporal- mente vicini. Si ipotizzano maestranze venute dall’Oriente, anche in considerazione del periodo iconoclastico (anni 40 dell’VIII sec.). E’ anche vero che questi stucchi hanno una loro semplificazione geometrica e una definizione grafica super- ficiale. La Vergine ha il gesto dell’orante e le mani danno verso la finestra = la luce e quindi funziona come teofa- nia. La lunetta ha un fregio vitineo in stucco, che convive all’esterno con un motivo a tenaglia prettamente bar- barico e dei fregi a perline e fusarole, con un doppio giro di roselline che avevano l’ampolla di vetro. Dentro la lunetta c’è la maiestas e si percepisce la capacità di bombare i volumi in maniera un po’ geome- trizzante. E’ una raffigurazione ieratica, ma che fa ancora trasparire stralci di pittura illusiva. Siamo in fase di geometrizzazione, come si capisce dalla biacca che segna in maniera forte le occhiaie e la canna nasale, compare la forcella alla radice del naso, stilema che arriverà fino a Duccio e Cimabue. In qualche modo gli ultimi decenni del dominio longobardo pongono le basi per la rinascenza carolingia, i carolingi (nel 774 sconfissero i longobardi). La vittoria dei carolingi è legata all’alleanza con il papa, il quale vedeva una minaccia nel rafforzarsi del do- minio longobardo. I ducati della Langobardia minor sopravvivranno poi fino all’anno Mille. Dell’VIII sec. abbiamo testimonianza anche nella Langobardia minor, di prodotti di un brutalismo espres- sivo quasi di arte infantile. A Ferentillo (Spoleto) abbiamo un altro paliotto con due figure oranti. Langobardia minor: ducati di Benevento e Spoleto Benevento Abbiamo Santa Sofia, fondata dal duca Arechi II. Siamo già dopo la vittoria di Carlo Magno, fine dell’VIII sec. Già l’intestazione a Santa Sofia mostra la volontà di “gareggiare” con Costantinopoli. Nelle pitture c’è forte violenza espressiva, gestualità patetica→ nella Visitazione vediamo proprio Elisabetta “franare” ai piedi della Vergine. Nell’XI sec. abbiamo delle miniature che celebreranno Santa Sofia a Benevento. Arechi è rappresentato come un imperatore bizantino con un uomo sulla scala mentre edifica la chiesa. Santa Sofia ha impianto centrale. Spoleto San Salvatore (ci sono discussioni sulla datazione: V-VI sec. oppure VIII sec.). All’interno sembra un edificio classico, salvo la diversità delle colonne. Rimane un enigma il Tempietto del Clitunno (PG). Quando Palladio va a Roma ci passa e lo disegna pensando che sia un edificio classico. E’ un tempietto in antis, tetrastilo. Analizzando bene vediamo che il frontone che ha girali geometrici. Nella penisola iberica: arte dei visigoti In Spagna sono l’equivalente dei longobardi. A Oviedo (Asturie) abbiamo i resti di una residenza reale visigota. Vediamo i motivi classici (come le colonne spiralate) annegate nella massa muraria, ridotti a pura decora- zione bidimensionale. E ancora, a Quintanilla de las Viñas (Burgos, Spagna) vediamo l’arco oltrepassato e i piedritti con pietroni geometrizzati a contrasto con un fusto di colonna e dentro questi ornati affini a quelli dell’altare di Ratchis a Cividale. 10. La renovatio carolingia Con il regno ultimo di Desiderio c’è una crescita culturale e figurativa che prelude alla rinascenza carolin- gia, che non nasce da zero. Si introduce un concetto che sarà fondamentale fino al Quattrocento/Cinquecento: la crux de medio ecclesiae → chi entra in chiesa non vede l’altare maggiore, ma la croce. Tra la Croce e l’altare di San Pietro abbiamo il fonte battesimale. Solitamente i fonti battesimali si trovavano o all’esterno della chiesa o all’interno, vicino alla porta. Con il Concilio Vaticano II viene rivoluzionata questa concezione e sono stati portati presso l’altare maggiore. Qua invece il fonte è parte del percorso. Ci sono poi delle linee che uniscono con dei varchi i pilastri/colonne per cui c’è tutta una serie di spazi sedimentati. Abbiamo poi un coro minore e uno maggiore dal lato opposto per distinguere i monaci conversi dai novizi. Tra l’altare della Santa Croce e quello di San Gallo abbiamo il pulpito (ambone) che sta al centro come in Hagia Sofia ed è una cosa eccezionale vista la tensione a posizionarlo sul lato destro perché il punto da cui si decantano le scritture è esposto sul lato meridionale perché il verbo va proferito contro il nord (terre oscurità e del male). Qui è in asse, a sottolineare il percorso assiale cadenzato. Ci sono poi tutti gli altari secondari disposti verso oriente. Nel nord Europa stanno ad oriente e perpendicolari al muro d’ambito, mentre da noi stanno sui muri d’ambito stessi. Questi elementi ci fanno capire che da qui nascono concetti nuovi che si sedimentano e durano per secoli nell’organizzazione dello spazio nelle chiese. Westwerk→ in tedesco “werk” equivale al latino “opus”. Opus nel Medioevo è un termine importantissimo: qualsiasi cosa si eriga di sacro o profano è un opus. Ma diventa poi la gestione delle fabbriche e delle grandi chiese. E’ quindi un corpo architettonico e “west” indica l’orientamento occidentale. → “corpo occidentale”, quello che poi diventerà la facciata, il luogo liminale con il quale la chiesa si presenta al mondo e interagisce con la società. Abbazia benedettina di Corvey (Sassonia, consacrata nel 844) Quello che vediamo nella parte alta è di età romanica con linee gotiche. Nella parte bassa, all’interno vediamo un atrio con 9 volte e sopra una tribuna con un affaccio importante sulla navata. Entrando c’è l’effetto di attraversare un atrio oscuro per entrare poi in questo spazio luminoso e la doppia funzione sopra del palco. Anche l’architettura quindi ci dà l’idea di quanto la rinascenza sia legata ad un progetto politico, ad una corte che poi è quella di Carlo Magno, ovvero una corte complessa che si basa sulla rete di monasteri e capitoli di cattedrali. Il punto di legittimazione è Roma, dove Carlo Magno si fece incoronare imperatore da Leone III, all’arrivo di un percorso iniziato 26 anni prima con la vittoria delle Chiuse di San Michele quando sconfisse Desiderio e irruppe in Italia. Alleanza col papato→ testimonianza importante fornita dai mosaici posti al fondo del triclinio di Leone III nel palazzo di San Giovanni in Laterano. Disegno San Pietro-Leone III-Carlo Magno Questa doppia legittimazione che sarà il tema cruciale delle dispute tra imperatore tedesco e il papa al tempo della riforma della chiesa (XI-XII sec.). In occasione del secondo viaggio di Carlo a Roma (782-3) viene realizzata la prima opera di miniatura carolingia. I codici miniati, oltre ad essere arrivati a noi e quindi ci illuminano sull’arte monumentale, i mosaici e la pittura che non esistono più, sono importanti perché la pittura libraria è fondamentale. A differenza dei codici irlandesi, questi sono libri d’uso, la liturgia prende forza. Anche i libri classici vengono e ricopiati e illustrati, ma soprattutto i libri religiosi (Vangeli, Bibbie, Sacramentari→antenato del messale, a differenza del quale non include le letture). Vangeli di Godescalco con Maiestas Domini(Biblioteca nazionale di Parigi, 783 ca) Godescalco è un funzionario di Carlo Magno. Il frontespizio presenta una Maiestas Domini su fondo purpureo, quindi c’è una consapevole ripresa dei codici imperiali di V e VI sec. Il modo di mischiare i colori, di farli esplodere anche nelle florescenze vegetali e decorative è lontano dal mondo bizantino e ha dentro di sé l’eredità della miniatura insulare irlandese. Il fregio intorno presenta l’intreccio barbarico a linee spezzate. C’è un gusto contaminatorio che recupera motivi assonometrici, a nastri iridati e a pelte. Il Cristo è di fronte a una cinta muraria, i cui conci hanno effetto di bugna risaltata ed elementi aggettanti, la concezione è viva come si vede dagli occhi dilatati e dal modo di sottolineare con il rosso e nero a contrasto, l’impasto appena sfumato delle carni. V. di Godescalco con Fontana della Vita Questa allegoria ha probabilmente dei prototipi di V e VI sec. I temi sono gli stessi dei cervi che si abbeverano alla fonte. Si pensa a un prototipo perché questa pagoda su 8 colonne presuppone un’idea tridimensionale che in questo caso è tradotta con 4 colonne davanti e 4 dietro, quindi una riduzione al piano di un modello. Possiamo dimostrare che esistesse un codice perché nei Vangeli di San Medardo di Soissons viene ripreso lo stesso modello, ma con una diversa maturità spaziale e pittorica. L’ecumene carolingia riassume dentro sé intellettuali e artisti di varia provenienza (Paolo Diacono, Alcuino da York etc.). La sinergia carolingia unisce varie anime dell’Europa e una linfa decisiva viene dagli artisti dell’ultima fase longobarda. Nell’incipit della Fontana vediamo l’eredità della miniatura insulare, il gioco delle lettere il cui corpo è riempito come fossero oreficerie, delle filigrane e con terminazioni annodate. Un altro codice degli inizi è veronese: Lezionario di Eginone (Staatsbibliothek, Berlino, fine VIII sec.) Vediamo raffigurato Sant’Ambrogio, la pittura è liquida, ma segnata da tratti incisivi e marcati e investendo una figurazione che può apparire un po’ disarticolata, ma è innervata da una vitalità espressiva: occhioni, gestualità, mani morbide che stringono la boccetta (realismo). L’umanità che popola la miniatura carolingia è sempre inquieta, percorsa dal movimento. C’è un’esplosione decorativa, la valva è astratta, ma colorata da oro e argento in polvere. In questo linearismo iniettato di forza espressiva, di esplosione cromatica, di fantasie decorative nasce un’arte nuova, che rinascerà con gli ottoniani e poi con la civiltà romanica. Altri codici italiani sono quelli di Bobbio e di Nonantola (Modena) → in un esempio vediamo la Maiestas Domini su un trono gemmato. Il senso dello spazio è precario, prova la tridimensionalità molto semplificata, ma rispetto ai grafismi bizantini vediamo un principio di vivacità espressiva e di movimento. Sempre di Nonantola c’è un codice di Isidoro da Siviglia (→ nel VII sec. raccoglie in forma di “vocabolario” brani dai testi classici, è un trasmettitore fondamentale della sapienza classica al Medioevo). Vediamo qui l’Apollo Medico raffigurato come un imperatore bizantino con il nimbo dei viventi e la clamide affibbiata. L’espressività nelle colonne, capitelli con esplosione di volute, la marmorizzazione resa schematica, ma vivace sul fusto. Tra gli anni 80 e l’inizio del IX sec. vediamo una crescita esponenziale qualitativa e quantitativa, la produzione di codici, che raggiungono un’intensità incredibile, è uno snodo fondamentale della storia. Negli anni 90 del 700 datiamo i Vangeli di Ada, tra i più famosi quello di St. Medard di Soissons. Di nuovo il soggetto della Fontana della Vita a piena pagina (→ deriva dalla tradizione insulare: nei codici tardo antichi c’erano le vignette tabellate, in età carolingia nascerà l’idea dell’iniziale abitata che percorrerà tutta la miniatura medievale). Le piene pagine vogliono far rivivere l’illuminismo antico in una chiave fastosa, allegorica, visionaria. C’è un’idea di esedra non razionalmente costruita. Ci sono delle corrispondenze tra questa pagina e quella di Godescalco, probabilmente il miniatore non aveva come antigrafo Godiscalco, ma direttamente un modello di V-VI sec., dove il senso spaziale era più sviluppato. La vasca esagonale è scorciata e le colonne sono intarsiate. C’è un generoso tentativo di costruire uno scenario architettonico-paesaggistico, anche gli animali non hanno un reale piano di posa, sono solo “incollati”. Il profilo del cervo è ribollente, è l’ossessione espressiva degli artisti carolingi e forzerà sempre di più le forme naturali per caricarle di vita e animazione. Da sottolineare il fatto che nella croce in alto e agli angoli ci sono dei finti cammei, schizzati in bianco sul rosso e inizierà anche una forma di collezionismo di oggetti di arte antica che poi suscitò l’emulazione. Visione dell’Agnello mistico e Tetramorfo Questa tavola introduce il canone del confronto tra i quattro Vangeli. Abbiamo infatti quattro colonne che reggono il tetramorfo e l’idea di un proscenio con la cortina scostata e girata sulle colonne. E’ una costruzione allegorica, in alto c’è il tema della Pentecoste e l’Agnus dei e i raggi che si espandono. Le fasce di colori accesi dal rosso al rosa all’azzurro suggeriscono una visione celeste. E’ di fatti la costruzione della Chiesa stessa: l’affermazione della chiesa in quanto struttura che poggia su quei quattro pilastri. Le grandi piene pagine dei Vangeli, incluso quello di Medard, sono quelle con gli scribi al lavoro. Di nuovo, premessa della miniatura irlandese e insulare che per prima riempie piene pagine con l’evangelista al lavoro. Qua vediamo un tripudio di ornati e illusioni, la cortina non è annodata alla colonna in realtà, ma solo su sé stessa. Notiamo lampi realistici, come nel caso degli anelli della cortina. La figura di San Marco si volge di scatto verso l’alto ed è ispirato dal Leone. La decorazione non è mai fine a sé stessa, nei pennacchi è raffigurata l’Annunciazione con toni pittorici e fasce di terra e cielo che rimandano anche ai vangeli vaticani, quindi dalla miniatura. San Giovanni Evangelista Ci dimostra come ogni pagina sia diversa dall’altra. Cambiano le incorniciature, il nastro è iridato e incastonato nei finti cammei. Nei margini sono state inserite delle scenette (Nozze di Cana): nasce l’urgenza di narrare, di svolgere le storie. Questa esigenza troverà soluzione nell’iniziale istoriata (il codice capitale è il Sacramentario di Drogone). Mentre San Marco si torceva, San Giovanni accavalla nervosamente le gambe, lo sguardo è perso, afferra il libro e lo sventaglia in avanti, il trono è scorciato in un modo e inserito in architetture che vanno in un altro con un senso di esplosione dello spazio. Dai Vangeli dell’Incoronazione alla scuola di ReimsIntorno all’anno 800 si raggiunge “la tappa” più classicheggiante, emblematizzata dai Vangeli dell’Incoronazione (Nationalbibliothek Shatzkammer, Vienna) commissionati da Carlo Magno in onore della sua incoronazione. E’ un codice che fece mettere nella sua tomba e Ottone I quando farà rinascere il Sacro Romano Impero Germanico riesumerà il codice e se ne approprierà. Codice interamente purpureo con piene pagine che annegano nel colore, mancano le fantasie decorative. San Giovanni Evangelista C’è un tentativo di far trasparire una luce grigio-violetta che anima il fondale con questa caligine e le silhouette tremolanti e liquide degli alberini. La figura è potente, ha la toga senatoria che quasi lo gonfia, c’è la tensione a recuperare la corporeità e il plasticismo. Persistono le mani “molli” che improvvisamente stringono gli oggetti. Il pittoricismo, non c’è una linea netta ben marcata, ma è guizzante. Le macchie rosse sono date dalla pergamena che veniva colorata preventivamente. In realtà però accentua anche la chiarezza di lettura. A livello metodologico capiamo subito che si tratta di due artisti diversi, confrontando fronte e retro. Probabilmente Vuolvinio è l’autore del retro e lo possiamo dedurre da due fattori: 1. Lui stesso è raffigurato sul retro 2. In questo lato sono rappresentate le storie di Ambrogio, per le quali si hanno meno modelli rispetto a quelle di Cristo. Fronte: Maiestas Domini→ la fig. non è ieratica, si intuisce il corpo smagrito dalla silhouette filiforme e intorno gemmature e pietre incastonate. Le figure mostrano la volontà di far emergere i corpi bombati sotto le vesti con i panneggi fascianti, la gestualità sembra a tratti convulsa, nella Natività Betlemme sta sul fondo con vocaboli slegati, ma caratterizzanti (modelli nella cultura ottoniana). Fianchi: forti geometrie che organizzano le figure. Retro: fig. che si inarcano e aggomitolano. Si vede la differenza tra l’argento e l’argento dorato. Il tipo di sbalzo è più teso, nelle storie di Cristo era più rotto, qua c’è questo senso più “a scodella”. Fra le storie di Ambrogio: predicazione, conversione, lotta contro gli ariani (→ a un certo punto Ambrogio pensa di soccombere e scappa da Milano, mentre sta scappando lo Spirito Santo lo richiama). Grande forza espressiva, il cavallo si blocca all’improvviso, la figura si torce verso la dextera dei contornata da questi fascioni dorati. Commistione di presa sulla realtà in un linguaggio ancora formulare. Nella figura del battesimo di Sant’Ambrogio vediamo che la figura che lo sta battezzando ha un moto quasi convulso e volumi sbalzati. Anche nella Predicazione contro gli ariani (importanti i titoli) viene trasmessa grande forza dalla didascalia “Ambrogio predica mentre l’angelo gli parla” come a dire che lui è ispirato da Dio. I gesti degli ariani sono gesti di esitazione, a fronte del gesto avventato di Ambrogio, che però è benedicente. Maiestas Domini, ai lati il miles e il clericus (S. Benedetto, Malles Venosta, Bolzano, metà del sec. IX) Nell’arco alpino sopravvivono rimanenze che non ci sono nelle grandi città, come in questo caso. Chiesa ad aula con tre nicchie al fondo, che erano tutte incorniciate da stucchi (ora caduti) di cui ora rimane solo la traccia del disegno preparatorio. Nella nicchia centrale è raffigurata la maiestas con due angeli, ai lati S. Benedetto e un altro santo e poi c’erano due edicole che incorniciavano i donatori: il soldato in posizione d’onore con la spada inguainata e dall’altro lato l’abate con il modelletto della chiesa. Un’abbazia carolingia nella Langobardia minor: San Vincenzo al Volturno Sempre in ambito italiano, una delle sopravvivenze di tipo monumentale più importanti è l’abbazia di S.Vincenzo. Tra IX e X sec. ci sarà un periodo di invasioni violente su più fronti: Vichinghi dal nord, Ungari dal nord-est e Saraceni dal mare. Anche S. Vincenzo sarà saccheggiata dai Saraceni. Il X sec. viene anche detto “periodo di ferro” in cui c’è una forte crisi, motivo per cui si p arla poi di nuova rinascenza con gli Ottoniani. E’ lo stesso periodo di Angilberto a Milano, qui il vescovo è Epifanio (824-42). Crocefissione con l’abate Epifanio L’abate è la figura ai piedi della croce, di fianco all’iscrizione. Questo sito è enorme, è una città monastica. La cripta di Epifanio è fra i luoghi che sopravvive meglio. E’ abbastanza piccola, presenta una pianta a croce greca con pitture murali rovinate, ma di grande forza, come queste. In età carolingia, in alcuni casi, si dipinge il Cristo morto e non vivo. In questo caso ha gli occhi aperti, ma sta per morire, non è molto trionfante. Le figure non sono rigide (come in S. M. Antiqua), la Vergine è slanciata, sollevando le mani velate con grande impeto, San Giovanni si ritrae e porta le mani al capo con un gesto di dolore che sarà ripreso anche da Cimabue. E’ una pittura sicuramente semplificata, ma innervata di forza espressiva. La vediamo anche nel Martirio di San Vincenzo, che fu condannato alla graticola. Ci sono due carnefici, uno che gli tiene le caviglie e l’altro che fa anche perno col piede sulla graticola per tenerlo con maggiore forza, il martire ha il capo eretto in segno di superiorità al dolore ed è confortato dall’angelo che plana dal cielo in gesto benedicente. Il console che ordina il martirio sta seduto su un trono gemmato dal quale quasi precipita per la foga e l’impeto con cui si avventa per ordinare l’esecuzione. La stessa Annunciazione vede il tema del turbamento della Vergine (che percorrerà anche arte bizantina e medievale). La Vergine ha le braccia allargate e l’angelo è colto in un movimento impetuoso ed avventante con questi svolazzi che hanno un lessico bizantineggiante, ma addolcito da un effetto più rapido. Che i modelli fossero comunque quelli bizantini è evidente in questa volta (Maiestas Domini e arcangeli). La maiestas è proiettata su un trono gemmato tridimensionale, sfere celesti e arcangeli con ali spiegate di tanti colori (bianco, oro, azzurro) e le ali soprane rosse e più piumose. I volti hanno un aspetto malinconico e un colorito olivastro. Cfr con Maiestas di Vuolvinio→ la tipologia del trono e della pedana è analoga, così come il modo di allungare le silhouette filiformi e di caricare le gesticolazioni. Mosaici nella Roma di Pasquale I Roma è sempre un po’ un mondo a parte, dove certe cose non muoiono mai e si trasmettono in maniera meno originale, ma anche lì c’è un tempo di forte rinascita al tempo di Pasquale I (817-24). Abbiamo ben 4 complessi musivi: abside Santa Prassede, sacello di San Zenone, abside Santa Maria in Domnica e l’abside di Santa Cecilia in Trastevere. Sacello San Zenone presso Santa Prassede Si presenta in questa semplificazione: figure annegate nell’oro, panneggiamenti delineati senza chiaro-scuro e senza la forza espressiva delle figurazioni carolingie. Il registro è ispirato a modelli di V e VI sec. ma come nella genesi dell’arte bizantina vengono poi modificati. Roma era stata fortemente grecizzata fra VII e VIII sec. quindi subisce l’onda lunga anche di questo. Quando li vediamo da vicino, questi mosaici hanno un’andatura incerta con linee rosse e nere sull’oro, andamento tremulo e incerto. L’altro mosaico importante al tempo di Pasquale I è quello di Santa Maria in Domnica, dove troviamo per le prime volte una rappresentazione della Vergine nell’abside e non della maiestas. Culto mariano anche in Santa Maria in Trastevere fondata già nel VI sec., ma solo attorno a questo periodo ottiene l’immagine della Madonna della Clemenza che diventerà l’icona miracolosa. Il modello è aulico, è una Vergine regina (come Teodora in San Vitale), ma nella bombatura dei volti degli angeli c’è continuità col mondo classico. 11. La rinascita dell'anno Mille Età ottoniana→ periodo a cavallo dell’anno Mille, fra X e XI sec. Parlare di età ottoniana vuol dire parlare anche del periodo di incubazione del linguaggio romanico che si sviluppa a partire dalla seconda metà dell’XI sec., ma in modi e temi diversi. A Roma c’è una continuità che è all’insegna del rapporto con Costantinopoli e con il regno bizantino. Tra VII e VIII sec. è profondamente grecizzata e questa impronta persiste anche nel pieno della rinascita carolingia. Con la rinascenza ottoniana, gli imperatori ricercheranno un rapporto più stretto con Costantinopoli, cosa che i carolingi non avevano fatto perché per loro la legittimazione veniva da Roma, mentre gli ottoniani si rivolgevano naturalmente a Roma, ma guardavano anche al mondo bizantino. L’impero di Costantinopoli, tra VIII e IX sec. è sconvolto dall’iconoclastia. Nella seconda metà del IX sec. ci sarà, anche in ambito bizantino, una rinascenza (“macedone”, dal nome della famiglia che governava al tempo). E’ una fase di grande splendore dell’arte bizantina, che ricostruiamo soprattutto attraverso codici miniati. Si crea una dicotomia tra l’Occidente, che a cavallo tra IX e X sec. è sconvolto dalla crisi del potere carolingio e da una serie di invasioni. Anno Mille Questa rinascenza generale dell’Europa vede l’anno Mille come momento cruciale. E’ interessante un passo di Rodolfo il Glabro, intorno all’anno 1000 lui è abate di Cluny (→ abbazia potentissima costruita all’inizio del X sec. in Borgogna e che a cavallo dell’anno Mille e fino al XII sec. sarà la maggiore potenza ecclesiastica dopo Roma). Il Glabro è uno dei principali intellettuali della corte ottoniana. Gli imperatori ottoniani hanno respiro europeo: Ottone I si fa costruire un palazzo sul Palatino a Roma e nella sua corte ci sono personaggi da ogni provenienza. Il Glabro scrive nel 1003 le Storie dell’anno Mille e fornisce questa immagine poetica “Era infatti come se il mondo stesso, riscotendosi e ripudiato tutto quanto aveva d’antico si rivestì di un bianco mantello di chiese”. Intorno all’anno Mille c’è un fervore di costruzione di chiese, cattedrali e abbazie. Abbiamo due ondate: 1. Verso il 1000→ costruzione e ricostruzione di chiese, cattedrali e abbazie 2. Intorno al 1100→ questa ricostruzione in forma romanica spazzerà via l’architettura ottoniana e preromanica. Il rapporto quantitativo tra Cluny 2 e Cluny 3 è quasi il doppio, ma oltre al salto quantitativo ce n’è uno qualitativo che è la genesi dell’architettura romanica, i cui prodromi sono nell’arte dell’anno Mille. Un’altra testimonianza dell’atteggiamento ottimista e del fervore di costruzione di una nuova Europa cristiana ci è data da una testimonianza di Ivrea, che nel X sec. era stata sede della corte di Arduino (re d’Italia) e quindi aveva avuto un momento di forte fulgore. Intorno all’anno Mille Ivrea riconosce l’imperatore ottoniano Ottone II. Il vescovo di Ivrea Warmondo fa ricostruire la sua cattedrale e ancora nel deambulatorio della cripta si vede la lapide di fondazione (“ad imo”). Il modulo epigrafico è di ispirazione classica, ma i fregi con motivi cuoriformi, fogliacei e stilizzati sono tipici dell’alto Medioevo, mentre in basso al centro c’è la dextera dei. A Warmondo si collega anche un Sacramentario (Ivrea, Biblioteca capitolare) e ne vediamo una scena in cui lo stesso Warmondo sta celebrando l’eucaristia, raffigurato con il nimbo del vivente. Gli intrecci delle decorazioni in basso sono quelli nati in ambito insulare irlandese. Rispetto alla miniatura carolingia le pagine sono un po’ povere. In alcune di queste vignette c’è un tono quasi naif da quanto è essenziale, ma c’è immediatezza nei gesti (es. Incoronazione Ottone III). Intorno al Mille, per capire lo sviluppo esponenziale che percorre l’Europa in questi due secoli, è indicativa la vicenda dell’abbazia di Cluny. Cluny era stata fondata dal duca Guglielmo di Aquitania verso il 910, un’abbazia benedettina che si differenzierà dalle altre perché di soli le abbazie benedettine erano slegate l’una dall’altra fino a quel momento e dipendevano dai vescovi e dalle giurisdizioni. Cluny si svincola da questo localismo, si mette direttamente alle dipendenze di Roma, è finanziata dai grandi sovrani d’Europa (in particolare il re di Castiglia e Leoòn, ma poi anche il re di Inghilterra). Sorge una sorta di seconda S. Pietro, quasi una seconda Roma. Non a caso l’abbazia di Cluny è intitolata a SS. Pietro e Paolo. Cluny diventa un vero e proprio ordine, una congregazione con una serie di abbazie affiliate, dipendenti da Cluny che non hanno un abate ma un priore che obbedisce all’abate di Cluny. Lo stemma è: chiavi decussate di S. Pietro con la spada di S. Paolo in campo rosso. L’arte macedone (bizantina) coeva era un linguaggio molto diverso in termini figurativi. L’arte ottoniana si afferma come imitazione, ma allo stesso tempo come contraddizione radicale, come alternativa all’arte di corte macedone. Cristo incorona Ottone II e la moglie Teofano (Musée de Cluny) Avorio di corte macedone che commemora ugualmente il matrimonio tra Ottone II e Teofano. C’è proprio un gruppo di tavolette di avorio detto “Gruppo di romano” tipico della fine del X sec. di produzione macedona, con una figurazione schiacciata, delineata in superficie da queste figure longilinee con le pieghe parallele, la gemmatura e l’ornamentazione preziosa delle vesti e il gusto del traforo (visibile sia sulle pedane che sull’edicola, nell’arco ribassato e lavorato “a giorno”). Il Cristo incorona i due contemporaneamente, in un gesto solenne. Il sistema delle pieghe asseconda una misura calibrata, a fronte della quale gli artisti ottoniani hanno figure sincopate, con delle proporzioni più regolari e più vivaci. Non va sottovalutata l’altissima qualità raggiunta dagli artisti macedoni, raggiungono uno dei maggiori apici qualitativi dell’arte bizantina, ma purtroppo attestato da pochissime opere, per esempio alcune miniature. Visione di Ezechiele (Biblioteca Nazionale, Parigi) Siamo alla fine del IX sec., mentre l’Europa affronta un periodo di forte crisi, a Costantinopoli è terminata l’iconoclastia e inizia un periodo di rinascenza. Questa miniatura mostra la visione di Ezechiele condotto su un monte da un angelo, il cielo si fa fuoco (sprazzi azzurri sul rosso), dextera dei e grande scioltezza nell’anatomia e nel movimento delle figure, nonostante il codificarsi di un linguaggio graficizzato di pieghe minute, giocate su tre toni: base, ombre e luci. Ci sono tutti gli elementi del linguaggio bizantino, ma in una pittura che è ancora liquida, che non troveremo più nell’arte bizantina. Un’opera del genere può essere associata alla miniatura carolingia o alla miniatura del V e VI sec. Alcuni di questi codici macedoni potrebbero aver copiato quelli di V e VI sec. e quindi che gli aspetti di ambientazione e narrazione siano frutto della replica di quei modelli. Tra i codici più straordinari c’è la Bibbia della regina Cristina, fatta a piene pagine (come la Seconda Bibbia di Carlo il Calvo). Mosè che riceve le tavole della legge Vediamo Mosè che si leva i calzari davanti al roveto ardente e poi la salita sul monte Sinai. Lo scenario di rocce frammentate tridimensionali che scompongono un’idea di riempimento della superficie con colori intensi, crepacciature e lumeggiature e la vivacità di Mosè che si protende. Rimanda all’avorio con l’Ascensione di Cristo. Anche qui le pieghe sono cristallizzate secondo una tradizione tipica dei bizantini. La miniatura ottoniana: il Registrum Gregorii Si sviluppa nell’occidente germanico e ottoniano una produzione che ha come centri forti gli scriptoria abbaziali (Fulda, Raichenau) e poi nel nord Treviri, sede dell’arcivescovo Egbert, fra i principali sostenitori dell’imperatore ottoniano. Da Treviri viene il Registrum Gregorii che contiene i Dialogi di San Gregorio Magno. Otto imperator et augustus – Ottone II riceve l’omaggio delle provincie Raffigura l’imperatore (980 ca) che riceve l’omaggio delle provincie, stesso tema degli imperatori tardo antichi, però al posto dei barbari inginocchiati a terra ci sono 4 figure nobili, femminili che porgono delle sfere, la sfera è l’emblema del potere universale e nella raffigurazione dell’imperatore riscontriamo la cristomimesi (anche l’imperatore ottoniano si fa raffigurare sul modello della maiestas con la sfera e lo scettro in rigorosa frontalità, proporzioni gerarchiche etc. Questo miniatore incarna proprio il primo momento della miniatura ottoniana. All’inizio la figurazione è quasi classicheggiante, stesso del ciborio di Sant’Ambrogio, con figure solenni e gesti lenti. C’è una notevole differenza rispetto all’arte bizantina, manca quel “tormento” di pieghe minutamente graficizzate, le linee sono più allentate, quasi elastiche e lo slogarsi dei gesti. Delicatezza delle sfumature, per esempio nel fondale si passa dal verde, all’azzurro al rosa, toni tipici delle miniature del V sec. (Virgilio vaticani). Un’altra pagina del Registrum mostra San Gregorio Magno nello studio ispirato dallo Spirito Santo. San Gregorio non sta scrivendo, la figura è solenne, sta su un faldistorio (→ seggio da campo dell’imperatore romano che verrà poi recuperato nel Medioevo anche nel Duecento francese come elemento “all’antica”). Sopra il santo c’è una corona gemmata, retaggio paleocristiano e ravennate. Poi vediamo una cortina annodata. Le architetture sono bidimensionali, ma danno un senso di pieni e vuoti. La tenda che vediamo divide l’accolito da San Gregorio. La leggenda vuole che l’accolito, sbirciando da dietro la tenda, abbia visto la colonna dello Spirito Santo sulle spalle di Gregorio. Composizioni di sapienti geometrie, la figura dell’accolito ci fa capire che poi l’arte ottoniana è duplice anche attraverso l’arte carolingia. Questa figura ingobbita richiama le silhouette dell’arte carolingia. Quello che distingue sempre la miniatura ottoniana anche nella varietà delle sue espressioni è il senso grafico: in questo caso è sfumata e delicata, poi avremo un’arte quasi visionaria ed espressionista. Rispetto al pittoricismo carolingio, nell’arte ottoniana c’è un senso di figure chiuse graficamente, definite. Anche al Codex Egberti attribuiamo lo stesso Maestro del Registrum Gregorii. Egberto era un arcivescovo molto importante. Questo codice ha delle vignette tabellari (come il Virgilio vaticano), segno di una rinascita. Nell’arte carolingia avevamo visto un tripudio di incorniciature, solo il Vangelo dell’Incoronazione aveva tabelle essenziali, allo scopo di enfatizzare la pagina purpurea. Cambia il registro espressivo, si passa dall’aulico e solenne del Registrum ad uno narrativo ed espressivo nelle tabelle del Codex. I toni sono pastello, delicati, cieli sfumati dall’azzurro al rosa, però le figure sono molto marcate (sia con il nero che con il bianco puro) piene di dinamismo ed espressività. Le teste hanno questi occhi con espressività quasi allucinata, molto vivace. Le scritte si stagliano. Le cornici sono identiche e rappresentano una stilizzazione del motivo classico a perline e fusarole. Annunciazione Come nel Registrum, c’è un senso di ariosità e respiro, data dalla delicatezza delle sfumature. L’Annunciazione non è ambientata nella stanza della Vergine, ma si staglia contro il cielo, avviene a Nazaret (sul fondo). Grande chiarezza didascalica che troveremo anche nei codici più visionari dell’arte ottoniana troveremo questa grande chiarezza didascalica. I gesti, con le grandi mani, vogliono intendere nella Vergine la grande sorpresa. Natività di Cristo e annuncio ai pastori Non c’è nessun rapporto con la composizione bizantina (che si affermerà in Occidente tra XII e XIII sec.) della grotta. In questo caso la Vergine è china sul Bambino mentre lo sistema in una mangiatoia che, come nell’arte bizantina, assomiglia più a un sarcofago (a presagio del sacrificio) e l’ambientazione a Betlemme è suggerita dall’architettura con mura classicheggianti da cui si affacciano il bue e l’asinello. Figurazione quindi fortemente connotata dalla volontà di rifarsi all’antico, nonostante l’espressività concitata che si farà strada nella gestualità e negli sguardi. E’ organizzata su due livelli (rimandando al modello della Genesi di Vienna), in maniera non realistica, quasi rendendo principale la scena dell’annuncio ai pastori. C’è però chiarezza degli assembramenti: tre pastori, una nube di angeli, un gruppo di pecore e la torre sulla sinistra. L’alternanza tra pieni e vuoti distingue il pre romanico dall’arte romanica che avrà campi visivi sempre gremiti e stipato che scaturisce dall’accettazione della superficie. Cfr. con Virgilio Vaticano→ fondali ispirati al Virgilio, sfumati rosa e azzurri. Nel seguito della miniatura ottoniana diventeranno delle fasce ben delineate graficamente, senza dissolvenza poetica. Nel Codex Egberti c’è un pittoricismo estraneo all’arte ottoniana. Rimane il segno grafico ben marcato con una forte espressività, come si nota nella Strage degli Innocenti, con le donne che si denudano e si strappano le vesti. La chiarezza didascalica va a detrimento dell’ambientazione, come nell’altare di Vuolvinio, anche nell’arte ottoniana non c’è mai una vera ambientazione in senso spaziale e naturalistico. Spesso le figure si compongono su piani e superfici che non sono di posa. Es. Battesimo di Cristo Scena con forte ierofania: i raggi, la colomba verde in picchiata. E’ un’arte tedesca, come saranno i fauves nel Novecento, delle accensioni incredibili. Uso di pastelli delicati e poi uso improvviso di verde acceso o anche uso particolare dell’oro. Qui la proporzione gerarchica è inversa, con Cristo più piccolo rispetto al Battista e agli angeli. Cristo afferra San Pietro sul lago di Tiberiade Anche detta “Scena della navicella” come la chiamerà dal mosaico realizzato su disegno di Giotto nell’atrio di San Pietro a Roma. La “navicella” è la chiesa che affronta le tempeste, l’immagine di Pietro che dubita indica la fragilità umana a fronte dell’unica certezza che è Cristo. Delicatezze illusive e frammentarie come la trasparenza dell’acqua. Sul frontespizio del Codex Egberti vediamo Egberto raffigurato in maniera imponente, nel gesto di ricevere lo stesso codice dal chierico che l’ha scritto. Notiamo le fantasie decorative: fregi a girali metamorfici, un po’ animali e un po’ vegetali, stilizzati e filettati con l’oro come fosse una spina elettrica quasi. Carica espressiva che si scatena nei margini (sarà tipico delle fantasie del romanico e poi del gotico→ la metamorfosi accompagna il mondo del male e del peccato). Sopra e sotto ci sono due maschere, in asse, da cui escono i tralci. Salterio di Egberto (Museo di Cividale) Nel fondo non c’è l’idea di pieni e vuoti, ma un gremire la superficie su fondo purpureo con maschere, trampolieri, grifi etc. Raffigurato Davide, in una torsione tipica dell’arte carolingia, ma con delle demarcazioni grafiche: pieghe marcate che inguainano le sagome sono tipiche degli artisti ottoniani che rileggono l’arte carolingia. Il trono con la pedana gemmata è scomposto e intorno il fregio è a meandro assonometrico. Troviamo questo tema anche a Galla Placidia, però diventerà quasi una divisa degli artisti ottoniani sia nella miniatura che nella pittura monumentale. La miniatura ottoniana: i Vangeli di Ottone III La miniatura ha uno sviluppo intorno all’anno 1000 e poi all’inizio dell’XI sec. con il passaggio al tempo di Ottone III e poi Enrico II (ultimo degli Ottoni). Vangelo di Ottone III Uno dei codici più ricchi e sontuosi. Coperta tempestata di gemme incastona un’avorio bizantino. E’ un avorio tipico del Gruppo di Romano, traforato, con il tipico arco ribassato e addirittura anche le colonne sono lavorate a giorno. In queste composizioni si percepisce comunque il modello carolingio. Al centro c’è la croce, con un Cristo vivo, ma non trionfante (= no testa eretta e occhi sbarrati), ma corpo sommosso, veste che in fondo si fa svolazzate rimanda alle miniature ottoniane. Agli estremi laterali della croce il sole e la luna, segni dell’universalità (giorno e notte), ma anche del Bene e del Male. In alto la dextera dei con una corona d’alloro ad indicare la gloria di Cristo. La croce organizza lo spazio in 4 narrazioni: - in basso a sx (ns) vediamo due figure che potrebbero essere S. Giovanni e la Vergine dolenti, ma è più probabile che si stiano recando al Sepolcro con gli unguenti, quindi a destra abbiamo le tre Pie donne al Sepolcro e l’angelo che dialoga con loro. -in alto a sx (ns) abbiamo la maiestas domini con il tetramorfo. In alto a dx abbiamo l’Ascensione: alla base c’è un nuvolo di teste tra cui distinguiamo la testa nimbata della Madonna e da questo gruppo emerge il corpo di Cristo che gesticola mentre due angeli lo additano e la dextera dei lo accoglie. Un’altra delle Pericopi di Enrico II ha una coperta eburnea che unisce smalti bizantini e avorio carolingio. L’avorio è della scuola di Reims (carolingia) con la Crocefissione, le Pie donne al sepolcro e la Resurrezione dei morti. Questa scena è riprodotta in un avorio ottoniano in maniera abbastanza fedele (Avorio ottoniano, 1000 c. con Crocefissione e Pie donne al sepolcro). Nel caso ottoniano le figure si stagliano contro il fondo liscio in maniera più netta e marcata (es. i soldati addormentati fuori dal sepolcro sembrano galleggiare a mezz’aria). Depositio Christi (Schnuetgen Museum, Colonia) Altro avorio ottoniano. Attesta il trapasso verso il romanico perché è una deposizione di Cristo ricavata da una sorta di parallelepipedo, quindi c’è una compressione delle figure per farle rientrare in una forma architettonica (uno dei caratteri della scultura romanica). Il tema della Deposizione di Cristo vede proprio in questo periodo una delle prime attestazioni. Le due figure sono: Giuseppe d’Arimatea (che abbraccia il corpo) e Nicodemo (che toglie i chiodi). Saranno un leitmotiv di queste composizioni, via via sempre più ariose e complesse fino al Duecento. Oreficerie ottoniane Nell’ambito delle oreficerie, un posto speciale ce l’ha il rivestimento orafo dell’altare benedettino ora conservato al Musée national de moyen âge. Cristo benedicente, ai suoi piedi Enrico II e l’imperatrice Cunegonda, ai lati San Benedetto e i tre Angeli (inizio XI sec.) Paliotto in lamina d’argento sbalzata e dorata su anima di legno di quercia e decori in pietre preziose e vetri colorati. Al centro vediamo il Cristo benedicente con le vesti svolazzanti, Enrico II e Cunegonda, quasi in proskynesis bizantina. Nelle arcate laterali abbiamo (da sx a dx: San Benedetto e i tre Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele). Grande intreccio di tralci stilizzati sbalzati sui lati. L’oro ha un effetto abbagliante. Il lavoro di sbalzo da vicino mostra dei tratti facciali molto semplificati, forse rozzi per l’arte bizantina, ma che rivelano grande espressività. Ai piedi di Cristo Enrico II e Cunegonda. Croce di Gisela d’Ungheria Sorella di Enrico II, diventata regina di Ungheria. Figura di Cristo triumphans, molto solenne con il capo eretto e gli occhi marcati. Pettorali marcati, ma piegati al linearismo elastico, teso e fortemente espressivo. E’ una figura iniettata di energia. Superfici tempestate da perle e smalti cloisonné. I tratti marcati e taglienti dell’anatomia e della capigliatura sono tipici dell’astrazione geometrica degli artisti ottoniani. La Croce ha sul retro Cristo patiens, già in ambito ottoniano e anche carolingio prima, in alcuni casi si raffigura il Cristo sofferente o morto, con il capo chino e gli occhi chiusi. Questa iconografia sarà riaffermata con forza dall’arte bizantina e conmena, nella pittura irromperà e si sistematizzerà nel Duecento con Giunta Pisano, nelle arti sontuarie ottoniane si inizia ad affacciare. Abbiamo quindi un duplice registro: Cristo trionfante e patetica. Tecniche del retro: cesellatura a bulino (Cristo), sbalzo e punzonatura (girali) che rendono la figurazione raffinato. San Michele a Hildesheim, l’architettura sassone, la toreutica L’architettura ottoniana a partire dall’ambito sassone e renano. Gernrode→ basilica doppia che ha un’abside con torri scalari al posto della facciata, tribuna sui lati, ma invece della continuità delle colonne c’è la cosiddetta “alternanza sassone” (→ colonne si alternano a pilastri che in questo caso spezzano la navata). Arco trionfale aggettante che separa la navata dal presbiterio e una sorta di transetto (sembrano quasi due chiese con absidiola orientate verso oriente) e muri massicci, ma traforati dalle aperture. L’idea dell’alternanza dei sostegni era già presenta nella chiesa di San Demetrio (Salonicco) nel VII sec. E’ impressionante come quasi tutte le innovazioni dell’arte occidentale, ottoniana, romanica abbiano degli antenati nel mondo imperiale bizantino. Hildesheim→ qui alternanza ancora più accentuata perché abbiamo 2 colonne e 1 pilastro. Fondamentale perché è l’inizio della rottura del continuum basilicale, cioè di queste pareti lisce su trabeazioni o arcate e colonne tutte uguali che danno un senso ritmico infinito. Il romanico nasce da questa articolazione del continuum basilicale in “campate” (→ nuclei ben scanditi che nel romanico significheranno anche volte a copertura che scaricano su pilastri addossati). Basilica a doppio orientamento, vesper come a San Gallo con atrio basso, galleria di affaccio e torri scalari ai lati del torrione centrale. Si fronteggiano quindi due torri: una sul vesper e l’altra sul presbiterio. Ci sono gallerie e affacci anche nei 4 transetti, ma non lungo la navata. Colon Hildesheim (1020 ca.) Colonna bronzea istoriata con storie cristologiche, commissionata dal vescovo di Hilesheim, Bernward. Bernward si recò a Roma con Ottone III e scrisse anche un diario di viaggio. A Roma prese ispirazione per far realizzare questa colonna coptide istoriata. E’ una fusione di tecniche, la figurazione sembra semplificata, ma è molto vivace. Battenti porta bronzea (San Michele, Hildesheim, 1020 ca.) Sempre commissione di Bernward. Istoriate con storie dell’A e N T. viste in parallelo (si leggono a sinistra dall’alto in basso e a destra al contrario). Com’è tipico dell’arte ottoniana abbiamo dei pieni e vuoti. Peccato originale La concatenazione dei gesti a un suo brio quasi fumettistico perché Dio scatta in gesto accusatorio, Adamo con una mano si copre e con l’altra accusa Eva, che a sua volta si copre con una mano e con l’altra rivolge l’accusa al serpente (che qui ha forma di drago). Alberi stilizzati e intrecciati, le figure partono basse e poi la testa è a tutto tondo. Adorazione dei Magi Adattata alla presenza della borchia (leonina). Geometrie esasperate, ma il piglio incedente dei Magi, figure che partono basse e poi figure che vengono fuori. Gli sguardi e la gesticolazione sono il punto di forza della narrazione ottoniana. La figura della Vergine si torce, esposta verso l’esterno. Anche in Italia del nord (Lombardia) abbiamo alcune testimonianze di arte sia monumentale che orafa ottoniana. A Vercelli e a Casale Monferrato abbiamo due crocefissi di età ottoniana (inizi XI sec.). Milano conosce un periodo di protagonismo in questi anni, il movimento della Patarìa (→ movimento politico-religioso che porterà alla riforma della Chiesa con Gregorio VII). Il rilancio della potenza secolare della Chiesa nasce in Lombardia con la Patarìa. Vercelli Cristo triumphans, senza la corona. Grande attenzione lineare e geometrica, con capelli a sbalzo e la barba a cesello, le paste vitree per gli occhi. La toreutica (arte di lavorare il metallo) è un filone che si sviluppa soprattutto in Renania, così come l’oreficeria. Le pitture murali della Reichenau Chiesa di San Giorgio, Oberzell, Reichenau Scene rettangolari enorme spalmate su un unico registro sotto al claristorio. Impianto basilicale romano rivisitato anche nelle decorazioni monumentali. I protagonisti sono proprio questi fascioni con il motivo del meandro assonometrico, non è un’incorniciatura architettura illusionistica, sono fasce decorative con pittura a secco, probabilmente i colori erano molto vivaci. Sono poche scene con dei miracoli, per es. Cristo libera l’indemoniato di Gerasa e scaccia i demoni in forma di maiali che si gettano nel lago. Vediamo gli apostoli e Cristo in un’architettura che ha la funzione di dividere i due gruppi, è narrativa. La città che galleggia nel vuoto, però sull’acqua vediamo le ombre dei maiali (non c’è l’ombra del demonio perché non è visibile a tutti, solo a Cristo e per questo non si rispecchia). Arte colta che presuppone in grado di decifrare i dettagli. Cristo risana l’idropica Vediamo l’allungamento, il distendersi della scena con scenarietti bidimensionali che cadenzano. Le figure allungate con gesti molto evidenziati, un po’ macrocefale. Cristo fa risorgere la figlia di Giairo In questa scena sono rappresentati il prima e il dopo. Sulla sinistra Giairo che implora Cristo di andare a resuscitare la figlia e sulla destra il sanamento. Resurrezione di Lazzaro Vediamo la Madonna ai piedi di Cristo tutta raggomitolata (ricorda arte carolingia), però i gesti sono grandiosi. Pitture murali in Lombardia nel sec. XI A Galliano (Brianza) abbiamo alcune testimonianze. Prima prepositura di Ariberto di Intimiano, il quale fa realizzare questo abside grandioso con la maiestas e il suo ritratto. Notiamo il modo di marcare i volti, molto espressivo. C’è qualcosa di bizantineggiante nelle filettature bianche del panneggio, ma stravolto da questo forte dinamismo. Sotto ci sono scene come il martirio di San Vincenzo, molto dinamismo e le figure si tendono a riempire pieni e vuoti. Il carnefice in primo piano si inginocchia su dei cubi, elementi tridimensionali slegati tra loro che danno forza e evidenza ai gesti. Altro ciclo di età ottoniana è nel Battistero di Novara: l’Apocalisse. Sulle 7 pareti è raffigurato lo scioglimento dei 7 sigilli. Le facciate rispecchiano organicamente l’organizzazione interna, concetto antitetico rispetto a quello di Ravenna o in generale in ambito bizantino, dove l’esterno è sobrio e l’interno quasi esplode a contrasto. Importante anche la miniatura che si sviluppa a Cluny. Su tutto aleggia l’influsso bizantino, come vediamo nella Pentecoste (Messale di Cluny, Biblioteca Nazionale, Parigi), c’è la frontalità di Cristo e di San Pietro, ma l‘efficacia con cui viene costruita la scena è nei raggi rossi, arancioni e bianchi che organizzano la geometria d’insieme e rappresentano lo Spirito Santo che promana dalle braccia di Cristo. Il linguaggio non è puramente bizantineggiante, si capisce dal movimento trepidante, animato da una vitalità che poi caratterizza l’arte romanica. L’architettura, la scultura e le arti sontuarie sono le arti guida del romanico, nella pittura c’è una maggiore subalternità al prestigio delle arti sontuarie e ai modelli bizantineggianti (anche indiretti attraverso l’arte ottoniana, Roma etc.). Legame Cluny-Roma fondamentale. Tra XI-XII sec. c’è un periodo di riforma della Chiesa, di cui il primo protagonista è Gregorio VII (che era stato abate di Cluny). Ben quattro papi del tempo provenivano da Cluny, il che la rese anche una sorta di scuola politica del tempo in preparazione al papato. Quando parliamo di romanico-lombardo dobbiamo considerare che non si parla dell’attuale Lombardia, ma della Langobardia maior (le fonti del tempo usavano il termine per riferirsi all’intera area padana). Anche quando parliamo di Modena (Viligelmo e Lanfranco) parliamo di romanico-lombardo. Sulla genesi dell’architettura romanica si sono sviluppate dispute anche accese. Gli esempi più antichi attestabili dalle fonti sono in Normandia, che begli anni 60 dell’XI sec. esporta una classe dirigente e militare che in breve conquista tutta l’Italia meridionale e l’Inghilterra. Questo periodo di splendore si riflette nelle architetture, come nel caso di Caen. Saint-Etienne (Caen, Normandia, 1063-1077 cons.) Articolata su tre livelli, apertura verso le navate laterali, il matroneo e il claristorio. Il fondo della chiesa è Duecentesco (gotico) e in facciata vanno considerati i due torrioni, ma scanditi dalle arcate cieche mentre dal terzo ordine in su le guglie sono gotiche. La facciata si presenta in maniera tetragona e con le torri che sono lo sviluppo delle torri scalari del Westwerk carolingio e ottoniano. Il romanico normanno è aniconico, fondamentale per lo sviluppo dell’architettura: pilastri polistili anche ai livelli superiori e sistema di scarico alternato con crociera esapartita. Saint Sernin a Toulouse, Bernardo Gilduino e la scultura romanica in Aquitania La scultura nel Medioevo è decorazione architettonica. La grande vicenda dell’evoluzione dal romanico, al gotico al Rinascimento è una progressiva emancipazione della scultura e la riscoperta della statua. LBA nel Quattrocento, quando scrive un trattato di scultura lo intitola “De statua”, consapevole dell’autonomia di una statua sganciata dalla sua funzione di commento decorativo o anche comunicativo, iconografico di una struttura architettonica. Il romanico vede una fame di narrazione canalizzata nell’articolazione dei capitelli istoriati. La narrazione si sviluppa lungo i sostegni delle navate, delle gallerie, nei chiostri (dove è particolarmente visibile da vicino per i religiosi) e poi esplode nella facciata. La facciata è il luogo privilegiato, è la cerniera tra il mondo religioso e secolare, dove la chiesa si autodichiara. Questo valore di soglia è fondamentale per giustificare l’articolazione di programmi che sono in genere propedeutici, che introducono per gradi alle verità superiori religiosi. Infatti nei sistemi dei portali delle facciate abbiamo i profeti, le figure dell’AT. Nei portali stessi vengono anticipati i principali contenuti; il sistema della facciata che si sviluppa a partire dal romanico e si canonizzerà nel gotico è a tre fornici con grande portale centrale cristologico, mentre uno dei due portali laterali sarà dedicato al culto della Vergine e l’altro al culto locale. Questo gusto narrativo esplode in zone più meridionali del romanico: Lombardia, Borgogna e Aquitania. Saint Sernin – San Saturnino (Tolosa, Aquitania, 1075-1096 cons.) A Tolosa convergono le vie di pellegrinaggio dirette a Santiago. San Saturnino non è la cattedrale di Tolosa, ma il santuario cittadino. Portale di Miegeville→ sul fianco meridionale. Significa “metà città” e prende il nome dal fatto che lì passava il cardo romano. La facciata era ad occidente, canonicamente. Anche questo aspetto è importante, non sempre l’ingresso privilegiato è dalla facciata, in base alla posizione urbanistica può anche essere più importante un accesso laterale. Possiamo legare questo portale a Gilduino, nome che conosciamo grazie ad un’incisione sulla mensa dell’altare maggiore all’interno della chiesa. Primo portale istoriato, nella lunetta è rappresentata l’Ascensione di Cristo, gerarchizzata da questo tralcio vitigno (sotto i piedi di Gesù) per distinguere il cielo e la terra, Cristo che si torce in un movimento molto fisicizzato e con lui due angeli che lo mostrano ai 12 apostoli sottostanti. Iniziano da qui i portali istoriati, la figurazione si arricchirà fino a coinvolgere (nel gotico) l’intera facciata come un libro illustrato. Notiamo che è un portale aggettante, incavato per realizzare l’archivolto a cui corrisponde un sistema gradonato con colonne addossate. C’è un embrione di quello che sarà il portale strombato, la massa muraria viene scavata in diagonale con un sistema complesso fatto di spigoli e colonne (o semicolonne) addossate a cui corrisponde nell’archivolto un’alternanza di elementi a sezione cilindrica o rettangolari nell’archivolto. La figurazione scolpita si presenta anche sui capitelli di questo portale strombato. In Lombardia si svilupperà il protiro, un corpo più arioso. Archivolto aggettante su colonne libere e su animali stilofori. Colpisce il fatto che, a fronte dei modelli bizantini in cui il Cristo ascendente assume questo aspetto ieratico, c’è questo corpo che si gira ed è inguainato nella veste, che lo accompagna tramite le lunature. Oltre ai due angeli che additano ce ne sono altri due che lo sorreggono e si addossano, altri due stanno all’esterno. L’orlo zigzagante della veste è un motivo bizantino. Mensa dell’altare di San Saturnino Grande eleganza e la novità di invenzione. Enorme lastra incavata con archetti e un fascione con scaglie e clipei con figure (es. Vergine orante al centro). La scultura di Gilduino è essenziale, ma con forte evidenziazione dei volumi anche nei volti (es. bulbi oculari che caricano di forte espressività). A lui attribuiamo anche i profeti del giro absidale e la maiestas centrale. Da notare la figurazione un po’ risolta sulla superficie, ma una superficie che si gonfia di una corporeità che rimane inguainata dalle vesti percorse da linee tese, come una guaina che stringe il corpo e fa quindi emergere la sua volontà di presenza e fisicità. La seduta del trono è lavorata ad archetti, che però si deformano, quindi il senso della chiarezza geometrica è deformata poiché il romanico è guidato dall’accettazione della superficie. Capitello con Annunciazione e Visitazione I capitelli di S. Saturnino sono i più antichi che conosciamo, poi l’idea si svilupperà in tutto il romanico europeo. C’è di base lo schema del capitello corinzio con le volute angolari, ma sopraffatto dalla narrazione a fregio continuo. Figure un po’ schiacciate e con mani a paletta, ma si tende a rendere i gesti (es. abbraccio Visitazione). Capitello Peccato originale I capitelli sono 4, ma articolano un micro-ciclo tipologico della storia della Salvezza, anticipazione dei grandi temi che vengono solennizzati e santificati all’interno della chiesa. A sinistra le storie della Vergine e a destra le storie del Peccato. Il grande tema è “Maria nuova Eva sana il Peccato originale” e quindi le due storie si fronteggiano. Il fusto del capitello è riempito da racemi stilizzati, perché l’idea è comunque quella di intasare tutti gli angoli. Ci sono poi nel resto dei portali straordinarie invenzioni di ornato, concentrate in una modularità opposta a quella bizantina perché innervata di vitalità ed energia. Es. Mensola antropomorfa→ al di sopra temi delle palmette incavate che vanno a costruire il fregio, i lacunari a rosetta tondeggianti e i modiglioni con figurette che si affacciano. Captitello con animali mostruosi Abbiamo fantasie animalistiche, anche ibride, che sono come imprigionate dai girali, come se fossero liane che li avvinghiano. L’idea è quella del contrasto delle forze, questi animali spesso simboleggiano la violenza primordiale del male imbrigliata simbolicamente. I leoni stilofori staranno poi a rappresentare la forza su cui si costruisce la chiesa. Anche negli angoli protomi angolari e soprattutto leoncini accucciati. Dall’Aquitania promana un linguaggio che coinvolge la Spagna settentrionale fino in Galizia, a Santiago dC, questo grandioso santuario che viene ricostruito dal vescovo Gelmirez alla fine dell’XI sec. Del 1103-12 abbiamo la Puerta de las Platerias (quella del transetto meridionale), che ha avuto le incrostazioni di elementi smantellati dal portale settentrionale. Sul fianco sinistro, rivolto verso chi arriva, c’è questa figura di David. Notiamo una dipendenza da Gilduino in questo corpo come se fosse una pasta lievitata e poi incisa da lunature energiche, gambe incrociate perché il corpo è schiacciato nella seduta su trono ad archetti. Caratterizzazione del volto e dei gesti stessi. Principio di realismo nella descrizione, ad esempio, dello strumento musicale. Il portale su cui si trova presenta, in maniera un po’ atipica, il modello del portale gemino (che ha in realtà un’unica lunetta con colonna al centro) ed è strombato. In ambito spagnolo da ricordare anche Santo Domingo de Silos (siamo intorno al 1120), dove c’è un chiostro abbaziale con poderosi pilastri angolari con figurazioni gremite di storie cristologiche con un trionfo di horror vacui¸ ma quando noi li osserviamo hanno enorme carica espressiva, anche attraverso le deformazioni delle proporzioni e delle figure che sono accentuatamente longilinee e quasi si stirano. Es. Incredulità di San Tommaso→ i 12 apostoli vanno a riempire in verticale la superficie, gesti di sorpresa e attraverso questa modularità emerge il fuoco dell’azione, che qui è spostato ai lati (mentre nella tradizione classica è al centro). Le figure avvitano le gambe per imprimere movimento. Altri esempi: Ascensione→ non c’entra tutto il corpo e allora emerge solo la testa dalle nuvole. Pentecoste→ moto discendente dello Spirito Santo (opposto all’Ascensione). Affini come mentalità sono Santo Domingo de Silos e Moissac [muassac]. Monumento esemplare della prima scultura romanica, che è anche micro-architettura (portale= connubio tra le due cose). Siamo intorno al 1110 (circa 20 anni dopo Tolosa). E’ un’abbazia dedicata a S. Pietro e anche in questo caso ci si concentra sul portale meridionale. E’ sulle vie di pellegrinaggio anche questa. Moissac presenta un portale gemino, come sarà tipicamente nel nord europa: 2 porte, un unico archivolto e un sostegno centrale che in francese si chiama trumeau. La lunetta istoriata è diventata quasi sovradimensionata, il tema è la parusìa, ovvero il ritorno di Cristo per il Giudizio Finale. Cristo benedicente in maiestas al centro del tetramorfo e poi due enormi angeli che lo fiancheggiano. Questi pilastri non si coordinano tra loro in campate (novità invece del romanico). Secondo alcune teorie il romanico nascerebbe in Renania e l’edificio più antico sarebbe Spira. Per Spira possiamo ricostruire due tempi: 1. Tra 1030-61 quando avrebbe avuto una copertura lignea a capriata (come quella progettata da Lanfranco per Modena). La novità di Spira consiste nel legare in continuità i due ordini: le arcate e il claristorio, attraverso un principio di pilastro polistilo, di semi colonna che viene a definire degli archetti continui che cadenzano le pareti. 2. In un secondo momento verranno potenziate alcune di queste colonne addossate per tirare gli archi trasversi e quindi la cadenza è sempre 1:2 (1 centrale a due laterali). Sempre in Lombardia abbiamo qualche edificio preromanico (prima metà dell’XI sec.), come Santa Maria Maggiore a Lomello (Pavia, 1025-1040). Nel nord Italia è il laterizio il materiale più usato. Il sistema di arcate è continuo, ma ci sono paraste leggerissime che collegano le colonne al colmo del tetto in copertura lignea, ma già con un accenno alla campata attraverso degli archi trasversi che cadono in maniera alternata sui pilastri. Arco bardellonato→ arco a doppia ghiera che sottolinea le arcate. I capitelli sono puramente geometrici. A partire dalla seconda metà dell’XI sec., in Lombardia, abbiamo lo sviluppo di questo sistema costruttivo molto più articolato e che vede all’esterno l’uso di paraste e di semicolonne che si completano in alto con teorie di archetti ciechi che corrono lungo il colmo delle facciate a doppio saliente o lungo i fianchi. Sant’Abbondio (Como, ante 1095, anno cons.) Edificio ibrido, non ancora voltato in muratura, ma con capriate, ha cinque navate e un corpo presbiteriale molto profondo con doppio registro di finestre organizzato da una cornicetta marcapiano e un’abside scandito da semicolonne e finestre ad altezze scalate. Le murature vengono scandite, articolate e innervate da un sistema di forze. Non è tanto la massa compatta quando la sua qualificazione attraverso un telaio ideale e costruttivo. In facciata le navate sono dichiarate dai salienti delle coperture e da queste paraste che finiscono in semicolonne in basso. All’interno il capitello è ancora cubico scantonato, di eredità ottoniana. Sant’Ambrogio (Milano, 1088-99) Si rimane molto colpiti dalla bicromia, abbiamo molto laterizio (specie in esterno), ma in interno abbiamo pietra da taglio con effetti programmatici. Ricostruito completamente nell’ultimo decennio dell’XI sec. con un grande quadriportico che serviva sia per la dimensione pubblica che per i catecumeni. L’interno ha tre navate senza transetto e con le absidi al fondo. Fortemente scandito dalle campate, poderosi pilastri polistili alternati a pilastri polistili minori su cui ricadono gli archi trasversi e i costoloni delle volte a crociere. E’ un sistema statico, ma anche un risultato estetico che porta a una scansione di volumi. Abbiamo sia in facciata che all’interno i capitelli istoriati. Rispetto all’Aquitania, Spagna e Borgogna, in Lombardia la figurazione è quasi sommersa dall’ornamentazione. Nei capitelli del portale domina l’intreccio a tre cappi che riempie le strombature. Emergono poi delle figurazioni, come nei capitelli della navata, ma sono animalistiche e con l’invenzione della testa angolare a cui corrispondono due corpi. Nell’abaco ci sono ancora i motivi alto medievali a sopravvivere. Sarà l’Emilia con Viligelmo e Niccolò a costruire un grande modello nei decenni seguenti. L’effetto di sbalzo dei capitelli sembra imitare la toreutica, con volumi salienti rispetto all’effetto aquitano di una pasta che lievita, qui la figurazione è più aggressiva. Il Duomo di Modena: Lanfranco architetto e Wiligelmo scultore Uno dei pochi casi in cui conosciamo il nome dell’architetto, grazie all’epigrafe e ad una Relatio miniata (fine XII sec.). Il Duomo di Modena non è ancora voltato, la versione di Lanfranco del 1099 ha la copertura a capriate lignee. Vede all’opera Lanfranco come architetto e Wiligelmo come scultore. E’ importante perchè spesso si presume che le due figure coincidano. E’ una scansione in campate molto meno forte, abbiamo una teoria continua di arcate (sotto) e di trifore per la galleria (sopra), però c’è il sistema alternato con archi trasversi ogni due (1 colonna semplice e 1 pilastro polistilo). L’edificio è stato modificato alla fine del XII sec. dai maestri campionesi che realizzano il rosone in facciata e il transetto sui fianchi. L’architettura originale di Lanfranco era invece caratterizzata da un giro di arcate cieche che percorre la facciata, i fianchi e l’abside dando una scansione continua. In questo aspetto c’è un’analogia con il Duomo di Pisa, fondato trenta anni prima e che forse inaugura questa idea di architettura romanica fortemente caratterizzata anche all’esterno da queste scansioni di arcate, loggette e arcatelle cieche. Una struttura grandiosa ma che fa trasparire la struttura interna in una facciata a doppio saliente che denuncia la scansione delle tre navate. Le arcate cieche proseguono in facciata includendo questa zwergalerie (galleria cieca non praticabile) di trifore iscritte dentro le arcate. Nel XII sec. è stato aperto il rosone, motivo proveniente dalla Francia che caratterizza il protogotico. Con questa realizzazione i campionesi hanno abbassato il livello superiore del protiro. Hanno poi aperto i due portali laterali (non presenti nella cattedrale del 1099). Inoltre il progetto originale vedeva le 4 fasce con le storie della Genesi tutte simmetriche. In facciata l’idea della narrazione a fregio continuo è innovativa, non è più vincolata allo stipite o del capitello. Protiro→ blocco aggettante incavato dal portale. Lanfranco progetta un’edicola aggettante con un archivolto e i lati aperti e sorretti da esili colonne che poggiano su leoni stilofori (non originali di Wiligelmo, ma sono gotici). Questa del protiro è una delle grandi invenzioni del gotico lombardo (in Puglia sarà reinventata in maniera originale, in Toscana sarà praticamente assente). Nel paramento murario sono inseriti alcuni rilievi, tipo quello con Enoch ed Eliseo, quello con il genio funerario o quello con due cervi con la stessa testa (c’è anche in Sant’Ambrogio a MI). Dominano volumi scanditi, Wiligelmo intaglia anche l’intaglio degli stipiti dell’archivolto (lunetta traforata), non c’è il tema della lunetta istoriata. Una novità di Niccolò, forse allievo di Wiligelmo, è l’introduzione nella lunetta istoriata. Relatio de innovationis ecclesiae Santi Geminiani (fine XII sec.) E’ significativo che si senta la volontà di celebrare questa erezione della cattedrale a distanza di quasi un secolo. Testimonianza anche della storia sociale dell’arte. A fronte di una scultura che parte come pura ornamentazione, squadernare in facciata un alto rilievo di quasi un metro con figure che spiccano nettamente su fondo liscio e inquadrate da una teoria di archetti è innovativo. Gli archetti suggeriscono la narrazione in un rapporto inorganico, ma suggestivo e di interferenza. Le figure si sovrappongono ai peducci e interferiscono con essi. Non c’è l’idea di una cornice illusionistica che deve introdurre uno spazio abitato, al contrario la conquista della fisicità delle figure passa attraverso la prevaricazione del rapporto tra il campo figurato e la sua cornice. Le figure sono talmente esuberanti che sormontano colonnine, capitelli, peducci e si impongono con la loro massa stilizzata, cilindrica, affusolata per evidenziare i gesti che nella Genesi hanno un’aura sacrale perché si stanno raccontando i momenti della Creazione. Dio creatore che impone la mano sulla testa di Adamo e questa figura con le gambe flesse il corpo che a fatica si alza scatena proprio il senso della creazione, della materia che prende vita, di un corpo che si anima. Troviamo delle analogie con la prima scultura romanica (Gilduino) con i cordoli doppi o tripli che percorrono le vesti tese, con questo discorso a ventaglio ritmico tipico di Wiligelmo. Creazione di Eva Concetto di prevaricazione della cornice: al fondo archetti e colonnine, ma la figura sembra venire fuori. Il gioco dei contrasti sprigiona la potenza narrativa: Adamo è sdraiato a terra addormentato, in una posa incomoda con incroci spigolosi di gambe e braccia, con una mano sotto la testa. Il motivo a pelte rappresenta un corso d’acqua (linguaggio stilizzato e convenzionale). La forza sorge dal contrasto con il corpo di Eva che nasce dal suo fianco e dall’autorità piramidata della figura del Dio padre, in un gesto benedicente con la mano destra mentre con la sinistra stringe saldamente la mano di Eva. Poi i volti sono arrotondati in maniera dolce, ma importante. Peccato originale Senso ritmico, iterazione dei gesti con cui i Progenitori si coprono. Avevamo già visto a Hildesheim quella concatenazione narrativa tra serpente, Eva e Adamo, ma qui c’è un diverso modo di interpretarlo. Anche qui il pomo è ripetuto due volte: tra le fauci del serpente mentre Eva lo sta per afferrare, poi lei si volge verso Adamo che lo sta già mangiando con foga, gesto ingordo. C’è un aspetto sia di aura sacrale che di immediatezza fisica. Caino uccide Abele Interessante perché vediamo Caino che infligge il colpo, mentre il corpo del fratello cede, viene meno (opposto a Eva che viene creata). Gambe sventagliate senza piano di posa, come se fosse un burattino. Lamech uccide Caino Anche qui le gambe di Caino si disarticolano quando muore, testa sollevata, bocca schiusa e palpebre richiuse. A prima vista appare come una figurazione molto semplice, dominata da queste sagome e dai gesti quasi bloccate, mentre invece è piena di sottigliezze. Da questa scena di uccisione si passa all’Arca di Noè senza soluzione di continuità, srotolando il racconto. Vediamo prima l’Arca e poi Noè e la sua famiglia che scendono. L’azione non è puramente paratassite (coordinata), c’è un sentore di verità improvvisa nelle figure che si volgono una verso l’altra, nei gesti suggeriti etc. Gli archetti continui sullo sfondo sono lavorati in maniera diversa (massima varietas nelle ornamentazioni, nelle ghiere degli archetti). Sotto l’Arca vediamo, stilizzatissime, le onde del mare. Genio funerario con la falce riversa Rivisita il tema classico dei sarcofagi romani, con il genietto che spenge la fiamma (della vita). La posa stessa del genietto, con le gambe incrociate, rammenta temi della statuaria classica. Capitello con due teste fogliate Anche il tema delle teste fogliate lo abbiamo visto nel Gran Palazzo a Costantinopoli, ma era già presente nell’arte classica, quindi si tramanda. Tema molto caro all’arte romanica è quello della metamorfosi dall’animale all’umano, dal vivente al vegetale etc.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved