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Arte Romana di Massimiliano Papini, Sintesi del corso di Archeologia

Riassunto capitolo per capitolo di tutta la storia dell'arte e l'archeologia romana del famoso testo di Papini

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018
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Caricato il 22/03/2022

keikohiromu
keikohiromu 🇮🇹

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Anteprima parziale del testo

Scarica Arte Romana di Massimiliano Papini e più Sintesi del corso in PDF di Archeologia solo su Docsity! ARTE ROMANA - Massimiliano Papini Parte 1 - Introduzione C1 - ​È mai esistita un’arte romana? Dalla fine del XI sec. a.C. in Italia le ondate di cultura greca furono periodiche, le influenze furono adattate a tradizioni e a condizioni storiche e sociali degli ambienti ospitanti e riformulate. Per l’arte romana non disponiamo di una storiografia artistica con ripartizione per artisti e scuole, sembrano mancare fasi lineari e coerenti. Roma ebbe un’identità composita, vi troviamo un’arte fatta di correnti diseguali in bilico tra la ricezione di modelli greci secondo un gusto “neoclassico” e un realismo “popolare”. Con la definizione di “arte romana” è meglio circoscrivere per pura convenzione le produzioni a Roma ed entro i confini dello Stato romano e della sua durata nel tempo, in senso cronologico e geografico; la delimitazione cronologica è molto controversa a causa dell’assenza di nitidi spartiacque. L’arte romana non morì subito in coincidenza con la caduta dell’Impero occidentale nel 476 d.C, gli archeologi però difficilmente vanno oltre il VI sec. d.C. per lasciare posto all’archeologia cristiana e medievale. Le immagini erano abbastanza standardizzate e ridondanti, molteplici erano i committenti e le tradizioni artigianali delle officine, con differenti capacità tecniche e dislivelli qualitativi. A lungo condizionante è stato il giudizio di Johann Joachim Winckelmann nella ​Storia dell’arte dell’antichità (1764), in cui non si avvalse del termine “arte romana”, nonostante il riscontro di manifestazioni considerate tipiche come il ritratto e i sarcofagi, e in cui intitolò due capitoli ​L’arte greca sotto i Romani e i loro imperatori e ​Decadenza definitiva dell’arte sotto Settimio Severa​. Molto tempo è trascorso perché si riconoscesse all’arte romana un processo di sviluppo della perfezione greca. A liberarci della concezione di Winckelmann fu Franz Wickhoff e del suo libro ​La genesi di Vienna (1895): nell’introduzione sostiene l’autonomia dell’arte imperiale grazie all’intervento di artisti non più greci ma di sangue latino, attivi per committenti romani. Alois Riegl si servì non di analisi iconografiche ma di concetti analitico-filosofici, tra cui al primo posto la legge sistematica e suprema del Kunstwollen​, “volontà artistica”: un principio regolatore intuitivo, collettivo e anonimo, ricavabile dalla considerazione di un vero e proprio dato artistico, ossia dal fenomeno dell’oggetto come forma e colore nel piano e nello spazio, indipendentemente dallo scopo utilitario, dalla tecnica e dalla materia prima. Per Riegl il ​Kunstwollen degli Antichi progredì in tre stadi: il primo “tattile”, per una visione da vicino senza scorci e ombre; il secondo “tattico-ottico”, per una visione normale a metà tra una da vicino e un’altra da lontano; il terzo puramente “ottico”, per una visione a distanza con un ​Kunstwollen positivo e vicino alla concezione dell’arte moderna. L’urgenza di definire le caratteristiche più intrinseche dell’arte romana si concentrò in seguito sul repertorio dei rilievi e sulla resa della profondità spaziali. A dispetto degli avanzamenti resistevano vecchi clichè, nel 1964 Bianchi Bandinelli denunciava l’assenza di metodi consoni per affrontare il “problema” relativo alla storia dell’arte romana. Le teorie dualistiche individuano una bipolarità all’interno della stessa arte romana, ossia due filoni, con prevalenza dell’uno o dell’altro o secondo percorsi coesistenti ma separati. Fu per prima Rodenwaldt a distinguere due correnti: la grande arte statale, “classicistica”, e quella “popolare”, non “classica”. Le caratteristiche sono: frontalità dei personaggi principali; composizioni simmetriche rispetto a un punto centrale; dimensione delle figure variate a seconda dell’importanza e non della prospettiva o delle proporzioni; subordinazione degli 1 elementi di contorno alle figure più importanti; resa con brio dei dettagli di azioni e oggetti. Rilievo funerario con scena di corsa circense​. Successivamente Bandinelli valutò il termine “popolare” come impreciso e ambiguo e, per evitare ogni equivoco idealistico, nel 1967 preferì porre “arte plebea” in contrasto con “arte aulica/ufficiale”, determinazione più critica e storica. Con il tempo si è compiuto il superamento di un dualismo nel senso di un’esatta separazione tra due correnti autonome, sono significative le compenetrazioni tra l’arte plebea e quella ufficiale, sono le teorie pluralistiche ad aver maggiormente valorizzato le convivenze di più indirizzi, smorzando sia le opposizioni fra greco e romano sia le idee di un ​Kunstwollen​ unitario. Nel 1942 Peter Heinrich von Blanckenhagen aveva osservato come in ogni periodo domina o sembra dominare uno “stile d’epoca” risultante dalla predominanza di un determinato “stile di genere” sugli altri. Otto Brendel nel 1953 fece propria la nozione di “stili di genere”, condizionati dai soggetti delle opere, dalle loro finalità e importanza nei contesti architettonici nonché dall’appartenenza alle sfere pubbliche o private. Il modello policentrico è stato ulteriormente promosso nel senso di un ampliamento degli studi a tutti i manufatti, da esaminare nella dimensione diacronica e nelle segmentazioni sincroniche e da estendere alle produzioni delle province romane. Sono subentrate, grazie a Tonio Hӧlscher, le nozioni del linguaggio figurativo tipologico quale mezzo di comunicazione visiva e del pluralismo nella scelta dei modelli greci destoricizzati. Per manifestare le ​sanctitas​, ​gravitas​, ​auctoritas e ​dignitas delle autorità statali fu sentita come maggiormente adeguata la ripresa di tradizioni formali più compassate, “classiche”, quei modelli potevano variare addirittura su uno stesso monumento. Da qui derivò, soprattutto dai secoli II-I a.C., la creazione nel mondo romano di un sistema semantico rimasto piuttosto stabile nei secoli, un sistema con margini di flessibilità, visto che nessun teorizzatore cercò di comporlo in uno schema rigido. La storia dell’arte antica dalla fine del secolo scorso è diventata solo una parte dell’archeologia classica. L’archeologia classica aspira alla sistematicità e alla raccolta di ogni dato al fine della ricostruzione della storia, dei contesti attraverso il tempo e dei comportamenti degli Antichi. Il ruolo dei committenti era fondamentale, senza iscrizioni i monumenti di per sé non possono essere automaticamente associati a determinati gruppi sociali, al contrario spesso accomunati da alcune pratiche dedicatorie e/o decorative. Tra i principali committenti a Roma contarono i re, i condottieri e i politici prima e gli imperatori poi; tutto ciò sotto la costante pressione della concorrenza. I “ceti medi” hanno lasciato molte tracce a livello epigrafico e monumentale, soprattutto nei secoli I-II d.C., per pubbliche munificenze o in ambito funerario per poi scomparire durante il III sec. a.C. Nella definizione di “ceti medi” si fanno confluire i cittadini romani più ordinari di non alto lignaggio, le élite municipali e i liberti. Chi poteva dedicarsi a discorsi sulle arti figurative con competenza? Solo un gruppetto di autentici o sedicenti ​intelligentes​, specialisti in grado sia di giudicare sia di valutare in termini economici l’​ars e l’​ingenium delle opere. Abbiamo l’abitudine di chiamare “artisti” gli autori delle opere, ma si tratta più propriamente di ​artefices​. Essi prendevano il nome per lo più dalla materia trattata, quella romana è però una storia dell’arte prevalentemente senza nomi: a parte determinate produzioni, le opere di età repubblicana e imperiale sono spesso anonime, è raro conoscere gli architetti mentre i committenti badavano a mettersi in bella mostra. Dalle iscrizioni superstiti gli artefici risultano di varia condizione giuridica: liberi, liberti e schiavi; la stragrande maggioranza degli artefici è etnicamente o linguisticamente greca. ​Tabulae Iliacae​. Per iconografia s’intendono singoli schemi figurativi o intere composizioni, circolanti nello spazio e nel tempo sia in forma non tangibile, ossia nella mente degli artefici, sia mediante disegni, prontuari grafici e calchi in gesso. Lo stile indica l’​habitus formale o la maniera complessiva di eseguire gli schemi 2 terminava l’abitato protourbano e iniziava il territorio suddiviso in distretti rurali, ​pagi​, e limitato da piccoli abitati periferici, ​oppida​. Nel corso del VI sec. a.C. la città venne rifondata modificando e ristrutturando natura, forma e distribuzione delle sue partizioni amministrative e giuridico-sacrali. Vi è la suddivisione in quattro tribù urbane, le ​curiae sopravvissero. Tale organizzazione, correlata alla tradizione del penultimo re di Roma Servio Tullio, rimase in vigore fino al 7 a.C. Allora Augusto suddivise l’Urbe in XVI Regioni e in quartieri irregolarmente distribuiti. Tredici Regioni includevano la città sulla riva sinistra del Tevere, numerate in ordine in ordine approssimativamente antiorario, a partire dall’area compresa tra Palatino e Celio (I) fino all’Aventino con la pianura di Testaccio (XIII). La struttura urbana si può suddividere in due macro-categorie giuridiche: spazi pubblici e privati. I monumenti definiti pubblici erano di varie tipologie e funzioni perché destinati a più attività, non di rado coesistenti e intrecciate nel medesimi spazi, edifici sacri, amministrativi, giudiziari, a uso commerciale, per i corpi armati addetti alla sicurezza. Altre magnificenti costruzioni erano richieste dalle occasioni di allenamento corporeo e da necessità quotidiane (terme) e dalle tante ricorrenze festive comprendenti ludi teatrali, circensi e gladiatori. A seconda di momenti storici e casi specifici, gli edifici pubblici potevano essere realizzati dal senato e dal popolo, dai magistrati e dagli imperatori. I questori non possono fare alcuna pubblica spesa senza un decreto del senato. La città era ricca di templi, l’Urbe si identifica con i luoghi di culto, con i riti e con i collegi sacerdotali. Il numero di templi crebbe nei secoli IV-III a.C., non stupisce che nei templi potessero trovarsi esaltate anche le gesta dei committenti. Il pontefice massimo doveva attribuire l’edificio alla divinità cui era stato offerto, per cui diventava di sua proprietà, e la sua gestione era regolata dal diritto sacrale e non da quello civile. Il panorama sacro dell’Urbe si arricchì poi sino almeno al quarto decennio del III sec. d.C. specialmente con fondazioni in onore di alcuni imperatori divinizzati. Quanto alle funzioni, le celle dei templi, oltre ad ospitare simulacri e ornamenti, fungevano anche da palcoscenici per atti ufficiali. Accanto ai templi v’erano strutture sacre più modeste, il flessibile sistema religioso romano ammetteva anche plurime divinità orientali. Tra le proprietà private, oltre agli edifici di utilità pubblica e alle sedi di associazioni professionali e culturali, rientravano le ​domus​, appartenenti all’Urbe dal VI sec. a.C. e attribuibili a determinati proprietari solo in presenza di dati archeologici e di altre fonti, quali notizie epigrafiche e letterarie. Diverse le parti che componevano le domus​: dapprima i “luoghi comuni” quali l’atrio, il tablino affiancato da ​alae​, il peristilio, seguivano i cubicoli, i triclini per banchetti, i saloni di rappresentanza (​oecus​), i ​balnea​. Le abitazioni avevano funzioni politiche, perché concorrevano all’espressione del rango dei loro proprietari. Ma l’Urbe e altre città non vantavano solo spaziose dimore signorili. C’era chi, pur potendoselo permettere, preferiva rinunciare ad arredi troppo sontuosi. C’erano luoghi buoni per gli incontri galanti e adatti all’amore. Strabone ricorda però come ai tempi di Augusto la città fosse un cantiere aperto a causa di crolli, incendi e vendite, aggiungendo un limite di 70 ft di altezza per le proprietà 5 affacciate sulle strade pubbliche, Nerone dopo l’incendio del 64 d.C ne limitò l’altezza a 60ft. La speculazione edilizia e le rendite derivanti dagli affitti delle ​urbanae possessiones​, assieme all’agricoltura e al commercio marittimo, erano entrate nelle fonti di reddito dell’aristocrazia senatoria. Una volta determinato il regime di proprietà degli edifici, sussisteva una relazione molto stretta tra il loro uso e il relativo arredo. Gli insiemi decorativi esprimevano ciò che la sola articolazione architettonica non poteva fare, nei casi più estremi gli ornamenti avevano anche una funzione pratica. Completavano l’ossatura fondante della struttura urbana gli elementi che entravano in città dall’esterno, superando le mura e tutti i limiti fiscali e sacrali: gli acquedotti e le strade, considerati tra gli esempi più efficaci della perizia topografica e ingegneristica dei romani. Si conoscono i nomi di sole diciotto ​viae a fronte delle trentasette porte delle mura Aureliane. Gli acquedotti furono la più recente tra le infrastrutture urbane ad apparire nel paesaggio. Degli undici, costruiti tra il 312 a.C. e il 226 d.C., ben sette entravano in città. Spesso gli acquedotti avevano la funzione primaria di rifornire gli impianti pubblici, l’acqua era prevista per l’uso pubblico, per alcuni privati e per l’imperatore. Tra le infrastrutture ricordiamo poi i ponti. Spicca il più vecchio, il ​Sublicius​, attribuito dalla tradizione al re Anco Marcio nella seconda metà del VII sec. a.C. quale collegamento tra il foro Boario e il colle del Gianicolo: un monumento considerato sacro e lasciato integralmente di legno. Il ponte più antico in pietra di cui la struttura è ancora ben visibile è il Fabricius, del 62 a.C., e collegava l’isola Tiberina alle sponde del Tevere. Secondo la tradizione miti-storica e antiquaria i Romani concepivano la successione degli atti necessari a fondare una città dapprima con realtà immateriali, il ​pomerium​, e poi con complementari strutture materiali, le mura. La città era una realtà da sancire sacralmente: il primo atto richiedeva l’allontanamento di presenze che occupavano l’area prescelta (​liberatio​) e la sua descrizione compiuta declamandone i limiti (​effatio​); in seguito si pregava Giove di acconsentire alla trasformazione di una parte dello spazio in città (​urbs​), la volontà del dio era rivelata dalla direzione di volo degli uccelli avvistati da un sacerdote (​augur​) alla fine della notte e prima del sorgere del sole (​augurium​). Il suo limite era una demarcazione immateriale, una cinta simbolica segnalata da cippi posti a intervalli regolari nel terreno: il pomerium​. All’interno del limite giuridico-sacrale vigevano diversi tabù, tra i quali il divieto di essere armati, di venerare divinità infere e dei dalla Grecia e dall’Oriente e di bruciare o seppellire cadaveri. Il primo ​pomerium​, identificato il solco sacro di Romolo, era circoscritto al Palatino. In seguito Servio Tullio allargò il ​pomerium dal Palatino a tutte le alture della città cinta dalle nuove mura, a esclusione dell’Aventino e dell’​arx​. Chi conquistava nuove nazoni nemiche aveva il privilegio di spostare il ​pomerium​. Il pomerium non fu però l’unico limite, dalla seconda età regia esisteva a Roma l'obbligo di pagare una tassa sulle merci portate nell’Urbe. La cinta daziaria era segnalata da cippi e coincideva in larga parte con i percorsi dei ​pomeria del periodo imperiale. Lungo le strade recanti in città si dislocavano anche santuari posti a un miglio di distanza dalle porte della cinta serviana. I luoghi sacri corrispondevano al limite di una zona esterna, effatta, liberata e non inaugurata dal punto di vista giuridico-sacrale, ma strettamente legata all’​urbs​: alcuni diritti del popolo e dei magistrati non erano limitati al pomerium ma si estendevano al primo miglio delle strade che uscivano dalle città. Il circolo che si veniva a trovare dietro i due elementi segnava il principio della città; poiché esso era oltre il muro si chiamò ​pomerium e andava sin dove terminava la zona fissata per prendere gli auspici urbani. Le mura impedivano l’accesso alla città, ne definivano estensione e perimetro e la annunciavano a coloro che vi si recavano. La loro costruzione presupponeva un rito specifico, con l’aratura in senso antiorario atta a determinarne il tracciato. Già i centro pre- e proto- urbani erano o potevano essere difesi da barriere 6 artificiali di vario tipo, quali fossate, palizzate, strutture in terra e muri. La città-Stato nella forma assunta durante la seconda metà del VIII sec. a.C. aveva il suo centro direzionale politico-sacrale in parte nell’abitato delle vecchie ​curiae​. Il santuario di Vesta con i suoi annessi restò escluso dall’area difesa dalla fortificazione. Le ​mura palatine ​incompatibili con l’abitato precedente: tutti i nuclei di capanne o altre strutture presenti dall’inizio dell’età del Ferro furono distrutti e non più ricostruiti. Allo stesso tempo, tratti della fortificazione continuarono a essere riedificati nello stesso luogo o in posizione leggermente diversa, almeno fino all’incendio del 64 d.C. e forse anche dopo. Un “nuovo” ​collis​, il Campidoglio, e un antico ​mons​, la Veia, furono fortificati. Nel primo caso un tratto di muro si data ad anni poco successivi a quello palatino (750 - 700 a.C.); nel secondo la tradizione ricordava due tratti di un’antica fortificazione del monte. Con l’estensione dell’area inaugurata alla città, l’intera area abitata fu circondata da mura. Non v’è ormai da dubitare della costruzione delle mura Serviane in età arcaica per ragioni archeologiche e topografiche. Prima fra tutte: la posizione all’esterno del circuito difensivo di tutti i sepolcreti databili a partire dal VI sec. a.C. Per completarla furono incise le pendici dei rilievi ed elevati i cigli delle alture; si crearono opere accessorie quali strade parallele al muro, muri di contenimento interno, fognature, ponti lignei sui fossati. Le mura palatine erano sopravvissute due secoli prima di essere distrutte, seppellite e riproposte nei loro elementi più significativi quali le porte. La città inglobò il proprio limite fino ad annullarlo; edifici privati si addossarono fino al II sec. a.C. alla cinta muraria, della quale tratti sempre più ampi furono via via smantellati per dare spazio agli ​horti​. Si restauravano alcune porte. Nel 271 d.C. popolazioni germaniche insediate dopo il Danubio invasero l’Impero e raggiunsero l’Italia per essere però respinti da Aureliano, dopo la consultazione del senato, l’imperatore dette inizio ad una nuova fortificazione. Dato il nuovo urgente bisogno di sicurezza, furono lasciate all’esterno anche una parte della fascia periurbana meridionale e una piccola fetta della proprietà imperiale. Dopo la costruzione delle mura un nuovo ​pomerium fu sancito per essere armonizzato con la nuova linea difensiva. Almeno dalla fine del III sec. a.C. invalse a Roma l’usi di allestire amene residenze nella fascia periurbana subito oltre le mura Serviane. Gli ​horti erano proprietà che formavano una cintura di verde, se ne conoscono per via epigrafica e letteraria circa una sessantina. Si tratta di complessi purtroppo poco noti dal punto di vista archeologico, salvo poche eccezioni. Gli ​horti si dividono in due categorie: si sviluppano in aree pianeggianti o sono disposti su pendii, talora con grande estensione. Tali proprietà erano recintate in vario modo. Oltre a possedere un proprio statuto, in quanto a posti sotto la protezione di Venere, gli ​horti si ubicavano talora in prossimità di anteriori luoghi di culto. L’arredo era magnificente. Dagli horti di Mecenate proviene il ​Laocoonte​, dagli ​horti ​Lamiani il ​Discobolo Lancellotti, mentre derivano forse da quelli Sallustiani le copie del grande ​donario degli Attalidi​, il ​Galata Capitolino​ e il ​Galata Ludovisi​. Sepolcri o intere necropoli non sono da annoverare tra gli elementi del paesaggio urbano: già le leggi delle XII Tavole contenevano la codificazione di un divieto di cremare o seppellire cadaveri in urbe​. A partire dal secondo quarto del IX sec. a.C., gli individui adulti di entrambi i sessi furono seppelliti solo all’esterno delle aree abitate. A Roma, nell’età del Bronzo e nella prima età del Ferro sono noti archeologicamente piccoli gruppi di tombe a incinerazione sparsi nei fondovalle. Nel corso del IX sec. a.C. iniziò l’utilizzo come necropoli della pendice meridionale dell’Esquilino. Subito dopo, 875 - 825 a.C. circa tutte le tombe di adulti, ora inumazioni, si concentrarono in sepolcreti disposti lungo le strade in entrata e in uscita dall’abitato. Da qui in poi si sviluppò nella fascia suburbana il paesaggio sepolcrale, che nel tempo circondò la città su ogni lato e che, dalla fine dell’età repubblicana, si estese 7 sopraelevazione; verso la metà del IV sec. d.C. si aggiunse a nord un’abside dotata di otto nicchie ordinate su due file attorno a una più grande e incorniciate da edicole con colonnine in cipollino, con un ampio podio forse destinato a ospitare il ​tribunal dei giudici. Anche dopo Costantino, nel foro i templi e gli edifici sacri degli dei tradizionali continuarono ad essere restaurati. Nel 410 d.C., anno del sacco di Roma, la zona presso la curia bruciò, e sono testimoniati diversi interventi di restauro del complesso. La ​curia si trasformò in chiesa di S. Adriano nel 630 d.C., mentre S. Maria Antiqua s’insediò in una delle aule volute da Domiziano sulle rovine del palazzo di Caligola. I toponimi medievali nella zona non conservano i nomi dei monumenti, la memoria e il cuore politico di Roma era ormai svanita. Fu Giacomo Boni tra il 1898 e il 1905 a intraprendere scavi in profondità e legati alla scoperta di singoli monumenti, avvalendosi di altre discipline e di scienze sussidiarie dell’archeologia. Dappertutto si susseguivano spazi privati e pubblici, sacro e profano, aree ed edifici sacri e di carattere produttivo-commerciale, altri utilizzati per l’amministrazione, monumenti onorari e infrastrutture. Con buona approssimazione ne sono individuabili tutti i limiti sia mediante il confronto con i dati archeologici e con le fonti letterarie e di altro genere, tra le quali due testi del IV sec. d.C., i ​Cataloghi Regionari (​Curiosum e ​Notitia​), trascrizioni di documenti a carattere amministrativo-tributario. Tali testimonianze consentono tentativi che costituiscono l’unica possibilità di avvicinarsi a un’ipotesi verosimile e basata sulla carta archeologica della città. La Regione VIII (​Forum Romanum Magnum​) includeva l’area tra Palatino, Campidoglio e la riva del fiume ​Velabrum​. La Regione possedeva edifici e zone di grande rilievo, quali l’​area Capitolina con i templi di Giove Ottimo Massimo e altre divinità; ai suoi piedi si trovava l’area sacra di ​S. Omobono​, la meglio nota dell’arcaismo romano per gli eccezionali rinvenimenti di terrecotte architettoniche; lì trovavano posto i templi di ​Fortuna Reduce e ​Mater ​Matuta fondati da Servio Tullio; della fase arcaica è stato indagato un solo settore, rare sono le attestazioni di ​domus e caseggiati. La Regione X (​Palatinum​) coincideva con la prima ​urbs inaugurata​, ricca di memorie del fondatore e della prima città. Ha fornito le maggiori informazioni archeologiche sulle fasi relative all’abitato protourbano, alla città dell’età regia e a quella della prima e media età repubblicana. Il Palatino ha conservato resti delle più prestigiose dimore di Roma fin dal VI sec. a.C. e specialmente nei secoli II-I a.C. Anche Ottaviano volle abitare sul Palatino, la casa dovette essere ultimata nel 27 a.C., anno in cui Ottaviano prese il nome di Augusto: alla porta furono esposti i nuovi simboli del nascente principato; nel 12 a.C. rese pubblica una parte della dimora dove fu replicato il culto di Vesta. Nel 3 d.C. la dimora di Augusto, bruciata in un incendio, venne ricostruita a spese pubbliche. Tiberio, dal 14 d.C. creò una seconda residenza nell’angolo nord-occidentale del colle, la ​domus Tiberiana​, di cui molto giace sotto gli Orti Farnesiani. La ​domus Tiberiana​, ripristinata dopo un grande incendio dell’80 d.C., restò la parte abitativa preferita dagli imperatori anche dopo l’allestimento, sotto Domiziano, della ​domus Augustana completata nel 92 d.C.: il settore al centro del colle fu occupato dalla sua parte di rappresentanza con l’Aula Regia, una sala di ricevimento di enormi dimensioni affiancata da un vano basilicale. Nell’area della futura S. Maria Antiqua s’impiantò un corridoio voltato che tramite sei tornanti e sette salienti superava un dislivello di 35m per collegare il foro al Palatino. Uno degli aspetti più decantati di Domiziano è l’organizzazione di magnifici banchetti. A est di quel settore si estendeva l’ippodromo. Recentemente è stato compiuto uno studio dei bolli laterizi delle residenze imperiali, che ha permesso di riconoscere con esattezza e in dettaglio le singole fasi edilizie. La Regione IV (​Templum Pacis​) si estendeva dal limite settentrionale del foro Romano alla ​Velia​. Poco conosciamo per via archeologica delle fasi precedenti l’età 10 imperiale, perché nella regione si concentrano alcune grandi costruzioni quali il ​templum Pacis​, il tempio di Venere e Roma (135 d.C.), la ​basilica di Massenzio​; quanto restava della ​Velia fu demolito per la costruzione di via dell’Impero/ dei Fori Imperiali. Sull’alta pendice sarebbe stata la casa del re Tullio Ostilio, subito al di sotto si trovava il tempio dei Penati con i simulacri degli dei troiani portati da Enea. Lungo la ​Sacra via si distribuivano horrea di età repubblicana e imperiale. Nel quartiere delle ​Carinae Pompeo Magno visse nella casa paterna, vicino al ​tempio di ​Tellus​. Il colle è stato poi definito il “dominio” della gens dei Domizi, visto che vi abitavano diverse personalità appartenenti ai suoi rami: la domus Domitiana​. In prossimità del tempio di ​Tellus si trovava il limite originario della Sacra via e la sede della prefettura urbana, almeno dalla metà del IV se. d.C. La Regione III (​Isis et Serapis​) includeva due delle tre cime dell’Esquilino, fino al tracciato della fortificazione arcaica. Prende il nome da un santuario della dea egiziana Iside, il complesso potè essere ristrutturato dai Flavi in eventuale concomitanza con il trionfo sulla Giudea nel 71 d.C. Sulle pendici settentrionali dell’Oppio fu dedicata nel 7 a.C. la ​porticus Liviae​, la cui planimetria con doppio colonnato è rivelata dalla ​Forma Urbis severiana​. Nella Regione Nerone estese la ​domus Aurea​, che dopo il 64 d.C. riunì Palatino, Celio, Oppio, Cispio e parte della Velia. Dopo la sua caduta, l'attività edilizia dei Flavi restituì all’Urbe quanto sottratto dagli eccessi del precedente imperatore: qui sorsero così le ​Terme di Tito (80 d.C.). Le ​Terme di Traiano (109 d.C.) condannarono all’oblio la dimora neroniana sfruttandola come sostruzione con l’aggiunta di setti murari. L​’anfiteatro Flavio (80 d.C.) al posto dei portici e dello stagno di Nerone, con il ludus Magnus e altri correlati edifici di servizio. Nel punto di convergenza di quattro-cinque regioni, si trovava la ​meta Sudans​, una grande fontana di epoca flavia. Nella Regione V ricadevano la terza cima dell’Esquilino e l’area compresa tra la fortificazione arcaica e il circuito del I miglio, poi materializzato dalla costruzione delle mura Aureliane. Qui una delle maggiori necropoli di Roma si sviluppò fin dal IX sec. a.C., il ​campus Esquilinus​, con un santuario di Venere Libitina, dea dei sepolcri. Si sviluppano nella Regione alcuni celebri ​horti​. Oltre alla presenza di un’antica sede di mercato, il ​forum Esquilinum e del ​macellum Liviae rientrano nella Regione anche alcune celebri ​domus​. Presso la ​porta Asinaria​, nella zona del Laterano, Costantino volle edificare la basilica e il ​baptisterium Salvatoris​, prima sede per l’attività pastorale ed eucaristica del vescovo di Roma. Poco è noto della Regione II (​Caelimontium​), il cui paesaggio era dominato dal gigantesco tempio su terrazza che Agrippina Minore dedicò al defunto marito, l’imperatore Claudio divinizzato nel 54 d.C., del quale restano pochi elementi. Il tempio, quasi completamente demolito da Nerone, fu poi completato da Vespasiano. Non lontano doveva sorgere anche il ​macellum Magnum​, il grande mercato alimentare dedicato da Nerone nel 59 d.C. e soto solo grazie alle raffigurazioni della ​Forma Urbis severiana. I castra Peregrina​, la caserma dei soldati degli eserciti provinciali assegnati ai servizi di informazione e sicurezza, consistevano in alloggi databili tra la tarda età adrianea e il III sec. d.C. Si conoscono caseggiati di età imperiale e diverse ​domus aristocratiche. Spicca la domus del Valeri​, famiglia che vantava tra gli antenati il console del primo anno della Repubblica: la domus è celebre anche perché i ricchi proprietari dei secoli IV-V d.C. dopo aver abbracciato la fede cristiana decisero di disfarsi dei beni materiali. La Regione I (​Porta Capena​) s’incuneava lungo il primo miglio delle vie Appia e Latina, tra le pendici del Celio e dell’Aventino piccolo, in un’area quasi interamente esterna alla fortificazione arcaica. Presso porta Capena, subito fuori le mura, sorgeva il ​tempio di ​Honos e ​Virtus​. Il santuario assunse la forma di due templi gemelli affiancati per essere dedicato nel 205 a.C. dal figlio. Nella Regione VII (​Piscina Publica​), che prendeva il nome da un grande bacino d’acqua destinato ai bagni pubblici e comprendeva l’Aventino piccolo, il pianoro a sud-est del monte 11 e la valle sottostante fino alla via Appia, oltre a santuari e domus di prestigio,si distribuivano horti​. Il tessuto topografico di queste due Regioni (I e XII) è a stento ricostruibile, e gli edifici principali restano isolati nel paesaggio della città contemporanea. Anche nella Regione XIII (​Aventinus​), estesa dall’Aventino grande alla pianura del Testaccio lungo l’ansa del fiume, sono pochi i tratti percepibili dell’antica città. Scavi recenti e ampi tratti della Forma Urbis severiana permettono di ricostruire in dettaglio la trama del Testaccio, articolato in isolati regolari occupati da magazzini. Negli ultimi tempi si è accesa una disputa tra gli studiosi attorno a un gigantesco complesso del II sec. a.C. a sud dell’Aventino, lungo quasi 500m e con una schiera di vani voltati a botte, in collegamento con un emporio per lo scarico e per il commercio delle merci e costruito in opera cementizia. Da poco ne è stata messa in dubbio la tradizionale identificazione con la ​porticus Aemilia (193 a.C), l’identificazione si fonda sui frammenti della ​Forma Urbis severiana che paiono riprodurre quell’edificio, conservando solo le ultime lettere del suo nome. La cima dell’Aventino ospitava il santuario di Diana, per lo statuto era un ​asylum​; il monte era poi come il luogo di accoglienza di una marginalità etnica e sociale, giacché esisteva un legame tra Diana Aventina e gli strati umili della società. Sull’Aventino un altro luogo di culto era consacrato al dio della tempesta Giove Dolicheno, parzialmente noto anche per via archeologica da resti in via S. Domenico, da cui provengono molti ed eterogenei ex voto. Nella Regione XI (​Circus Maximus​) era compresa la valle tra Palatino e Aventino, occupata per intero dal circo Massimo, la cui origine è attribuita a Tarquinio Prisco o a Servio Tullio. Un ​tempio a Cerere e ai suoi paredri Libero e Libera, l’edificio arcaico sopravvisse sino al 31 a.C. finché non venne distrutto da un incendio. Nel ​foro Boario si trovava l’​ara Maxima di Ercole, nel punto dove egli aveva ucciso il mostruoso e dove convergevano parecchie vie, ancora oggi in parte visibile nella cripta di S. Maria in Cosmedin. Nel foro Boario trovavano poi posto importanti templi tardo-repubblicani. Ai margini del foro Boario si conservavano un arco quadrifronte della metà del IV se. d.C. e l’​arco degli Argentari​. La Regione VI (​Alta Semita) includeva i due colles Viminale e Quirinale e una fascia compresa tra le mura Serviane e quelle Aureliane. Del Viminale è noto un ampio tratto con ​domus ad atrio, caseggiati e ​horrea​. Sul Quirinale, la cui trama topografica è delineabile con maggiore difficoltà, sorgevano alcune notevoli costruzioni sacre. Il tempio di Quirino (325 a.C.) venne rifatto da Cesare tra il 49 e il 45 a.C. e poi da Augusto nel 16 a.C., era un diptero ottastilo: vi sono varie proposte sulla sua localizzazione. Un grande complesso a terrazze di età severiana è stato identificato con la sede del tempio di Serapide dedicato da Caracalla. Il ​templum gentis Flaviae (94 d.C.) è stato riconosciuto in strutture all’interno dell’aula ottagonale delle ​Terme di Diocleziano (305-306 d.C.); le ​Terme di Costantino (315 d.C.) si trovavano invece di fronte al ​tempio di Serapide​. Non mancavano esempi di lussuosa edilizia privata. Degno di nota è il quartiere scoperto a piazza dei Cinquecento, con ​domus​, ​insulae e un impianto termale. Oltre le mura Serviane, erano il ​campus e la caserma delle coorti pretorie tra le vie Tiburtina e Nomentana, la grande ​necropoli Salaria e gli ​horti Sallustiani​. La Regione VII (​Via Lata​) comprendeva la sommità e la pendice del Pincio verso il Tevere, anche qui si estendevano horti​, nella regione M. Vipsanio Agrippa aveva proprietà rese pubbliche da Augusto nel 12 a.C. e sede della ​porticus Vipsania​. La stretta fascia pianeggiante includeva domus, caseggiati, archi onorari. Più avanti il tempio del Sole (275 d.C.) fu dedicato da Aureliano a seguito di uno splendido trionfo. I disegni di Palladio e Pirro Ligorio testimoniano un tempio rotondo al centro di una ​porticus​. La Regione IX (​Circus Flaminius​) definiva la pianura, internamente extraurbana ed extramuraria, in un’area destinata ad attività militari, ludi e ricca di templi, teatri, terme, portici e giardini, oltre che di sepolcri onorifici per personalità eminenti e di strutture per il culto imperiale. Qui erano in origine i possedimenti terrieri di 12 templi “tuscanici” quelli a tre celle, etrusco-italici quelli con una o più delle seguenti caratteristiche: una pianta tendente al quadrato negli esempi tuscanici, che in quelli etrusco-italici conserva larghezza considerevole anche se il rettangolo si allunga; un podio elevato che enfatizza l’edificio isolando l’area circostante; un accesso frontale servito da una gradinata assiale; una parte anteriore profonda e aperta in facciata che permette al sacerdote o al magistrato di avere una visione panoramica verso l’esterno per prendere gli auspici; orientamento verso sud; colonne rade con larghi intercolumni. Si fanno rientrare tra i templi etrusco-italici quelli ad ​alae​, ossia con la cella centrale affiancata da due corridoi aperti in facciata oppure il periptero ​sine postico​, con colonne solo in facciata e sui lati. Gli edifici inizialmente avevano un frontone aperto, senza timpano, e lo spazio vuoto era solo in parte riempito di lastre di rivestimento in terracotta inchiodate all’estremità del trave centrale (​columen​) e di quelli laterali (​mutuli​). Dal IV sec. a.C. e in seguito, i templi adottarono un frontone chiuso, decorato con soggetti mitologici particolarmente diffusi durante i secoli III-II a.C. Un ​tempio ad ​alae del 580 a.C., di solito identificato con quello ​della dea ​Mater Matuta​, già vanta un frontone greco di tipo chiuso con decorazione formata da due felini affrontati ai lati di una Gorgone in corsa. Dalla seconda metà del VII sec. a.C. le coperture fatte si strame di paglia furono rimpiazzate da tetti di nuova concezione, con l’adozione di tegole e decorazioni fittili per templi e residenze gentilizie monumentali: i fregi figurati raffigurano processioni di carri a carattere trionfale, corse di cavalieri armati e di bighe/trighe nonché banchetti, ed esaltano la mentalità eroico- cerimoniale dei gruppi dirigenti anche mediante l’inclusione di temi mitici ed elementi rinvianti alla sfera ultraterrena. L’architettura in pietra in ambito domestico si diffuse dalla seconda metà del VII sec. a.C. Un nuovo modello residenziale signorile pare comparire a Roma dalla fine del VI sec. a.C., almeno con una serie di ambienti disposti secondo un asse principale longitudinale. Tale forma, definita canonica, può significare che la tipologia della ​domus potè essere elaborata già almeno alla fine del VI e inizio del V sec. a.C. per poi disseminarsi e standardizzarsi sempre più nell’ambito dell’insediamento delle colonie di Roma, con l’Urbe nel ruolo di mediatrice. Le più antiche menzioni di artigiani riguardano stranieri giunti in Italia centrale nella cornice del commercio aristocratico, a partire da tre modellatori dai nomi parlanti: Diopo, “colui che traguarda”; Euchino, “dalla buona mano”; Eugrammo, “dalla buona pittura”; e da un pittore, Ecfanto. Non a caso una rilevante quantità di ceramica protocorinzia proviene da tombe della necropoli esquilina, ci visse un esule corinzio. Nel periodo 582-578 a.C. da Veio fu chiamato Vulca per la grande statua di culto del tempio di Giove Capitolino​: egli, l’unico artista etrusco noto per via letteraria, plasmò anche un ​Ercole di terracotta. Il primato di Veio nella coroplastica è confermato dalla scoperta del santuario di Portonaccio, alle porte della città, di straordinari gruppi acroteriali e votivi, attribuiti a parecchi artefici delle generazioni successive a Vulca fino alla fine del VI sec. a.C. Troviamo creazioni imbevute di cultura figurativa greca, sulle quali è tangibile il susseguirsi di vari apporti tematici, iconografici e stilistici dalla Ionia insulare e specialmente asiatica, evidenti anche nella pittura vascolare e su tavole (​pìnakes​), nella pittura funeraria e nella produzione romana di bronzetti raffiguranti koûroi ​e ​kórai​. Alla fine del VI sec. a.C. nelle iscrizioni latine la scrittura cambiò direzione per divenire destrorsa, parallelamente a quanto verificatosi nel mondo greco. Nel 509-508 a.C. il trattato di amicizia con Cartagine segnò il riconoscimento del controllo di Roma sulla costa tirrenica, nello stesso momento il culto della dea fenicio-punica Astarte faceva il suo ingresso nel santuario di ​Pyrgi​. Sempre alla fase iniziale della Repubblica risale un monumento pubblico a celebrazione della saga delle origini: la ​Lupa Capitolina​, del 480 a.C. circa. La cultura figurativa fino alla metà del IV sec. a.C. accolse le coeve conquiste greche in modo non sistematico, per cui la coesistenza di tante esperienze non facilita la 15 definizione di chiare sequenze cronologiche. Artigiani ateniesi continuarono a stanziarsi in Etruria. Uno dei fattori che nell’Italia centrale del V sec. a.C. determinò un assorbimento a singhiozzo delle novità fu l’infiacchimento delle committenze pubbliche, fenomeno che impedì alle officine di aggiornarsi fino alla fine del V sec. a.C., in cui si fu una ripresa economica. Da Orvieto provengono testimonianze tra le più vistose del classico nella coronoplastica. Nella bronzistica, la “​Chimera di Arezzo​” è stata accostata a una protome leonina fittile dell’officina di Fidia a Olimpia. Per Roma la scarsa documentazione è compensata dalla grande scultura fittile conosciuta. Al 380 a.C. circa risale la “​cista Ficoroni​”, scoperta a ​Praeneste​, destinato a custodire il corredo femminile, ha un’iscrizione che la dice eseguita a Roma da un certo ​Novios Plautios​, il proprietario dell’officina e non l’incisore. La decorazione figurata a bulino ricalca i motivi della grande pittura greca e forse della ceramica italiota nel ruolo di intermediario: le statuette sul coperchio rivelano la popolarità dei soggetti bacchici e furono attribuite ad un’officina etrusca. Furono sempre più le officine laziali a diffondere le nuove tendenze del secoli IV-III a.C., l’espansionismo agì da fattore unificante della penisola dal piano culturale e figurativo. A Roma dalla seconda metà del IV sec. a.C. si registrano grandi novità qualitative e quantitative nei monumenti ufficiali e nell’artigianato: con la conquista della Sabina (290 a.C.) i Romani ebbero: crescita economica e demografica, processi produttivi volti al profitto con protagonisti i ceti abbienti, apparizione della moneta, afflusso di manodopera schiavistica. Furono gli anni dell’espansione dell’Urbe. In tali frangenti i comandanti poterono accrescere la coscienza di sé e del proprio apporto alle fortune della patria anche tramite il voto e la dedica di templi e i monumenti onorari. Il foro Romano guadagnò in ​dignitas grazie alla sostituzione delle botteghe con le taberne dei banchieri, nel 318 a.C. circa, e con la costruzione di basiliche funzionali allo svolgimento di attività giudiziarie, finanziarie o amministrative. L’urbe diventò anche un centro produttivo, l’artigianato fu qualitativamente eccellente, fu raggiunto l’allineamento con la cultura figurativa greca. Nei secoli IV-III a.C. lo scoppio della religiosità popolare italica e latina portò all’intensificarsi della pratica di dedicare nei santuari anche doni in terracotta, il dilagare di simili offerte è in parte correlato alla crescente influenza di Roma per mezzo delle colonie ai confini dei territori conquistati. Le tante teste rielaborano, semplificano e impoveriscono motivi formali prassitelici e lisippei, vale anche per la coroplastica templare. Nella documentazione superstite, il frammento di affresco a carattere storico proveniente da una tomba nell’Esquilino mostra una tecnica “a macchia”. Nei secoli IV-III a.C. l’arte per i Romani fu uno dei mezzi più vantaggiosi per la celebrazione del potere e della religione statale, si perfezionarono specifiche tipologie rappresentative romane. L’élite politica e il popolo s’impegnarono nella formazione di una memoria monumentale negli spazi pubblici; l’impatto dei monumenti poteva accrescere in occasioni delle processioni funerarie o trionfali. Le statue onorarie in bronzo concesse da senato e popolo, celebrative delle vittorie militari ottenute dai membri della nuova nobiltà e di personaggi benemeriti nei confronti della patria oppure dei primordi della città: tutte figure assurte a modelli di identificazione per l’intera comunità e utili alla costruzione e al consolidamento della memoria pubblica. Delle statue onorarie/votive in bronzo che si andavano innalzando in quei decenni resta pochissimo, salvo il ​Bruto Capitolino​, del IV sec. a.C. circa in cui ritroviamo la chioma appiattita e la barba con ciocche a fiammella. Nelle processioni trionfali sfilavano le ​tabluae triumphales​, resoconti visivi dei fatti salienti di guerra che al termine venivano deposti all’interno di templi o messe in mostra permanente in luoghi pubblici. Nel 264 a.C. mutò simbolicamente anche il rapporto tra Roma ed Etruria, perché la prima era diventata il centro da cui dipendevano ormai le città etrusche. 16 Nel 212 a.C. ci fu la presa di Siracusa, un momento cruciale per l’ellenizzazione sempre più radicale dell’arte e dei costumi: Claudio Marcello trasferì a Roma grandi quantità di statue e quadri. Plutarco presenta il condottiero come un progressista, incarnazione di una conciliazione tra ​virtus e ​paideia​. Opere d’arte come preda bellica arrivavano sin dal III sec. a.C. ma mai in quantità tali da provocare sgomento, da quel giorno ogni trionfatore fu quasi costretto a superare anche in questo campo il predecessore per esaltare il proprio successo. Nel II sec. a.C. i bottini di guerra si susseguirono, e ad ogni bottino aumentavano le infiltrazioni figurative e architettoniche greche: ellenizzazione e romanizzazione procedevano di pari passo. Non sempre però le committenze di prestigio portarono con sé opere di alta fattura: la povertà disegnativa può essere causata da un’involuzione di alcuni settori dell’artigianato. Con l’epoca delle vittorie in Asia Minore le fonti fanno coincidere l’introduzione della ​luxuria Asiatica​. Insieme alla ​luxuria e con l’arrivo di ​artificies orientali si diffusero anche tematiche asiatiche come le celtomachie e i “pergameni”. Proprio allora potè essere scolpita in marmo la statua di 2m detta “​Giunone Cesi​”, seconda quarto del II sec. a.C.. Nel corso dello stesso secolo si trovava a Roma un certo Demetrio, topografo, un pittore di paesaggi. Sul piano figurativo, Roma concorse a quel movimento classicistico che invalse il Mediterraneo dall’inizio del II sec. a.C., questo orientamento, dove officine greco-asiatiche operavano contagiandosi a vicenda,risulta afferrabile dalla coroplastica dei templi e nei frammenti delle statue di culto. È ben studiata la produzione della famiglia Timarchide, Policle e Dionisio, artefici attivi per committenze romane e greche; meno analizzata è la ritrattistica per la rarità di casi urbani: è quasi sempre meglio rinunciare ad avanzare nomi. Il ​Principe delle Terme venne trovato alle pendici del Quirinale: non venne identificato; il braccio dietro la schiena richiama Lisippo, la nudità è prerogativa dei greci; ha qualche somiglianza con l’effige del re di Pergamo Eumene II. Alcune delle opere più vetuste, per i tanti anni di esposizione, stavano sparendo: negli spazi pubblici stavano sorgendo i quadriportici, perfetti per la presentazione delle prede belliche. Roma si stava dotando di strutture da capitale ellenistica, come la ​porticus Aemilia con ​emporium e banchine lungo il Tevere. Stavano mutando volto anche i templi. All’interno del ​porticus Metelli​, periptero di 6x11 colonne, eseguito da un architetto greco, Ermodoro di Salamina, fu il primo interamente in marmo. Le scelte progettuali non furono del tutto sovrapponibili in ambiente greco e romano, visto il bisogno di adattamenti dettati anche dalle locali tradizioni religiose e dalle scelte culturali dei committenti. ​Tempio “B” dell’area sacra di Largo Argentina, identificato con il tempio della Fortuna di Questo Giorno (101 a.C.): scala d’accesso inserita in un edificio circolare (​thólos​) sopraelevato su podio; fusti a ventiquattro scalanature in tufo dell’Aniene stuccato coronato da capitelli corinzi in travertino. Nei secoli II-I a.C. in Italia centrale nacquero santuari terrazzati, il più celebre è quello oracolare della Fortuna Primigenia a ​Praeneste (120 a.C.). Talora medesime maestranze furono impiegate per le decorazioni: alla fine del II sec. a.C. la stessa officina di mosaicisti alessandrini fu impegnata a ​Praeneste e nella Casa del Fauno a Pompei. L’edilizia tardo-repubblicana adottò l’opera cementizia, costituita da un nucleo di materiale incoerente legato da malta tra due parametri lapidei. Pompeo in Campo Marzio aveva costruito il primo teatro permanente in muratura sormontato ​in summa cavea dal tempio di Venere Vincitrice. Nell’Urbe e non solo proliferavano poi le statue onorarie posizionate nei luoghi più frequentati. I conflitti tra fazioni politiche e individui nel I sec. a.C. si combatterono anche a suon di monumenti. Mentre nei secoli II-I a.C. le monete e le gemme vitree vengono riempite di simboli, personificazioni e iscrizioni richiamanti con forte grado di astrazione vari concetti politici, i documenti superstiti nell’arte di rappresentanza monumentale sono pochi. Anche la ritrattistica continua a 17 Il ​Colosseo fu realizzato in parte durante il principato di Vespasiano e completato dal figlio Tito, mentre a Domiziano si deve la costruzione dell’ampio reticolo di vani di servizio sottostanti l’arena che impedì lo svolgimento di spettacoli di naumachia. Costruito in travertino all’esterno e foderato in marmo all’interno, il Colosseo si distingue per l’impressionante misura, ma anche per la qualità progettuale. La partizione della facciata esterna a ordini sovrapposti di arcate sui cui pilastri di sostegno sono applicate semicolonne, e coronamento di un alto attico. Gli ordini di arcate sono tre, con semicolonne tuscaniche, ioniche e corinzie, mentre il massiccio attico è scandito da paraste con capitelli corinzi a foglie lisce, tra le quali si alternano una finestra e un clipeo di metallo; nelle arcate si trovano centinaia di statue di dèi ed eroi. Gli spettatori entravano nell’anfiteatro attraverso arcate assegnate a seconda del loro ceto. La cavea era a sua volta distinta in cinque settori dei quali il superiore era all’interno di un portico colonnato che ne concludeva l’assetto. Sempre a Vespasiano si deve la realizzazione del ​teplum Pacis (71-75 d.C.) vasta area recintata con facciata interna a grandi colonne a risalto di marmo africano, porticati su tre lati con colonne di granito rosa di Assuan, con un giardino al centro scandito dalla presenza di sei canali d’acqua circondati da rose. La gigantesca facciata del tempio della ​Pax Augustea aveva colonne monolitiche lisce di granito rosa di Assuan alte 50 ft. Il tempio era destinato a contenere, oltre la statua di culto, il bottino della guerra giudaica. Il monumento era considerato già in antico come una delle meraviglie di Roma. A Domiziano sono ascrivibili le più originali e innovative opere architettoniche dell’età flavia, attribuite all’architetto Rabirio, al quale si deve forse un colorismo più acceso e l’utilizzo di una vivace mescolanza di forme rettilinee e curvilinee. Il ​foro detto Transitorio, o di ​Nerva​, era la monumentalizzazione dell’ultimo tratto dell’​Argileto​, più simile a un corridoio scenografico le cui pareti laterali sono scandite da colonne e trabeazioni a risalto, sormontate da un pesante attico soprastante che ne segue il movimento con effetto barocco, accentuato dal forte chiaroscuro delle decorazioni architettoniche, ottenuto con un virtuosistico gioco a traforo. A Rabirio è attribuita l’idea di scolpire tra i dentelli delle trabeazioni due anelli che contribuivano a marcare l’effetto coloristico dell’architettura. Il foro Transitorio aveva sul fondo un tempio dedicato a Minerva. Ma è negli ambienti della ​domus Augustana sul Palatino, dove si tentò di offrire un assetto unitario ai palazzi imperiali, che la fantasia di Rabirio per gli impianti mistilinei dovette lasciare il suo segno più duraturo. La novità è nella varietà morfologica e nella misura eccezionale degli ambienti di rappresentanza, a partire dall’Aula Regia, alta circa 30m, avente alle pareti trabeazioni e colonne a risalti e grandiose edicole contenenti sculture colossali in basanite. La copertura era a capriate di legno, nascoste da un soffitto a cassettoni di stucco. L’originalità progettuale di Rabirio è testimoniata anche dall’Aula Ottagonale, un ingresso alla parte convenzionalmente chiamata ​domus Flavia con pareti scandite dalla presenza di una doppia fila alternata di esedre rettangolari e semicircolari e copertura con volta a cupola. In età ellenistica si erano imposte teorie estetiche che giudicavano inarrivabile il livello raggiunto dai grandi artisti dei V e IV secolo a.C. e ne valutavano l’operato secondo la loro capacità di realizzare opere rispondenti a temi specifici: Calamide e Mirone avrebbero raggiunto l’eccellenza nella rappresentazione degli animali, Policleto in quella dei giovani atleti, Fidia e Alcmene nella raffigurazione degli dèi. Si vennero a sviluppare canoni di artisti giudicati in quanto ineguagliati nella rappresentazione di determinati soggetti. Tali teorie, secondo una logica evolutiva, basata sulle innovazioni tecniche e sulle maggiori capacità di avvicinarsi al vero secondo natura, ponevano nello stesso tempo le premesse per una revisione dell’arte arcaica e severa. È probabile che già nella Grecia tardoclassica si fosse sviluppata una corrente artistica rivolta a modelli di età arcaica per la decorazione di 20 manufatti a carattere religioso o funerario, poi replicati a livello più squisitamente decorativo dagli scultori della corrente neoattica verso la fine del II secolo a.C. e per il periodo tardo-repubblicano e protoimperiale. Nacque in questa fase il mito di Fidia quale vertice assoluto dell’arte greca, il solo capace di rappresentare gli dèi come erano realmente, nella loro suprema ​auctoritas​, e di Policleto, oltremodo abile nel rappresentare gli uomini con una dignità oltre il vero, sebbene alle sue opere mancasse solennità. La cultura artistica augustea ha ereditato questo sistema. La corrente classicistica ne era una delle principali componenti; sviluppatosi ad Atene, il gusto per forme artistiche dipendenti da modelli classici raggiunse ben presto Roma stessa dove già nei primi decenni del I secolo a.C. sono diffuse opere di produzione neoattica. Questa è stata finora l’interpretazione dei principali monumenti augustei, a partire dai rilievi dell’​ara Pacis​, considerata l’opera chiave per comprendere il fenomeno artistico. Monumento decretato dal senato il 4 luglio del 13 a.C., consta di un recinto perimetrale che racchiude l’altare su cui i magistrati, i sacerdoti e le vergini Vestali sacrificavano ogni anno. All’interno del recinto si individua la raffigurazione del tavolato ligneo a delimitazione dello spazio inaugurato dei ​templa minora così come creati dagli auguri; il registro superiore con festoni e bucrani intervallati da patere e coppe può rimandare alla decorazione posta sopra la recinzione lignea. All’esterno, il recinto è separato da una fascia a svastica. Nel registro superiore le scene prevedono a nord e sud un corteo di personaggi storici, che rappresenta un’unica processione. Figurazioni mitiche si trovano poi ai lati delle porte a est e a ovest. È stato per lungo tempo luogo comune considerare i rilievi figurativi della fascia superiore dipendenti da modelli classici nella quale si sono voluti vedere rapporti formale con il fregio del Partenone. Eppure si dovrebbero prendere in considerazione in primo luogo i precedenti etruschi. L’​ara Pacis non è immune dall’influenza artistica greca, ma risponde a una diversa esigenza che ha spinto a una variazione del linguaggio formale secondo moduli per certi versi innovativi. Nel caso dell’​ara Pacis ci sono differenti sfumature tra il grande fregio con processione, il piccolo fregio con popolare romana, e i pennelli simbolico-mitologici che derivano dalla tradizione ellenistica. Ogni soggetto è diversamente impostato secondo schemi figurativi tratti dall’ampio repertorio dell’arte greca, e non esclusivamente da quello classico, Le immagini sono pacate, ma lo stile è una costruzione nuova, non classicistica che suggerisce la formazione di un nuovo linguaggio classico. Mai, nei monumenti ellenistici superstiti, l’ambientazione era stata impostata con tale dovizia di dettagli e con un tale effetto di gradazione del rilievo: dall’altorielievo delle immagini in primo piano al rilievo bassissimo, quasi sfumato, nel fondo. Questa nuova visione aperta alle voci della natura è direttamente legata alla concezione della nuova età dell’oro del regno di Saturno, della pace e della prosperità, dopo decenni di sanguinose guerre civili definitivamente debellate dal principe. La medesima forma linguistica si riscontra in una lunga serie di rilievi di diverso formato che dovevano decorare le pareti lussuose ​domus e ville in luogo di affreschi o di dipinti, con raffigurazioni a carattere mitologico e pastorale innestate in un ambiente di rocce, vegetazione naturale, piccoli monumenti bacchici, edifici templari, di rado in rovina, e ricovero di alberi nodosi i cui rami s’inseriscono tra finestroni e crolli. Sono le numerose variazioni su un medesimo tema che solo in epoca augustea e giulio-claudia ebbe modo di svilupparsi. Entro questo strato culturale hanno origine i rilievi Grimani, pertinenti a un ninfeo realizzato nel foro di Praeneste​, sulle cui pareti erano applicati, insieme con i calendari riformati, anche pannello con la rappresentazione femminile di animali, domestici e selvatici, con la loro prole. I pannelli prenestini con la rappresentazione dell’amore materno in un ambiente idilliaco-agreste si pongono al vertice del discorso augusteo sul tema della pace e della fertilità, con risultati artistici che giunge a livelli tra i più alti dell’arte antica. Si constata la 21 capacità degli artisti di età augustea di sapere utilizzare spunti della tradizione per giungere a soluzioni del tutto innovative. La cultura augustea, insomma, non è classicistica, procede alla costruzione di una nuova forma classica, rispondente spesso al concetto di dignità (​decor​). Naturalmente i Romani in età giulio-claudia fecero largo uso nelle loro dimore di originali greci e di copie da opere illustre greche. I rilievi funerari attici e ionici erano ora inseriti in giardini. Quasi mai l’imitazione è fine a se stessa, ma procede a costruire nuovi legami con la tradizione, il che significa ripensarne il messaggio originario con una fortissima coscienza del presente. Nei casi più interessanti, l’imitazione diventa emulazione, volontà di realizzare qualcosa che possa essere di pari livello, se non superiore, al livello. Gli artisti in età romana attinsero da tutto il repertorio figurativo greco. Ai Romani, forse dietro influenza delle correnti neoattiche, è parso in determinati casi che la forma arcaica fosse la più idonea a rappresentare i principali dèi dell’Olimpo, ma anche personificazioni di concetti astratti. Nelle figure l’accento arcaico appare come un’eco, riprodotto con raffinata eleganza, e inserito in un ambiente paesistico che con la cultura arcaica non ha nulla a che fare. In statue a tutto tondo, per esempio nel ​Priapo ai Museo Capitolini, la componente arcaica, sebbene dominante, è ridimensionata in virtù dell’elaborazione parzialmente naturalistica del panneggio e del complessivo decorativismo formale. È probabile che tale modo di procedere abbia le sue premesse nella produzione artistica delle scuole di Pasitele e di Cesare, le due scuole devono aver continuato la loro attività anche durante l’età augustea. I corpi derivano da modelli di età ellenistica, ma i volti dipendono da modelli di stile severo. Tali opere sono anch’esse il risultato di un complesso amalgama di schemi formali di epoche differenti. Persino dove la copia è fedele nei minimi dettagli, come nella riproduzione delle due ​kórai sull’attico dei porticati del foro di Augusto, il risultato non coincide affatto con quello delle opere originali. Con l’inserimento tra esse di clipei con le torve e barocche teste di Giove Ammone. Le copie assumono un differente significato e impongono un sentimento di sacralità e di pace, in contrapposizione con le teste di Giove Ammone che sembrano voler minacciare coloro che ostacolano l’opera di pacificazione romana. L’arte augustea è il risultato di un impasto di molte componenti di matrice greca, simili componenti sono comunque miscelate di modo che il risultato artistico è di profondo controllo e misura. Durante il I secolo a.C. il gusto per le forme patetiche a Roma aveva subìto forse un ridimensionamento con la diffusione della corrente neoattica, ma non era mai stato rimosso del tutto; anche la scultura ateniese di età tardo-ellenistica appare non del tutto indenne da influenze asiatiche. Con il ​Toro Farnese​, una fastose macchina teatrale in un unico blocco di marmo che nelle figure associa elementi della più pura tradizione patetica con altri di tradizione classica e altri ancora derivati dalla tradizione idilliaco-sacrale. Qualche tempo dopo, Tiberio, di ritorno dal suo esilio più o meno volontario a Rodi del 2 d.C. abitò negli ​horti di Mecenate, e qui dovette promuovere probabilmente una revisione dell’assetto dei giardini con l’inserimento di opere di artisti di scuola rodia. Negli ​horti entrarono allora il ​Laocoonte di Agesandro, Atanodoro e Polidoro. Il riconoscimento di componenti ellenistiche nella cultura figurativa augustea e il collegamento possibile di Agesandro, Atanodoro e Polidoro con Tiberio rendono poco convincente il tentativo, tante volte avanzato, di costringere questi artisti entro i limiti cronologici del medio ellenismo sulla base dei soli dati formali. È evidente il rapporto tra alcune delle teste di Giove Ammone dal foro di Augusto con quella del Laocoonte e del Marsia degli ​horti di Mecenato con l’Ulisse dal gruppo dell’accecamento di Polifemo e con il ritratto detto di Silla alla Glypsothek di Monaco di Baviera. In età augustea l’eco della grande tradizione microasiatica non era affatto spenta, né totalmente sradicata. Laddove il programma figurativo esigeva una voce epica, allora il linguaggio patetico della 22 la scenografia parietale assume anche forte valenza religiosa. L’impressione è che i Romani volessero suggerire nelle loro dimore un’atmosfera quasi sacrale, ponendo illusori ingressi a giardini celesti e santuari posti sotto la tutela divina. Tali pareti erano anche il fondo per rappresentazioni a carattere teatrale. Tale decorazione pittorica, la cui cronologia non può scendere oltre il 36 d.C., nelle ultime fasi del II stile sfocia verso un sistema ornamentale che perde sempre di più il rapporto con reali strutture architettoniche, a favore di capricci della fantasia, verso forme leggere prive di qualunque concretezza strutturale spesso trasformate in elementi vegetali. Anziché rifarsi a immagini tratte dalla realtà naturale si preferisce dipingere l’intonaco ricorrendo a soggetti fuori dall’ordinario. Secondo Vitruvio simile decorazione, nel momento stesso in cui aveva perduto qualsiasi contatto con il reale era del tutto da respingere; ma allo stesso scrittore sfuggiva evidentemente il vero significato di queste pareti dipinte che forse in maniera programmatica volgevano le spalle al mondo reale e offrivano rifugio in un mondo di fantasia, illusorio e impalpabile. Qui nasce la decorazione della ​Villa della Farnesina​, del ​II stile finale​. Gli affreschi sono tra i più alti raggiungimenti della pittura antica, le architetture parietali perdono consistenza strutturale e tendono a diventare pura decorazione a carattere bidimensionale, intervallata dalla presenza di pannelli con rappresentazioni mitologiche e paesaggistiche. Vitruvio elenca vari tipi di paesaggi: i porti, i promontori, le spiagge, i fiumi, le sorgenti, gli stretti di mare, i santuari, i boschi sacri, le montagne, il tutto popolato da greggi e pastori. Sono quei paesaggi idillico-sacrali, per la rappresentazione in un insieme armonico di case di campagna, santuari o di elementi del culto popolare in un ambiente agreste, con alberi e corsi d’acqua. Parte di questi motivi s’incontra al suo massimo grado espressivo, nei paesaggi a stucco e dipinti nella Villa della Farnesina. La gamma cromatica non è molto estesa: vari toni di bruno, del verde, dell’azzurro chiaro tendente al ghiaccio e del giallo, fusi armonicamente entro il dominante colore bianco crema, appena rosato, del fondo nel quale figure umane e animali , maschere teatrali, alberi ed edifici si fondono come immagini appena emergenti da un campo di nebbie di varie densità. La distribuzione dei singoli elementi si distende in lunghezza e in altezza più che in profondità. Non v’è una coerente disposizione spaziale degli elementi che compongono l’impaginato. L’unità è ottenuta tramite il pulviscolo atmosferico che assimila le singole immagini e confonde l’occhio che non riesce a percepire immediatamente l’esatto rapporto tra loro. Da questa temperie culturale nasce il ​III stile​, la cui cronologia è stata appiattita verso gli ultimi due decenni del I secolo a.C. Il III stile conduce ai limiti estremi la distruzione dell’effetto illusorio di strutture monumentali dipinte sulle pareti. Ogni elemento della composizione è schiacciato alla parete, di modo che i possibili effetti illusionistici della scenografia sono quasi totalmente annullati, a esclusione di un piccolo suggerimento di profondità spaziale offerto dalle edicole. Nella sala rossa della villa di Boscotrecase le grandi edicole centrali sono simili a sostegni a giorno di cartelloni e inquadrano magnifiche vedute idillico-sacrali su fondo bianco crema, ulteriormente delimitate da una spessa fascia nera. In tale fase compare un nuovo sistema decorativo che sembra sfondare le pareti delle stanze con la rappresentazione di giardini dietro semplici e basse staccionate. Complessivamente la rappresentazione ripropone il riferimento a un mondo paradisiaco e irraggiungibile. Nulla nell’arte di età augustea esprime meglio la concezione della nuova classicità dell’epoca come la pittura di III stile. Il ​IV stile germina dal precedente con un profluvio decorativo che non ha più la misura classica della decorazione augustea. Non c’è neppure omogeneità di schemi figurativi, al punto che risulta difficile descriverne le componenti essenziali. Alcune pareti ripropongono enfaticamente partizioni a carattere architettonico, ma raramente ispirate ai modelli del II stile. Le architetture, come quelle del III stile, hanno di solito carattere bidimensionale. È una pittura che dà il meglio di sé nel 25 dettaglio ornamentale. Per il suo accentuato valore decorativo, il padiglione della ​domus Aurea sul colle Oppio ha motivi esornativi simili, ma ampliati a dismisura per coprire talvolta le lunghissime pareti dei criptoportici. Di estrema importanza è la veduta ad affresco di una città spopolata, della quale si scorgono a basso volo d’uccello le mura, il porto con una darsena laterale, un’acropoli affacciata sul mare, un teatro con un tempio di Apollo, quartieri di abitazioni affiancati alle mura e due piazzali, uno dietro il teatro circondato da case, l’altro, un quadriportico con un tempio sul fondo alla maniera del ​templum Pacis​. È uno dei rari esempi di pittura coreografica, a funzione quindi più geografica che artistica, adopera la tecnica della ​topographia​. Pochi documenti dell’arte antica danno un’immagine così precisa e chiara di una città romana. C7 - ​Il secolo II d.C. e i “buoni imperatori” Tra gli autori greci che riflettono sull’importanza della struttura politico-amministrativa dell’Impero, spicca Elio Aristide che in visita all’Urbe nel 144 d.C. pronunciò un elogio naturale al governo dei Romani e dei benefici materiali della pace. Roma era un’ecumene che aveva deposto le armi, per rivolgersi in piena sicurezza a tutte le forme di diletto e alle feste: ovunque sorgevano ginnasi, fontane, atri, templi, laboratori artigianali, scuole. Un secolo di grande fioritura architettonica e figurativa, in cui nell’Urbe si elevarono due monumenti emblematici di tempi euforici. Il ​tempio di Venere e Roma (135 d.C.) fu il più grande mai realizzato a Roma; altrettanto significativa fu la decorazione dell’​Hadrianeum (145 d.C.) in Campo Marzio identificato con il periptero un tempo ottastilo e con due file di colonne allineate sui muri della cella nel pronao. Traiano (98-117 d.C.), per aver apposto il proprio nome su ogni edificio fu malignamente soprannominato “erba parietale”. Dentro e fuori Roma si concentrò su molti progetti di natura infrastrutturale e di pubblica utilità: ampliamento del circo Massimo; potenziamenti della rete stradale e dei ponti; intensificazione dei traffici e regolarizzazione del flusso di derrate alimentari verso l’Urbe. Egli aveva la fama di risparmiatore scrupoloso del denaro pubblico, tanto da rendere pubbliche le spese del suo viaggio dalla regione danubiana a Roma. In materia di munificenza pubblica non badò a spese insomma. Traiano fu anche un imperatore-soldato che avviò una politica imperialistica aggressiva. Due guerre daciche, le grandi conquiste sul fronte danubiano, divennero la principale fonte di finanziamento della costosa politica interna. Grazie a quel favoloso bottino fu costruito il foro omonimo, con la colonna al suo interno, eretta per decisione del senato e del popolo anche se fu l’imperatore a sollecitare l’iniziativa. La ​Colonna Traiana venne inaugurata il 12 maggio del 113 d.C. e attorniata da due costruzioni quasi quadrate in cui di solito si riconoscono le sezioni latine e greche della biblioteca Ulpia. La colonna è coclide per la presenza di una scala ellittica all’interno e per lo sviluppo del fregio che la decorava. L’opera monumentale ebbe diverse valenze: fu un monumento volto a mostrare quanto alto fosse il monte smantellato per opere così grandi. La colonna s’iscriveva nella tradizione già repubblicana della colonna onoraria, qui coronata dalla statua loricata in bronzo di Traiano. Sul fregio, Traiano ricorre quasi sessanta volte, quasi sempre di profilo e a piedi e per lo più in lorica, in plurimi ruoli, religioso, civile e militare. I rilievi costituirono un equivalente visivo dei ​Commentarii de bello Dacico redatti dall’imperatore in persona. Dopo la morte di Traiano in Cilicia, la colonna fu il monumento funerario all’interno del ​pomerium per le sue ceneri, contenute dentro un’urna d’oro in una piccola camera ricavata nel basamento, decorato all’esterno con cataste di armi in larga parte pertinenti ai vinti. L’ornamento della Colonna fu il frutto di una decisione eccezionale e senza precedenti, in grado di generare una tradizione viva sino al IV secolo 26 d.C. Sul fregio a ventitre spire i rilievi, con 155 scene per 200m circa, narrano, dal basso verso l’alto e in ordine cronologico, lo svolgimento delle campagne militari in Dacia, con 2.570 figure. Una cronaca equivalente a una rielaborazione dei dati storici attraverso filtri figurativi concettualmente efficaci per la celebrazione di slogan ideologici, valori etici e virtù cardinali della politica imperiale: discorsi ufficiali, sacrifici, disboscamenti e costruzione di accampamenti e navi, ricevimento di ambascerie o di prigionieri, marce e viaggi, battaglie. Nella composizione risaltano alcune corrispondenze verticali, come quella che unisce la scena con un presagio della vittoria in basso, la figura della Vittoria alata a separazione della prima dalla seconda campagna e il suicidio di Decebalo, re dei Daci. Da tempo però si discute intorno alla leggibilità dei rilievi, nessun fruitore antico poté mai ben seguirli visivamente, il che vale però per tante opere a rilievo, pittoriche o mosaico di varia cronologia. Un monumento che, leggibile per segmenti grazie anche alla ricorrenza e alla ridondanza delle scene (il colore poteva parzialmente aiutare), mirava insieme al foro a impressionare mediante la rappresentazione meticolosa di grandi imprese pietrificate e rese leggendarie, senza imporre al frequentatore del complesso di girarci ventitre volte intorno. Per il più o meno dettagliato progetto disegnativo preliminare è stato chiamato in causa l’ingegnere militare e architetto del foro Apollodoro di Damasco, riuscì a dare freschezza alle scene, pur avendo soggetti analoghi non le rese uguali l’un l’altra. La scena delle fughe disordinate e del suicidio collettivo dei Daci si armonizza con la corrente figurativa che sin dall’età ellenistica privilegiava l’espressione tragica dei sentimenti per suscitare impressioni forti, visualizzando il ​topos del furore eccessivo, della disperazione e del panico dei barbari di contro alla più razionale violenza dei Romani. Di fronte alla superiorità dei vincitori non poteva esserci pietà per i vinti. Con Apollodoro ebbe contrasti il successore Adriano (117-138 d.C.) che, avido di primeggiare in ogni campo, appena eletto lo esiliò. I contrasti si acuirono poi in relazione alla costruzione del ​tempio di Venere e Roma​. Il santuario a due celle, addossate e separate da un muro rettilineo, aveva una pianta diptera di aspetto ellenizzante molto rara a Roma, e si ergeva su una piattaforma a sette gradini. Adriano inviò all’architetto una pianta del tempio, per mostrargli come una grande opera potesse essere realizzata senza il suo aiuto, pur chiedendone il parere. Apollodoro, preoccupato del rapporto dell’edificio con lo spazio circostante e della sua funzionalità, suggerì di elevarlo su un piano rialzato affinché dominasse la ​Sacra via​, e vi si potessero ricavare ambienti sottostanti atti a occultare le macchine teatrali per il vicino colosseo. Adriano si arrabbiò moltissimo per l’errore irreparabile e mandò a morte Apollodoro. L’aneddoto indica un imperatore con capacità grafiche e progettuali. Adriano fece costruire innumerevoli opere senza mai fare scrivere il proprio nome a eccezione che nel tempio dedicato al padre Traiano. Ad Apollodoro alcuni specialisti attribuiscono la concezione della struttura della cella circolare dal diametro pari all’altezza della cupola perfettamente emisferica in opera cementizia, articolata nella calotta interna in ventotto file di cassettoni prospetticamente ristretti verso l’alto. Se la modestia rientrava in una sorta di galateo istituzionale anche nella cornice dei delicati rapporti con il senato, un imperatore non poteva però essere modesto nelle ambizioni. Negli ​horti di Domizia venne costruito il ​Mausoleo di Adriano​: la struttura constava di un basamento quadrato, di un imponente tamburo cilindrico con peristasi su podio e di una rotonda centrale chiusa, coronata sulla sommità dalla quadriga bronzea dell’imperatore. Adriano impresse il proprio timbro sull’Urbe: ansioso com’era di avere conoscenza diretta delle varie regioni dell’Impero, vi lasciò vari segni monumentali del suo passaggio. Addirittura gli fu concesso il privilegio unico di una statua nella cella del Partenone a fianco della statua fidiaca si Atena Parthénos in oro e avorio. Completò l’​Olympieion avviato sin dai Pisistratidi alla fine del VI 27 sono tutt’altro che omogenee in base alle diverse mani degli esecutori. Questo stile è qualificato come espressionismo barocco; un cambiamento di stile per cui sono state cercate spiegazioni varie: è impossibile precisare un’unica causa per i cambiamenti di stile. Plurimi fattori possono aver concorso in azione reciproca: la formazione delle maestranze, l’esperimento condotto in occasione di una nuova grande impresa architettonica e scultorea, i tempi e i costi di realizzazione, la minore compostezza richiesta da immagini storiche di taglio non monumentale e di contenuto più patetico. L’uso più diffuso del trapano si stava però imponendo per effetti più ottici che tattili anche in opere della scultura ideale e in altre più monumentali che imponevano maggiore cura del dettaglio, come i grandi rilievi reimpiegati nell’arco di Costantino celebrativi di Marco Aurelio. Lo stesso vale per chiome e barbe sui ritratti di imperatori e di privati un po’ in tutto l’Impero, specie a partire da Marco Aurelio e Lucio Vero. Celebre è un ​busto di Commodo dove i ricci finemente cesellati contrastano con la levigatezza porcellanata del viso. Dalla fine del 191 d.C., tra le varie manifestazioni di quel commodismo sempre più autocratico supportato dal favore del divino, l’imperatore di fece chiamare Ercole figlio di Giove: depose il costume degli imperatori per portare una pelle di leone e trasformarsi, con la clava, in ​Hercules Romanus​. La svolta consistette però nel proclamarsi ufficialmente quale nuova superlativa incarnazione di Ercole, un eccesso ai limiti del tollerabile nell’Urbe, almeno agli occhi dei senatori. Commodo ha la pelle di leone, clava e pomi delle Esperidi; completano la simbologia le due cornucopie incrociate, simboli di pace e abbondanza, e il globo, segno di potere ecumenico con diversi segni zodiacali. Le lunghe guerre avevano dissanguato l’erario pubblico, Marco Aurelio nel foro di Traiano organizzò per due mesi un’asta pubblica degli oggetti di valore appartenenti alla famiglia imperiale. A parte diverse carestie dagli anni sessanta in poi, un’epidemia di peste si propagò dal 165 d.C. al seguito degli eserciti che avevano combattuto contro i Parti in Oriente, per perdurare fino al 180 d.C. La pestilenza fu così grande che si sancirono nuove leggi molto rigorose sui sepolcri e sulle sepolture, nelle quali si proibiva di costruire dove si volesse. Il secolo si chiuse poi con un grande incendio, che nel 192 d.C. devastò l’area tra foro Romano e Palatino: andarono a fuoco il ​templum Pacis e il tempio di Vesta. Galeno lamenta la perdita irreparabile di opere importanti di filosofi antichi conservate nelle biblioteche del Palatino oltre ai suoi libri, ai suoi scritti e alle preziose raccolte di ricette con farmaci rari e mirabili deposti nei magazzini sulla ​Sacra via assieme a depositi d’oro e d’argento e a certificati di credito. Commodo, novello Nerone, con l’incendio intendeva rifondare la città quale proprietà personale, ma il 31 dicembre 192 d.C. fu ucciso. Roma con lui non si rigenerò. C8 - ​Il secolo III d.C. e la “crisi” dell’Impero La storiografia antica e moderna ha finito con il considerare il III secolo d.C. l’età della crisi, della decadenza, l’età della transizione. Il III secolo è ritenuto responsabile dello sgretolarsi repentino del più imponente impero della storia occidentale, fu un secolo non uniforme. Fu il secolo in cui si succedettero oltre cinquanta imperatori, al governo per un lasso di tempo da 22 giorni a 18 anni. Iniziarono a cadere le frontiere dell’Impero, ci fu la perdita della centralità di Roma e delle molte sedi imperiali. La costruzione di Caracalla (212 d.C.) concesse la cittadinanza romana a tutti i cittadini nati liberi dell’Impero e ne equiparava i diritti legali. Organicità e astrazione è il nome di un saggio di R. Bianchi Bandinelli: perfetto riassunto del mutamento formale in atto nel III secolo d.C. Perdita di plasticità, disfacimento della struttura anatomica e della coesione organica delle forme, passaggio a volumi geometrici e a superfici levigate e astratte, forme segnate da pesanti linee di contorno e da chiaroscuri 30 fortemente contrastanti: novità che colpiscono la produzione plastica (scultura a tutto tondo, sarcofagi, ritratti) e le superfici pittoriche. Le officine del periodo rigettano o rielaborano le forme classiche per sperimentarne altre. Furono i vari fattori di crisi della società a portare in pochi decenni all’abbandono delle forme classiche a favore di nuovi linguaggi ad anticipazione dell’arte bizantina. Degli artefici di questo secolo conosciamo poco. Le officine a Roma e altrove continuarono a essere fiorenti e di altissimo livello, nei secoli II-III d.C. è l’Africa Proconsolare a fare fronte ai consumi di ceramica da mensa e da cucina. La dinastia dei Severi nel complesso resse per oltre quarant’anni. Merito di una politica interna piuttosto accorta. Le legioni dislocate nell’Impero detennero un enorme potere, furono erette in città imponenti caserme, persino in aree a vocazione residenziale. Attuarono una politica di risanamento urbanistico, ma non solo restauri. Si procedette all’erezione di una serie di edifici funzionali o celebrativi. Dedicato dal senato e dal popolo di Roma, l’​arco di Settimio Severo commemorava le battaglie e le vittorie sui Parti. Fu però allestito per il suo ritorno a Roma nel 202 d.C. L’apparato decorativo annunciava una “teologia della vittoria”: immagini di soldati romani con prigionieri parti sui piedistalli dell’ordine di colonne applicato; vittorie alate tropeofore e geni delle Stagioni quali segno della ​felicitas temporum​; personificazioni di fiumi nei fornici minori; divinità sulle quattro chiavi dell’arco; un piccolo fregio con figure di altissimo rilievo con la processione trionfale e la sottomissione dei barbari davanti alla dea ​Roma​. Per il linguaggio formale la decorazione è stata additata come maldestra: figure tozze e tarchiate, perdita complessiva di grazia, scarso interesse per i reciproci rapporti spaziali delle singole figure o per la notazione degli elementi paesistici. Inizia il percorso che porterà alla serialità ossessiva delle forme geometriche e cubiche del fregio costantiniano dell’arco di Costantino. Settimio Severo non celebrò mai un trionfo ufficiale. Fu celebrato con grande fasto la ricorrenza dei ​ludi saeculares​, sul modello di quella augustea del 17 a.C.: un’occasione propizia per avviare un’intensa attività edilizia. Tra il 203 e il 204 d.C., banchieri e commercianti di capi bovini votarono l’erezione di un monumento al ​numen di Settimio Severo e della sua famiglia. L’​arco degli Argentari è un piccolo fornice architravato. Su ciascuna faccia interna dei piloni si trovano diversi rilievi, non è eccelsa la fattura; nei pannelli con i membri della famiglia imperiale l’inquadratura è rigidamente frontale. L’adozione della frontalità finisce con il trasformare i personaggi in perfette incarnazioni della maestà imperiale, e i gesti compiuti diventano meri simboli. I piccoli fregi con strumenti sacrificali ribadiscono la volontà di sottolineare la ​pietas dei sovrani verso gli dèi. Continuavano naturalmente le opere più legate a temi e più concorrenti composizione della tradizione storico-celebrativa. Soluzioni iconografiche si riscontrano nell’​arco dei Severi ​a ​Leptis Magna (205-209 d.C.), probabilmente eretto dalla comunità cittadina. Non un arco trionfale ma un magnifico tetrapilo onorario. L’apparato scultoreo, in calcare con paramenti in marmo, con scene cerimoniali riguardanti l’imperatore e la sua famiglia, fu eseguito da maestranze abili nell’impiego del trapano con forti effetti chiaroscurali. Sull’attico del lato nord-occidentale, la processione trionfale era centrata sulla quadriga con Settimio Severo, Caracalla e Geta: se ne guadagnò enormemente in impatto emotivo con lo spettatore. La prematura morte di Settimio Severo lasciò alla guida dell’Impero i figli, Caracalla e Geta. I loro ritratti sono volutamente indistinguibili uno dall’altro, inaugurando una nuova moda: barba e capelli molto corti. Una volta eliminato il fratello, Caracalla operò anche un deciso cambiamento di immagine. Il ​ritratto di Caracalla più diffuso all’epoca lo mostra estremamente energico: il collo piegato a sinistra, doveva accentuare nelle sue intenzioni una somiglianza con Alessandro Magno. Caracalla si mosse nel settore dell’arredo urbano nel solco intrapreso dal padre. Le potentissime donne della dinastia riuscirono a fare pressioni sulle legioni stanziate in Siria, che elessero al trono un 31 giovanissimo cugino di Caracalla, opportunamente spacciato come suo figlio naturale: Elagabalo. Durante il viaggio verso Roma dalla Siria, il principe fece dipingere una sua immagine che lo ritraeva mentre esercitava in pubblico le funzioni sacerdotali assieme al simbolo aniconico del dio. Al rovescio di diversi tipi monetali del 220-221 d.C. l’imperatore compare addirittura vestito all’orientale. Il breve regno del giovane Severo Alessandro si distinse per opere di pubblica utilità: il rifornimento d’acqua fu assicurato con la costruzione dell’ultimo grande acquedotto romano, l’​aqua Alexandrina​. In città le officine continuavano a fabbricare opere di alto livello. Il ​busto di Severo Alessandro presenta alcuni elementi molto seguiti nei decenni a venire: uso della ​toga contabulata​, una pettinatura a ciocche fini accuratamente incise a solchi e graffi e una barba coltissima. Anche la produzione di sarcofagi proseguiva; in luogo di temi genericamente consolatorio o con truci immagini di dolore e morte, irruppero i defunti in persona, prima direttamente calati nelle storie mitiche e poi anche nei panni di magistrati e intellettuali o in dimensioni ridotte al busto di norma entro clipei; il vero protagonista diventò l’individuo, in immagini a fine encomiastico. Emblematico è un ​sarcofago adesso ​a Palazzo Mattei​, il più antico esemplare con scena di caccia al leone (220-230 d.C.): l’officina, di elevato livello, predilige figure monumentali di altezza pari allo sviluppo della cassa. Il personaggio principale incede in sella al suo destriero con una lunga lancia ed è accompagnato da ​Virtus​; le altre figure sono accessorie e si muovono in gesti misurati. Pareti di case e tombe si svuotarono; le finte architetture, le figurine fantastiche, i grandi quadri mitologici centrali caratteristici dei IV stile sono per così dire prosciugati: su pareti dipinte in bianco ne rimane lo schema di base, campito da sottili linee rosse. La tavolozza dei colori si restringe: bianco, rosso, verde, celeste e azzurro e sfumature di marrone e ocra per i corpi e le ombreggiature delle figurine. Il risultato complessivo è elegante e asciutto, le figure sembrano galleggiare su uno sfondo uniforme, decorando i riquadri centrali, le lunette, i sopra-porta, le volte. L’assassinio di Severo Alessandro (235 d.C.) dalle sue stesse truppe, mutò la fisionomia del secolo definitivamente. Il cinquantennio che ne seguì è indicato con il termine di “anarchia militare”: si succedettero undici imperatori, di norma comandanti militari di provata esperienza, molto amati dalle truppe. Fu l’esercito a deciderne di fatto l’ascesa al trono. Alcuni degli imperatori-soldati non riuscirono neanche a mettere piede a Roma. La frattura tra il senato e i generali non poteva essere più evidente. È il ​ritratto di Massimino il Trace (235-238 d.C.) a inaugurare la più espressiva galleria di ritratti del secolo. Con una chioma a penna, il suo volto con formule realistiche presenta un’accentuata ossatura, una marcata contrazione dei muscoli facciali, un profondo affossamento delle orbite oculari, la barba che invade il collo. L’espressione sembra contratta e poco serena. Sulla medesima linea si muove il ​ritratto di Traiano Decio​, imperatore per un solo biennio: il volto, dai tratti duri, è dominato da una potente espressione di ansiosa incertezza. È il viso cui più di ogni altro è stata assegnata nella letteratura specialistica l’etichetta di “dolore morale”, quale manifesto dell’angoscia di un secolo tormentato. Nel III secolo d.C., specia nel 230-340, divengono popolari le stilizzazioni dei defunti come filosofi e/o uomini di cultura. Le loro immagini appaiono sempre più frequenti sulle casse dei sarcofagi, intenti alla lettura o all’insegnamento, seduti su semplici sgabelli o su alte cattedre, accompagnati dalle spose, da filosofi di professione e talore dalle Muse al completo. Anche sul ​sarcofago di Plotino (280 d.C.) il protagonista, forse di rango equestre, indossa la tunica sotto la toga drappeggiata come un mantello greco. Che la ​paideía fosse divenuta uno ​status symbol nella dimensione oltremondana è confermato a Roma nella prima metà del III secolo d.C. Uno dei più celebri sarcofagi, il ​Grande Ludovisi fu definito un capolavoro barocco. La fronte è decorata con un concitato combattimento tra Romani e barbari: ammassi 32 edifici privati, con un adattamento a chiesa dell’aula di rappresentanza. Fra le costruzioni dovute all’iniziativa imperiale spicca il tipo della basilica cristiana: quella di ​San Giovanni in Laterano fu dedicata al Salvatore e costruita ​ex novo da Costantino sul luogo dei ​castra Nova ​degli equites singolares demoliti per la loro fedeltà a Massenzio; le cinque navate richiamano il modello della Basilica Ulpia, soprattutto nella particolare enfasi posta all’abside di fondo; materiale di spoglio per i capitelli e le colonne, erano splendidi gli intarsi marmorei al pari del soffitto dorato e degli arredi liturgici donati dall’imperatore. La politica monumentale di Costantino in favore della Chiesa di Roma si espresse poi nell’erezione di grandi ​martyria suburbani. Il più grandioso è la ​basilica di San Pietro in Vaticano​, completata nel 333 d.C. sul luogo della sepoltura dell’apostolo: era a cinque navate, tra queste e l’abside si disponeva un’aula trasversale, il transetto, destinato a raccogliere un monumento parallelepipedo realizzato sopra la tomba di Pietro. Accanto alle basiliche a più navate si affermò anche uno specifico tipo noto come “circiforme” o “a deambulatorio”. Le basiliche funerarie lungo le vie consolari costituivano ampi cimiteri comunitari aperti, atti a ospitare migliaia di tombe. Il suburbio fu interessato dalle nuove costruzioni in misura superiore rispetto alle zone intramurane. La scelta è stata talora spiegata con la volontà di non creare un aperto contrasto con l’ordine senatorio, ancora legato alla tradizione e poco disposto a tollerare un’occupazione dei luoghi legati ai culti tradizionali; all’opposto la riluttanza a celebrare riti in luoghi troppo caratterizzati dalla presenza di divinità pagane. Spesso in relazione con le basiliche circiformi sono i grandi mausolei a cupola, veri e propri sepolcri/templi per una committenza ristrettissima, l’imperatore e i diretti discendenti. I più antichi risalgono all’età di Massenzio e sono costruiti su due piani, quello inferiore usato come camera funeraria. Con l’età di Costantino e dei figli il tipo di tomba, ora privo di camera sepolcrale inferiore, ebbe notevole sviluppo, con l’avvento del mosaico nel sistema decorativo della cupola. Si assegna all’imperatore la fondazione dell’​Apostoleion di Costantinopoli, un edificio scomparso dedicato alla memoria dei dodici apostoli e insieme heroon-martyrion del fondatore, in cui furono deposte le sue spoglie mortali. Sempre nel suburbio, dopo i colombari protoimperiali, erano ricomparsi i sepolcri a destinazione collettiva e a intensiva e razionale utilizzazione con l’adozione di un tipo di ipogeo a corridoio con loculi alle pareti, capace di generare nel tempo e in continuo ampliamento vere e proprie ragnatele sotterranee su più piani, le catacombe: fino al 360 d.C. circa si estesero a ritmo crescente. Ne sono ben studiate le pitture, con repertorio biblico, i soggetti bucolici, le scene di banchetto e i riferimenti alle professioni dei defunti. Gli artigiani paleocristiani adattarono anche gli schemi iconografici pagani rivestiti di nuovi significati. Nei secoli IV-VI d.C. le domus s’inserirono di regola in aree sia private sia pubbliche. I Cataloghi Regionari nelle quattordici regioni registrano in totale 1790 ​domus​, distribuite in modo abbastanza omogeneo. Il fenomeno delle ​domus tardoantiche, grandi e piccole, è riscontrabile anche a Ostia, dove tra la seconda metà del IV e l’inizio del V secolo d.C. sono presenti esponenti del senato, sia cristiani sia pagani: la signorile ​domus di Amore e Psiche si munì di un cortile-giardino con fontana e di una grande sala di ricevimento. Nei secoli IV-V d.C. Roma mantenne l’autorità simbolica di centro dell’Impero, il foro Romano rimase vitale. In un momento in cui Roma era ormai stata abbandonata dai suoi imperatori, Costanzo II desiderò ardentemente di vedere l’Urbe: avvicinandosi a Roma fu visto imperturbabile come una statua su un carro aureo, scortato da soldati e cavalieri armati paragonabili quasi a simulacri di Prassitele. Lo stesso imperatore cristiano si era messo a leggere i nomi degli dèi sui frontoni, informandosi sulle origini dei templi ed esprimendo ammirazione per i suoi fondatori, un interesse quasi antiquario. Nonostante i divieti legislativi restrittivi, anche i templi almeno nell’Urbe mantennero intatte struttura e decorazioni, perché considerati opere 35 pubbliche da preservare per il decoro urbano. Se nel 403 d.C si registrava un grandioso restauro delle mura Aureliane, il concorso di assedi, saccheggi e terremoti produsse effetti disastrosi: l’Urbe aveva smesso di essere invincibile. È nella seconda metà del V secolo d.C. che s’incrementano i segnali archeologici dell’abbandono dei monumenti imperiali, mentre la maggior parte delle ​domus svela tracce di interro. Apparvero persino le prime sepolture urbane, dislocate ovunque entro il circuito murario con conseguente convivenza nello spazio di vivi e morti. Accanto ad aree abitate a bassa densità, all’interno delle mura Aureliano si trovavano ormai zone abbandonate oppure usate come cave di materiali da reimpiego o per attività agricole. All’inizio del VI secolo d.C. Roma fu occupata dagli Ostrogoti, il re Teodorico volle preservare le tradizionali strutture istituzionali e culturali della ​civilitas romana per la gloria del suo regno e per l’imitazione dei predecessori. Al suo tempo fu riattivata una produzione di nuovi mattoni bollati usati nei restauri urbani e recanti il nome del sovrano seguito da un’espressione di benevolenza (​Roma felix​). Ma lo sforzo dei re ostrogoti fu di breve durata, perché interrotto dalla guerra di riconquista dell’Italia condotta da Giustiniano. Nel 547 d.C., nella Roma dei Goti, gli abitanti mangiavano le ortiche che crescevano tra le rovine; uno strazio per i Romani. Di fronte alla decisione di ridurre la città a un pascolo di pecore, il generale Belisario su ordine di Giustiniano gli spedì una lettera: il barbaro re Totila lesse più volte la lettera del bizantino e si convinse che fosse meglio non danneggiarla, Roma. Un monumento chiave e costituito dall’​arco di Costantino​, dedicato nel 325 d.C. in occasione dei decennali dell’imperatore e in memoria della vittoria conseguita su Massenzio nel 312 d.C.: un arco a tre fornici, di cui il centrale più ampio, e con colonne libere sulla fronte. L’iscrizione di dedica non nomina esplicitamente il nemico, Massenzio, e quale garante della vittoria chiama in causa una generica suprema divinità o la forza divina immanente di Costantino. Il monumento voluto da un senato ancora principalmente pagano ne enfatizza il legame con Sole, raffigurato sul lato breve; nel 310 d.C. in un santuario gallo-romano Costantino ebbe una visione: accompagnato dalla Vittoria, Apollo gli offrì corone d’alloro come presagio di trent’anni di regno. L’arco ricorse sistematicamente al riutilizzo di materiali di spoglio da monumenti di imperatori di fama unanimemente riconosciuti “buoni”, il reimpiego è testimoniato dalle otto statue traianee di Daci sulla sommità delle colonne; dagli otto tondi adrianei con scene di caccia posti a due a due al di sopra dei fornici minori; dagli otto rilievi aureliani visibili a due a due sull’attico ai lati dell’iscrizione; le teste degli imperatori del fregio traianeo e dei tondi furono rilavorate nelle sembianze di Costantino e del padre Costanzo Cloro o Licinio. A un’officina costantiniana sono da ascrivere i tondi sui lati est e ovest con il Sole e la Luna sul carro; i bassorilievi dei plinti delle colonne; le chiavi degli archi con divinità; le divinità fluviali sui fornici laterali nonché i putti stagionali e le Vittorie con trofei sul fornice centrale; i busti loricati di imperatori nei passaggi dei fornici minori. Il lungo fregio a mezz’altezza offre eventi in sequenza: sul lato ovest dell’arco l’imperatore parte da Milano, sulla facciata rivolta all’esterno assedia Verona e affronta vittorioso l’esercito di Massenzio a Ponte Milvio; a est fa il suo ingresso a Roma; sulla facciata volta all’interno egli tiene il discorso al popolo dai ​rostra del foro Romano. La composizione privilegia l’immediatezza espressiva e comunicativa. Vediamo l’abbandono della concezione naturalistica a profitto di una simbolica e della prospettiva naturalistica a vantaggio di una ribaltata; volti espressivi e sovradimensionati; tendenza alla rigida frontalità e assunzione di proporzioni gerarchiche. Una generale composizione più classicista si rileva nelle figurazioni allegoriche, nelle Vittorie sui plinti delle colonne e nelle divinità fluviali. Monumenti insigni si elevano in spazi carichi di riferimenti a pratiche religiose, a tradizioni, a procedure amministrative e giuridiche; ciò vale particolarmente per 36 gli archi onorari e trionfali e il loro apparato figurativo. Lo spoglio di edifici più antichi a fini pratici fu sistematicamente diffuso un po’ ovunque nell’architettura urbana, anche cristiana, forse anche per una mutata estetica. Per l’arco non si può escludere che i senatori ben conoscessero la provenienza dei rilievi, in grado di fare coltivare almeno l’augurio di un imperatore in linea con i “buoni” predecessori. Costantino, oltre a soggiornare poco a Roma, ebbe parecchie difficoltà nel conciliare le sue attitudini con lo stile di vita cerimoniale e religioso dell’Urbe. L’arco si trovava al centro di Roma, l’iscrizione di dedica nominava sì Costantino “insigne per trionfi”, ma non si trattò di un vero e proprio trionfo e l’apparato figurativo non era di tipo trionfale. È probabile che il restauro dell’arco aureliano dopo il terribile incendio di Carino nel 283 d.C. abbia indotto a reimpiegare materiali di spoglio da un monumento traianeo. Un monumento celebrativo della vittoria di Costantino su Massenzio è anche l’​arco quadrifronte di Malborghetto sulla via Flaminia. Alle officine dei rilievi dell’arco si deve con probabilità buona parte dell’ingente produzione di sarcofagi urbani in età costantiniana, dovuta all’ampliarsi della comunità cristiana e dello sviluppo delle relative aree cimiteriali. Si diffuse una tipologia di casse decorate a fregio continuo, come sul sarcofago di L. Marco Claudiano​, che mostra, accanto a un’orante, i miracoli di Cristo ed episodi della vita di Pietro: la resa delle figure allungate, rigide e prive di sensibilità plastica e i panneggi segnati da profondi solchi di trapano intrattengono affinità lampanti con il fregio costantiniano dell’arco. Lo svolgimento stilistico poi fu tutt’altro che lineare nel IV secolo d.C. Il sarcofago dall’estremità occidentale della basilica di San Pietro (359 d.C.), insieme a quello dei due fratelli ai Musei Vaticani, è un esponente dell’indirizzo classicistico: scene vetero- e neo-testamentarie si articolano in cinque nicchie per ognuno dei due registri, e Cristo compare al centro di quello superiore in attitudine di docente. Il tema della ​traditio legis compare più volte nella produzione urbana dell’età in cui regnano le dinastie valentiniana e teodosiana. L’impiego di sarcofagi in porfido nelle sepolture imperiali è testimoniato dalle fonti letterarie e da pochi esemplari: i più noti sono il ​sarcofago di Elena con scena di battaglia e il ​sarcofago di Costantina con eroti vendemmianti, di origine orientale. L’effige di Costantino segnò una rottura: se dopo Adriano era invalsa l’abitudine di portare la barba più o meno lunga su volti maturi, il volto dell’imperatore con lui tornò a portarsi imberbe e con il viso pacato, senza troppi segni d’età. Lo stesso tipo di ritratto è adottato da un acrolito colossale: la statua doveva riprodurre a torso nudo l’imperatore nello schema iovio; l’acconciatura presenta lunghe ciocche che scendono verso la fronte e s’incurvano sempre verso il centro con un motivo a mandorla; sulle tempie, sulla fronte e sulla chioma sono inconfondibili i segni di lavorazione di un precedente ritratto. Il ritratto trasmette il distacco ieratico, la forza spirituale e l’imperturbabile calma del carismatico sovrano. Sempre ai Musei Capitolini si conserva un’altra testa colossale in bronzo forse dell’imperatore negli ultimi anno del suo governo, insieme con una mano sinistra e un globo. Costantino fece incidere su monete d’oro la propria effigie in atto di rivolgere lo sguardo al cielo, nel modo in cui si prega Dio con le mani tese verso l’alto. Le scelte di Costantino furono vincolanti per molti successori. Un ritratto non identificato ad Arcadio, con un ricco diadema gemmato, esprime al massimo l’assorto distacco dell’​imagerie imperiale dell’epoca. Nei primi due secoli dell’Impero i ritratti dei privati non di rado somigliavano nella chioma e nei lineamenti alle immagini degli imperatori; quelli privati, ora riservati soprattutto agli altri burocrati, conservano invece forme organiche, la moda della barba e talora una personalizzazione più accentuata, anche per mezzo di segni d’età, specie ad Afrodisia: la capitale della nuova provincia ha restituito diverse statue di governatori e aristocratici con folte e ricciute chiome, oltre al ritratto di un filosofo e di un “sofista”. Riutilizzate in frammenti come materiale da costruzione nelle fondazioni di uno dei “muri dei bassi secoli”, le due 37 quadriga guidata dalla figura nuda; in alto, lo stesso individuo, sorretto da due geni alati e a te su da 5 personaggi, ascende al cielo; in basso è effigiato come una grande statua all'interno di un'edicola su una ​tensa (carro) tirata da quattro elefanti. Un cenno meritano infine tessuti decorati e le tappezzerie che i rinvenimenti nelle necropoli egiziane hanno fatto etichettare come copti. Non si tratta di una produzione limitata al solo Egitto, ma diffuso in tutta l'area orientale. Le stoffe erano tessute sulla base di modelli comuni ai mosaici e alla pittura; l'uso di tinture permetteva di ottenere un'ampia gamma di colori. Accanto a disegni ornamentali compaiono composizioni figurate, talora corredate da iscrizioni, tra cui sono frequenti le scene di caccia e i temi mitologici. Quelli cristiani si trovano sulle stoffe copte a partire dalla seconda metà del V secolo d.C. e a lungo continuano a essere associati a scene del repertorio pagano. Una delle stoffe più celebri proviene dalla necropoli di Antinoe, dov'è stata trovata disposta come uno scialle attorno al corpo della defunta Sabina; in tela rossa, adorna di galloni e ​orbicoli​, è decorata con figure e scene mitologiche. L'uso dei ritratti di mummia, dei sudari dipinti e delle maschere funerarie in gesso dipinto terminò in Egitto quando, con l'editto del 391 d.C., fu proibito in quanto espressione del culto e della superstizione pagana. Dopo la vittoria sul Licinio ad Adrianopoli nel 324 d.C., Costantino, divenuto imperatore unico, instaurò la nuova città dinastica, Costantinopoli: dopo la sua fondazione nessun imperatore tornò a Roma per farne la propria residenza permanente. costruita secondo lo schema e il modello dell'Urbe, articolata in 14 Regioni, rivaleggiava con l'antica, come visibile su alcune missioni in bronzo e in argento di Costantinopoli e non solo. Il secondo intercorso tra la dinastia costantiniana e quella teodosiana servì per portare a compimento l'articolazione urbana così come pianificata. Il tessuto archeologico della città del IV secolo d.C. ha restituito vestigia non sempre di facile interpretazione. Gli interventi si concentrarono sul versante sud-orientale del promontorio, con il Palazzo imperiale affiancato all'ippodromo. Il complesso era costituito da nuclei comunicanti disposti attorno a corti porticate concepite come elementi di collegamento e disimpegno tra diversi settori destinati a funzioni sia pubbliche sia private. le fonti parlano anche di un ​milion costantiniano vicino all'​Augusterion davanti alla basilica, un tetrapilo riccamente decorato di statue e rilievi, che probabilmente aveva anche utilizzato materiale di spoglio. Molte le fondazioni cristiane già con Costantino, per cui l'imperatore volle celebrare con onori superbi la città che prendeva il nome da lui e la rese splendida con molte cappelle, con grandissimi ​martyria e con altre costruzioni: intendeva consacrare al Dio di questi martiri la propria città. In precedenza, erano state già fondate diverse capitali tetrarchiche, anche effimere, sedi di ​palatia​. Dopo che nel 286 d.C. fu stabilita a Milano la residenza imperiale di Massimiano Erculio, la città fu oggetto di trasformazioni e di un rinnovamento urbanistico. Nel 402 d.C. fu attuato il trasferimento della corte a Ravenna per ragioni di ordine strategico e politico: un palazzo imperiale di carattere residenziale, amministrativo e di rappresentanza. Treviri (​Augusta Treverorum​) fu scelta nel 287 d.C come capitale della parte occidentale dell'impero in occasione della riforma tetrarchia di Diocleziano. Tra gli edifici più noti, l' aula palatina fu costruita da Costantino nel 310 d.C con funzioni di basilica giudiziaria e di aula per udienze; la città era ricca di edifici con pitture e mosaici. Galerio, Cesare d'Oriente dal 293 e poi Augusto dal 305 d.C., aveva stabilito la propria residenza a Tessalonica, rilevante nodo stradale fra Oriente e Occidente. la cinta muraria fu allargata così da permettere di installazione di un ampio complesso, comprendente il palazzo vero e proprio, un ippodromo, un arco quadrifronte e un grande edificio a pianta circolare. A sud, l'arco fungeva da ingresso al sistema palaziale, mentre a nord si accendeva a una via colonnata recante a un'ampia corte ottagonale, con una Rotonda al centro. In origine poté fungere da mausoleo per Galerio prima che cambiasse 40 parere costruisse un monumento funerario a ​Felix ​Romuliana in Serbia. La rotonda fu decorata da splendidi mosaici nelle pareti nella cupola. Parte 4 - Generi C10 - ​Rappresentazioni storiche Gli imperatori credevano nel valore informativo delle immagini per assicurare la memoria delle vittorie. Committenti e fruitori romani, ancora nel III secolo d.C., consideravano storiche dalle immagini almeno con testi scritti sugli stessi temi. In tal senso l'uso dell'aggettivo storico per questa categoria di immagini sembra quindi ancora giustificato, purché si sia consapevoli tanto dei molteplici filtri iconografici e ideologici ai quali ogni evento era sottoposto quanto alla presenza di veri e propri generi diversi di rappresentazione. A partire dalla fine del XIX secolo gli studiosi moderni, in particolare Franz Wickhoff e Alois Riegl, hanno individuato proprio nella narrazione storica una delle sue qualità più originali anche rispetto all'arte greca. Le pitture sono quasi integralmente perdute; anche quando il modello era greco, il contenuto del racconto del messaggio era romano. Oggi si fa una certa fatica a ricostruire il peso effettivo della narrazione storica nell'arte greca, la presenza di soggetti storici nei luoghi pubblici doveva essere consistente. A partire dal V secolo a.C. immagini storiche furono commissionate dalle ​póleis per essere collocate in templi e monumenti pubblici importanti. Le conquiste di Alessandro Magno fecero nascere una ricca tradizione iconografica. I sovrani ellenistici non furono ritratti solo in battaglia, ma anche in processione, a banchetto, a caccia, insieme a trofei e a figure allegoriche. L'arte greca aveva già elaborato un proprio repertorio iconografico, a cui mancarono però la coerenza e l'universalità imposte in età imperiale dalla presenza di un solo sovrano e di un unico centro di elaborazione. Il pilastro di cui L. Emilio Paolo si appropriò a Delfi per diritto di conquista può essere definito un monumento di raccordo tra arte greca e romana: divenne il simbolo dell'egemonia romana in Grecia. Il fregio era caratterizzato proprio da quell'estrema cura nel riprodurre le uniformi e le armi dei contendenti, come gli scudi, tipica delle rappresentazioni storiche ellenistiche. Lo sfondo neutro e la suddivisione delle scene piccole mischie di cavalieri e fanti nascondevano forse anche una preferenza aristocratica per l'immagine tradizionale dello scontro equestre rispetto a quello tra falange e legionari che era invece decisivo sul campo. Mostrava quindi l'esito della battaglia, ma non ne raccontava lo svolgimento reale. I modelli di ispirazione, scultorei o pittorici, dalla Grecia o dall'Asia minore, furono adattati per ribadire l'empietà delle popolazioni celtiche, un concetto nato a sua volta in Grecia per condannare i Galati alla sconfitta, ma facilmente applicabile anche ai Galli del nuovo contesto della romanizzazione della penisola. Nello stesso periodo i fregi fittili continui iniziarono a ospitare rappresentazioni storiche mutuate dal repertorio pubblico anche in contesti domestici. La cura nella riproduzione di costumi e armi in ferma la ricezione in Italia della tradizione ellenistica contemporanea. All'influenza dei modelli greci nel mondo romano si aggiunse un elemento nuovo. Alla base della tradizione della commemorazione storica nell'arte romana si trova la pittura trionfale, categoria comprendente quadri su tavola raffiguranti le vicende belliche ed esibiti in pubblico durante e dopo i trionfi. Essi svolgevano la funzione didascalica e documentaria di fornire l'evidenza concreta della vittoria i cittadini romani. Le immagini dovevano riprodurre la sequenza e i siti delle ​res gestae e dovevano uno scopo prima di tutto informativo. Purtroppo non abbiamo testimonianze concrete di pitture trionfali. L'unico documento superstite che ne 41 riecheggia la tradizione è un frammento di affresco proveniente dalla decorazione forse esterna di una tomba, databile primi decenni del III secolo a.C. per stile ed elementi antiquari e paleografici: ​sepolcri singolari da Rodolfo Lanciani. Vi si conservano quattro registri orizzontali raffiguranti forse episodi di una guerra sannitica con l'uso della proporzione gerarchica, che eguaglia l'altezza dei personaggi più importanti a quella delle mura cittadine. La costruzione di una narrazione continua derivava da esperienze ellenistiche, ma lo scopo didascalico e documentario di presentare passo dopo passo e con strategie compositive chiare le evidenze della vittoria era un'esigenza romana. Il ricorso a schemi ripetitivi non toglieva evidentemente forza al riferimento storico delle scene, almeno dal punto di vista dei fruitori, forse perché l'inserimento degli eventi nella cornice cronologica e spaziale tipica del filone narrativo aumentava l'impressione di autenticità. Se la pittura trionfale ebbe come soggetto privilegiato il racconto della campagna militare, si affermò rapidamente anche una differente tradizione che mostrava piuttosto il rango o i doveri assoluti dei protagonisti. I monumenti funerari illustravano, oltre alle consuete scene belliche, anche processioni funebri e pubbliche, cortei trionfali, sacrifici, immagini dei banchetti o dei ludi di solito gladiatori offerti al popolo. L'esposizione dei momenti cerimoniali della vita pubblica finì per costituire un filone autonomo rispetto alla narrazione degli eventi di una guerra vittoriosa. La rappresentazione di una cerimonia poteva costituire il fulcro del programma decorativo di un edificio, il cui ruolo era esaltato dalla compagnia delle divinità stesse verso le quali la sua devozione era rivolta. Allo stesso filone appartiene l'​ara di Domizio Enobarbo​, che potè servire da basamento per le statue di culto forse in un tempio nel Campo Marzio. Il monumento è decorato su ogni lato: tre lastre in marmo microasiatico ora a Monaco di Baviera illustrano un tema mitologico, il corteo nuziale di Poseidone e Anfitrite, mentre la quarta in marmo pario e oggi al Louvre rappresenta un tema romano, lo svolgimento di un censimento e del sacrificio a Marte che lo accompagnava. I rilievi di soggetto marino sono più antichi e giunsero probabilmente a Roma dalla Grecia come bruttino bellico; quello censorio fu invece realizzato nell'Urbe. Le tre vittime del ​suovetaurilia (maiale, montone, toro) arrivano da destra in processione accompagnate da vari assistenti. L'iconografia condivide lo stesso linguaggio di molti rilievi votivi greci ellenistici, caratterizzati dall'applicazione di una moderata gerarchia delle proporzioni e dalla ricerca di un'analoga leggibilità e chiarezza compositiva. La scena riproduce con cura i momenti salienti di una cerimonia di Stato che si ripeta ogni cinque anni nel campo Marzio: l'immagine voleva raffigurare proprio il ​census e il ​lustrum celebrati dal committente. Nel quasi generale naufragio della celebrazione storica repubblicana, risulta preziosa anche la testimonianza dell'attività di triumviri monetali che nel corso del I secolo a.C. scelsero spesso di rappresentare le vicende delle proprie famiglie sulle monete coniate in loro nome. Riconosciamo così molte grandi figure della storia romana. Queste immagini documentano l'esistenza di un ricco patrimonio di scene storiche gentilizie lasciando come eredità schemi figurativi e consuetudine a simili narrazioni. L'illustrazione dei primordi della storia cittadina doveva essere molto diffusa. La nascita del principato e il passaggio del potere nelle mani del solo Augusto ebbero un impatto significativo anche sulla rappresentazione storica, il focus della celebrazione si concentra proprio sul ​princeps e sui membri della sua famiglia. Per le rappresentazioni storiche da allora in poi furono connessi a poco a poco all'illustrazione di qualità e meriti dell'imperatore, acquistando progressivamente una sempre maggiore coerenza compositiva ed i contenuti così da creare un nuovo linguaggio visivo. Nell'​ara Pacis il fregio raffigurante una processione decorava entrambi i lati lunghi del recinto esterno: probabilmente l'immagine ideale del ritorno a Roma di Augusto dal viaggio nelle province occidentali. Il 42 Un altro aspetto da sottolineare è costituito dalla profondità di campo delle scene, ottenuta con la prospettiva a volo d'uccello, la rappresentazione simbolica dello spazio per la quale ciò che in un rilievo si trova più lontano dall'osservatore è spostato verso il margine superiore. Questa composizione permetteva di fornire molte più informazioni sullo svolgimento di ogni azione. Solo il fregio traianeo mostra il ​suovetaurilia nel suo percorso reale del corteo nello spazio e può quindi evidenziare meglio lo scopo del rito, ossia la purificazione dei soldati inclusi nell'accampamento. Il grande fregio di Traiano, nell'arco di Costantino, riafferma nello scontro equestre la ​virtus personale dell'imperatore, paragonandolo ad Alessandro Magno. Il resoconto offerto dalla colonna poteva coesistere con la presentazione allegorica e fortemente encomiastica della vittoria del grande fregio. Questa convivenza si spiega attribuendo i due monumenti a due generi differenti e governati dalle regole diverse: il primo intende essere narrativo, mentre il secondo celebra soprattutto le qualità di Traiano. I monumenti di Stato traianei affiancano all'esaltazione della vittoria anche la rappresentazione dei meriti civici dell'imperatore e in particolare della sua generosità verso i sudditi: tali furono i grandi ​plutei di Traiano​, due rilievi dell'area della curia del foro Romano tesi e celebrare due diversi provvedimenti imperiali, ossia una distribuzione alimentare e la cancellazione dei registri dei debiti. Entrambe le scene si svolgono avendo come sfondo diversi edifici. Il più ampio programma assistenziale deciso da Traiano in favore dell'Italia intera è il fulcro delle immagini nell'​arco di Benevento​, dedicato dal senato nel 144 d.C. L'arco costituisce il culmine del processo di accrescimento della decorazione figurata di monumenti pubblici: questa presentazione pseudo-narrativa basava il sospetto sulla missione complessivo del monumento. I rilievi del fornice di passaggio dell'arco erano i più importanti e illustravano la ​providentia imperiale verso l'Italia: un piccolo fregio raffigurava il Traiano sui Daci e alcuni pannelli ricordavano le sue campagne in Germania e in Dacia. L'età traianea coincise con la penna maturità della rappresentazione storica romana. I rilievi urbani si concentrarono su nuovi soggetti: i tondi adrianei raccontavano per esempio un tema inedito per l'arte ufficiale come quello venatorio, di per sé pertinente al mondo dell'​otium​. La cronaca di una caccia multipla si dispiegava in rilievi alternanti le scene venatorie a quelle di sacrificio. Altro tema che ebbe più spazio fu l'apoteosi degli imperatori defunti. Il ​monumento partico di Efeso prova che singole città dell'Impero continuavano a dimostrare la propria lealtà alla famiglia imperiale. Nell'edificio è presentata una sequenza tematica. La partecipazione alla battaglia di un imperatore su carro dimostra che il monumento ebbe carattere più celebrativo che narrativo. Durante il II secolo d.C. anche lo sviluppo di un racconto suddivisa in una serie di rilievi mostra il prevalere della componente allegorica su quella più narrativa anche nei resoconti strettamente bellici. Almeno 12 rilievi decoravano in origine un arco eretto per Marco Aurelio. Otto di questi raffiguravano probabilmente la campagna militare condotta dall'imperatore in Germania nel 173 d.C. La narrazione continua è stata destrutturata e suddivisa in una serie di scene scelte per il loro carattere esemplare e con iconografie standard: partenza da Roma, sacrificio dei suovetaurilia purificante l'esercito, ​adlocutio dell'imperatore alle truppe, cattura dei nemici, clemenza dell'imperatore per i sottomessi, designazione di un nuovo re vassallo, ritorno a Roma e distribuzione dei donativi al popolo per festeggiare la vittoria. La datazione si ricava solo grazie all'identificazione del genero dell'imperatore. Il peso maggiore della componente allegorico-simbolica si coglie anche nella ​colonna Aureliana ​(176 d.C.), dedicata da Commodo al padre nel 180 d.C.: nella nuova colonna coclide le guerre combattute da Marco Aurelio sono narrate in forma continua, ma alcune scene sembrano inserite per illustrare ruolo e virtù dell'imperatore, con minore attenzione allo sviluppo lineare del racconto. Questa 45 novità potrebbe essere l'effetto dell'andamento frustrante di una guerra fatta di imboscate e incursioni più che di grandi battaglie. Nel racconto gli unici eventi risolutivi riconoscibili sono le scene dei miracoli. La maggiore importanza attribuita alla figura carismatica dell'imperatore si osserva anche nei monumenti di Stato severiani. La nuova dinastia, bisognosa di legittimazione, diede grande rilievo alla celebrazione delle proprie vittorie. Le rappresentazioni storiche potevano decorare anche altre tipologie di edifici, come le ​terme di Caracalla​. Le terme erano diventate il luogo dove si esprimevano la magnificenza della provvidenza Imperiale nei confronti del popolo. Il più importante monumento urbano fu l'​arco di Settimio Severo (230 d.C.) per celebrare la guerra partica: quattro grandi pannelli furono posti sui fornici laterali per rappresentare ciascuno la presa di una città parti cane mica. Il racconto procede dal basso verso l'alto e perlopiù da sinistra a destra. Le scene mettevano in evidenza l'organizzazione dell'esercito romano rispetto al caos del nemico. Settimio Severo per aveva fatto realizzare e inviare al senato una serie di pitture, in previsione di un trionfo non celebrato però al suo ritorno a Roma. Anche per l'età imperiale ci sfugge la pittura, che continua invece a svolgere un ruolo decisivo. La tradizione della pittura trionfale non si era spenta, e la presenza di cicli pittorici monumenti pubblici non va sottovalutata. Nei pannelli dell'arco di Settimio Severo la selezione degli episodi di contorno associati alla grande scena d'assedio conferma l'idea che il racconto di una campagna militare vittoriosa dovessero mai necessariamente prevedere la ripetizione di alcune situazioni fisse. I temi bellici ebbero meno spazio a favore della celebrazione; manca di conseguenza interesse per una vera e propria disposizione in sequenza delle scene. Nel periodo dopo i Severi, le testimonianze concrete di nuove rappresentazioni storiche diminuiscono. Con l'istituzione della tetrarchia i monumenti di Stato ebbero di nuovo immagini realizzate ​ad hoc​. Il programma decorativo è in linea con il tradizionalismo di Diocleziano e ripropone il repertorio delle cerimonie di stato del I secolo d.C. Il fregio nell'​arco di Costantino si distaccava dall'iconografia tradizionali, tramite il ricorso a temi più convenzionali. Nel IV secolo d.C. Roma aveva cessato di essere l'unico centro dell'Impero. La suddivisione del potere ebbe come esito anche la scelta di nuove capitali. A Tessalonica, Galerio fece costruire una sorta di doppio tetrapilo: gli unici due piloni conservati del tetrapilo centrale sviluppano su più registri e su ogni lato la narrazione delle sue guerre persiane; gni facciata del pilone è autonoma. In seguito toccherà a Costantinopoli accogliere gli ultimi esempi di momenti ufficiali decorati da rilievi storici: la colonna coclide istoriata fu riportata in auge da Teodosio I nel 386 d.C. C11 - ​Ritratti I ritratti furono moltissimi e in tanti materiali.con gerarchia d'uso legate all'identità degli effigiati, a luogo di esposizione e al materiale, i ritratti si trovavano ovunque. In una società molto competitiva come quella romana i ritratti non erano destinati a una fruizione estetica, ma costituivano uno degli onori più adatti a perpetuare la memoria di uomini benemeriti. Le statue virili di vivi e morti a partire dall'età augustea erano accompagnate da epigrafi con il resoconto dettagliato del ​cursus honorum​. Molte sono le opere conosciute ma ben più gravi le perdite, dei dipinti è rimasto ben poco. Alcuni rilievi illustrano i ritrattisti al lavoro, oggi sono saltuarie le possibilità di attribuzione delle opere a una stessa mano. Anche per i privati si conoscono casi di plurime immagini: Plinio il Giovane si lamenterà della concessione di statue trionfali ​non sudore et sanguine​. Nelle due sfere del pubblico e del privato le sostanziali differenze per le statue-ritratto riguardavano non tanto le forme rappresentative ed epigrafiche e loro obiettivi, quanto la loro visibilità e soprattutto i committenti. Nell'urbe gli 46 spazi pubblici erano monopolizzati dagli imperatori. Era consuetudine chiedere prima del conferimento di un'onore se l'omaggiato fosse o meno d'accordo sulla realizzazione del ritratto, ed egli poteva dire la sua su determinati aspetti benché non sempre la sua volontà venisse rispettata. Infatti una società ossessionata dalle immagini e dagli onori correlati escogitò dunque una bella invenzione: il ritratto a insaputa dell'effigiato. Di statue ce n'erano sin troppe, per cui ogni tanto si doveva provvedere a fare un po' di pulizia, con decisioni però talvolta dettate anche dall'urgenza di un miglior controllo degli spazi e dell'esibizione di potere. Dal III secolo d.C, dopo il regno dei Severi, si avverte una riduzione nelle dediche di statue. A subire il colpo furono soprattutto le immagini dei ceti medi a favore invece degli esponenti dell'amministrazione provinciale e degli imperatori. Le dediche di stato negli spazi pubblici, nel IV secolo d.C., collassarono in modo brusco, specie dal 379 d.C., per non riprendersi più e sparire progressivamente verso il V-VI secolo d.C. A Roma l'aristocrazia senatoria presentava una articolazione interna gerarchica, basata sul prestigio di ogni famiglia quantificabile in base all'accumulo di onori e prestazioni fornite per la Repubblica. Le immagini degli antenati (​imagines maiorum​) in cera erano uno dei più importanti strumenti nel sistema di rappresentazione della stirpe quale garanzia della prosecuzione biologica, sociale e politica. Il rituale gentilizio della pompa funebre permetteva di magnificare davanti al popolo romano le gesta politiche e militari del passato: al momento della sepoltura, l'ultimo defunto veniva incluso tra i più autorevoli antenati della famiglia, presenti sotto forma di immagini nella processione davanti al feretro, in una serie dal rigoroso ordine cronologico, con l'avo più antico in testa. La somiglianza era incrementata dal fatto che i ​prósopa erano indossati da uomini che impersonavano gli antenati persino per statura e forma esteriore. La cerimonia suscitava una forte emozione nel popolo, in coloro che celebravano il funerale e in particolare nei giovani, perché le immagini degli uomini virtuosi li spronavano a nobili imprese per il bene pubblico. Lo ​ius imaginum era una consuetudine di casta, spettava ai discendenti di un antenato che avesse ricoperto una magistratura curule. Lisistrato di Sicione, fratello di Lisippo, per primo riproduce il ritratto umano in gesso ricavandolo dalla faccia stessa. I volti in cera a Roma miravano alla maggiore rassomiglianza possibile, non limitata ai lineamenti. Le cere erano talmente somiglianti da potere rimpiazzare anche i corpi assenti, come nella prassi del ​funus imaginarium a Roma. Non disporre però di alcun esempio concreto di ​imagines maiorum in cera provoca molti dubbi sul loro effettivo aspetto, tanto più che che dovevano esisterne diversi tipi, anche sotto forma di busti e figure intere. Le effigi in cera sono state a più riprese ricondotte a una dimensione magico-religiosa o declassate nella categoria della non-arte. La strutturazione della memoria del passato secondo l'annalistica, il criterio dell'esemplarità ripetibile e il peculiare sistema onomastico non consentivano riconoscimenti immediati. Specie nella prima metà del '900 le ​imagines maiorum hanno svolto un ruolo nel dibattito sulle origini del ritratto romano. Spiegare i visi degli anziani con la gerontocrazia è banale, perché non importa il tema ma la sua traduzione visiva. Vista l'impossibilità di dimostrare con sicurezza una derivazione diretta dei ritratti dalle immagini in cera, Bianchi Bandinelli vide in queste ultime comunque la matrice ideologica e il fondamento del ritratto romano tipico, incline a una caratterizzazione personale. Si poté più smorzare la dipendenza da stretti vincoli tipologici rispetto all'​imagerie dinastica e cittadina del mondo greco. Pure nel caso di effigi dinastiche più personalizzate e in età avanzata la resa dell'incarnato non risulta troppo analitica. Pluralità di scelte ritrattistiche del I secolo a.C., determinate non solo dagli sfruttamento da parte degli artefici di tanto registri formali: le scelte sono tante quanti gli specifici volti degli individui e le loro stilizzazioni nella realtà. L'aspetto delle ​imagines maiorum​: uomini in là con l'età, dai 40 in su, immaginabili con sguardi impassibili e 47 Dopo la conquista di Siracusa nel 211 a.C. M. Claudio Marcello fece collocare le opere d'arte predate nel doppio tempio di ​Honos e ​Virtus presso porta Capena utilizzandole come ornamenta della città. In età augustea era scomparso quasi tutto, ma fino a pochi decenni prima il tempio era stata una delle mete preferite dagli stranieri in visita in città. Quella dell'arrivo delle opere siceliote a Roma fu considerata una data simbolica per descrivere il processo di appropriazione della cultura figurativa greca da parte romana. All'incirca un secolo più tardi il greco Plutarco presentò Il saccheggio di Siracusa in una luce del tutto positiva, perché per suo tramite la grazia dell'arte greca avrebbe ingentilito e raffinato i romani. Dopo l'​ovatio ​di Marcello, le notizie sui furti d'arte greca proseguono nelle fonti in una sorta di crescendo, come se quella cerimonia avesse indicato nella trasformazione consapevole di Roma in una ​urbs ornatissima​. Il saccheggio di Siracusa riunì due aspetti molto importanti del complesso tra il mondo romano e l'arte greca: la pratica della spoliazione e la collocazione pubblica come ​ornamenta urbis​ delle opere giuntevi. Dell'elenco dei saccheggiatori ai quali alludeva Livio fanno parte molti dei più illustri esponenti della ​nobilitas ​e in particolare quelli impegnati nella conquista della Grecia e dell'Oriente ellenistico. Il fenomeno si placò solo in età imperiale, quando i nuovi arrivi di capolavori greci furono sempre più spesso frutto di acquisti più o meno coatti o di ruberie, senza che vi fosse più un legame diretto con le vittore militare ed eventi bellici. A Roma in età repubblicana nel momento in cui una città si arrendeva, il comandante romano acquisiva il diritto di confiscare anche le sue opere d'arte; solo di rado la spoliazione fu totale, come a Corinto e Cartagine nel 146 a.C. Le comunità greche naturalmente non accettarono di buon grado tali furti di pitture, statue e tanti altri oggetti di lusso: essi cercarono per quanto possibile di opporvisi legalmente. Se le fonti letterarie offrono molto spunti e racconti sui furti d'arte romani, le attestazioni concrete delle spoliazioni sono relativamente poche. I relitti tardoellenistici individuati nel Mediterraneo sono di norma connessi al nascente commercio d'arte più che alla spoliazione; i carichi delle navi dei trionfatori dovevano presentarsi in modo simile. In Italia le prove effettive dell'arrivo delle opere d'arte sono perlopiù epigrafiche. L'ampiezza del fenomeno è dimostrata infatti dalle numerose basi di statue offerte dagli stessi generali trionfatori repubblicani. La dedica pubblica in aree sacre delle opere d'arte fu a lungo la scelta più frequente, la presentazione delle opere con didascalie dimostra anche la progressiva affermazione di una maggiore cura per l'allestimento è il contenuto informativo delle iscrizioni. La presenza a Roma di originali greci frutto di spoliazione è attestata soprattutto le testi letterari, e il divario tra il loro numero e i rinvenimenti scultorei reali resta impressionante. Statue come queste dovettero diffondere ancora di più l'ammirazione dell'arte greca nell'Urbe. Altro aspetto da considerare è proprio l'impiego delle opere d'arte una volta giunte Roma. Nel mondo romano la nozione di ​ornamenta era prima di tutto giuridica e applicabile a ogni cosa che abbelliva il luogo in cui era esposta, di solito il termine era riferito alle sculture e quadri facenti parte dell'arredo inamovibile di uno spazio pubblico o privato, distinti perciò dalle suppellettili che erano considerate beni mobili. Agli ​ornamenta non appartenevano invece le statue di culto vero e proprio, i ​simulacra​: di solito i generali trionfatori evitavano di impadronirsene. Il trasporto delle opere d'arte Roma si caricò subito anche di un significato politico, tutte le dediche mostrano una grande attenzione alle modalità di esposizione di esse. La selezione degli ​ornamenta e del loro contesto poteva basarsi anche su dimensioni e materiali, sulla predilezione per un determinato linguaggio artistico o perché certe opere dilettavano più di altre. Anche la fama dell'artista o semplicemente la squisitezza del linguaggio formale potevano quindi rendere congrui gli ​ornamenta​. A partire dal I secolo a.C. conosciamo l'esistenza di vere e proprie gallerie di opere d'arte. 50 L'arrivo a Roma degli ​ornamenta fece nascere anche un serrato dibattito sulla loro collocazione privata o pubblica, segno che anche la tendenza alla fruizione domestica degli oggetti d'arte si affermò molto rapidamente. Il collezionismo privato, che il ruolo semipubblico di ​domus e ville romane rendeva incontenibile, e i capolavori trasportati a Roma e in Italia dei generali trionfatori tra il II e il I secolo a.C. non bastarono a soddisfare una domanda sempre più massiccia da parte di aristocrazia senatoria ed ​élite locali. Governatori provinciali e generali senza scrupoli approfittarono inoltre della loro posizione per impadronirsi delle genuine opere d'arte locali, suscitando l'opposizione delle comunità derubate. Disporre statue nei luoghi pubblici faceva guadagnare una buona reputazione. Il popolo di Roma si era ormai abituato ad ammirare le opere d'arte come ​ornamenta e non era disposto a perdere questo privilegio, come scoprì Tiberio quando decise di trasferire al suo appartamento privato il celebre ​Apoxyómenos di Lisippo Era il popolo essere ha maggiormente danneggiato dalla decisione Tiberio, perché non aveva altro modo di ammirare i capolavori greci se non come ​ornamenta di edifici pubblici. A Roma le opere d'arte erano ormai ritenute parte integrante dell'​ornatus della città e se ne doveva garantire la fruizione ai cittadini. La sottrazione violenta delle statue dei luoghi pubblici fu da allora una qualità caratteristica degli imperatori tirannici. In seguito, le notizie sulla collocazione pubblica di nuovi ​ornamenta diminuiscono, mentre aumentò semmai la preoccupazione per la loro salvaguardia. Con l'affermazione del Cristianesimo, nel corso del IV secolo d.C., la sconsacrazione dei templi portò al loro abbandono e spesso alla distruzione delle statue di culto; non è raro però che queste fossero semplicemente rimosse e rifunzionalizzate da simulacra a ​ornamenta​: molti cristiani colti non avevano problemi ad accettare le immagini pagane, purché non fossero più oggetto di venerazione. Il possesso dei capolavori dell'arte greca continua a qualificare i grandi centri urbani, la riduzione delle antiche statue di culto alla funzione decorativa caratteristica dell'​ornatus fu la chiave che consentì agli imperatori cristiani di spostare in città molti dei capolavori della scultura antica, provenienti da loro antiche sedi. Le statue furono collocate con grande attenzione ai contesti. Insomma, l'arte greca era dotata di grande ​auctoritas​. C13 - ​Copie e rielaborazioni di modelli greci Le statue servivano da ornamenti della casa e potevano diventare occasione di conversazione tra proprietario e ospiti. I committenti cercavano statue che fungessero da ornamenti di edifici pubblici o privati, selezionandole in base soprattutto ai soggetti e talvolta al loro pedigree. Alcune copie del Doriforo furono oggetto di culto, mentre altre servivano da ornamenta​ di edifici pubblici o privati, interagendo con altre statue. La consapevolezza che molte delle statue trovate a Roma non erano opere originali di grandi scultori greci noti, bensì sculture romane, si affermò solo nella cultura antiquaria settecentesca. L'arte imperiale subì così di fatto un esproprio di grande parte della sua produzione scultorea per la ricostruzione, con la critica delle copie, delle opere di grandi maestri della scultura greca. Un passo ulteriore nella considerazione dei risultati della critica delle copie è rappresentato dalla tendenza a mettere in parallelo il modo di procedere dei copisti con varie forme di imitazione classificate dei retori latini, ossia ​interpretatio​, ​imitatio e aemulatio​. È proprio in questa vasta gamma di rielaborazioni che sarebbe quindi possibile cercare la libertà di officine e scultori nel mondo romano, pronti a usufruire in piena autonomia della tradizione greca. La nascita di una vera e propria specializzazione nella produzione di opere che dovevano replicare in forma riconoscibile e consapevole modelli più antichi è fissata in età ellenistica, 51 sebbene la realizzazione di copie/riproduzioni non fosse di per sé sconosciuta in precedenza. Le officine erano dislocate nel mondo greco, ma ormai lavoravano per esportare verso l'Italia. Mentre le officine greche rifornivano i collezionisti romani, avvenne anche in Italia un vero e proprio salto di qualità nella produzione scultorea. Il nome più celebre è quello di Pasitele che fu un artefice versatile e colto, in quanto conoscitore della storia dell'arte greca e dei suoi capolavori e autore di un trattato (perduto) in cinque libri sui nobilia opera​: lo scritto di Pasitele consente di fissare all'età sillana un ​terminus ante quem per la formazione di un primo canone. Pasitele e la sua scuola non furono però copisti in senso stretto, visto che essi preferirono semmai rielaborare modelli di greci; anche Arcesilao condivideva la stessa perizia nella coroplastica, e le sue opere erano costosissime. All'età augustea è assegnato uno straordinario gruppo di sculture fittili trovate sul Palatino, in un linguaggio prevalentemente severizzante, segno di un gusto retrospettivo da parte della committenza. A partire dalla seconda metà del I secolo a.C. le ville dell'aristocrazia romana cominciarono ad accogliere programmi decorativi sempre più complessi per accompagnare l'​otium dei proprietari ansiosi di vivere alla greca. Nel programma decorativo convivono copie fedeli, varianti e libere rielaborazioni. Copie e rielaborazioni furono accostate indistintamente per illustrare i temi legati ad ​otium e ​negotium che caratterizzano la decorazione della villa, segno di quanto sia difficile sparare le copie fedeli dalle varianti o dalle creazioni in stile, esposte con pari dignità. L'abbandono della funzione originaria vale per molte delle copie usate come ornamenti in edifici pubblici e privati romani e disposte in collocazioni assai diverse da quelle per cui erano stati pensati gli originali. E proprio i nuovi contesti poterono dare un'ulteriore spinta a modificare i modelli per ottenere un adattamento migliore. La seconda metà del I secolo a.C. è l'epoca in cui molte officine greche si trasferirono o aprirono filiali in Italia, spesso in Campania dove trovarono le committenze più ricche. Nacquero anche officine specializzate in copia derivanti da modelli classici. In età augustea, accanto alle repliche vere e proprie, il processo di appropriazione della scultura greca consentì la realizzazione di nuovi e autorevoli ​nobilia opera destinati essere replicati a loro volta. A partire dall'età Augustea sono spesso le ville imperiali a offre una documentazione eccezionale del repertorio a disposizione degli scultori. L'importanza attribuita alle copie di opere illustri nella cultura imperiale e nell'arredo scultoreo di edifici pubblici e privati richiedeva fedeltà nel processo di produzione. Gli scultori ellenistici e imperiali avevano elaborato metodi affidabili e piuttosto veloci, benché tecnicamente complessi, per ottenere una copia dell'originale. Il procedimento si basava in primo luogo sul possesso dei calchi degli originali da copiare e poi sul riporto dei punti dal modello alla copia mediante una forma di triangolazione. Probabilmente le officine esportavano semilavorati da lisciare e rifinire una volta giunti sul luogo dove ne era previsto l'impiego. I risultati di questo metodo erano di solito efficaci ed erano raggiunti in tempi accettabili, ma esistevano anche copie di qualità molto alta in cui si ha l'impressione che lo scultore abbia voluto gareggiare con l'originale. Era possibile riformulare un celebre originale realizzato in bronzo anche in altri materiali, in primo luogo in marmo. La scultura romana, come quella greca, era policroma, come sappiamo dalle fonti letterarie e da numerosi ritrovamenti di statue dipinte. Negli ultimi anni la conoscenza del fenomeno si è incrementata per l'uso di esami scientifici: recenti studi hanno dimostrato l'importanza del colore come elemento sia di riproduzione dell'aspetto degli originali in bronzo sia di diversificazione reciproca nelle repliche in marmo; l'impiego di altri marmi colorati di invece influenzato dal soggetto. Le conoscenze sull'organizzazione concreta di un'officina scultorea specializzata in repliche di originali hanno ricevuto un nuova luce dalla scoperta in un ambiente delle Terme di Sosandra a Baia di diverse centinaia di frammenti di calchi in gesso presi da 52 entrambi i significati. Le ​are si presentano di forma rettangolare o circolare, con il corpo racchiuso entro modanature alla base e alla sommità e ravvivato da rilievi che si distribuiscono sulle quattro facce o si sviluppano intorno al cilindro. In età imperiale la produzione acquisisce una maggiore autonomia e si verifica un mutamento delle tematiche, che ora si rapportano più specificamente a singole divinità o gruppi di divinità. A partire dal I secolo a.C. conosce una notevole fioritura nelle officine neoattiche la produzione di rilievi decorativi finalizzati all'arredo di ​domus e ville dell'aristocrazia. I rilievi hanno dimensioni variabili e sono spesso circondati da cornici modanate, assumendo così l'aspetto di pregevoli quadri marmorei. È verosimile che gli artigiani le lavorassero sulla base di un disegno dell'intera scena, servendosi anche di calchi delle singole figure. I manufatti di arredo più diffuso sono le vere di pozzo o di cisterna a forma di circolare, che assommano al valore esornativo una ben precisa funzione pratica e constano di uno zoccolo quadrato, un cilindro con mondanature alla base e alla sommità e talvolta una lastra di copertura; l'interno è cavo. Le pareti del cilindro possono essere scanalate, coronate da un fregio a metope e triglifi, campite da motivi vegetali. La produzione subisce un vistoso calo dai primi decenni del I secolo d.C. in seguito alla creazione di sistemi pubblici di approvvigionamento idrico, che costituiscono cisterne e pozzi privati. Il carico del relitto di Mahdia comprende alcuni piani di tavolo, per la loro realizzazione ci si avvale di un'amplissima gamma di materiali. L'inventiva degli artigiani si estrinseca specialmente nella grande varietà tipologica dei sostegni, per i quali si prediligono fantasiose combinazioni di elementi grotteschi. Diffusi sono poi i ​monopodia​, il cui piano è sorretto da un unico sostegno centrale, che può essere cilindrico e scandito da scanalature o a pilastrino, innestato in una base e spesso coronato da un'erma. I tavoli di marmo sono oggetti utilitaristici e in quanto tali adibiti a differenti funzioni in contesti sia sacri sia profani. All'interno della casa erano distribuiti in ambienti diversi, di preferenza nell'atrio ma anche nei cubicoli, nei peristili, nei giardini, nei triclini, dove fungevano principalmente da piano di appoggio per l'esibizione di vasellame di bronzo, argenterie, vetri. La fabbricazione su vasta scala di tavoli marmorei inizia intorno alla metà del II secolo a.C. in officine aventi sede ad Atene, Delo e Pergamo. Agli articoli di lusso neoattici si affiancavano classi di manufatti che parimenti concorrevano all'allestimento sfarzoso di spazi pubblici e domestici ma che potevano anche soddisfare i bisogni di una clientela di più limitate disponibilità economiche. Vasche, ​labra pilastri istoriati, rilievi differenti per forma, dimensioni e contenuto della rappresentazione sono prodotti in grande quantità in officine localizzate in netta prevalenza a Roma e in area centro-italica, con filiali dislocate. Gli artigiani spesso attingono al repertorio di motivi e schemi iconografici codificato dalle maestranze neoattiche. Accanto ai marmi bianchi, il cui commercio s'intensifica nella prima età imperiale, a partire dall'età augustea si assiste a un impiego sempre più diffuso di marmi colorati. L'uso della terracotta continua invece per un genere di lastre architettoniche ornate a rilievo, dette convenzionalmente Campana dal nome del collezionista ottocentesco proprietario di molti esemplari. Le lastre componevano fregi destinati a rivestire le pareti esterne o interne di edifici pubblici e privati, funerari ma soprattutto residenziali. Rivela una spiccata predilezione per la disposizione simmetrica delle immagini. La produzione comincia nel secondo venticinquennio del I secolo a.C. e si esaurisce alla metà del II secolo d.C. La fabbricazione delle categorie di materiali in marmo sopra menzionate comincia in momenti diversi entro un arco cronologico compreso tra l'inizio del I secolo a.C. e il periodo augusteo, rivolgendosi, tranne poche eccezioni, al mercato di Roma, dell'Italia e di alcune province occidentali. La richiesta di beni d'arredo culmina nella prima età imperiale, si va affievolendo dalla seconda metà del I secolo d.C. e riprende vigorosa al tempio di Adriano. Vasche, ​labra​, pilastri decorati e alcune tipologie di 55 rilievi sono stati ritrovati tanto in edifici pubblici che in contesti residenziali, anche lussuriosi, come ville e palazzi imperiali; altri manufatti, con i rilievi sospesi (​oscilla​), erano deputati a un'esposizione in ambito domestico. Nel novero dei manufatti di arredo che coniugano utilizzo pratico e valenza esornativa rivestono grande importanza le vasche, realizzate in una ricca serie di materiali, quali il bronzo, molto raro, il calcare e un vasto assortimento di marmi bianchi e colorati. Dal punto di vista tettonico si distinguono tre tipologie: vasche di forma oblunga con corpo semicilindrico, concluso da cornici modanate e collocato su sostegni; vasche di sagoma allungata, con lati brevi ricurvi e pareti svasate verso l'alto, usualmente ornate da una coppia di anelli, più di rado da una coppia di teste feline o da gorgóneia​; vasche costituite da un bacino di forma circolare (​labra​), poco profondo, sorretto da un unico supporto centrale; le pareti terminano con un labbro estroflesso o con un bordo piatto e, negli esemplari più pregevoli, possono essere scanalate, baccellate ovvero impreziosite da motivi vegetali, maschere barbate, teste ferine. I ​labra possedevano invece una più articolata destinazione funzionale, variabile a seconda del contesto espositivo. Prevalente su tutti era però l'uso, in spazi pubblici e privati, come bacini di fontane, il cui impatto ornamentale era accresciuto da scenografici giochi d'acqua. La produzione si incrementa tra la fine del primo secolo a.C. e il I secolo d.C. e tocca il vertice della media età Imperiale. In età augustea appare una classe di sostegni decorativi destinati a riscuotere notevole successo, si tratta di lesene e pilastrini a sezione rettangolare istoriati con ornati vegetali, che si snodano in girali. Nell'ornato domina l'acanto, con cui talora si mescolano la vite, l'edera, l'olivo e altre specie vegetali. In contesti abitativi, pilastrini di modeste dimensioni potevano fungere da sostegni di ​pìnakes marmorei. In luogo dei pilastrini si trovano talvolta colonnine istoriate sovrastate da ermette bacchiche. Nell'età di Adriano la produzione è fiorente e si sperimentano nuovi schemi decorativi. Nel mondo romano il termine ​oscillum aveva i significati di "oggetto antropomorfo sospeso" e di "altalena", mentre la letteratura archeologica lo impiega convenzionalmente per indicare una classe di rilievi destinati a una collocazione sospesa, documentati in cinque varianti morfologiche (circolari, a pelta, rettangolari, a clipeo, a siringa) e mostrano di solito una decorazione scolpita su entrambe le facce; in alcuni esemplari il lato secondario è liscio e poteva essere dipinto. Il repertorio figurativo riprende schemi di matrice neoattica e appare riconducibile a due precipui ambiti tematici, la sfera bacchica e il mondo del teatro. Rilievi con maschere godevano di una certa fortuna nell'allestimento dei giardini a peristilio di ​domus e ville, dove rilievi con maschere potevano anche essere appesi ad architravi. Di forma rettangolare, sono per lo più scolpiti su due facce, la principale ad altorilievo, la secondaria a rilievo molto basso. La composizione sulla fronte di adegua a uno schema fisso: entro un paesaggio roccioso sono raffigurate due o più maschere in veduta di tre quarti, rivolte le une verso le altre e attorniate da motivi sussidiari; maschere si ripetono spesso anche sul lato posteriore. Sui rilievi con maschere compaiono come elementi accessori alberi, rocce, recinti sacri, sacelli, altari, ​thymiatéria​, pilastri votivi, erme di Priapo, ciste e cortine, un ricco campionario di motivi atti a creare l'atmosfera di un paesaggio idillico-sacrale. Gli stessi motivi ritornano in una classe di rilievi paesistici o bucolici, sui quali un paesaggio naturale o costruito fa da uno sfondo alle scene figurate costituendone parte integrante. Ha stringenti rapporti con le rappresentazioni paesistiche nella pittura parietale, negli stucchi, nella toreutica. Il repertorio tematico privilegia scene di vita campestre, proiettate in un'area religiosa. I rilievi, in genere di piccole dimensioni e racchiusi da cornici, sono stati scoperti soprattutto in contesti domestici. Una cornice paesistica si riscontra anche in un gruppo di rilievi a soggetto mitologico denominati dalla letteratura specialistica tedesca rilievi mitologico di lusso. Si tratta di un numero ridotto di lastre affini per materiale, dimensioni monumentali, formato a 56 rettangolo allungato, chiuso da cornici modanate, contenuto e funzione, che sono venute alla luce in larga maggioranza a Roma e dintorni. In primo piano figure dal vigoroso aggetto plastico. L'impronta formale appare fondamentalmente eclettica per l'ispirazione a modelli di differenti epoche e generi. Tutti gli esemplari sono stati datati dai più nell'arco di una generazione, fra l'età di Domiziano e di Adriano, e possono essere attribuiti a officine urbane; i più noti sono ascritti a scultori educatisi ad Atene o in Attica. Le lastre s'indirizzano a una clientela colta. La conquista dell'Oriente ellenistico determina l'introduzione a Roma di mobili e suppellettili di bronzo, che cominciano a circolare dagli inizi del I secolo a.C. Richiestissimi da intenditori e da collezionisti erano specialmente i bronzi corinzi, la cui lega peculiare sarebbe stata creata dalla casuale mescolanza del bronzo con l'oro e l'argento in occasione della distruzione di Corinto del 146 a.C. Gli autori latini menzionano di frequente i ​Corinthia con riferimento a vasi, statue e oggetti di vario tipo. Le officine bronzistiche avevano sede dapprima ad Atene e in alcune isole dell'Egeo; verso la metà del I secolo a.C. alcune succursali s'impiantano a Roma e in Italia. Le officine, distribuite in epoca imperiale in diverse regioni dell'Impero, fabbricano mobili e vasellame per la tavola, la cucina, il bagno. Una componente irrinunciabile dell'arredamento del triclinio erano i letti, la cui struttura portante di legno era formata dalle zampe tornite, dal telaio e da una sorta di spalliera (​fulcrum​). Sul telaio e sui ​fulcra venivano applicate lastrine di bronzo decorate. La produzione di letti tricliniari di bronzo, all'apice tra la fine del I secolo a.C. e l'inizio del I secolo d.C., s'interruppe nel III secolo d.C. Numerose pitture parietali con scene di banchetto illustrano la consuetudine di collocare davanti a ogni letto tricliniare un tavolino a tre zampe che sostiene il vasellame da mensa. Nelle dimore aristocratiche è comune la presenza di candelabri di bronzo, che constano di tre elementi: una base a tre piedi ferini, un lungo fusto, liscio o scanalato, un coronamento per lo più a calice, culminante in un piattello finalizzato al sostegno delle lucerne, che possono essere plasmate in forme elaborate e fantasiose. La massima espressione di lusso è rappresentata dai ​lychnoûchoi​, portalucerne con le sembianze di eleganti giovanetti. Formato inferiore al vero ed eclettismo formale sono caratteristiche costanti dei ​lychnoûchoi​, che presentano inoltre una connotazione bacchica del tutto consona all'utilizzo in occasione di banchetti notturni e all'esposizione nel contesto di triclini o giardini. C15 - ​Arti suntuarie Secondo Plinio il Vecchio fu l'Asia sconfitta che per prima introdusse il lusso in Italia, ma già i preziosi bottini di guerra esibiti come trofei dopo le conquiste di Siracusa e Taranto avevano rivelato ai Romani l'immenso sfarzo delle città ellenistiche e incoraggiato l'amore per la raffinata eleganza delle arti greche. I termini latini ​luxus​/​luxuria hanno origini rurali e indicano la vegetazione spontanea, che non dà frutti e cresce in modo indisciplinato, tanto da compromettere raccolto. Negli scrittori della tarda Repubblica il disprezzo per questa erbaccia si trasmette alla luxuria, intesa come amore per il lusso. i testi ci dicono che dall'età repubblicana fino al tardo antico la condanna verso giusto è rimasta pressoché unanime e che si giunse ad inasprire i di piedi contro ogni forma di accesso. Già l'imperatore Tiberio fece notare la pubblicità delle normative contro lusso. Arti suntuarie è una locuzione dei limiti estremamente fluidi, cui appartengono molti oggetti marmorei e bronzei. Già nel I secolo a.C. la diffidenza verso il vasellame in materiale pregiato era ormai un ricordo, degli immensi bottini di argenteria razziati dai Romani nei regni ellenistici resta ben poco. Se ancora il principio del III secolo a.C. si poteva essere espulsi dal senato per il solo 57 varie immagini in modo che a ricostruire il pregio fosse ora altre, ora il materiale. Persino le pareti delle dimore di alto livello potevano essere fastosamente ornate di gemme. Uno dei principali centri di produzione e di smistamento di gemme e cammei fu Aquileia, ma le officine glittiche dovettero presto diffondersi in tutto l'Impero, anche in centri minori. Le gemme romane derivarono dal mondo ellenistico la funzione principale di sigilli personali. A imitazione dei dinasti orientali a che gli alti magistrati romani e gli imperatori facevano incidere in anelli-sigillo il proprio ritratto o i simboli di potere. L'uso delle gemme incise come elemento di riconoscimento personale si diffuse ampiamente, favorendo la pratica delle imitazioni in pasta vitrea. Oltre ai ritratti, l'ampio repertorio tematico prevede segni politici, scene di miti greci e saghe romane, singoli eroi e divinità, eroti e personaggi del corteo bacchico o marino, temi legati alla ​paideía​, scene pastorali ed erotiche. Alcune gemme con figure di origine orientale ed egittizzanti e iscrizioni che di confrontano con i testi magici dei papiri egiziani erano poi utilizzate come amuleti: erano incise per essere viste direttamente in positivo. Il principale centro di produzione delle gemme magiche era probabilmente Alessandria, e rimandano i motivi figurativi più frequenti con influssi ebraici, siriaco, greci ed egizi. I cammei solo di rado vennero usati come sigilli personali, e perciò il loro ritrovamento in contesti funerari è poco documentato; ma che gli scavi condotti in contesti urbani hanno restituito un numero di cammei di gran lunga inferiore. Ottenuti, in prevalenza, con la lavorazione di pietre policrome o zonate, i cammei richiedevano una tecnica di esecuzione più difficile e costosa dell'intaglio: l'abilità dell'artefice consisteva anche nella capacità di sfruttare i diversi strati di colore per ottenere contrasti cromatici che evidenziano i dettagli, facendo emergere dal fondo le figure. In età giulio-claudia i cammei furono intesi come creazioni di particolare prestigio riservate all'ambito della corte e di una ristretta ​élite​, già con Augusto si affermò la produzione dei cammei di Stato, ovvero pietre di dimensioni talvolta eccezionali e decorate con complessi temi politici, tra cui quello della continuità dinastica. Il tema della legittimazione dell'erede al trono è centrale nei due maggiori cammei di Stato. Nel Gran cammeo di Francia il messaggio è molto più complesso, tanto più che risulta non esente da dubbi il riconoscimento dei singoli personaggi. La scena si distribuisce su tre registri: in quello inferiore si concentrano barbari sconfitti e trofei militari; in quello centrale sono probabilmente ritratti membri viventi della famiglia di Tiberio; quello superiore è riservato alla sfera celeste e agli antenati defunti, in cui è ben individuabile Il Divo Augusto. Il cammeo, realizzato in età tiberiana in un momento successivo alla morte di Germanico visualizza la questione della ​gens Iulia​. Il cammeo è stato sottoposto a plurime rilavorazioni. Per la delicatezza dell'intaglio e la preziosità della pietra i cammei non dovevano essere esposti al pubblico, ma conservati come oggetti da camera all'interno dei palazzi imperiali. La limitata circolazione dei cammei di Stato giustifica l'adozione di iconografie più apertamente encomiastiche. Si ritiene spesso che dopo la dinastia giulio-claudia anche la finezza dell'arte dei cammei sia tramontata. Dopo il regno di Caracalla la committenza dei grandi cammei di Stato si riduce drasticamente, fin quasi a scomparire, ma per tutto il III secolo d.C. si registra l'improvvisa fortuna di una produzione minore di carattere seriale, standardizzata nei motivi figurativi e di fattura più sommaria. I cammei furono ora utilizzati soprattutto come gioielli e i temi preferiti erano quelli più adatti a un pubblico femminile, come le dee, le personificazioni beneauguranti, gli eroti e la teste femminili ispirate ai ritratti delle principesse. Si trattava di una produzione di massa che si dovette però concentrare in poche officine specializzate. Solo con Costantino riprese la lavorazione dei cammei secondo modelli e tecniche della tradizione giulio-claudia; emerse in età costantiniana anche la prassi del riutilizzo di pietre e cammei più antichi. 60 Nella graduatoria degli oggetti di lusso l'ambra si colloca subito dopo i vasi in cristallo di rocca, amatissimi dai Romani: ma se l'alto prezzo del cristallo si giustificava con la proprietà di mantenere fresche bevande, per quanto riguarda l'ambra neppure il lusso aveva ancora escogitato una valida ragione per il suo uso. Siccome l'ambra non aveva alcuna funzione pratica, il suo utilizzo vende condannato con tanta durezza: una statuetta si scambiava con due o tre schiavi in buona salute. L'ambra è una resina fossile che ha origine dalla secrezione di piante ad alto fusto, simili al pino, ormai estinte: il termine ​sucinum deriverebbe proprio dal succo delle piante, ma la reale origine di questa etimologia è ancora incerta. La supposta provenienza dalla foce del Po si spiega con l'antica presenza nell'area di officina etrusche specializzate nella lavorazione di questo materiale. È solo con Tiberio che si data il primo grande flusso di ambra nell'Italia romana. Punto di arrivo della via dell'ambra proveniente dal Baltico era Aquileia, che fin dal I fino all'inizio del III secolo d.C. divenne il principale polo di raccolta e di distribuzione del materiale ancora grezzo. I numerosi scarti di lavorazione e gli oltre 700 reperti in ambra provenienti dalla città documentano la fiorente attività delle officine locali: il lavoro d'intaglio e di lucidatura necessario nella realizzazione di sculture in ambra si avvaleva, quasi certamente, degli stessi intagliatori (​scalptores​) già esperti nella lavorazione dei manufatti in osso o avorio e delle gemme. L'ambra era apprezzata per la trasparenza e le calde tonalità ed è proprio nella produzione di piccole sculture che l'ambra trovò il massimo impiego: si tratta di una categoria di oggetti di modeste dimensioni; i temi prediletti rimandano alla sfera divina di Venere e di Bacco, ma anche a quella muliebre e infantile e includono nature morte, animali e scene di genere. Le statuette con immagini divine e quelle con nature morte potevano avere anche un valore funerario. Non meno numerosi sono gli oggetti della toeletta femminile e monili e gli amuleti, all'ambra si attribuivano virtù curative e persino magiche; gli anelli in ambra non vanno intesi come monili, ma come veri e propri amuleti. Le decorazioni più ricorrenti prevedono animali accucciati o teste femminili, il repertorio figurativo delle ambre aquileiesi si ispira ai modelli ellenistici e alessandrini. La cura dei dettagli resi a incisione o con il trapano e la stessa sensibilità plastica tipica della produzione aquileiese caratterizzano anche gli esemplari del ricco corredo di una tomba femminile nella necropoli di ​Ulpia Noviomagus​, datato attorno al 100 d.C. e composto da almeno 13 oggetti d'ambra. Aquileia non fu però l'unico centro di lavorazione, la documentazione archeologica conferma l'esistenza di diversi centri produttivi minori. L'area campana, in particolare Pozzuoli e le città vesuviane, hanno restituito molti oggetti in ambra. Da Ercolano e Pompei provengono pezzi di ambra grezza o oggetti semilavorati che attestano l'attività di intagliatori locali, probabilmente da identificare negli stessi ​gemmarii incisori delle gemme delle pietre dure. Oltre all'ambra baltica le officine campane si avvalevano anche di quella siciliana, una rara varietà presente presso la foce del fiume Simeto (Catania) e per questo nota come simetite. La circolazione degli artigiani, l'esistenza di album di disegni e le facili condizioni di trasporto degli oggetti di lusso favorirono anche la diffusione degli schemi figurativi, che si trasmettevano identici non solo all'interno di una stessa classe di manufatti, ma anche ad altri oggetti. Per alcune categorie di oggetti, che richiedono la conoscenza di tecniche e strumenti affini, non si può escludere la possibilità di uno scambio di prodotti finiti tra manifatture. Le scoperte, nel sito dell'antica Memfi in Egitto e a Begram, in Afghanistan, di numerosi calchi in gesso ricavati da prodotti della toreutica ellenistica, confermano l'uso e l'ampia circolazione di intermediari tecnici, come matrici, cartoni e appunto gessi. I motivi figurativi dei medaglioni di Begram con busti virili, putti e scene mitologiche si ripetono sulle lucerne e nella glittica. Il commercio di matrici e calchi in gesso di manufatti toreutici fu uno 61 dei principali vettori di trasmissione delle iconografie, adattabili a vari soggetti anche quando identiche. C16 - ​La ceramica Rispetto a vetro, metalli, marmo e a tutti gli artefatti in materiali deperibili o volatili, la ceramica non si altera, non si degrada, non è riciclabile, e, alla fine del suo ciclo di vita, è una presenza costante in qualsiasi contesto di ritrovamento. La sua indistruttibilità fa sì che il vasellame sia, in quanto prodotto e merce di scambio, tra i pochi originali della vita economica trasmessi dall'Antichità. Essi ci provengono in quantità tali da consentire di introdurre nell'analisi dell'economia antica il riferimento a qualche ordine di grandezza; sono poche le notizie nelle fonti letterarie. Nell'elenco delle produzioni ceramiche nei paesi del Mediterraneo al primo posto compare Arezzo; il termine di ​samia [​vasa​] definisce ai tempi di Plinio il Vecchio il vasellame di colore rosso brillante, oggi chiamato terra sigillata. Gli studi da fine Ottocento-inizio Novecento hanno in prevalenza interessato le ceramiche fini da mensa, le lucerne o le suppellettili con qualche valenza decorativa. Questo tipo di vasellame evolve rapidamente sul piano tecnologico, morfologico, formale e decorativo, consentendo di collocare le singole produzioni con precisione nel tempo e nello spazio. Altra caratteristica ricorrente è la presenza di bolli e graffiti che danno conto dei centri di produzione e degli operatori a vario titolo impegnati nella manifattura e della loro condizione sociale. Più conservatrici sul piano della tipologia sono le ceramiche comuni. Rispondendo a usi pratici, questo tipo di vasellame è stato generalmente attribuito a officine locali. Pur essendo una classe unicamente utilitaria, una sorte diversa nella tradizione degli studi è toccata alle anfore commerciali a causa sia del loro straordinario corredo epigrafico sia della testimonianza che esse offrono dell'avvenuto trasporto prevalentemente marittimo o fluviale di generi alimentari di prima necessità. Le ricerche si sono perciò indirizzate verso la storia dei contenitori in quanto oggetti ceramici, verso la storia delle economie che ne hanno determinato la nascita e verso quella commerciale sottesa alle richieste di derrate dei centri urbani sparsi nel Mediterraneo e oltre. I relitti hanno permesso di ricostruire le rotte più frequentate. Gli studi si sono orientati in questi ultimi decenni verso la sistematizzazione delle tipologie e verso l'individuazione dell'origine, della datazione, della diffusione, degli aspetti tecnologici, funzionali e culturali delle singole classi ceramiche al fine di delineare una storia di ciascuna di esse che tenesse conto dei contesti di ritrovamento, delle associazioni delle classi tra loro e dei tipi all'interno delle classi, delle caratteristiche d'uso e di significato dei singoli tipi. L'Ottocento marcò l'inizio di un percorso stimolato dal progresso della biologia e della geologia. L'etnologia portò poi a prestare attenzione anche agli oggetti ordinari proprio nel momento in cui scavi di intere città sepolte come Pompei e Ercolano mettevano in luce migliaia di manufatti afferenti alla sfera della vita quotidiana. Da datati, vasi, suppellettili e utensili, fino a quel momento senza storia, diventavano anch'essi datanti. La standardizzazione conseguente ai consumi di massa degli oggetti d'uso comune, la fabbricazione in serie e l'ampia diffusione nelle città e nei territori del Mediterraneo a partire dall'età ellenistica, corrispondente per Roma alla media e tarda Repubblica, hanno agevolato la riconoscibilità dei tipi in produzione e in circolazione e del loro sviluppo morfologico, stilistico e iconografico. L'analisi delle tecniche di lavorazione e decorazione ha avuto come fine la ricostruzione della storia delle conoscenze, dei saperi, delle mentalità. Le indagini sui modelli, mezzi e modi di produzione hanno puntato sulle connessioni delle attività artigianali con l'ambiente e con le risorse dei territori. Altre ricerche si sono incentrate sugli aspetti commerciali dell'impresa artigianale e manifatturiera, facendo ricorso ai dati di 62 con decorazioni raffinate a imitazione del vasellame in metallo, ne aveva determinato il successo: nella ceramica ellenistica a rilievo risaltano le coppe emisferiche chiamate omeriche e quelle con motivi vegetali note con il nome improprio di ceramica megarese. Il volume della produzione della sigillata italica è in termini quantitativi forse superiore a quello della Campana A. Il centro principale è Arezzo, i cui manufatti sono riconoscibili dai nomi dei ceramisti impressi sul fondo delle coppe e dei piatti o all'esterno dei vasi nella produzione decorata a matrice. A eccezione della lupa con i gemelli e le cose circensi, i cicli figurativi sono in gran parte mitologici, di volta in volta confrontati nella storia degli studi con opere di artisti tardoclassici, con la toreutica attica del IV secolo a.C. e persino con la pittura. Se le scene simposiache ed erotiche sono diffusissime anche nella pittura della case, una serie di decorazioni ha un rapporto molto stretto con i testi letterari, quali i motivi ripresi dai poemi omerici e dal ciclo epico in generale. La sigillata italica decorata a matrice termina verso la metà del I secolo a.C., mentre i vasi lisci rappresentati dai tipi più recenti raggiungono l'età neroniana. Troviamo imprenditori indipendenti che hanno investito il loro capitale in un settore forse già praticato dai loro antenati in quanto servi, oppure di agenti delle rispettive famiglie, dalle quali sarebbero stati delegati a reggere l'attività manifatturiera. L'uso degli stessi punzoni nelle diverse officine può dipendere da loro diffusa vendita, dalla riproduzione tramite calco dei decori dei vasi già cotti o da un sistema cooperativistico con mezzi di lavoro comuni. I bolli suggeriscono che nelle officine tardo-italiche si sia prodotta anche ceramica liscia, con scarso successo sui mercati, al pari dei vasi decorati. La diffusione è unicamente marittima. La fine della produzione intorno alla metà del II secolo d.C. è stata spiegata con la concorrenza delle classi ceramiche provinciali. La tendenza alla regionalizzazione va letta in parallelo con la crisi strutturale del sistema schiavistico, manifestatasi nel settore della produzione primaria delle regioni ove tale modello era stato prevalente. Bicchieri, boccalini, piccole coppe, tazze in età augustea assumono forme di derivazione metallica e decorazioni à la barbotine con motivi eleganti e raffinati, incisioni a rotella e a pettine, costolature, decori ottenuti attraverso la sabbiatura, inserimento di perle in pasta vitrea. I centri di produzione dalla metà del I secolo a.C. sono distribuiti ora su tutti su quasi tutta la penisola, alcune aree continueranno a produrre sino al II secolo d.C. Una classe intermedia tra le terre sigillate e la ceramica a pareti sottili sono i bicchieri tipo ​Aco dal nome del ceramista più noto, derivati anche assi da matrici: bicchieri di forma troncoconica caratterizzati da una decorazione a rilievo che consiste in triangolini lungo il corpo del vaso, in racemi vegetali, in archetti inscriventi figure di amorini e così via. Nel periodo augusteo in Italia nuovi tipi di lucerna vengono prodotti in quantità senza confronto con i gruppi dell'età tardorepubblicana. Si creano lucerne a più becchi, polilicni. Il progresso tecnico ed estetico favorisce l'enorme diffusione da Occidente a Oriente della nuova produzione a volute. I bolli indicano una pluralità di piccole officine autonome, con un modello produttivo del tutto diverso da quello di carattere manifatturiero della sigillata italica. Tra il 60 e il 75 d.C. circa si afferma nell'Italia settentrionale un tipo di lucerna a canale di chiara origine metallica, bollato a rilievo sul fondo. Le officine più attestate esportano i loro prodotti nei principali centri dell'Europa centro-orientale e dell'area danubiana, innescando un ampio processo di imitazione. Alla concentrazione delle officine fanno riscontro standardizzazione e semplificazione. Dalla metà del III secolo d.C., benché le produzioni locali continuino essere attive ma anonime, sul mercato romano cominceranno ad arrivare primi tipi di lucerne africane, destinate a un grande successo nel Tardoantico. In epoca imperiale la produzione di terra sigillata coinvolge tutte le province, ognuna con i con i propri mercati preferenziali. La tecnologia, la vernice rossa, più scura e più brillante di quella di Arezzo, e la pratica della bollatura sono i principali apporti dei ceramisti italici a tale produzione. Le officine, ubicate in aperta 65 campagna o nei pressi di piccoli villaggi, sono veri e propri agglomerati ceramici. L'esportazione tocca fino alla seconda metà del II secolo d.C. tutto l'Occidente. L'Italia accoglie in quantità consistenti il vasellame sud-gallico nella città centro-meridionali nel periodo di assenza del l'italica decorata. Tra l'80 e il 90 d.C. fa la sua comparsa sui mercati occidentali e un'altra classe di ceramica da mensa. Delle tre principali produzioni africane finora individuate la prima è contraddistinta con la lettera A. I vasi, rivestiti da una vernice rosso-arancione, hanno decorazioni e rotella sul bordo e sulle pareti; la classe è generalmente attribuita al nord della Tunisia. Tra il I e la metà del II secolo d.C. il repertorio tipologico della sigillata A risente dell'influenza della tradizione artigianale italica e gallica, tanto di esordire con chiare imitazioni. Più ci si avvicina al periodo della massima diffusione, più la tecnica si standardizza e decade: l'argilla è meno depurata, la vernice è povera e opaca. La diffusione molto limitata fa supporre che questi oggetti fossero destinati a un ceto abbiente e colto. A soddisfare poi la domanda di vasellame da mensa di una certa qualità interviene la produzione della sigillata africana C, che contende alla A dell'età severiana il primato delle esportazioni. Alla globalizzazione della prima e media età imperiale succede in Occidente una definitiva regionalizzazione delle produzioni ceramiche, unita al consolidamento dell'autoconsumo dei beni primari, mentre è l'Africa Proconsolare che provvede ora a fare fronte ai consumi di ceramica da mensa e da cucina, occupando con la produzione della sigillata C fette di mercato sempre maggiori. Al successo di queste merci fanno da ​pendant una cultura letteraria che si era già manifestata nel II secolo d.C., una cultura figurativa che si traduce nelle rappresentazioni realistiche del paesaggio agrario nel repertorio musivo africano. Questo insieme di fattori sociali, economici, culturali si stabilizza e si consolida nel IV e nei primi decenni del V secolo a.C. La diffusione del vasellame fine africano in questo periodo non riguarda infatti solo Roma e l'Occidente, ma comincia a investire in quantità apprezzabili anche l'Oriente, ove si affianca alle sigillate focesi e cipriote, che ne riprendono tipi e decorazioni. Determinante è la fondazione di Costantinopoli nel 330 d.C., che dà origine a un secondo polo di attrazione delle merci africane. Sul piano della cultura materiale si registra un incremento massiccio della produzione e della circolazione delle ceramiche fini ed utilitarie e delle anfore africane. Dal 300-320 d.C. alla sigillata C della Bizacena si affianca alla D della Zeugitana; dalla metà del IV secolo d.C. divengono prodotti di esportazione anche le lucerne. Accanto agli oggetti d'uso e alle derrate, viaggiano cartoni e maestranze, in particolare i mosaicisti dall'Africa. La storia dei decenni centrali e della seconda metà del V secolo d.C., con l'invasione vandala dell'Africa settentrionale, si conclude con la presa di Cartagine e la nascita degli stati romano-barbarici. L'epoca bizantina non segna l'arresto definitivo delle attività delle officine, che dopo un periodo di crisi nella seconda metà del VI secolo d.C., riprendono slancio nel VII in rapporto con Costantinopoli e l'Oriente in generale. Il successo di questa produzione si lega all'espansione dell'arboricoltura in età traianeo-adrianea anche nelle zone più aride della Tunisia centrale. All'affermazione complessiva dell'economia della Bizacena del III secolo d.C. può aver contribuito lo smantellamento da parte di Settimio Severo di Cartagine. La sigillata C si distingue dalla A dalla D non solo per l'eleganza dei vasi, ma anche per l'impiego frequente e con risultati pregevoli, accanto a forme lisce, di decorazioni a rilievo applicato e a matrice. La C esordisce già alla fine del II secolo d.C. con una serie di vasi a rilievo applicato prevalentemente chiusi, dalle pareti sottili e dal colore della vernice arancione brillante. Le officine sono situate nel centro della Tunisia interna. All'inizio i motivi, distribuiti sul fondo e sugli orli a tesa, sono costituiti da elementi singoli, inquadrati come nella produzione di El Aouja da motivi vegetali o architettonici, mentre dalla metà del IV 66 secolo d.C. si affermano le composizioni unitarie con raffigurazioni anfiteatrali, teatrali, circensi, mitologiche, e della fine del secolo di soggetti biblico-cristiani. Dal 360 d.C. circa, la decorazione a rilievo applicato si affianca sui grandi vassoi da portata la tecnica a matrice. La documentazione delle officine di Sidi Marzouk Tounsi e alcuni tipi di nuova invenzione indicano che la produzione, con argilla fine e con vernice poco brillante, prosegue per parte o tutto il VI secolo d.C. Intorno al 300 d.C. inizia la produzione dei grandi piatti, delle coppe e delle scodelle in sigillata D, ancora documentata alla fine del VII secolo. Il repertorio tipologico, del tutto nuovo, ha un nuovo autonomo patrimonio tecnico e decorativo, con la comparsa nel 320-330 dei motivi a stampo. Prevalgono fino al V secolo piatti, scodelle di grandi dimensioni e vassoi, mentre nella fase finale della produzione si esiste al cambiamento del repertorio formale con vasellame di dimensioni più ridotte e con decorazioni che da schemi complessi e articolati si riducono simboli e a personaggi isolati. La sigillata D proviene dalle officine della Zeugitana e la decorazione a stampo è nota dominante. La tecnica a matrice non è solo appannaggio della sigillata C, ma interessa altri manufatti africani in argilla rossa: i vasetti per oli profumati (​ampullae oleariae​) e le brocche antropomorfe dei secoli II e III d.C., realizzate nelle officine di lucerne dei ​Saturnini e dei Pullaeni​; la ceramica detta di ​Navigius dal nome del ceramista più noto, specializzato nella fabbricazione di blocchi a forme di teste maschili e femminili nonché di bottiglie decorate con motivi di vario genere. Due sono le forme principali prodotte in sigillata: la prima, con numerose varianti, presenta un corpo ovoide, un disco leggermente concavo unito al becco da un canale, una spalla convessa e un'ansa verticale piena o forata percorsa da scanalature che si prolungano sulla spalla e sul fondo, su cui sono a posti motivi decorativi o lettere isolate, la decorazione del disco è rara, mentre sulla spalla le decorazioni più comune sono il ramo di palma, il tralcio, gli ovoli; la seconda forma, prodotta dall'inizio del V al VII secolo, ha il corpo e il disco rotondi, un lungo becco prominente e una spalla piatta e larga su cui si distende, tratto da matrice, un numero vasto di motivi geometrici, vegetali e figurati in serie o alternati. Le lucerne della Tunisia centrale sono caratterizzati da una pasta fine con vernice liscia di colore arancio chiaro, una decorazione molto accurata, con motivi ben disegnati di piccole dimensioni. Quando intorno al 440 si esaurisce la produzione di piatti decorati a rilievo, alcuni temi decorativi sopravvivono sulle lucerne, subendo però stilizzazione con riscontri nello stile lineare degli stampi della D. Il vasellame in sigillata per i sette secoli di produzione e anonimo. Le più grandi e principali officine non si situano di norma nei centri urbani o perurbani, ma in villaggi, ville e fattorie sparsi nei territori dell'interno. Ciò darebbe credito all'ipotesi che la sigillata africana sia un fenomeno produttivo legato alle campagne piuttosto che alle città e sia di carattere rurale. Alcuni studiosi insistono sulla prosperità durevole di questo paese, mettendo in dubbio il lento passaggio alla tarda antichità anche dell'Africa romana nella tarda età vandala o nella prima epoca bizantina. La ruralizzazione delle città e il declino della vita cittadina sono nel VI secolo un fatto indubbio, così come sono inequivocabili, benché irregolari e talvolta contraddittori, gli indizi forniti dalla cultura materiale. L'invasione araba spezza infine anche quell'asse Cartagine/Costantinopoli, che aveva reso possibile fino alla fine del VII secolo la sopravvivenza di scambi commerciali e modelli culturali. C17 - ​Il vetro Il vetro antico è in genere considerato una classe di materiale il cui studio richiede grande specializzazione. Negli scavi il vetro non è molto comune, perché anche nell'Antichità veniva riciclato; data la sua fragilità è quasi impossibile trovare esemplari più o meno interi, a meno 67 oggetti in metallo lavorato a sbalzo. Le forme sono molto articolate e carica di valenze simboliche. Nelle matrici può essere impresso il nome dell'artigiano, i nomi più frequenti sono quelli di: ​Ennion​, il più famoso; ​Aristeas​; ​Iason​; ​Meges​; ​Neikais​, una donna, una delle pochissime finora note per avere operato nel campo dell'artigianato vetrario. Numerosi esemplari del tipo provengono da Roma, dove gli utenti colti dovevano essere in grado di apprezzarli. La tecnica della soffiatura in matrice fu recepita anche dalle officine occidentali, capaci di realizzare soprattutto bicchiere con nodosità, allusivi alla clava di Ercole e coppe con raffigurazioni di spettacoli. Il motivo per cui questa tecnica si esaurì presto, intorno all'80 d.C., è ancora un mistero: forse dobbiamo chiamare in causa un cambiamento dei gusti. Dal II secolo d.C. le produzioni in vetro soffiato, dai profili sinuosi, si sostituirono quasi del tutto a quelle eseguite a matrice. Un'eccezione è costituita da un gruppo di vasi da mensa, prodotti dalla fine del I secolo d.C., e realizzati a matrice in vetro completamente decorato. Per il resto, il vasellame da mensa presenta un repertorio molto vario impossibile da esaminare nel dettaglio. Ora il bollo si trova su un contenitore che non ha alcun valore estetico, ma è usato per il trasporto di sostanze pregiate e si riferisce quindi al produttore delle merci. La decorazione incisa figurata era ancora rara nel III secolo d.C., al contrario di quella geometrica. Alle officina renane e a quelle egiziane si attribuiscono le prime realizzazioni di vetri incisi con scene figurate a carattere mitologico; nel V secolo d.C. le officine renane arricchirono il loro repertorio con scene di caccia o di genere e bibliche. Nel corso del IV secolo di.C. dei vetri incisi realizzati nell'Urbe erano prodotti suntuari che potevano divenire mezzi di diffusione di immagini pregnanti per committenze di alto livello. A Roma erano attive almeno due officine: la prima officina realizza i contorni delle figure con i tagli lineari e ne campisce l'interno con abrasioni che rendono opaca la superficie; la seconda procede con asportazioni dai contorni più sinuosi, di ampiezza e profondità diverse, che creano un effetto chiaroscurale. A quest'ultima si attribuiscono alcuni esemplari che devono avere imposto all'artefice un ​tour de force​. Alle ​élite tardoantiche erano destinati anche altri capolavori dell'arte vetraria: i ​diatreta o vasi a gabbia, del III secolo d.C, oggetti di lusso la cui funzione principale sembra fosse quella di lampade a sospensione. Il lavoro dei diatretarii era tanto complesso che un difetto nella preparazione del vetro da intagliare avrebbe potuto metterlo a rischio: in questi casi la legge li esentava da ogni responsabilità. Tra i vasi a gabbia rinvenuti in Italia ricordiamo la ​coppa ​Trivulzio al Civico Museo Archeologico di Milano, scoperta nel 1680 in un sarcofago e ornata di un'iscrizione: "Bevi, vivrai molti anni". Il più spettacolare fra i ​diatreta è la ​coppa di Licurgo​, dove una scena complessa subentra alla più comune decorazione geometrica. Tra le produzioni tardoantiche e più distintive figurano anche i fondi d'oro o vetri a sandwich, così definiti perché presentano una decorazione eseguita su foglia d'oro, protetta fra due strati di vetro. Se ne conoscono attualmente intorno ai 500 esemplari: il gruppo più consistente fu prodotto a Roma nel IV secolo d.C., la maggior parte è stata recuperata nelle catacombe dalle chiusure dei loculi. I soggetti, tra i quali predominano quelli cristiani, abbracciano pure simboli ebraici e il repertorio profano/pagano. Gli studi più recenti suggeriscono che non doveva trattarsi di oggetti particolarmente pregiati e destinati a una clientela esclusiva. A partire dal V secolo d.C. le produzioni di lusso scomparvero progressivamente in Occidente. I recipienti in vetro continuarono tuttavia essere molto diffusi, sebbene con un repertorio meno vario. In questo periodo nacquero alcune forme particolari che rappresentano veri fossili-guida per i secoli tra il Tardoantico e il primo Medioevo: lucerne e calici. Alcuni tipi venivano spesi, singolarmente o in gruppi. Per l'illuminazione delle chiese si usavano anche elaborati supporti circolari di metallo che dovevano formare vere e proprie corone luminose. I calici erano utilizzati sia come recipienti per bere sia come lampade. Le lucerne a sospensione e soprattutto i calici, 70 che comparvero a Roma nell'avanzato secolo V d.C., ebbero una grandissima diffusione e furono prodotti in Occidente e in Oriente. Queste due forme erano l'espressione di un gusto che costituiva ancora un elemento unificante del repertorio vetraio in tutto il bacino del Mediterraneo. L'uso di elementi in vetro di forma diversa per ottenere decorazioni su vari tipi di supporti attraversa tutta la produzione antica. A Kenchreai, porto dell'antica Corinto, furono rinvenuti oltre 100 pannelli ancora imballati, depositati in un edificio dell'area portuale nel quale era in corso una ristrutturazione non ultimata a causa di un evento sismico. Il terremoto, con conseguente maremoto, intorno al 370 d.C., seppellì l'edificio con il prezioso contenuto. Diversi elementi rimanderebbero a una produzione egiziana. I pannelli di Corinto rappresentano l'esempio più spettacolare di una decorazione esclusivamente in vetro. Anche l'Impiego di pastiglie in vetro con la faccia inferiore piatta e quella superiore convessa è documentato nella decorazione di elementi architettonici, pareti e mobili; se ne ipotizza l'applicazione perfino su abiti e tessuti. La diffusione del vetro in tutti gli strati sociali li rese tanto comuni da consentirne in età imperiale l'utilizzo anche come pedine: giocare al ​ludus latrunculorum e al ​ludus duodecim scripta​, una sorta di precursori degli scacchi e del backgammon. C18 - ​Pittura Parlare di pittura romana equivale perlopiù a parlare di pitture murali; talora si riescono a circoscrivere le officine grazie al metodo stilistico. L'apprezzamento per le ​tabulae traspare dalla realizzazione a parte nella tecnica dell'affresco di quadri figurati applicati in un secondo momento nel campo della parete antero telai di legno. L'alta valutazione delle ​tabulae​, oltre che in Plinio il Vecchio, più tardi trova conferma nella raccolta in due libri delle ​Imagines di Filostrato di Lemno, in cui il testo dà conto di una visita ai quadri esposti nel portico di una villa presso Napoli: l'opera comprende la descrizione (​ékphrasis​) di 64 quadri di numerosi pittori, perlopiù di soggetto mitologico. Le conoscenze sulla pittura parietale sono legate principalmente alla scoperta, iniziata con le grandi campagne di scavo del Settecento e dell'Ottocento, delle città di Ercolano e Pompei, la cui drammatica fine avvenuta nel 79 d.C. sotto le ceneri del Vesuvio ha garantito la conservazione di interi apparati decorativi di ambito pubblico e privato. Al 1882 risale la pubblicazione del primo studio sistematico sulla pittura parietale per merito di Augustus Mau, che riconobbe l'esistenza di 4 stili tra il II secolo a.C. e la data dell'eruzione. Le nostre conoscenze relative alla pittura italica antecedente alla romanizzazione si basano principalmente sulle testimonianze di ambito funerario, e in parte anche domestico, di area etrusca, campana e apula. La sintassi vascolare greca è alla base della decorazione di uno dei più antichi documenti di pittura murale etrusca, la ​tomba delle Anatre nella necropoli della Riserva del Bagno a ovest di Veio: uno zoccolo rosso copre i due terzi della parete sostenendo una teoria di uccelli acquatici la cui resa, con semplice linea di contorno o con campiture di colore uniforme, sintetizza le più antiche tecniche pittoriche greche. Sul finire del III secolo a.C., di fronte all'affievolirsi di testimonianze di ambito funerario, iniziano a prevalere i documenti pittorici da contesti pubblici e domestici. In molte tombe sugli elementi figurati s'impose un nuovo gusto per l'illusionismo architettonico. Il più antico schema decorativo individuato da Mau sulle le pareti degli edifici campani da lui stesso definito ​I stile (II secolo a.C. - inizio I secolo a.C.) riproponeva una moda diffusa da tempo nel bacino Mediterraneo, consistente nel riprodurre i preziosi rivestimenti litici che ornavano l'esterno di templi ed edifici pubblici attraverso l'articolazione di modanature 71 tridimensionali in stucco o schemi geometrici a linee incise. Per caratteristiche compositive tale tipologia decorativa è stata variamente definita "strutturale", "a incrostazione", "​masonry style​", mentre la sua ampia diffusione ne ha fatto uno stile "internazionale" o "mediterraneo". Ha origini greco-orientali, mentre l'acquisizione in Italia centrale rientra nel fenomeno delle imitazioni dell'ellenizzazione intensificatosi nel II secolo a.C. Sono principalmente proporzioni e rapporti dimensionali a cambiare: il gusto italico preferisce uno zoccolo più alto che giunge all'incirca fino a un terzo della parete, dividendola in tre registri orizzontali; anche la concezione complessiva dell'ambiente è diversa, i conci sono tagliati in corrispondenza degli angoli; la gamma cromatica, che predilige colori saturi come giallo, nero, verde, rosso e viola, è maggiormente variata e distribuita in accostamenti spregiudicati e spesso casuali in ogni parte della decorazione; non mancano motivi decorativi e figurativi come cubi prospettici, drappi o elementi vegetali quali tralci e ghirlande. Ai decenni iniziali del I secolo risalgono le decorazioni del ​Capitolium di Brescia e della ​Casa dei Grifi sul Palatino, i più antichi esempi di ​II stile (I secolo a.C. - 20 a.C.) o stile "architettonico". Questi attestano un importante mutamento: mezzi esclusivamente pittorici subentrano ad aggetti e solcature in stucco nella suddivisione delle pareti. La rapidità di mutamento si spiega con la specifica esigenza delle committenze di alto livello caratterizzate da un dispiego di simboli politici e ostentazione di lusso. La dialettica connota le scelte decorative tardorepubblicane e imperiali, con un costante adeguamento delle decorazioni alle funzioni degli spazi. Se nei casi appena trattati l'illusione architettonica si limita alla sovrapposizione di tre piani spaziali, il più arretrato dei quali è costituito da una superficie di fondo che chiude la visuale dell'osservatore, lo sguardo può spingersi ben oltre il confine dell'ambiente mediante l'apertura. Gli elementi architettonici riprodotti sono solidi e illusionistici, perché in grado di ingannare l'occhio dello spettatore; volume e tridimensionalità sono esaltati dall'utilizzo dell'ombreggiatura; la gamma cromatica si orienta ancora su giallo, viola, cinabro, con contrasti accentuati dalla lucidatura a specchio delle superfici, che non lascia traccia visibile di pennellatala; e sempre la gamma cromatica si arricchisce, con più largo uso di colori dispendiosi come cinabro e blu; è da escludere che tali pitture riproducessero vedute effettivamente esistenti. Le prospettive architettoniche non adottano un punto di fuga unico, ma fanno riferimento molteplici assi visivi, prestandosi a essere osservate da diversi punti della stanza. In simili composizioni potevano inserirsi, a partire dai decenni centrali del I secolo a.C, anche soggetti figurati. Le notazioni paesistiche tendono a sovrastare le figure dalle snelle proporzioni. Le ​megalographiae sono pitture a grandi figure adornanti alcuni luoghi con immagini di divinità (​simulacra deorum​) e con le narrazioni in serie di racconti mitici (​fabulae​); nel genere delle megalografie vengono fatte rientrare le pitture della ​Villa dei Misteri​. Nel corso di pochi anni l'illusionismo architettonico conosce un'improvvisa battuta d'arresto, alle prospettive subentra una graduale tendenza a chiudere di nuovo la superficie della parete accentuandone mano a mano l'aspetto ornamentale. Intorno al 45 a.C. sono visibili un'ampia gamma di motivi egittizzanti come fiori di loto, urei, obelischi, sfingi, riconducibili al gusto alessandrino. Questo costituisce un'evoluzione in senso ornamentale dei soffitti a cassettoni: alle forme quadrate dei lacunari subentrano losanghe, cerchi inscritti, poligoni. L'introduzione di sfumature a pastello su sfondo bianco attenua i forti contrasti delle pareti, il nuovo gusto cromatico si affianca e coesiste con quello più antico dei diversi ambienti della ​Villa della Farnesina​, dove si nota l'appiattimento della parete e soprattutto delle monocromie nere e bianche: questa è ora una superficie da decorare con raffinatezze miniaturistiche, non più da oltrepassare per mezzo di plastiche prospettive architettoniche. 72 costituisce un esempio straordinario la ​tomba dei Pancrazi al III miglio della via Latina, nel suburbio meridionale di Roma; la grande volta a crociera della seconda camera ipogea e le lunette da esso generate sono decorate da affreschi su fondo bianco e da stucchi bianchi su sfondo bianco o policromo; al centro della volta visibile un'ovale con Giove e un'aquila, mentre i vari pannelli presentano figure isolate, vignette, nature morte e paesaggi idillico-sacrali; ai quattro maggiori riquadri con scene mitologiche, veri e propri tappeti sospesi in aria, corrispondono altre figure mitiche nelle edicole centrali delle lunette, il tutto con particolare enfasi su temi di ispirazione troiana ed eroica. Alcuni miti si distinguono per una specifica destinazione sepolcrale. A Roma, sulle pendici sud-ovest del Palatino, il triclino di una dimora dell'inizio del III secolo d.C. ospitante il collegio degli araldi (​domus Praeconum​) raffigura uno sfondo architettonico scenografico, davanti al quale si affollano personaggi a grandezza naturale, che l'abbigliamento connota come inservienti addetti al servizio dei banchetti, intenti a portare ghirlande, cassette, drappi; bada agli effetti di insieme tanto che le figure appaiono sgraziate. In questo periodo si afferma prepotentemente lo ​stile "lineare"​, un sistema decorativo che si caratterizza come un'estrema semplificazione dei più complessi schemi tradizionali; le sue origini risalgono agli ambienti secondari delle case pompeiane ed ercolanesi del IV stile, caratterizzati da pannelli a fondo bianco senza ricerca di profondità, di rapida esecuzione e a basso costo. Durante le fasi più mature dell'età antoniniana e severiana tali sistemi diventano più comuni. Lo stile lineare si ritrova nella prima metà del III secolo d.C. a Roma su via Labicana nell'​ipogeo degli Aureli e nella decorazione delle catacombe cristiane, in particolare nelle volte in cui si organizza generalmente attorno a un medaglione centrale. Mentre a Roma e a Ostia predomina lo stile lineare, nelle province occidentali e orientali riscuote grande successo anche la decorazione a motivi ripetitivi, che evoca la carta dipinta o la tappezzeria, occasionalmente comparsa in Italia nelle pareti e nei soffitti di IV stile. Si tratta di rivestimenti in cui sono giustapposte forme geometriche, quadrangolari, esagonali o arrotondate e decori vegetali e floreali stereotipati. Un gruppo di pitture di fine II e inizio III secolo d.C. è legato a un culto orientale molto radicato nel mondo romano, quello del dio Mitra, all'interno di grotte (​spelaenum​/​templum​). Alla fine del III e all'inizio del IV secolo d.C. la pittura recupera modi tradizionali, compresi trompe-l'oeil e megalografie. La coesistenza di temi pagani e cristiani è ben documentata anche in pittura, pur se in spazi distinti. Nella seconda metà del IV secolo d.C. il codice prevalse sul rotolo, sostituendolo quasi del tutto e divenendo il tipo di libro comune. Fu così destinata a un notevole successione la soluzione di abbinare al testo scritto l'illustrazione mediante la miniatura, che poteva occupare la pagina intera a differenza che nei rotoli, costituendo così una fonte rilevante per ricostruire anche l'arte pittorica. C19 - ​Mosaico Il termine mosaico presenta un'etimologia incerta, il mosaico è un tipo di decorazione con piccoli elementi più o meno regolari giustapposti e fissati saldamente per mezzo di un legante su uno strato di intonaco e formanti esternamente una superficie più o meno liscia. Questi piccoli elementi assumono presso i Romani il nome di ​abaculi ​, ​tesserae​ o ​tessellae​. I precedenti dei pavimenti a mosaico sono costituiti dai mosaici a ciottoli colorati con rappresentazioni figurate, riferibili al V secolo a.C., e rinvenuti in vari centri della Grecia. I contorni curvilinei lisci dei piccoli ciottoli assumevano un aspetto sfumato e chiaroscurale; il ricorso a sottili liste di piombo, inserite nel sottofondo, consentiva di ottenere un disegno di contorno più netto nei profili dei volti, o in altri particolari interni. I mosaici sono realizzati alla 75 stregua di composizioni pittoriche e riprendono spesso temi mitologici tratti dallo stesso repertorio. In Italia l'uso di pavimenti a sassolini con raffigurazioni di tipo pittorico è attestato alla fine del IV secolo a.C. a Mozia in Sicilia. Dall'impiego di ciottoli naturali si passò all'uso di quelli squadrati e infine di tessere appositamente tagliate. La transizione al tessellato nel III secolo a.C. è documentata in varie regioni nel mondo ellenistico, i tipi più comuni di pavimenti in tutto il Mediterraneo erano costituiti da quelli di cementizi: particolarmente diffusi erano cementizi che si definiscono a base fittile; il loro pregio principale consisteva nel l'impermeabilità e nella particolare compattezza e resistenza al deterioramento. La datazione è resa possibile dall'analisi delle associazioni dei pavimenti con i resti di strutture murarie e con quelli dei rivestimenti parietali adornanti gli stessi ambienti e parte di un sistema decorativo unitario. Su suolo italico i pavimenti cementizi si diffondono dalla fine del IV secolo a.C. fino al principio del I secolo d.C. circa, con qualche attardamento. In un momento più evoluto questo tipo di pavimento utilizza talvolta inserti di scaglie di marmi o di pietre policrome di origine locale. Con il termine di ​emblemata si definiscono i pannelli eseguiti in officina, allettati su una lastra di travertino o di terracotta e poi inseriti al centro di pavimenti in tessellato o cementizio: spesso essi rappresentano la trasposizione nella tecnica musiva della pittura da cavalletto. Un cospicuo campionario di mosaici figurativi affiancato a una decorazione parietale in stile strutturale, è testimoniato a Pompei dalla Casa del Fauno​: è raffrontabile ai grandi complessi palaziali dell'Oriente ellenistico, i mosaici mostrano soggetti conformi alla funzione degli ambienti; dalle stanze affacciate sull'atrio provengono ​emblemata in ​vermiculatum con l'unione erotica (​symplegma​) di un satiro e una menade; le sale da pranzo presentano temi bacchici connessi al vino e nature morte o raffigurazioni relative al cibo; i due triclini sono ricoperti da ​emblemata con Bacco fanciullo in groppa una tigre che beve vino da un cantaro e con una fauna marina con pesci e al centro la lotta tra un polpo e un'aragosta; il tablino della dimora è decorato in scutulatum​, pavimento ottenuto dalla giustapposizione di rombi di travertino, ardesia e calcare verde, a creare il motivo dei cubi prospettici. Nell'ambiente più prestigioso della casa troviamo una battaglia di Alessandro Magno sul re persiano Dario III, con figure a grandezza naturale: esteso per 20mq, composto di milioni di tessere circondato da una fascia di tessellato bianco. Non è da escludere che il proprietario avesse inteso impressionare con il fasto dell'apparato decorativo sottolineando il proprio rango. Un celebre mosaico che documenta l'ingresso in ambiente italico delle immagini nilotiche proviene da un'aula absidata del foro di ​Praeneste​, una sorta di grande carta prospettica dell'Egitto e della fauna locale al momento dell'inondazione del Nilo. In un triclinio della ​domus della Soglia Nilotica​, in posizione decentrata all'interno di un tappeto di tessere bianche si dispone un emblemata in ​opus vermiculatum con il ratto di Ganimede a opera dell'aquila. Nella tarda età repubblicana, gli ambienti di rappresentanza delle residenze vedono l'uso anche di pavimenti (o rivestimenti parietali pregiati) in ​opus sectile​, o ​sectilia ​pavimenta​, costituiti da lastrine di marmi di colore diverso ritagliate e utilizzate in composizioni geometriche. I più antichi pavimenti in tessellato risalgono al II secolo a.C. e sono ornati di motivi punteggiati o lineari, desunti dal repertorio dei cementizi, oppure di scaglie di pietre colorate e marmi, proprie dello ​scutulatum​; con queste due tecniche coesiste il tessellato. In linea con la ricerca illusionistica delle decorazioni parietali si mira a ottenere effetti di chiaroscuro di prospettiva, evidente eco delle conquiste della pittura greca: si tratta di elementi documentati in varie case pompeiane nonché in dimore e ville romane. Altri ornati pavimentali a effetto plastico prevedono il cassettonato prospettico, impiegato come decorazione di soglie di pavimenti o come composizione unitaria. Un importante complesso di mosaici tardorepubblicani è stato rinvenuto nella Villa dei ​Volusii Saturnini a una trentina di chilometri 76 da Roma, pavimenti della fase originaria degli anni 60-50 a.C. sono spesso caratterizzati da effetti policromi tridimensionali. Tra il 10 a.C. e il 20 d.C. accanto ai mosaici più antichi sono testimoniati altri mosaici bianco-neri, espressione del nuovo gusto e dell'arricchito repertorio ornamentale. Ben presto la decorazione in bianco-nero prende il sopravvento per ragioni che agiscono in maniera complementare: motivi di ordine economico e richieste di maestranze meno qualificate. I mosaici in bianco-nero si diffondono in concomitanza con gli inizi del II stile pittorico per predominare fino alla seconda metà del II secolo d.C. nella decorazione dei pavimenti della quasi totalità degli ambienti. In tale lasso di tempo si succedono stili e gusti diversi, la cui cronologia si fonda su alcuni monumenti e contesti di sicura datazione. Appaiono frequenti i riquadri centrali e le ampie fasce che ornano le soglie delle stanze a mo' di tappeti che nei cubiculi simulano gli scendiletto. Il successo del bianco-nero risulta particolarmente fecondo in quanto genera un'incredibile varietà di combinazioni a partire da un numero limitato di elementi di base che offrono effetti visivi del tutto diversi. Un nuovo gusto è documentato dagli ultimi decenni del I secolo a.C. e per tutto il I secolo d.C., associandosi alle decorazioni parietali della fase finale del II, del III e del IV stile: combinazioni di un solo elemento moltiplicato a tappeto. Verso la fine del I secolo d.C. i mosaicisti abbandonano la sobrietà distintiva delle fasi anteriori e tendono ad affollare di ornamentazioni e riempitivi i campi decorati, ora esteso spesso a tutta la superficie del pavimento. Il fondo bianco del mosaico è di gran lunga prevalente nel disegno ornamentale eseguito in tessere nere; poco frequenti sono gli ornamenti campiti in nero, mentre rari sono quelli delineati in bianco su fondo nero. Una tappa fondamentale nell'evoluzione del mosaico in Italia è attribuita al periodo adrianeo (120-130 d.C.) quando fa la sua comparsa un nuovo stile, detto "fiorito", che, persistente sono all'età di Antonino Pio, si esprime con un repertorio ornamentale fondato sulle linee movimentate e curve e su ornati vegetali stilizzati e arabeschi. Le zone destinate ad accogliere i letti presentano mosaici con fini motivi geometrici che si rifanno a un repertorio più antico, il centro dell'ambiente è occupato da motivi rettilinei e arabescati disposti a creare nitide composizioni simili a delicati ricami a larghe maglie. La tecnica del bianco-nero predomina nel II secolo d.C. a Ostia; le testimonianze più significative solo in concomitanza con il periodo di massimo sviluppo edilizio della città e concernono edifici pubblici, case, botteghe e necropoli spesso decorate con composizioni ricche e complesse. I temi raffigurati nelle composizioni sono ispirati per lo più alla funzione dei vani; inizialmente i motivi marini rappresentano il tentativo di tradurre ella schematizzata visione bianco-nera l'effetto plastici e pittorico del repertorio ellenistico. Due grandi saloni delle ​Terme di Nettuno a Ostia contengono grandiose raffigurazioni dei trionfi marini di Nettuno e di Anfitrite: senza alcun effetto di profondità e con la definizione dei dettagli interno dell'anatomia e dei particolari delle singole figure; salvo il gruppo centrale l'orientamento delle varie figure riflette il cambiamento di posizione dell'osservatore all'interno dell'ambiente. La tecnica bianco-nera indice ad abolire gli sfondi paesistici e pittorici del mosaico policromo di tradizione ellenistica e ad adottare il fondo neutro bianco anche per le scene mitologiche, di palestra e di caccia. I pavimenti musivi un contesti funerari possono prevedere soggetti che si prestano anche a una lettura simbolica facilmente decifrabile. I pavimenti dell'epoca dei Severi segnano un mutamento di gusto e stile nel panorama del mosaico: appaiono prediletti i fondi neri, ma sono ampiamente diffusi anche gli ornati campiti in nero su fondo bianco, e si afferma il gusto per i contorni curvi, sinuosi e movimentati, mentre nelle pitture parietali è in auge lo stile lineare rosso e verde. Fra i motivi geometrici in bianco-nero predominano pelte, squame, bipenni, mentre si dà vita ad altri come dischi, sinusoidi, doppie asce, sagome di vasi, elementi polilobati, che riempiono il campo con pesanti macchie nere sul fondo bianco. Gli schemi decorativi già in 77 essere decisive per la definizione dell'ambiente sociale di sepolti. ​Momentum e ​sepulchrum​. L'epigrafia funeraria ricorre principalmente a questi due termini per indicare il singolo monumento funerario, altre nozioni possono però connotare l'edificio funerario in sé o l'articolazione interna. non si poteva seppellire i cadaveri all'interno del pomerio, simbolico confina di natura sacrale giuridica, ma la prescrizione non sempre fu rispettata; furono previste eccezioni ​virtutis causa già per diversi repubblicani. Determinate norme regolavano tutti gli aspetti inerenti la cura dei defunti. Inestricabileresta la questione dei motivi che portarono a preferire un rituale funerario a un altro a seconda dei periodi. All'epoca repubblicana si poteva ancora scegliere tra inumazione, cremazione e imbalsamazione; dal II secolo a.C. fu molto diffusa la cremazione, mentre all'inizio del II secolo d.C. si affermò il rito dell'inumazione, pur se con parecchie eccezioni in ambedue i casi. A Roma, nel corso del VIII secolo a.C. iniziò a essere utilizzata come necropoli una vasta area nel quadrante est della città dotata di grandi polmoni verdi e un santuario dedicato a Venere Libitina, la dea che presiede ai funerali. Una porzione di suolo pubblico fu adibita alla cremazione e al seppellimento di poveri e condannati a morte: i ​puticuli​, pozzetti comuni, probabilmente in cilindri di terracotta chiusi da coperchi. Non vi mancarono però fino da età mediorepubblicana importanti sepolcri individuali di ben altro livello. In età augustea l'area fu in parte occupata dagli ​horti di Mecenate: vi sorsero il sepolcro di Mecenate e la tomba di Orazio. L'esistenza di una zona adibita a necropoli cittadina non escluse di per sé altre scelte. Alcune delle più ricche ​gentes preferirono farsi seppellire in monumenti eretti in aree di loro proprietà, spesso nei pressi di templi. Al I miglio della via Appia, subito fuori porta Capena, venne alla luce nel 1781 un mausoleo funerario ipogeo scavato in un banco di cappellaccio. La tomba si apriva con una facciata monumentale (risalente però una fase di ampliamento del II secolo a.C.) su alto podio in blocchi di tufo: ne sono state proposte ricostruzioni; secondo le fonti antiche si diceva che le statue di Cornelio Scipione africano, del fratello Cornelio Scipione Asiatico e del poeta epico e tragediografo Q. Ennio ornassero il sepolcro; il podio era dipinto; il livello più antico sembra avere presentato un motivo a onde correnti di derivazione ellenistica; gli altri strati offrono frammenti di scene di combattimento di trionfo con figure impostate su alto zoccolo rosso. Il complesso, utilizzato tra la prima metà del III secolo a.C. e il 130 a.C., mostra una proiezione sia verso l'interno, con sarcofagi e ritratti in tufo dell'Aniene, sia verso l'esterno, con la celebrazione delle ​res geste dei suoi membri più insigni. Nel clima burrascoso della tarda Repubblica fino alla prima età imperiale la fortissima concorrenza tra i membri dell'​élite politica determinò l'erezione di monumenti funerari sempre più appariscenti per grandezza e originalità tipologica. Spesso rilievi con ritratti per lo più limitati al busto decoravano tombe piuttosto uniformi che, appena distinguibili grazie a minime variazioni nelle singole scelte decorative, si allineavano sulle principali vie di transito in entrata e in uscita dalla città, attestate sia a Roma sia nelle colonie e nei municipi. La produzione dei rilievi, definiti a cassetta, si inquadra tra la fine del II secolo a.C. e l'età augustea, con qualche sporadico epigono. I pochissimi esemplari rinvenuti ancora ​in situ (​sepolcro dei ​Rabirii​) ne suggeriscono una collocazione in facciata. Questi ripetevano volti, gesti e attributi di individui di famiglie di ​ingenui di non elevato lignaggio e di liberti, desiderose di ascesa sociale e prestigio. Gli uomini si presentano di norma con la toga sopra la tunica; le loro spose indossano tunica, ​stola e ​palla​; i figli sfoggiano spesso la bulla​, un grosso ciondolo circolare indossato al collo contenente amuleti, esclusivo dei cittadini nati liberi. Sono effigiati nuclei familiari piuttosto ristretti. Nell 1975 circa, Paul Zanker ha inteso i busti come effigi dei defunti affacciati su strade trafficate come se guardassero dalle finestre dei piani nobili delle loro ​domus eternae​. La tipologia del mezzo-busto funerario in varie fogge è però comune all'area etrusco-italica sin da età 80 arcaica e specie in epoca ellenistica. Nel momento in cui si misero di produrre i rilievi a cassetta, le officine si specializzarono nella fabbricazione su grande scala di are funerarie. Non abbiamo che dati esigui sulla posizione originaria: solo pochi sono stati rinvenuti ​in situ​; l'assenza costante di decorazioni sul retro può implicare la possibilità della collocazione contro parete. Le are erano acquistate di norma ad un congiunto e non prevedevano il reimpiego da parte di generazioni successive. La produzione raggiunse l'apice tra l'età flavia e quella protoadrianea, per poi declinare: tra i secoli III e IV d.C. sono state conteggiate solo 19 are. Il repertorio delle immagini contiene rare raffigurazioni di divinità singole e pressocché assenti episodi del mito; bacini iconografici privilegiati sono la sfera rituale o raffigurazioni riguardanti defunti in prima persona. Sui lati anteriori abbondano bucrani, teste di ariete, ghirlande; sui fianchi sono frequenti una brocca monoansata a sinistra (​urceus​) e una patera a destra; traduzione litica di libagioni e offerte compiute in occasione di ricorrenze festive; le effigi dei defunti occupano il piccolo triangolo del frontoncino o il centro della fronte; compaiono poi riferimenti alla loro professioni. Sono rare le scene dove è lasciato più spazio alle emozioni e al contatto fisico tra i membri della famiglia. Talora alcuni cognomina parlanti possono essere ripresi ed enfatizzati dalla decorazione. L'uso delle are coinvolgeva un po' tutti, compresi i senatori e i cavalieri. Fabbricate in ambito urbano specie dall'età tiberiana-claudia e con maggiore intensità verso l'ultimo terzo del I secolo d.C. per poi declinare dal 120-150 d.C. in poi, le urne di marmo presentano forma rettangolare o cilindrica. Le iscrizioni disponibili testimoniano una presenza forte di liberti. A partire dalla metà del I secolo a.C. si diffuse per qualche generazione a Roma e in alcuni centri campani l'uso di sepolture collettive per membri di collegi o di associazioni professionali: sono i columbaria​, complessi semi- o interamente ipogei, alle cui pareti erano serie multiple di filari di nicchie, sovrapposte le une alle altre, destinate a contenere le urne o le olle con le ceneri; solo l'indicazione del nome, dipinto entro il cartiglio, ne permetteva un minimo di riconoscibilità. Dall'età tardoflavia si segnalano in ambito urbano statue a figura intera con una scelta a prima vista sorprendente e per lo più legata a liberti, come rivelano le epigrafi disponibili: uomini e donne presero a farsi raffigurare nudi riprendendo In modo esplicito schemi e attributi di divinità ed eroi. I modelli prescelti furono: per le donne soprattutto Venere, Cerere, Diana, Fortuna, Igea, Minerva e Spes; per gli uomini Ercole, Esculapio, Mercurio, o, più di rado, Bacco, Attis o Ganimede. Sui corpi giovanili e atemporali era poi applicato un ritratto. La nudità delle matrone era riservata al ristretto nugolo di congiunti cui era consentito l'accesso al sepolcro. I complessi funerari potevano contenere più statue dello stesso defunto. Assimilati alle dee, i corpi rifulgevano di una bellezza atemporale e irraggiungibile. La moda dei tempietti funerari, nella tipologia di prostili su alto podio, esplose a partire dall'età traianea, in Italia e in Occidente. La soluzione fu amata nel II secolo d.C. e nei decenni iniziali del III secolo d.C. specie nel suburbio di Roma: di traffico o all'interno di ville. La scelta tipologica dovete rafforzare l'aura sacrale degli edifici, spesso dotati di un recinto coltivato a giardino. All'inizio del II secolo d.C., da una tomba familiare a tempietto al V miglio di via Labicana, dalla pianta quadrangolare in origine parzialmente scavata nel tufo, proviene una serie di celebri rilievi, tra cui uno con la raffigurazione di un edificio funerario. Su alto podio, accessibile con scalinata assiale, la tomba è a tempio prostilo con colonne ricoperte di tralci di vite e con tetto displuviato, fastigio e acroteri; davanti compare un'ara figurata con eroti e coperta da un baldacchino. La parete laterale dell'edificio è adorna di busti-ritratto entro corone vegetali dei giovani membri della famiglia e di tanti altri rilievi. La defunta, già presente a mezzo busto e con il capo velato nel timpano, ritorna in alto a figura intera su un letto funebre, con drappi appesi sullo sfondo, ai cui piedi dei bambini giocano, e di nuovo nuda sotto forma di Venere entro un'edicola a destra; sulla sinistra si trova un 81 candelabro. Al margine sinistro un elevatore a ruota è azionato da piccoli operai,un rimando all'attività del presunto proprietario della tomba, ​redemptor​, imprenditore di opere pubbliche. L'abbondante decorazione della tomba a tempietto sul ​rilievo degli ​Haterii è senza confronti nella documentazione archeologica. Risulta molto ben studiata la necropoli di Porto all'Isola Sacra, in uso tra la fine del I e il IV secolo d.C.: i primi edifici si datano al momento della fase del passaggio tra il rito della cremazione e l'inumazione. Le iscrizioni testimoniano come tutte le tombe monumentali di Porto fossero ​sepulchra familiaria​, destinati al fondatore, ai membri della famiglia e spesso pure ai loro liberti. I sepolcri si allineano gli uni agli altri. La necropoli fu soprattutto utilizzata da ceti medi; piccole lastre in cotto inserite in facciata rendono conto dei mestieri praticati in vita. Una volta tramontato il clima di acceso antagonismo della tarda Repubblica, si sarebbero imposti edifici chiusi ed esteticamente uniforni, con facciate in laterizio (non più in travertino o marmo) allineate le une alle altre. Studi più recenti hanno ben chiarito come il processo non abbia seguito uno sviluppo lineare per tempi e persone. In Italia e in particolare nell'area suburbana di Roma resta indubbia la tendenza alla scomparsa dei monumenti esternamente più stravaganti della tarda Repubblica e della prima età imperiale, mentre la colorazione interna si fa sempre più sontuosa. La più grande delle tombe familiari nella necropoli vaticana costruita dal ricco ​C. Valerius Herma​, il sepolcro fu eretto subito dopo la metà del II secolo d.C.: un terrazzo superiore garantiva lo svolgimento di riti e banchetti funebri; la presenza delle nicchie per olle nelle pareti del recinto d'ingresso in quella di accesso testimonia la coesistenza dei diversi rituali di sepoltura, la cremazione fu dunque per i membri meno importanti della familia​; le pareti della camera imitano la struttura delle scene teatrali; nelle nicchie principali sul muro di fondo sono raffigurate in stucco statue di divinità e due filosofi barbati vestiti alla greca; le effigi dei Valeri si ritrovano nei ritratti in marmo e in stucco nonché nelle maschere funerarie in gesso; la fascia inferiore delle pareti è occupata da acrosoli, al cui interno erano deposti i sarcofagi dei membri più eminenti della famiglia. La progressiva sostituzione della cremazione con l'inumazione incentivò dall'età traianea-adrianea la fabbricazione su grande scala di sarcofagi litici. Già alla prima età imperiale risalgono i primi esperimenti, perlopiù urbani e privi di affinità tipologiche con coeve produzioni in Grecia e in Asia Minore. I non moltissimi esemplari a cassa liscia con angoli interni brevi stondati presentano un'incorniciatura semplice modanata sui quattro lati: le pareti esterne potevano essere animate da un ornamento pittorico policromo, presentare al centro una ​tabula ansata oppure una decorazione a ghirlande. Alcuni sarcofagi sono decorati con motivi quali festoni vegetali di fiori e frutta sostenuti da bucrani che attingono ad altri consolidati e repertori, adattati allo spazio rettilineo delle casse. La documentazione epigrafica a disposizione non consente di recuperare identità e stato sociale dei primi acquirenti delle casse: la scelta del marmo ne indica comunque la capacità di affrontare una considerevole spesa. Dal principato di Tiberio per tutto il I secolo d.C. furono prodotti in serie anche sarcofagi fittili, con un bollo spesso impresso, che implicavano un costo senz'altro più contenuto. Dall'inizio del II secolo d.C. tende a prevalere la forma a basso parallelepipedo, la cui base è molto allungata rispetto all'altezza: le immagini sono caratterizzate da figure distribuite sulla superficie in modo chiaro e separate da spazi. Lo spazio a disposizione per la decorazione tenderà a essere interamente occupato, alla figura si disporranno su più piani sovrapposti in intricati rapporti reciproci. Durante il III secolo d.C. agli esemplari rettangolari sia affiancò un nuovo tipo di cassa: la ​lenós​, la cui fortuna deriva dalla similitudine alle tinozze per il vino. Anche le tipologie di coperchi potevano variare: a tetto a spiovente, con uno o più personaggi distesi su ​klínai​, a semplice fregio continuo chiuso da mascheroni agli angoli e a copertura piana e alzata decorata. La scelta della decorazione della casa non 82
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