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Arte. Una storia naturale e civile, Volume 3, Settis Montanari, Appunti di Storia dell'Arte Moderna

Riassunto dettagliato di tutti i capitoli di Arte. Una storia naturale e civile volume 3, di Settis e Montanari, con anche le immagini delle opere principali. Impaginazione perfetta per la stampa, se servisse. Disponibili anche il volume 4 e 5. Voto esame 30L

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 21/09/2023

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Scarica Arte. Una storia naturale e civile, Volume 3, Settis Montanari e più Appunti in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! 1 IL GOTICO INTERNAZIONALE LINEAMENTI STORICI Nel corso del 400 ci sono eventi epocali che portano alla nascita di Stati Nazionali che esistono ancora oggi. Uno dei grandi conflitti fu la Guerra dei cent’anni (1337-1453) che vide opporsi Francia e Inghilterra per ragioni dinastiche: ne esce vittoriosa la Francia e si avvia all’unificazione, il simbolo della loro vittoria è Giovanna d’Arco. Questione dinastica anche per la Guerra delle due Rose in Inghilterra (tra i Lancaster e gli York dal 1455 al 1485). Anche la Spagna va verso lo Stato Nazionale. Nel 1492 Cristoforo Colombo scopriva per i sovrani spagnoli il Nuovo Mondo. Nel 1453 i Turchi avevano conquistato Costantinopoli mettendo fine all’Impero Romano d’Oriente e minava il Sacro Romano impero. Gutenberg inventa la stampa a caratteri mobili, destinata a cambiare la società come le armi da fuoco. A inizio ‘400 l’Italia era divisa, a nord dominava la Repubblica di Venezia e il Ducato di Milano; lo Stato della Chiesa torna ad essere una salda presenza, al sud nel Regno di Napoli prevale la casa d’Aragona. Il 400 è il secolo dell’Umanesimo e del Rinascimento: a partire dalla seconda metà del ‘300 si diffuse in Europa un linguaggio aristocratico e prezioso, che si afferma per il ‘400. Per definirlo si usa il termine Gotico internazionale, che allude alla matrice gotica e alla sua propagazione per i viaggi degli artisti. Si parla di gotico fiorito per la raffinatezza decorativa, soprattutto per il mondo vegetale, e di Gotico cortese, per la diffusione dello stile in ambito aristocratico che ne decretò il successo. Lo stile delle corti europee FRATELLI DE LIMBOURG “LUGLIO”, 1413-16, DA “LES TRES RICHES HEURES DU DUC DE BERRY”, MIMIATURA, CHANTILLY FRANCIA Il Gotico internazionale è un’arte di corte, che tocca tutta l’Europa a fine ‘300/inizi ‘400 e si sviluppa in Francia. “Le ore” del Duca di Berry (berrì) è il manoscritto miniato più celebre del ‘400, che si contraddistingue per la sua eleganza e la sua attenzione al dato naturale, senza però il carattere prospettico che è invece tipico della cultura rinascimentale. Le immagini più significative sono quelle dei 12 fogli di apertura con le allegorie dei mesi dell’anno, solo che questi non richiamano al lavoro ma agli ozi di una cerchia ristretta di gaudenti. (aprile= mese fidanzamento, luglio= mese lavoro dei contadini). Il linguaggio delle miniature rappresenta lo stile cortese, ovvero i gusti raffinati del signore e della corte. In questa miniatura inizia a vedersi il cielo atmosferico (dal ‘400 in poi, prima c’era il blu/azzurro come sfondo prezioso, come negli affreschi di Giotto, al pari dell’oro): si vedono infatti delle nuvolette. CA’ D’ORO A VENEZIA: il gotico approda nelle architetture: archi acuti, spazi pieni e vuoti dall’effetto pizzo, gallerie su due piani, marmo originariamente impreziosito da colori e dorature. CLAUS SLUTER: primo grande maestro del gotico internazionale (1360-1406). Le sculture gotiche erano sempre policrome. 2 Gian Galeazzo Visconti e il ruolo della Lombardia Il Gotico internazionale si impose come linguaggio del Ducato di Milano, esteso anche su parti del Piemonte, Veneto ed Emilia grazie al suo signore Gian Galeazzo Visconti. Qui è ritratto in un disegno che oggi sta al Louvre di Gentile da Fabriano, grande maestro italiano del Gotico internazionale. La sua corte divenne un polo culturale di prim’ordine ed ebbe una sede prestigiosa nel castello di Pavia, antica capitale longobarda. Qua i Visconti patrocinarono una scuola di miniatura conosciuta pure Oltralpe dove si formò nel 1380 circa Michelino da Besozzo, miniatore e pittore. Muore il 3 settembre 1402, il cortigiano e frate agostiniano Pietro da Castelletto compose e recitò un sermone trascritto in diversi codici, uno dei quali fu miniato nel 1403 da Michelino, il quale come tanti altri pittori del Gotico usa una tecnica da orafo per impreziosire il dipinto: il rilievo con pastiglia dorata. Nel1387 Gian Galeazzo dà inizio alla fabbrica del Duomo: lui morirà nel 1402, ma il cantiere verrà proseguito. Voleva competere con le cattedrali d’Oltralpe e il cantiere, quanto mai cosmopolita, vide il coinvolgimento di consulenti e maestranze anche di Francia e Germania. LE CARTE DEI TAROCCHI: per soddisfare la corte, i pittori lombardi non decoravano solo libri, affreschi, pale, ma anche oggetti comuni come le carte da gioco e i tarocchi che si diffuse rapidamente come passatempo nelle corti d’Italia settentrionale. Gentile da Fabriano e Pisanello PISANELLO “MADONNA DELLA QUAGLIA” 1420 circa, 50x33 TEMPERA ED ORO SU TAVOLA, MUSEO DEL CASTELVECCHIO A VERONA Altro grande pittore del Gotico Internazionale in Italia: Pisanello (Antonio Pisano) è effettivamente originario di Pisa o, meglio, la sua famiglia è di Pisa, mentre lui è sostanzialmente un veneto e lavorerà per gran parte della sua vita a Verona e poi, come Gentile da Fabriano, girerà per tanti posti diversi. Si forma proprio con lui a Venezia, lavorando con lui ed imparando proprio lo stile del Gotico internazionale. Lo vediamo bene da questo dipinto che sta a Verona e già il suo nome ci dice qualcosa: infatti “madonna della quaglia” è proprio perché c’è la quaglia, la quale viene rappresentata con la madonna sempre in ragione della raffinatezza del Gotico internazionale. È come se i pittori di questa corrente ambientassero i loro episodi, le loro immagini in dei giardini ricchissimi di vegetazione ma anche di animali. Vi sono anche altri uccelli, degli angioletti, tanto oro (che arriva dalla cultura bizantina e permane nel Gotico), il naturalismo del volto e la grande eleganza dei panneggi (la posa curvata è tipica gotica). Quest’opera inoltre testimonia al meglio uno dei soggetti più cari del ‘400: la Madonna dell’Umiltà, che è una raffigurazione della Madonna seduta a terra (quindi umile). Questo soggetto fu inventato ad Avignone, non a caso, da Simone Martini del 1341 (qui a dx): resta soltanto la sinopia, ovvero il disegno fatto prima di iniziare a dipingere l’affresco con una matita rossa di colore sinopia o più scura (poi si dipinge sull’intonaco bagnato), che si può scoprire staccando l’affresco soprastante con delle tecniche specifiche tra la 2GM e gli anni ’70 andava di moda restaurare gli affreschi togliendone uno strato e poi riattaccandolo ed in quel modo sono stati riscoperti tantissime sinopie). 5 PISANELLO “SAN GIORGIO E LA PRINCIPESSA” 1438, 223x430 AFFRESCO, CHIESA DI SANTA ANASTASIA VERONA Pisanello poi tornerà in veneto e a Verona lascerà una delle sue opere più famose. Nel 1438 a Firenze era già stata terminata la Cupola del Brunelleschi, simbolo del primo Rinascimento fiorentino. Le caratteristiche della pittura di Pisanello vedono però architetture gotiche, come anche il tema: la storia di San Giorgio, il quale qui sta per salire a cavallo, accanto un bel levriero (cane tipico dei signori) con collare dorato, con armature ricchissime fatte con oro e pastiglia, come anche le bardature dei cavalli, saluta la principessa per dirigersi a sconfiggere il drago. Questo è un dipinto realizzato con minuzia impressionante, che però non si può apprezzare veramente perché sta in cima alla Cappella Pellegrini gotica della Chiesa di Santa Anastasia, sopra l’arco (Donatello, pur essendo scultore, non l’avrebbe mai fatto e avrebbe tenuto conto della distanza dall’occhio e non si sarebbe soffermato su queste minuzie: invece un pittore del Gotico internazionale dipinge i dettagli come nelle miniature anche per un affresco posto ad alcuni metri di altezza). “A giudizio degli intendenti, seppe eccellere su ogni altro nel dipingere cavalli ed ogni altro genere di animale” (Bartolomeo Facio): Pisanello, quindi, fu un esperto pittore di animali, come abbiamo visto nella Madonna della quaglia. Pisanello, come il suo maestro, va d moda in quel periodo e la dichiarazione di Bartolomeo Facio, che è alla corte di Napoli (quindi lontano da Firenze e Roma) scrive un libro negli anni ’50 sugli uomini illustri e include anche lui, insieme ad altri pittori illustri (non ricorda Masaccio per esempio, o Filippo Lippi, Beato Angelico. Sì, invece, anche Gentile da Fabriano, insieme a Jan van Eyck e Rogier Van der Weyden: due grandi esponenti della pittura fiamminga). Qui un bellissimo ritratto di un cavallo e del profilo della principessa, con acconciatura “alla moda” dell’epoca. L’ultima fase della sua carriera si svolge prima a Mantova dai Gonzaga e poi a Ferrara dagli Estensi e infine nella Napoli di Alfonso d’Aragona. In questi anni la sua fama era legata alla reputazione di ritrattista. PISANELLO “RITRATTO DI LEONELLO D’ESTE” 1441 circa, 28x19 TEMPERA SU TAVOLA, BERGAMO ACCADEMIA CARRARA Pisanello è anche un grande ritrattista e l’inventore del ritratto rinascimentale: il fatto di essere stato a Roma e aver potuto studiare monumenti antichi e di aver avuto contatti con corti di grande prestigio, fa sì che intorno al 1438/9 elabori un nuovo tipo di ritratto. Quelli sono anni importanti per l’Italia e l’Europa perché si tiene il concilio, prima a Ferrara e poi a Firenze, che cerca di riunire la chiesa bizantina (orientale) con quella occidentale (che ancora oggi sono divise) per ragioni esclusivamente politiche. Vediamo in basso al centro era l’imperatore di Bisanzio Giovanni VIII Paleologo (infatti la medaglia è scritta in greco): il suo stato, che per tutti gli europei di allora altro non rappresentava che la continuità dell’antica Roma (anche se i bizantini non stavano più a Roma da un millennio, stavano a Costantinopoli), era a rischio (ed infatti Costantinopoli sarà presa dai turchi nel1453) e venne in Italia in cerca di aiuto. Il concilio di fatto non ebbe esito. Quando Giovanni VIII Paleologo arrivò a Firenze, era seguito da una grande corte che fece molta impressione per come erano vestiti e acconciati. Pisanello lo ritrae all’antica, ovvero di profilo, su una medaglia: le monete hanno ovviamente due lati e qui abbiamo appunto una moneta, che si trasforma in medaglia, con sempre l’imperatore a cavallo dall’altro lato. La medaglia si impone dalla metà del 400 come oggetto privato del signore e forma di autorappresentazione. 6 A lui si deve la norma di dedicare il diritto della medaglia a un ritratto di profilo e il rovescio a un emblema o episodio narrativo. Da quel momento Pisanello diventa un bravissimo tornitore di medaglie e il più celebre ritrattista. Vediamo la medaglia che fece al signore di Ferrara Leonello D’Este, sempre di profilo, ed il suo ritratto anche in pittura. È un ritratto molto realistico ed ha alle spalle fiori: il ritratto di profilo andrà di gran moda in Italia, anche Piero della Francesca ne farà diversi, quantomeno fino ad Antonello da Messina e Leonardo da Vinci. Qui vediamo che in realtà Gotico e Rinascimento spesso si intrecciano: Piero della Francesca infatti ad esempio lo consideriamo rinascimentale (fa prospettiva), ma farà i ritratti alla maniera di Pisanello (non si passa ovviamente dall’essere gotici a rinascimentali in un sol colpo: c’è un momento di transizione). Jacopo della Quercia JACOPO DELLA QUERCIA “MONUMENTO FUNEBRE A ILARIA DEL CARRETTO” 1406-1408, 88x244x66 MARMO, CATTEDRALE SAN MARTINO DI LUCCA Bellissima scultura del Gotico internazionale di Jacopo della Quercia dedicata alla moglie del signore di Lucca, Paolo Guinigi, la quale morì di parto a 26 anni nel 1405 ed il marito la fece ritrarre per il suo sepolcro da questo scultore di origine senese, che lavorò per lui per il primo decennio del ‘400. Jacopo della Quercia può essere inserito nel Gotico internazionale, ma con qualche eccezione. Vasari divide la sua opera in tre momenti: il ‘300 corrisponde al Gotico, il ‘400 al primo Rinascimento e il ‘500 al Rinascimento maturo e al Manierismo e inizia il ‘400 parlando proprio di Jacopo della Quercia. “Fu il primo che operando nella scultura con maggior studio e diligenza, cominciasse a mostrare che si poteva appressare alla natura ed il primo che desse animo e speranza agli altri di poterla in un certo modo pareggiare” (l’idea di fare le cose come le aveva fatte la natura). Lei è estremamente gotica nel vestito e nelle pieghe, che ricordano Gentile da Fabriano, ma è posizionato su un sepolcro con geni alati/angioletti che “fanno il verso” all’antichità: quindi il ritratto di lei è davvero gotico, gli angioletti si rifanno ai temi antichi, l’idea del sepolcro intorno al quale si può girare (è una sorta di parallelepipedo) viene preferito al tradizionale sepolcro a parete tipico italiano ed il modello arriva addirittura dalla borgogna (quindi dalla Francia del Gotico internazionale, di cui vediamo uno dei più celebri esempi nella foto in bianco e nero). Jacopo della Quercia non era stato in Francia, ma aveva dei conoscenti, come mercanti, che ci andavano di continuo. JACOPO DELLA QUERCIA “LA FONTE GAIA” 1419, 160cm circa MARMO, PIAZZA DEL CAMPO SIENA Oggi, nel mezzo della piazza, vi è una grande fontana: è la copia dell’’800 dell’originale di Jacopo della Quercia (alcune figure che stavano nella fontana, oggi si trovano al Museo della Scala a Siena). In bianco e nero vediamo la Sapienza, a sx due figure che non ci sono oggi nel rifacimento e che stavano ai lati della fontana: rappresentano la madre e la nutrice di Romolo e Remo, che stanno in collo a loro (una leggenda narra che Siena sia stata fondata dai figli di Remo). Queste due sculture sono molto moderne soprattutto perché sono figure nude messe in una piazza pubblica, dove tutti le potevano vedere: questa attenzione per il nudo è estremamente precoce. Altro elemento moderno è la volumetria: non sono ancora come il David di Donatello, pensato per girargli intorno, ma comunque pensate per stare in uno spazio senza un tabernacolo, un po’ come le sculture dell’antica Roma. 7 “IL PECCATO ORIGINALE” 1425-1434, BASSORILIEVO SULLA PORTA MAGNA DELLA CHIESA DI SAN PETRONIO, PIAZZA MAGGIORE BOLOGNA Nel 1425 Jacopo della Quercia va a Bologna. La chiesa di san Petronio è una chiesa civica, di tutti (non è il Duomo) e a lui viene chiesto di decorarne il portale. Non lo finirà mai: morirà nel 1438. Sembra infatti un arco rinascimentale, perché c’è l’arco a tutto sesto, mentre lui avrebbe dovuto fare una sorta di grande cuspide gotica. Fra il ’25 e il ’28 riesce a fare la parte bassa: sugli stipiti del portale racconta la storia della genesi, con a destra il peccato originale (Adamo ed Eva, che sono nuovamente nudi). In questa raffigurazione vediamo dei corpi molto muscolosi: Michelangelo vedrà quest’opera a più di 20 anni (dopo essere andato via da Firenze, starà per un paio d’anni a Bologna). La differenza di quest’opera rispetto a Gentile da Fabriano e Pisanello sta nell’ambientazione, a maggior ragione per il fatto che la storia si svolge nel giardino dell’Eden (e quindi avrebbero riempito di fiori ed animali), mentre qui non vi è nemmeno lo sfondo (figure muscolose senza sfondo = Michelangelo): Si può dire quindi che Jacopo della Quercia sia un precedente per Michelangelo: l’Adamo specialmente anticipa le opere a tutto tondo di Michelangelo (il David è del 1501/1504). 3 Donatello e Brunelleschi DONATELLO “CROCIFISSO” 1408 circa, LEGNO POLICROMO h168, SANTA CROCE FIRENZE FILIPPO BRUNELLESCHI “CROCIFISSO” 1410-15 circa, LEGNO POLICROMO h170, SANTA MARIA NOVELLA FIRENZE Brunelleschi a dx, Donatello “Crocifisso” in Santa Croce (ordine dei Francescani, mentre Santa Maria Novella domenicani) a Firenze (1408) a sx. Questo è sicuramente un crocifisso rinascimentale, straordinario, sia perché è nudo ma soprattutto c’è uno studio del nudo, delle anatomie e delle volumetrie: fino a Michelangelo, nessuno saprà fare una cosa come questa. Vasari, a proposito di quest’opera e di quello di Donatello, racconta un aneddoto: i due erano molto amici (Donatello più giovane) e Donatello realizza questo crocifisso, chiamando l’amico per un giudizio. Brunelleschi si esprime negativamente, dicendo che era come se avesse messo in croce un contadino, volendo dire che Donatello aveva caratterizzato troppo con l’espressività, che fa quasi sentire il dolore, mentre quello del Brunelleschi è estremamente elegante: questo sarà un aspetto che dividerà sempre i due, nonostante la grande amicizia. Donatello lavorava nella bottega di Ghiberti (aveva collaborato anche per la Porta nord). Donatello si arrabbia e lo invita a farne uno lui migliore, se gli riusciva. In confronto alla Porta nord, riprende molti dettagli (pieghe panneggi molto gotiche). Alla fine del primo decennio del ‘400 molto probabilmente i due hanno fatto un viaggio a Roma, riscoprendo la scultura e le tecniche murali dell’antica Roma, insieme alle caratteristiche architettoniche dell’antica Roma. In questo modo uno diventa il grande architetto rinascimentale, mentre l’altro un grande scultore del Rinascimento: tutto questo ovviamente avviene lentamente. Dalla biografia di Brunelleschi scritta dall’allievo Antonio Manetti si dice che dopo la sconfitta del concorso andò a Roma e con lui anche Donatello, per studiare le antichità e le architetture. Dietro questa scelta non ovvia c’è la convinzione che Firenze dovesse guardare al glorioso passato di Roma, grazie a loro la scultura divenne la più avanzata delle arti e la guida per le altre. DONATELLO “SAN GIORGIO” 1417 circa, MARMO h209, MUSEO DEL BARGELLO Viene realizzata per la Chiesa di Orsanmichele (uno degli edifici più famosi di Firenze, vicino appunto al Museo del Bargello), detta anche Chiesa delle Arti, ovvero delle corporazioni fiorentine e tutti a Firenze dovevano essere iscritti almeno ad una corporazione (perché, ad esempio, altrimenti non si poteva far parte del governo repubblicano). Nei primi decenni del ‘400 le Arti facevano a gara per decorare l’esterno dell’edificio, ponendo nei tabernacoli il proprio santo patrono. Donatello raffigura San Giorgio all’interno del tabernacolo dei corazzai (patrono di coloro che facevano le corazze, le armature, perché era stato un guerriero) ed infatti lo vediamo con uno scudo, quasi a fare propaganda della corporazione di cui san Giorgio era il patrono. Questa figura fa quasi l’effetto di una figura romana, ma il tabernacolo è decisamente gotico (aveva disegnato lui anche quello). 4 LORENZO GHIBERTI “SAN GIOVANNI BATTISTA” 1416 Circa, BRONZO, MUSEO DI ORSANMICHELE Negli stessi anni, Lorenzo Ghiberti lavora per le Arti di Calimala (molto più ricchi e potenti rispetto ai Corazzai) che avevano per patrono Giovanni Battista (Battista=battistero appunto). Richiedono per la Chiesa di Orsanmichele questa scultura in bronzo di san Giovanni Battista. Questa figura è tutta improntata su una linea arcuata del panneggio, come le figure di Gentile da Fabriano, e barba dettagliata e lavorata: è quindi una scultura gotica. Quindi nella stessa chiesa, nello stesso periodo, convivono tendenze e stili diversi. L’invenzione della prospettiva e l’architettura di Brunelleschi FILIPPO BRUNELLESCHI “CUPOLA DEL DUOMO” 1436 Proprio in quegli anni Filippo Brunelleschi inizia a fare il progetto per la cupola del Duomo di Firenze, che è la grande impresa che rappresenta la novità, la grande capacità di andare oltre l’arte trecentesca (guardando anche all’antica Roma), nell’ambiente artistico fiorentino del primo ‘400. “Structura sì grande, erta sopra e’ cieli, ampla da coprire chon sua ombra tutti e’ popoli toscani, facta sanza alcuno ajuto di travamenti o di copia di legname, quale artificio certo, se io ben iudicho, come a questi tempi era incredibile potersi così forse presso gli antichi fu non saputo né conosciuto.” Leon Battista Alberti “Della pittura” (1436), dedica a Filippo Brunelleschi a proposito della cupola del Duomo di Firenze. Leon Battista Alberti era uno dei più grandi intellettuali del ‘400, i quali concretezza e pragmatismo dei suoi testi fanno impressione ancora oggi. Scrive un trattato sulla pittura sia in latino che in volgare e in quest’ultimo troviamo la dedica a Filippo Brunelleschi. Era di famiglia fiorentina, ma nato a Genova: la sua famiglia era stata allontanata da Firenze e lui ci ritorna negli anni ’30, al seguito del papa Eugenio IV (accolto in città da Cosimo dei medici e Cosimo il Vecchio) e farà carriera nella curia. Rimane stupito da Firenze e perciò scrive questo trattato. Lui loda la Cupola del Brunelleschi perché è riuscito a chiudere una cupola che non si sapeva terminare (mancavano le capacità tecniche per farla così grande in quella parte del Duomo). Brunelleschi escogita delle nuove tecniche: l’alleggerisce facendola su due calotte (una interna ed una esterna), la rende più robusta utilizzando i mattoni messi a spina di pesce (come si usava nelle architetture romane) e soprattutto “l’aveva tirata su” senza centine (quando si deve fare un arco, si mette un’armatura di legno dove vengono poi disposti i mattoni), costruendola dal basso verso l’alto. È una soluzione architettonica ed ingegneristica straordinaria e innovativa: ancora oggi è la più grande cupola di mattoni al mondo. È comunque una cupola che è ancora gotica, va molto verso l’alto: il grande modello della cupola antica esiste ancora oggi a Roma, ovvero il Pantheon con cupola semisferica. Infatti, Leon Battista Alberti, quando dovrà fare una cupola, la vorrà fare come questa (per Brunelleschi non c’erano le possibilità tecniche). DONATELLO “SAN LUDOVICO DI TOLOSA” 1425, BRONZO DORATO h226, MUSEO DI SANTA CROCE Vediamo anche quando nella scultura si inizia ad usare l’arco a tutto sesto: non c’è una data precisa, ma intorno al 1425 Donatello termina la più importante delle nicchie dell’Orsanmichele, la cosiddetta “Nicchia di Parte Guelfa”, ed ha in alto un timpano all’antica e soprattutto un arco a tutto sesto con delle colonne. La differenza con il tabernacolo del San Giorgio è enorme. Donatello comincia a lavorare in bronzo e a sperimentare l’effetto della luce (molto moderno, quasi da Rodin). I panneggi sono proprio pensati in relazione alla luce e a rendere con essa l’effetto di movimento, per dare l’effetto di un’immagine viva e naturale. Oggi in quella nicchia troviamo “L’incredulità di San Tommaso” di Verrocchio. 5 LA PROSPETTIVA In questi anni Brunelleschi inventa la prospettiva: un mezzo scientifico per rendere su una superficie bidimensionale uno spazio tridimensionale. Per spiegarla ai fiorentini dell’epoca non è semplice, sembrava quasi l’illusionismo di un mago (Vasari scrive, dopo 150 anni, che gli scorci sono qualcosa di difficile per le persone ignoranti, non tutti le possono comprendere): lui inventa quindi un escamotage e ce lo racconta il suo biografo Antonio Manetti. Dipinge su due tavolette due vedute di Firenze, una di piazza della Signoria e l’altra del Battistero visto dalla porta del Duomo, il tutto in prospettiva con il punto di fuga al centro: fora la tavoletta al centro e, mettendo uno specchio davanti, si può vedere nell’immagine riflessa esattamente l’immagine reale, come se fosse una fotografia. Lui comunque continuerà a fare l’architetto, ma la prospettiva inizia ad essere conosciuta dai suoi amici, primo fra tutti Donatello, per poi diventare un mezzo caro ai maggiori pittori del ‘400. Infatti, quando Leon Battista Alberti scriverà il suo trattato nel ’36, avrà già in mente una pittura prospettica, tridimensionale. Vediamo la predella del tabernacolo del San Giorgio di Donatello, la quale è già prospettica, anche se non troppo: qui vediamo la storia di san Giorgio e il drago. L’abbiamo vista anche con Pisanello, il quale fa vedere san Giorgio quando sta per salire a cavallo, mentre Donatello nel marmo scolpisce San Giorgio mentre sta per sconfiggere il drago. Vediamo la prospettiva perché dietro la principessa a dx vediamo un’arcata e gli archi cambiano di dimensione a seconda della distanza dal nostro occhio, così come l’antro da cui esce il drago va verso un punto di fuga centrale. Donatello fin dall’inizio riesce ad ottenere la prospettiva utilizzando un rilievo bassissimo, che dà il senso più di un disegno che di un rilievo, e che viene chiamato alla toscana “stiacciato”. Questa è una caratteristica sua tipica. OSPEDALE DEGLI INNOCENTI, PIAZZA SANTISSIMA ANNUNZIATA FIRENZE La prospettiva del Brunelleschi la vediamo nella sua architettura, che è appunto prospettica. Inizia a realizzare l’Ospedale degli Innocenti nei primi anni ’20 partendo dal portico, prima sua grande architettura rinascimentale prospettica. Posizionandosi al centro del porticato (immagine a dx) ci dà l’idea di una fuga prospettica, anche perché adotta un’architettura estremamente proporzionale. Le novità della sua architettura, che rimarranno per tutti i suoi lavori, sono l’arco a tutto sesto (non più l’arco acuto gotico) che riprende dai monumenti romani, le colonne e le lesene (gli elementi appoggiati alla parete sopra alle colonne) sempre dell’architettura romana, anche se qui non sono ancora scalanate (le chiese gotiche sono costruite su pilastri). Brunelleschi rilegge l’architettura antica alla maniera fiorentina, con spirito repubblicano: il Pantheon dà senso di grandiosità e di ricchezza fastosa, mentre qui troviamo austerità. Ciò è dato dalla scelta del materiale: non utilizza marmo, ma pietra serena (pietra tenera toscana grigia) e un colore neutro per l’intonaco delle pareti (una specie di bianco sporco). Altro elemento fondamentale è la proporzione: qui la larghezza delle campate è uguale all’altezza ed anche alla distanza dal muro, sono quindi spaz i proporzionati ed è per questo che danno il senso della fuga prospettica. Immagine in basso a dx: chiesa di San Lorenzo, la chiesa dei Medici che sta ad un passo da Palazzo Medici, a cui Brunelleschi lavorerà subito dopo la facciata dell’Ospedale degli Innocenti (fine anni ’20). Qui rivediamo le sue innovazioni principali, come anche nella chiesa di santo Spirito. 8 MASACCIO E I SUOI Masolino e Masaccio MASACCIO “CACCIATA DEI PROGENITORI DALL’EDEN” 1425, AFFRESCO 214x88, CAPPELLA BRANCACCI DI SANTA MARIA DEL CARMINE FIRENZE Qui vediamo l’esatto contrario del Gotico Internazionale: Adamo ed Eva di Ghiberti, quando escono dal Paradiso terrestre, sono più eleganti che sconvolti, mentre quelli di Masaccio sono sconvolti davvero dal dolore, che sentiamo in tutto per tutto. Ciò è dato dall’espressività, qualità per cui anche Donatello era stato messo in croce e per questo dobbiamo considerare Masaccio come allievo di uno scultore, ovvero di Donatello (come scrive anche Vasari nella sua vita). Masaccio nasce a San Giovanni Val d’Arno nel 1401 e morirà a Roma giovanissimo (tra il 1428/29), quindi per le sue opere ci si riferisce solo entro agli anni ’20 del ‘400. Qui vediamo un tondo di Masaccio, che sta al museo di Berlino, che presenta lo stesso modo d riprodurre il porticato nell’Ospedale degli Innocenti o nel rilievo senese di Donatello. All’inizio della sua carriera lavora insieme ad un altro artista, Masolino (da Panicale): Masaccio non fu suo allievo, ma fu in compagnia sua, ovvero entrò nella sua bottega e si accordò con lui per una società (era una cosa molto comune fra gli artisti del tempo, perché in questo modo in due si riuscivano ad ottenere più commissioni). Masolino era un pittore gotico internazionale, che divenne però “masaccesco per condiscendenza” (stando con lui, cambiò stile. Questa frase è stata detta da Roberto Longhi, il più grande storico dell’arte di questi due personaggi). MASOLINO “MADONNA DELL’UMILTA’” 1423, TEMPERA SU TAVOLA 96x52, BREMA GERMANIA Viene realizzato nello stesso anno dell’ “Adorazione dei magi” di Gentile da Fabriano (a dx). La cuspide di questa Madonna devozionale, il fondo oro, il modo di costruire la figura: parla lo stesso linguaggio di Gentile da Fabriano e non è di certo rinascimentale. MASACCIO “SANT’ANNA METTERZA (MADONNA COL BAMBINO E SANT’ANNA)” 1424, TEMPERA SU TAVOLA 175x103, UFFIZI FI Era originariamente nella chiesa di Sant’Ambrogio di Firenze, per la quale fu eseguito. Di fatto viene realizzato dalla “ditta” Masolino/Masaccio: Masaccio la Madonna, il bambino e l’angioletto a dx, Masolino fa Sant’Anna (la figura in alto, madre di Maria) e tutto il resto. La figura della Madonna col bambino è sicuramente più rivoluzionaria: il bambino nudo sembra uscire verso di noi, si sente molto bene il senso di tridimensionalità, assolutamente opposto al dipinto di Masolino accanto. Masaccio ha appreso evidentemente le novità apportate da Brunelleschi da un lato e da Donatello dall’altro. Si chiama “metterza” perché Sant’Anna è messa dietro rispetto alle altre due figure. 9 La Cappella Brancacci MASOLINO E MASACCIO “CAPPELLA BRANCACCI”, 1424-1428 CHIESA DEL CARMINE FIRENZE Il capolavoro dei due è sicuramente questo, ma in epoca barocca è stata distrutta nella parte alta e poi rifatta, 8nonostrante la sua fama, ha avuto la meglio la moda). È stato posto al centro un dipinto del ‘300 al posto del loro affresco, anche perché la Cappella Brancacci cambiò funzione: inizialmente era una cappella familiare che serviva per dire delle messe e salvare le anime della famiglia Brancacci, ma anche per seppellire i familiari. I committenti decidevano anche cosa rappresentare, quali santi ad esempio (gli artisti di fatto avevano pochissime licenze artistiche) ed in questo caso si richiede la rappresentazione delle storie di San Pietro. La parte iniziale del racconto, ovvero gli affreschi che stavano in alto, sono appunto andati perduti: si iniziava dall’alto perché il colore cola (se si iniziasse dal basso, il colore colerebbe su di essi) ed infatti, durante un restauro, è possibile individuare quante giornate sono state impiegate per la realizzazione e da dove si è partiti, perché vi sarà parte dell’intonaco apposto ad esempio nella prima giornata che andrà a sovrapporsi a quello della seconda giornata. Nelle pareti d’ingresso, in alto, c’è Il peccato originale e La cacciata dal paradiso. Qui vediamo a confronto Ghiberti con la Porta del Paradiso, accanto un Masaccio completamente diverso: pieno di espressività, con attenzione al nudo. Poi Masolino ed infine Donatello con “Zuccone (Profeta Abacuc)” che realizzerà per il campanile di Giotto fra gli anni ’20 e ’30, quindi un’opera che era sotto gli occhi di tutti (tutt’oggi ne vediamo la copia, l’originale è nel Museo dell’Opera del Duomo). La differenza più importante fra damo ed Eva di Masaccio e quelli di Masolino è che quelli di quest’ultimo sono statici paiono galleggiare nello spazio, mentre gli altri si muovono in uno spazio. Ma il dettaglio più rilevante è l’ombra: Masaccio studia l’ombra, quindi queste figure sono davvero reali. Ritroviamo invece l’espressività della scultura di Donatello. MASACCIO “PAGAMENTO DEL TRIBUTO”, 1425 circa, CAPPELLA BRANCACCI Qui invece è rappresentato il momento in cui Cristo deve entrare in città con gli Apostoli e manda San Pietro un soldo (un ovulo) che servirà per entrare. Qui non abbiamo uno sfondo archite4ttonico che ci fa capire l’uso della prospettiva, ma la vediamo nel cambio delle dimensioni degli alberi a seconda della distanza, dal signore accovacciato che è più piccolo, dalla disposizione degli Apostoli intorno a Cristo (solo il suo viso è stato fatto da Masolino). Infine, c’è un aspetto che è tipicamente masaccesco, ma che sarà anche michelangesco: lo sfondo è un paesaggio, ma non c’è ornato come nel Gotico internazionale, è invece una natura spoglia (= a Michelangelo nella Cappella Sistina). Cristoforo Landino (1481): “Fu Masaccio optimo imitatore di natura, di gran rilievo universale, buon compositore et puro sanza ornato, perché si decte all’imitazione del vero et al rilievo delle figure”. Qui lo vediamo in confronto ad una scultura di Donatello, il “San Giovanni evangelista” nella facciata del Duomo di Firenze (1416, oggi nel Museo dell’Opera del Duomo): il rapporto è strettissimo. 10 Qui vediamo San Pietro che paga l’ovulo, ambientando le storie nelle vie di Firenze, anche quelle più povere: lo vediamo nella storia a destra, dove San Pietro risana gli storpi con la sua ombra, e le strade vengono caratterizzate con gli sporti (elementi dei palazzi che sporgevano dai palazzi per acquistare più spazio: era comunque una città di origine medioevale e lo spazio fra le mura non era molto. Qui vediamo due episodi diversi, La guarigione dello storpio (a sx) e La resurrezione di Tabita (a dx), i quali vengono montati in un unico palcoscenico prospettico (novità), ovvero vengono uniti dagli edifici sullo sfondo. È chiaro che questa composizione prospettica è stata ideata da Masaccio, anche se realizzata anche dal suo compagno di bottega (si potrebbe definire “la pittura di storia” del ‘400. L’unione delle rappresentazioni è data anche dai due personaggi centrali, che presentano un’attenzione importante ai copricapi e alle vesti preziose (qui Masolino sembra essere tornato sé stesso) e per questo vediamo Masolino avvicinarsi al linguaggio di Masaccio, anche se ci sono ancora differenze. Anche qui Masaccio sceglie delle case popolari dell’epoca. Questo sono altri episodi molto famosi: a sinistra il Battesimo dei neofiti (dove San Pietro battezza), dove torna lo sfondo senza ornato e la costruzione tridimensionale delle figure, che ricordano le sculture di Donatello, ma soprattutto l’aspetto più moderno lo troviamo nella figura nuda che aspetta di essere battezzata e trema dal freddo. Qui Masaccio ha una grande espressività, perché riesce a rendere l’effetto del freddo su questo personaggio, nessuno l’aveva mai fatto. La Cappella Brancacci non verrà finita da Masolino e Masaccio, perché Masolino va a lavorare in Ungheria e Masaccio avrà altre commissioni: la Cappella verrà quindi interrotta. A destra vediamo “Resurrezione del figlio di Teofilo e san Pietro in cattedra” (1427-1480), dove San Pietro che sta miracolando il figlio di Teofilo. Vediamo che questo episodio è stato fatto da mani diverse: la seconda mano non è di Masolino, perché è molto più moderna, lo vediamo chiaramente nel figlio di Teofilo. Filippino Lippi era nato a Prato e fu chiamato a finire la Cappella Brancacci negli anni ’80 del ‘400, perché di fatto non venne terminato dai due artisti originali. Il Polittico di Pisa MASACCIO “POLITTICO DI PISA” 1426, TEMPERA SU TAVOLA 135x73, BERLINO/LONDRA/ITALIA Era stato dipinto per la Chiesa del Carmine di Pisa ed oggi diviso in diversi pezzi. È l’unica opera che ha un documento scritto che dice che fu eseguita da Masaccio e pagata a lui (le altre attribuite dalle fonti o dallo stile). Al National Gallery di Londra, dove ne troviamo una parte, è presente anche “Madonna col bambino” di Gentile da Fabriano, realizzata per Firenze per la Chiesa di san Niccolò nel 1425. Vediamo il fondo oro ma con solo le figure in Masaccio, mentre Gentile riempie di drappi ornatissimi e preziosissimi ed anche gli angeli sono ancora gotici. Masaccio costruisce un trono architettonico e gli angeli li utilizza per la prospettiva: gli strumenti degli angeli sono infatti messi di scorcio, in modo che ci diano il senso dello spazio, così come il bambino e la sua aureola (come se fosse un disco sulla testa). Masaccio 13 BEATO ANGELICO “LA PALA DI SAN MARCO” 1440 circa, TEMPERA SU TAVOLA 220x227, MUSEO SAN MARCO FIRENZE Qui vediamo un suo intervento più celebre a Firenze. A cavallo fra gli anni ’30 e ’40 Beato angelico viene coinvolto in un cantiere enorme, che appunto vede come protagonista il convento di San Marco e come direttore dell’operazione Cosimo dei Medici, che ormai era rientrato a Firenze nel 1434: sono gli anni del Concilio, gli anni in cui risiede a Firenze il papa Eugenio IV (1434-1443) e il convento di San Marco passa dall’ordine dei silvestrini a quello domenicano. I lavori vengono condotti per quanto riguarda l’architettura vengono affidati a Michelozzo di Bartolomeo, che era uno scultore e architetto, compagno di Donatello per quasi di 10 anni e forse il miglior seguace di Brunelleschi in architettura (la facciata è stata poi rifatta molto dopo). Beato Angelico dipinge questa Pala d’altare destinata all’altare maggiore della nuova chiesa di San Marco. Il formato è particolare, ovvero quadrato (non è più il polittico gotico): formato tipico delle pale rinascimentali. Brunelleschi, quando aveva riprogettato la chiesa di San Lorenzo a Firenze, aveva espresso il desiderio che vi fossero tavole quadrate “stile cirolis?”, ovvero senza pinnacoli o cuspidi (come nel polittico di Masaccio a Pisa). Nascendo quadrata, questa tavola adatta quelle che erano le concezioni del polittico ad un tipo di scena completamente diversa: nel polittico avevamo la Madonna col bambino al centro, i santi uno accanto all’altro negli scomparti laterali, mentre qui i santi si raggruppano tutto intorno alla Madonna col bambino. Vi sono tre santi domenicani, San Lorenzo il primo in piedi a sx che era il santo dei Medici, poi San Marco ovviamente con la barba nera. I più apparentemente estranei di tutti sono i santi Cosma e Damiano, che hanno un ruolo in realtà fondamentale perché sono in PP (uno guarda verso di noi addirittura): erano i due santi Medici, patroni della medicina ed infatti Cosma sta per Cosimo (dei Medici) e ciò fa sì che si associasse il cognome Medici con la protezione dei medici, è sostanzialmente un’allusione familiare. Quindi è una tavola che rende omaggio alla committenza, all’ordine domenicano e al santo patrono titolare della chiesa. BEATO ANGELICO “ANNUNCIAZIONE” 1435 circa, TEMPERA SU TAVOLA 154x194, MUSEO DI SAN MARCO FIRENZE Questo dipinto si trova al primo piano del convento, dove in ogni cella di ogni frate dipinge un episodio, una scenetta legata alle storie della vita di Cristo e della Vergine, come in questo caso. È sicuramente un dipinto rinascimentale perché è tutto molto semplice, sembra d vedere un’architettura del Brunelleschi in qualche modo, e non c’è grande attenzione per gli ornati come in Masaccio, ad eccezione delle vesti dell’Angelo, che sono ancora con delle pieghe un po’ allungate, ed anche il prato fiorito, che a Beato Angelico continua a piacere. Ma, data la destinazione ovvero un convento, si può dire che questa sia la dimensione giusta e riproponeva nelle sue tavole quelle che erano anche le architetture del convento stesso, che erano appunto di gusto brunelleschiano perché progettate da Michelozzo di Bartolomeo. Qui vediamo un dettaglio del chiostro e un dettaglio della biblioteca di San Marco. Sotto invece l’Annunciazione vediamo altri due affreschi dell’Angelico nel convento. 14 Paolo Uccello PAOLO UCCELLO “GIOVANNI ACUTO” 1436, AFFRESCO 820x515, CATTEDRALE SANTA MARIA DEL FIORE FIRENZE Angelico non è l’unico pittore fiorentino che guarda in quegli anni alle novità masaccesche: un altro pittore molto diverso da lui, ma come lui segnato ancora da una formazione ancora gotica (perché nato anche lui a fine ‘300) è Paolo Uccello. Vediamo in confronto, per capire l’importanza della prospettiva, due dipinti che presentano però un soggetto completamente diverso: a dx la Trinità di Masaccio (dove finge di sfondare un muro e costruire una cappella), a sx paolo Uccello qualche anno dopo fa la stessa cosa, ma adattandola ad una funzione diversa. Infatti, invece di fare una cappella, dipinge un monumento equestre illusionistico, che ha un elemento sepolcrale per ricordare un importante condottiero fiorentino della fine del ‘300 (Giovanni Acuto), a cui viene reso omaggio nella cattedrale di Firenze. Mette inoltre al centro orgogliosamente la sua firma (la scritta nera). PAOLO UCCELLO “BATTAGLIA DI SAN ROMANO” 1438 circa, TRITTICO TECNICA MISTA SU TAVOLA 180x316, NATIONAL GALLERY LONDRA Paolo Uccello è celebre per aver dipinto, verso la fine degli anni ’30, anche queste tre scene, che raffigurano la battaglia di San Romano. È stata commissionata da un membro della famiglia Bartolini Salimbeni, che aveva partecipato a questo evento, svoltosi nel 1432 durante la cosiddetta Guerra di Lucca che aveva visto i fiorentini sconfiggere i senesi. Lo stile è qui molto prospettico, ma anche molto eccentrico: vediamo l’artista dedicarsi a raffigurare gli scorci delle figure, dei cavalli, oppure a utilizzare le lunghe lance per dare il senso delle fughe prospettiche. Ce ne parla anche Vasari, quando racconta la vita di questo maestro. Filippo Lippi FILIPPO LIPPI “MADONNA TRIVULZIO (MADONNA DEL’UMILTA’)” 1430 circa, TEMPERA SU TAVOLA 62x167, PINACOTECA DEL CASTELLO SFORZESCO MILANO Il pittore che però è più legato a Masaccio, tra i primi pittori rinascimentali, è Filippo Lippi: innanzitutto è un frate carmelitano e quindi con ogni probabilità conosceva i cicli di Masaccio alla Chiesa del Carmine. Inoltre, non nasce alla fine del ‘300, ma un pochino dopo (1406) e quindi, quando arriva all’età della ragione, già a Firenze si iniziava a vedere la prospettiva, quindi partiva da un linguaggio diverso rispetto a Beato Angelico e Paolo Uccello. A lui si attribuisce, come abbiamo visto, una piccola parte del Polittico di Pisa di Masaccio. Questo dipinto è sicuramente molto masaccesco e, pur raffigurando la Madonna dell’umiltà, è molto diversa dalle altre che abbiamo visto, 15 come quella a sx di Pisanello (“Madonna della quaglia”), mentre è appunto evidente che si rifà a Masaccio (“Sant’Anna metterza”,). C’è sempre un prato, ma molto meno rigoglioso. Vediamo la forma piramidale della Madonna, il piede volumetrico e tutta la figura, che richiamano Masaccio. Questo dipinto, oltre alla Madonna col bambino, raffigura santi carmelitani e dei fanciulli, ma non si sa se sono angioletti o veri e propri fanciulli (nella chiesa del Carmine c’era effettivamente una Confraternita di fanciulli ed è molto probabile che questa tavola fosse destinata al loro altare). Ma c’è qualcosa in più in lui: dialoga anche con un altro artista che si stava affermando in quegli anni (’30). Queste figure, comunque sia, sono molto naturali, molto vere, e somigliano molto a quelli di un grande scultore, che diventerà uno dei più famosi dell’Italia del ‘400: Luca della Robbia. Qui vediamo un dettaglio di “Cantoria” di Luca della Robbia e notiamo grande somiglianza nel modo di fare le capigliature, le espressioni e di rendere la verità di questi volti. Pittura e scultura, ma in genere tutte le arti, dialogavano sempre (l’abbiamo visto anche con Masaccio e Donatello/Brunelleschi). 18 DONATELLO “DAVID” 1435-40 circa, BRONZO 158cm, MUSEO DEL BARGELLO FIRENZE Fu pensato per stare sopra una colonna in mezzo alla sala della vecchia casa dei Medici (probabilmente intorno c’era anche un ciclo di uomini illustri), poi invece fu posto nel cortile. Esposto all’altezza attuale, ci si rende conto che il David non guarda lo spettatore, ma guarda in basso perché stava su una colonna: il concetto di porlo su una colonna si rifà all’arte antica, quando le sculture antiche di norma stavano appunto in cima alle colonne, probabilmente ancora visibili nella Roma del ‘400 (ne vedremo poi diverse). La commissione veniva ovviamente da Cosimo dei Medici e Donatello realizzò questo bronzo straordinario, intorno al quale si può girare, e raffigurò qualcosa di curioso. In origine non era un’opera essenzialmente in bronzo: sopra al cappello vediamo un elemento che serviva per inserire un pennacchio (quindi c’era con ogni probabilità un pennacchio vero), poi era impreziosito da dorature (qualcosa si intravede ancora nella capigliatura). La posizione in alto giustifica anche il modo curioso con cui sono fatti i glutei, perché Donatello ha studiato appunto lo scorcio dal basso verso l’alto. Quest’opera è sicuramente un simbolo per Firenze, un’opera repubblicana, anche se commissionata appunto dai Medici. Siamo ancora in periodo repubblicano: Cosimo è un signore di fatto, che ha rispetto per le istituzioni repubblicane, anche se poi le gestisce come meglio crede. Il duca Cosimo I dei Medici (suo omonimo, che sarebbe venuto più di un secolo dopo) in piazza della Signoria non metterà un David (in questo caso c’era quello di Michelangelo) ma un Perseo (del Cellini), che è più minaccioso di questo David che ha sconfitto Golia e tiene la testa di Golia ai suoi piedi come un trofeo e la spada nella mano dx. Colpisce molto di questa immagine di Donatello il fatto che lui abbia raffigurato un giovane, dai caratteri estremamente adolescenziali, e soprattutto molto bello. Donatello in realtà, lo vediamo fin dal Crocifisso di Santa Croce, non aveva una passione per le cose belle, preferendo le cose espressive e che facessero grande effetto. Qui invece per una volta è come se si piegasse a quelle che erano le predilezioni del suo committente e forse anche a quelle di Ghiberti: anche in questo il David è un momento straordinario della carriera di Donatello. Michelozzo di Bartolomeo DONATELLO E MICHELOZZO “PULPITO DI PRATO” 1428-38, MARMO BRONZO E TESSERE DI MOSAICO h210, CATTERALE DI PRATO Sempre nella seconda metà degli anni ’30 Donatello avrà a che fare anche con altre commissioni e con altri artisti, creando proprio una compagnia con Michelozzo di Bartolomeo (scultore ed architetto), che poi però nel corso degli anni ’30 scioglierà. Nel periodo in cui sono in compagnia, fra i vari impegni che prendono vi è anche la commissione di realizzare il Pulpito di Prato. Il tema donatelliano (perché in realtà è soprattutto Donatello che realizza quest’opera) è quello della cantoria, con questa infinita danza di putti alati li vediamo nella slide a confronto con i putti della cantoria sempre di Donatello): le due opere vengono realizzate più o meno nello stesso momento e secondo uno stesso linguaggio, tanto che sullo sfondo dei rilievi pratesi vi sono frammenti di terracotta invetriata e quindi anche qui abbiamo l’effetto di mosaico che riflette la luce. Il pulpito serviva per mostrare una reliquia importantissima: la cintura della Vergine e da lì veniva fatta l’ostensione (veniva mostrata). Tutte le opere antiche nascono con una funzione, come anche una committenza: non venivano prima realizzate e poi vendute: la commissione del Pulpito di Prato era una commissione veramente eminente, anche in relazione al Concilio di Firenze, dove una delle questioni più dibattute fu quella dell’assunzione della Vergine in cielo per cui la reliquia della cintura diventava una prova (prima dell’assunzione in cielo, la Vergine fa cadere la sua cintura della sua veste, che viene raccolta da San Tommaso il quale in questo modo ha prova certa dell’assunzione – lui non la vede-). A Michelozzo si deve questo curioso capitello di bronzo che sta sotto al pulpito. 19 MICHELOZZO “PALAZZO MEDICI RICCARDI” 1459-1460 FIRENZE Michelozzo, nel corso degli anni ’40, ottiene anche la commissione come architetto di realizzare il nuovo grande palazzo di Cosimo dei Medici poco lontano dalla chiesa San Lorenzo (chiesa di riferimento dei Medici, si pensi a Lorenzo il Magnifico). A noi è giunto in una veste allargata (la parte aggiunta è a dx): prima il formato era una specie di cubo, poi con il passaggio alla famiglia Riccardi è stato ampliato alle forme attuali. E’ di fatto il primo esempio di palazzo rinascimentale, per il quale Michelozzo inventa questo particolarissimo prospetto con un grande cornicione nella parte alta, un piano terreno sottolineato da queste grandi bozze del bugnato rustico ((le pietre sulla facciata)) e poi, più si va nei piani alti, più l’aspetto rustico scompare (il bugnato diventa liscio al primo piano e scompare all’ultimo). Ci sono ancora degli elementi medievali, come le bifore, ma con interpretazione diversa perché sono bifore con gli archi a tutto sesto (l’arco a tutto sesto era stato rilanciato nell’architettura fiorentina da Filippo Brunelleschi). Anche i portali in basso hanno archi a tutto sesto. La Sagrestia Vecchia di San Lorenzo FILIPPO BRUNELLESCHI E DONATELLO “SAGRESTIA VECCHIA” 1419-28, CHIESA DI SAN LORENZO FIRENZE Nella foto a dx vediamo un’altra commissione dei Medici, che alla fine degli anni ’20 fanno realizzare a Brunelleschi la cosiddetta “sagrestia vecchia” nella chiesa di San Lorenzo. Ancora una volta l’architettura è costruita attraverso una specie di cubo ben proporzionato, che si ripete nella parte della scazzella (la piccola cappella dove c’è l’altare), e poi nella parte alta una cupola, sottolineata da queste grandi lunette e con elementi architettonici grigi in pietra serena di nuovo su fondo neutro dell’intonaco. C’è qualcosa però in quest’architettura che sconvolge l’austerità e l’ordine brunelleschiano: i colori, ovvero il colore rosso del pavimento e degli inserti decorativi sulle pareti che sono stati messi da Donatello, il quale realizzò la decorazione. Nella parte alta Donatello raffigura episodi come quello in foto, che racconta la resurrezione di Drusiana in una “scatola prospettica”: c’è ormai confidenza e dimestichezza con la prospettiva, con una visione ormai modernissima, quasi ‘900esca. Usa un colore molto curioso, con contrastanti cromatici e, ancora una volta, soprattutto luministici, e utilizza una tecnica nuova, lo stucco (utilizzato dai romani e abbandonato poi nel Medioevo), poi grande vivacità delle figure e appunto grande vivacità cromatica. A Brunelleschi questo non piacque per niente perché sconvolgeva l’austerità e la proporzione della sua architettura: quindi troviamo questo contrasto forte fra le novità e l’espressività donatelliane e l’architettura di Brunelleschi. Donatello realizza anche le porte in bronzo, che riportano figure di santi (a sx). A proposito di questo, Antonio da Avellino detto il Filarete, architetto e scultore del Rinascimento non molto conosciuto ma autore della porta principale della Basilica di San Pietro in Vaticano (fonte attendibile contemporanea loro) disse, in un trattato da lui scritto (in cui progettava una città ideale che si chiamava Sforzinda, in onore degli Sforza, dove chiamava artisti del tempo per la realizzazione): “Se tu hai a fare Apostoli, non fare che paiano schermidori, come fece Donatello in Santo Lorenzo di Firenze, cioè nella sagrestia, in due porte di bronzo. Vuolsi bene atteggiare le figure, per modo siano bene il loro essere, ma non tanto che per volere mostrare magistero caschi nel vizio della sconformità”. Quindi anche a lui la scultura troppo espressiva di Donatello non piaceva, ma poi è stata appunto molto rivalutata e al giorno d’oggi sembra anticipare molto quella di Rodin. 20 La terracotta invetriata LUCA DELLA ROBBIA “GHIRIBOZZO” 1442, CHIESA DI SANTA MARIA, PERETOLA C’è però un nuovo scultore che piace molto al Brunelleschi, il quale traduce effettivamente nel marmo la passione di Brunelleschi per l’architettura antica e inventa anche una nuova tecnica, che avrà una fortuna strepitosa non solo a Firenze ma in tutta Europa. A sx vediamo un dettaglio della cantoria (già vista precedentemente), mentre a sx un tabernacolo eucaristico realizzato per la chiesta di Sant’Egidio a Firenze. Il tabernacolo eucaristico è un oggetto liturgico che tutte le chiese dovevano avere ed erano prevalentemente gotici, secondo quella che era la moda fino ad allora. Luca della Robbia ha il grande merito di elaborare un tabernacolo che per la prima volta segue un modello antiquario, ovvero lo realizza nella forma di un tempietto antico: in alto mette il timpano, con Dio padre, ai lati delle paraste scanalate (come quelle che piacevano a Brunelleschi), poi c’è una pietà, degli angeli che sorreggono la colomba dello spirito santo e sotto c’è lo sportellino. È quindi una soluzione molto in linea con le predilezioni del Brunelleschi. C’è anche qui il colore, ma con un effetto molto diverso rispetto a Donatello: è più luminoso e crea meno contrasti con tutto il resto, non è qualcosa che si impone sull’architettura ma l’accompagna. Viene realizzata usando per la prima volta la terracotta invetriata (si modella la terracotta e si cuoce con una pasta vitrea che la colora) ((il prof dice che secondo lui questa tecnica, come abbiamo visto, probabilmente la inventa Donatello, ma è Luca della Robbia che poi l’adatta ad una vera e propria tecnica scultorea e non soltanto a qualcosa di decorativo, anche se in quest’opera è ancora solo decorativo)). Questa soluzione piace tantissimo al Brunelleschi, perché permette di impreziosire con il colore, senza esagerare. BRUNELLESCHI E DELLA ROBBIA “CAPPELLA PAZZI” SANTA CROCE FIRENZE Verso la metà degli anni ’40, c’era una cappella della famiglia Pazzi accanto alla chiesa francescana di Santa Croce: come la vecchia sagrestia di San Lorenzo, era uno spazio cubico con una cupoletta, con la scarsella (tipo particolare di abside – il fiondo della chiesa- non a semicerchio ma circolare) che ne riprendeva le proporzioni in piccolo, elementi architettonici in pietra serena ed elementi a neutro. Come decorazioni c’erano delle figure in terracotta invetriata (bianco su fondo azzurro) ed effettivamente l’effetto è molto diverso rispetto a quello di Donatello, adattandosi molto meglio al carattere austero dell’architettura brunelleschiana. Queste sono opere di Luca della Robbia ormai degli anni ’60, quindi successive alla morte di Brunelleschi (1446), con la consapevolezza ormai di quale fosse il tipo di decorazione che si adattava meglio per le architetture di Brunelleschi. Nell’Ospedale degli Innocenti, di cui vediamo un dettaglio (il San Matteo), gli originali loculi del portico verranno chiusi e completati con elementi robbiani (ovvero sculture o bassorilievi in terracotta invetriata) con bambini in fasce, che alludono alla principale funzione dell’Ospedale degli Innocenti (per i bambini abbandonati, venivano allevati e cresciuti lì). LUCA DELLA ROBBIA “RESURREZIONE” 1442-44 PER SANTA MARIA DEL FIORE Nella metà degli anni ’40 Brunelleschi ha la necessità di completare la zona del presbiterio del Duomo di Firenze: dietro l’altare maggiore ci sono due sagrestie, dove sono state montate le cantorie di Donatello e Luca della Robbia, ma mancano da decorare le due lunette sopra le porte. Qui vediamo una delle due lunette, decorata da Luca della Robbia (scelto espressamente da Brunelleschi, che le realizzerà entrambe) in terracotta invetriata, preferendola al marmo, mettendo in contrasto soprattutto due colori, ovvero il bianco delle figure in PP e l’azzurro dello sfondo, come se fosse una scultura “senza colore” (l’azzurro ha essenzialmente ruolo di sfondo e funzione di far venire fuori le figure in PP. Non c’è la costruzione dello spazio come in Donatello). Qui vediamo 2 L’ITALIA E LE FIANDRE Filippo Lippi: tra Masaccio e Van Eyck FILIPPO LIPPI “MADONNA DI TARQUINIA” 1437, TEMPERA SU TAVOLA 114x75 GALLERIA NAZIONALE D’ARTE ANTICA ROMA Se in scultura si arriverà a mettere in piedi, fra gli anni ’40 e ’50, una tecnica che avrà notevole fortuna anche oltre i confini di Firenze, anche in pittura le novità non mancavano. Filippo Lippi ha la capacità di confrontarsi con molte cose nuove del tempo, non solo a Luca della Robbia o Donatello: qui vediamo questo dipinto, interessante non solo perché guarda a Donatello (in questo caso si rifà ai suoi spiritelli per il bambino). Vediamo che è un dipinto con ancora la cornice gotica, che piacevano a Lorenzo Ghiberti, ma con tante novità: vi è infatti una dimensione spaziale, con un senso domestico, soprattutto nella luce, che guarda ad un tipo di pittura diversa e moderna, ovvero la pittura fiamminga. A dx vediamo uno dei grandi capolavori di quel linguaggio di Jan van Eyck. JAN VAN EYCK “RITRATTO DEI CONIUGI ARNOLFINI” 1434, NATIONAL GALLERY LONDRA Lui era un mercante di origine lucchese che operava nelle fiandre, ritratti da colui che era considerato il padre fondatore della pittura fiamminga. La grande novità della pittura fiamminga è che, utilizzando la tecnica della pittura ad olio che era più luminosa, ‘sempre su tavola, i pittori fiamminghi indagano ogni oggetto nel dettaglio senza però conoscere la prospettiva: l’effetto è di un grande realismo, ma con qualche difficoltà nella composizione (si dice che Michelangelo ritenesse che i pittori fiamminghi fossero capaci di riprodurre tanti piccoli dettagli, ma non sapessero dipingere). La luce è appunto un elemento fondamentale: qui viene da sinistra dalla finestra aperta, creando appunto questa atmosfera soffusa domestica: la stessa che troviamo nella Madonna di Filippo Lippi (anche qui c’è una finestra aperta). Ciò non vuol dire che Filippo Lippi avesse visto questo dipinto, ma sicuramente qualcosa di pittura fiamminga che era arrivato a Firenze (i rapporti fra i vari paesi d’Europa erano più stretti di quanto si possa pensare oggi). Inoltre, vediamo riprodotti in questa semplice stanza molti dettagli, come gli zoccoli e il cagnolino in PP, lo specchio curvo sullo sfondo. Anche Filippo Lippi inserisce tutta una serie di dettagli: ad esempio sul tavolo di Van Eyck ci sono dei frutti, mentre lui ci mette un libro. Una sua caratteristica era inserire la data di esecuzione sul cartiglio (tipo papiro, carta arrotolata) dipinto a trompe d’oil, come se fosse un cartiglio illusionistico (intento tipico della pittura fiamminga). Jan Van eyck partirà a lavorare nelle principali città fiamminghe (come Bruges, Gand). Vediamo il dettaglio del frutto sulla finestra, che pare proprio una natura morta, ed anche il dettaglio dello specchio curvo, che ci fa vedere i due protagonisti di schiena: questo sarà un escamotage che avrà molta fortuna nella pittura successiva, ad esempio ne “Las Meninas” di Velazquez del 1656. Abbiamo poi la firma e la data, ancora in caratteri goticissimi, e nessun richiamo all’antico: solo un grande studio empirico della realtà. La sensazione è davvero quella di una pittura illusionistica, ma se andiamo a guardare con attenzione las mancanza della costruzione e composizione prospettica si sente: guardando ad esempio il pavimento a listelli in legno, vediamo che dà la sensazione di essere molto ripide e le figure sembrano quasi scivolare su di esso (nel San Giovanni evangelista di Masaccio, anche se era a fondo oro, aveva molto più chiara la prospettiva). Questa è quindi una composizione costruita per dettagli studiati individualmente e messi l’uno accanto all’altro. 3 Jan van Eyck JAN VAN EYCK “RITRATTO DI UOMO COL TURBANTE ROSSO” 1433, OLIO SU TAVOLA 25x19, NATIONAL GALLERY LONDRA Vediamo la pittura fiamminga nel ritratto. Ancora prima che Pisanello si dedichi a ritrarre i più importanti personaggi delle corti italiane di profilo, con un pennello molto elegante (come vediamo in Lionello d’Este), Van Eyck già nella prima metà degli anni ’30 con le sue opere ci rivela le straordinarie potenzialità della pittura fiamminga nel ritratto, non solo nell’andare ad indagare ogni minimo dettaglio (dalla pelliccia, alle rughe del volto, al tessuto che sembra di poterlo toccare), ma anche dalla scelta della posizione del personaggio di profilo: qui non c’è la volontà del recupero dell’arte classica antica, come nelle medaglie di Pisanello che si rifà all’antica Roma, ma semmai la disposizione vuole essere naturale, di tre quarti, indagata attentamente dalla luce(questo si pensa che sia un autoritratto, ma non se ne ha la certezza). JAN VAN EYCK “POLITTICO DELL’AGNELLO MISTICO” 1426-32, OLIO SU TAVOLA 258x375, CATTEDRALE DI SAN BAVONE GAND La pittura fiamminga nasce in una dimensione assolutamente gotica e lo vediamo molto bene in questo polittico realizzato da Van Eyck probabilmente insieme al fratello. Nella prima slide lo vediamo in versione chiusa, mentre nella seconda in versione aperta: a seconda infatti delle esigenze liturgiche, gli sportelli laterali potevano richiudersi. Quindi con le ante chiuse vediamo l’Annunciazione, i profeti, le raffigurazioni di statue di santi inserite in nicchie gotiche, dove troviamo anche i committenti. Mentre da aperto vediamo Adamo, qui in confronto con Masaccio: è straordinario il realismo di Van Eyck, ma non c’è il carattere masaccesco. Poi l’agnello mistico adorato dalle varie schiere di santi, in alto gli angeli e poi la Vergine, Dio Padre, Adamo ed Eva. È una delle opere più grandiose del ‘400 europeo, rifinita minuziosamente in ogni dettaglio e con uno studio straordinario della luce, anche sui dettagli più preziosi (come la corona in basso). Nell’adorazione vediamo un cielo atmosferico, ma non c’è il senso dello spazio né della tridimensionalità, che Van Eyck non conosce perché non conosce la prospettiva brunelleschiana. JAN VAN EYCK “MADONNA DEL CANCELLIERE ROLIN” 1435, OLIO SU TAVOLA 66x62, LOUVRE PARIGI Rolin (Rolen) era il cancelliere del ducato di Borgogna, il quale si inginocchia davanti alla Vergine e viene incoronato da un angelo con una preziosissima corona: il tutto si svolge in un interno illuminato dalla trifora sul fondo (che pare ancora romanica), con una finestra chiusa con vetri piombati realizzati con un realismo davvero incredibile, mentre il pavimento è sempre “ripido”, come nel dipinto dei coniugi. Da questa trifora vediamo il modo in cui i pittori fiamminghi dipingevano i paesaggi: ritroviamo le caratteristiche del Gotico internazionale, ma rese con la nuova consapevolezza di realismo. Infatti, qui troviamo un paesaggio ricco di minuziosi dettagli (il ponte, con la sua torre, che si riflette nel fiume, le figure affacciate, i fiori, l’isoletta col castello, eccetera…), soluzione completamente diversa ad esempio con quello che faceva Masaccio, ma comunque straordinariamente affascinante: sono due mondi apparentemente opposti, ma che invece hanno la possibilità di convivere e trovare un dialogo. Ce l’ha insegnato Filippo Lippi con la Madonna di Tarquinia e lo vedremo poi con diversi altri pittori italiani, che rimarranno affascinati della pittura fiamminga. 4 Rogier van der Weyden ROGIER VAN DER WEYDEN “DEPOSIZIONE DALLA CROCE” 1435-40, OLIO SU TAVOLA 200x260, MUSEO DEL PRADO MADRID Jan Van Eyck muore nel 1441 e il successivo grande interprete della pittura fiamminga, che si impone in quegli anni, è Rogier (rojìr) van der Weyden, il quale verrà anche in Italia. Questo dipinto fu realizzato per la Gilda dei balestrieri di Lovanio (altra città delle fiandre, belga). Vediamo anche qui l’attenzione eccezionale al dettaglio, come le lacrime delle figure dolenti o particolari dei broccati e delle vesti preziose, ma colpisce soprattutto la composizione che ha un effetto quasi da scena teatrale, molto distante dal pensiero, ad esempio, di Donatello (che cercava il corpo sotto i panneggi, mentre qui rimane molto “astratto”): sembra quindi di vedere degli attori collocati di fronte ad un fondale molto semplice, che piangono il Cristo deposto. Ebbe una fortuna strepitosa, se ne conoscono moltissime repliche. ROGIER VAN DER WEYDEN “COMPIANTO E SEPOLTURA DI CRISTO” 1450, OLIO SU TAVOLA 96x110, UFFIZI FIRENZE Van der Weyden verrà in Italia in occasione del giubileo del 1450 perché molto devoto: tra le opere realizzate per l’Italia (alcune delle quali non sono giunte fino a noi, anche se testimoniate da fonti), abbiamo quest’altra deposizione, anche se questa volta non dalla croce ma dal sepolcro: viene dalla villa medicea di Firenze, una delle ville più care a Cosimo dei Medici. La composizione la prende dall’Angelico: ecco come pittori contraddistinti da linguaggi diversi ed anche da nazionalità diverse, riescono a dialogare in nome dell’interesse reciproco e delle committenze: Il Cristo è infatti di fronte a questa parete rocciosa, disteso in avanti, i dolenti dai lati si chinano a sorreggere le sue braccia e viene sorretto anche da dietro, dove c’è anche il sepolcro dove sarà posto: siamo sicuri che l’opera di Beato Angelico sia precedente ed è un elemento della predella della Pala di San Marco (vista prima). Van der Weyden comunque reinterpreta l’Angelico in modo diverso: quest’ultimo aveva ancora qualche elemento gotico (nel prato fiorito o nelle rocce scheggiate) e troviamo anche il cielo atmosferico. Questi elementi li ritroviamo anche nell’opera di Van der Weyden, ma la costruzione dello spazio non funziona e lo si capisce bene osservando le stradine, che invece di andare sullo sfondo, vanno verso l’alto, non vanno in profondità: tenta di fare la prospettiva in maniera empirica, perché non la conosce (caratteristica questa di tutta la pittura fiamminga). HANS MEMLING: UN PROTAGONISTA DEL SECONDO QUATTROCENTO Nato a Seligenstadt, in Assia nella seconda metà degli anni 30, Hans Memling fece il suo apprendistato nelle Fiandre con van der Weyden. Nel 1465 si trasferì a Bruges dove avviò una bottega che gli permise di erigersi a primo attore della pittura fiamminga fino alla morte nel 1494 con successo europeo. Il giudizio universale di Danzica è una delle opere più significative e un grande trittico raffigurante il giudizio universale che si trova nel museo nazionale di Danzica In Polonia. La predilezione per i paesaggi lo porta a introdurre una novità nel ritratto nordico, togliendo il fondo scuro con un fondale di paese. Nella tavola del museo di Anversa abbiamo un ritratto di tre quarti con paesaggio di campagna. NON SOLO FIANDRE: ESPERIENZE FRANCESI Prendendo spunto dal verismo eyckiano, emersero personalità come Barthélemy d’Eyck e Jean Fouquet: il primo maestro di fiducia di Renato d’Angiò, che seguì prima a Napoli e in Provenza; il secondo come pittore di corte dei re di Francia Carlo VII e Luigi XI con un soggiorno italiano. Jean Fouquet venendo in Italia si confronta con le novità prospettiche di Firenze. Era nato a Tours nel 1420. Si pensa a un soggiorno fiorentino con assimilazione delle novità, presenti nelle sue opere al ritorno in Francia 7 ANDREA DEL CASTAGNO “CICLO DEGLI UOMINI E DONNE ILLUSTRI” 1448-51, AFFRESCO, VILLA CARDUCCI DI LEGNAIA FIRENZE Ad Andrea del Castagno si deve anche uno dei primi cicli eroici, cioè che raffigura personaggi simbolo di “esempla virtutis”, sia dell’antichità che della tradizione fiorentina: a destra qui abbiamo la Sibilla cumana, mentre a sinistra vediamo Dante, raffigurato insieme a Petrarca e Boccaccio nel salone di una villa a Soffiano, anche se questi affreschi si trovano da lungo tempo in deposito agli Uffizi. E’ quindi un ciclo straordinario anche per la scelta iconografica : a Firenze nel ‘400 si ha ormai consapevolezza di quanto questi personaggi siano stati fondamentali per la cultura fiorentina e quanto la cultura sia importante sia nella vita dei cittadini che per la Repubblica (d’altronde all’origine del movimento che noi chiamiamo Rinascimento, ci sono probabilmente le scelte dell’umanista Coluccio Salutati che scelse di combattere Gian Galeazzo Visconti per il recupero del mito della Repubblica romana, associandolo alla moderna fiorentina). ANDREA DEL CASTAGNO “MONUMENTO EQUESTRE A NICCOLO’ DA TOLENTINO” 1456, AFFRESCO 833x512, CATTERDRALE SANTA MARIA DEL FIORE FIRENZE Andrea del Castagno fa anche il verso a Paolo Uccello, nel senso che così come Paolo Uccello aveva fatto nel 1436 un monumento equestre illusionistico a Giovanni Acuto nella cattedrale di Firenze, Andrea del Castagno fa la stessa cosa 20 anni dopo, nello stesso luogo, per rendere omaggio a Niccolò da Tolentino, che era stato il condottiero fiorentino nella battaglia di Anghiari (che, nel 1440, aveva permesso ai fiorentini finalmente di sconfiggere i milanesi e aveva dato l’avvio ad un lungo periodo di tranquillità). Piero della Francesca PIERO DELLA FRANCESCA “BATTESIMO DI CRISTO”, 1440-50, TEMPERA SU TAVOLA 167x116, NATIONAL GALLERY LONDRA DOMENICO VENEZIANO “ADORAZIONE DEI MAGI” 1439-41, TEMPERA SU TAVOLA 84cm, BERLINO Il principale rappresentante della pittura di luce è sicuramente Piero della Francesca, ma c’è un legame che unisce lui con gli altri due personaggi visti prima: è un importante ciclo di affreschi a Firenze nella cappella terminale della chiesa di Sant’Egidio, che purtroppo non è arrivato fino a noi, ma ce lo descrive Vasari, secondo il quale è stato il luogo dov’è nata la nuova tendenza della pittura di luce e dove si è formato Piero della Francesca e dove lavoravano Domenico Veneziano e Andrea del Castagno. Questo ciclo, infatti, fu avviato da Domenico Veneziano nel 1439 e i documenti ci dicono che con lui c’era anche Piero della Francesca, che cominciava proprio allora ad imporsi in un ambiente lontano da quello della sua città natale (San Sepolcro). Poi Andrea del Castagno sarebbe subentrato a Domenico veneziano, ma addirittura pare che il ciclo sia stato finito in seguito da un altro pittore ancora (Baldovinetti). Abbiamo già visto con la Cappella Brancacci, che un ciclo di affreschi può essere eseguito da più mani ed anche in momenti diversi. Nella slide vediamo a destra un bellissimo tondo di Domenico Veneziano oggi a Berlino, ma inizialmente stava a Palazzo Medici: raffigura l’Adorazione dei magi e vediamo la consapevolezza delle novità di Masaccio 8 ad esempio nella capanna tridimensionale, ma senza dimenticare quelli che erano i gusti del Gotico internazionale (d’altronde i Medici erano dei committenti molto prestigiosi, a cui piacevano opere molto ricche) come il prato fiorito, vesti preziose del seguito dei magi. Abbiamo però anche elementi molto veri e naturali, come il cielo sullo sfondo. Anche qui quindi pittura luminosissima e prospettica: siamo al tempo degli affreschi di Sant’Egidio appunto. Accanto abbiamo Piero della Francesca, dove troviamo i nessi più evidenti con l’altra opera nel bellissimo cielo e nella bellissima luce. Questo dipinto inoltre ha molti richiami alla cultura fiorentina, benché lui sia nato a San Sepolcro (provincia di Arezzo, fra l’Umbria e le Marche, vicino a Anghiari) e ci morirà anche nel 1492, e benché per lui rappresenti un luogo ideale ancor più di Firenze per muoversi tra le varie corti del Rinascimento (Urbino, Perugia, Roma, Firenze, ecc..). Questo dipinto fu proprio realizzato per una chiesa di San Sepolcro, detta San Giovanni in Val d’Afra e in esso non troviamo soltanto la luce di Domenico Veneziano, che permea tutto quanto e fa sì che il cielo si rifletta nel fiume in cui Cristo viene battezzato da San Giovanni, ma ci sono tanti altri elementi fiorentini. I tre angeli che assistono alla scena, per esempio, ricordano molto le figure di gusto “classicheggiante” di Luca della Robbia (tabernacolo di Sant’Egidio, qui in dettaglio). Poi i panneggi di queste figure sono come quelle che faceva Donatello, poi il modo di disporsi delle figure (i piedi dell’angelo centrale) ricordano il Masaccio del polittico del San Giovanni di Pisa. Qui la consapevolezza spaziale c’è: Piero della Francesca è un grande prospettico, forse il più grande del ‘400, e le sue figure sono ben collocate nello spazio: infatti vediamo un albero più grande ed uno più piccolo, che ci ricordano sempre Masaccio. Vediamo un bel paesaggio, che è quello intorno a San Sepolcro (al centro si intravede proprio la cittadina) e sullo sfondo troviamo una figura che si spoglia che in questo caso non trema come quella di Masaccio, ma l’intenzione è sempre quella di dare un senso di verità evangelica inserendo un dettaglio naturale. Lo stesso nudo è un nudo molto vero, come quello del Cristo in PP, messo al centro della composizione in corrispondenza del punto di fuga. Dietro vediamo delle figure con delle barbe lunghe e dei cappelli a punta: Piero della Francesca vede a Firenze gli orientali del Concilio e ne rimane affascinato: si ritroveranno continuamente nelle sue opere, come se ne fosse ossessionato e non è chiaro se sia un’ossessione personale (com’è probabile che sia) o che sia un’allusione agli eventi tristi che hanno portato alla fine dell’Impero nel 1453 con la caduta di Costantinopoli. Questo dipinto ci sorprende tantissimo anche per il formato centinato: sembrerebbe una pala senza fondo oro per stare su un altare e in alto c’è un arco a tutto sesto dove vediamo la traccia della cornice. I dipinti di questo periodo hanno una loro evidenza materiale: qui della cornice è rimasta parte del legno. PIERO DELLA FRANCESCA “POLITTICO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA” 1445-62, OLIO E TEMPERA SU TAVOLA 237x330, MUSEO CIVICO DI SAN SEPOLCRO Qui siamo sempre a San Sepolcro, dove Piero della Francesca comincia ad affermarsi: sappiamo che ad inizio anni ’40 sarà a Modena, poi a Ferrara e a fine anni ’40 forse anche a Rimini, ma non abbandona mai del tutto la città natale. Qui alcuni amici gli chiedono di fare una pala d’altare: un polittico a fondo oro, gotico, per la compagnia della Misericordia di San Sepolcro, quindi da una confraternita. Alle confraternite appartenevano persone dai ceti più diversi, quindi questa non era una committenza particolarmente colta, ma Piero della Francesca accettò perché erano suoi amici, ma si prende molto tempo per concludere l’opera. Vediamo la Madonna della Misericordia al centro ed una serie di santi ai lati: la carpenteria è andata distrutta, ma probabilmente era anch’essa gotica. L’iconografia di questa Madonna è molto particolare, che va di moda fin dalla fine del ‘200: prevede che la Madonna, sovradimensionata (quindi alla bizantina), allarghi il mantello per raccogliervi più persone possibili (a volte si mettono da una parte gli uomini e dall’atra le donne, oppure laici e ecclesiastici). Qui Piero mette uomini e donne (il personaggio col cappuccio ci ricorda che i membri delle confraternite si incappucciavano durante particolari riti). In slide vediamo l’opera di oltre un secolo prima: una 9 Madonna della Misericordia oggi attribuita a Simone Martini (1303, Pinacoteca di Siena). In Simone Martini vediamo le figure accalcarsi nel mantello, tanto da far vedere quasi solo le teste, mentre Piero della Francesca, nonostante il fondo oro, fa quello che aveva fatto Masaccio quando si confrontò con il fondo oro del polittico di Pisa: rompe gli schemi della tradizione. La Madonna allarga sì il manto, ma è perfettamente centrale, il volto diventa un solido attentamente indagato nella sua volumetria e soprattutto i personaggi sono inginocchiati intorno alla Vergine, dando sia un senso di circolarità che di volume e di terza dimensione. È molto innovativo, anche perché si trattava sempre comunque di un polittico gotico. A sottolineare come quelli che noi chiamiamo Gotico e Rinascimento tendano sempre ad incontrarsi e dialogare, vediamo una ricostruzione del Battesimo di Cristo di Piero della Francesca, del complesso su cui viene montato come pala d’altare: è stata terminata solo nella metà degli anni ’50 da un altro pittore più tradizionale, Matteo di Giovanni, che sarebbe diventato grande protagonista della pittura senese del ‘400. Si tratta di un trittico gotico, con la sua predella di Matteo di Giovanni, i pilastri laterali con le cuspidi, i pinnacoli e i due santi (Pietro e Paolo) ai lati sempre su fondo oro sempre di Matteo di Giovanni, e sopra sempre delle cuspidi che sarebbero piaciute al Ghiberti. La cornice di legno vista prima serviva quindi alla cuspide andata distrutta. PIERO DELLA FRANCESCA “STORIE DELLA VERA CROCE”, 1452-55 CICLO DI AFFRESCHI, CHIESA DI SAN FRANCESCO AREZZO Un anno dopo aver firmato l’affresco del tempio Malatestiano a Rimini, Piero della Francesca ottiene la commissione di quello che oggi è l’unico ciclo di affreschi arrivato fino a noi (sappiamo ad esempio che ne aveva realizzati a Ferrara, ma sono andati perduti, come altri). Il ciclo occupa tutta la cappella principale: nella parte alta ci sono figure che sembrano ancora di gusto trecentesco perché il ciclo era stato avviato da un pittore fiorentino (Bicci di Lorenzo) che era ancora assolutamente gotico, mentre Piero della Francesca invece realizza tutte le scene del ciclo. La croce al centro è del tardo ‘200 e la grande finestra è gotica, che ci fa capire che siamo in una chiesa francescana gotica: la croce c’entra con la devozione dei francescani per il Cristo crocifisso sulla croce (sono i primi ad avere un culto particolarissimo per la sofferenza di cristo sulla Croce). La committenza arriva quindi dai francescani aretini e dalla famiglia Bacci e Piero della francesca realizza un ciclo sulla storia della vera croce, ovvero viene raccontata la storia del legno della croce: l’artista, per conoscere la storia, si rifà alla cosiddetta “legenda aurea” di Jacopo da Varagine, che era un manuale del ‘200 di vite di santi e di racconti utili per i cicli di affreschi, diventando una delle fonti privilegiate proprio per gli affreschi. In slide in alto vediamo l’inizio della storia (in alto a dx), dove vediamo la morte di Adamo, quando nella sua bocca viene messo il seme da cui crescerà poi l’albero del legno della croce (storia totalmente leggendaria, che parte dall’Antico testamento, fino ad arrivare ai tempi dell’Impero bizantino). Sotto, ad esempio, vedremo l’incontro tra Salomone e la regina di Saba, poi il ritrovamento della croce da parte della madre di Costantino (Sant’Elena) ed altre. Qui vediamo l’incontro fra Salomone e la regina di Saba, la quale si inginocchia di fronte al ponte, come se avesse capito che il legno di cui era fatto sarebbe diventato il legno della croce di Cristo. Il tema non era inedito, era già stato trattato da altri pittori: ad esempio a Volterra, nella chiesa di san Francesco, c’è una piccola cappellina con affreschi ‘300schi gotici (più nello stile di Giotto) che raccontano la stessa storia. Piero della Francesca però sarà il primo a dipingere questa storia con il linguaggio che è quello del trattato di Leon 2 RIMINI Il Tempio Malatestiano Il luogo in cui, meglio di ogni altro, si incontrano (e si scontrano) il Gotico e il Rinascimento è il Tempio Malatestiano di Rimini, luogo eccezionale in cui convivono tanti artisti differenti: nel Rinascimento non c’è solo Firenze, Donatello, Masaccio, ma troviamo tante personalità diverse. La grandezza del ‘400 e anche del ‘500 italiano è che da un lato l’Italia era molto debole e divisa in tanti piccoli Stati (a volte nemmeno “autorizzati”: la signoria dei Malatesta erano all’interno dello Stato della Chiesa e quindi sarebbero dovuti essere riconosciuti ufficialmente dal Papa), quindi una grande debolezza politica che poi sarebbe esplosa a fine ‘400 con le guerre d’Italia, ma al tempo stesso una straordinaria ricchezza artistica perché tutte queste corti seppero dare vita a propri linguaggi autonomi (come se fossero effettivamente ognuno uno Stato nazionale). Rimini, da questo punto di vista (come Urbino), sono esempi significativi di ciò. A metà anni ’50 troviamo Piero della Francesca al Tempio Malatestiano di Rimini, antica città romana e centro della signoria Malatesta: colui che chiama l’artista a Rimini è Sigismondo Pandolfo Malatesta, che di mestiere fa il condottiero (molto bravo ma con pessimo carattere) e anche appassionato di cultura antiquaria latina e greca. Alla metà del secolo decide di trasformare quella che era un’antica chiesa francescana, che erano tutte molto semplici, in quello che diverrà appunto il Tempio Malatestiano. Sarà un cantiere abbastanza eccezionale perché vi parteciperanno tanti artisti diversi, di provenienza e cultura diversa e sarà portato avanti dal 1449 al ’57: i lavori poi verranno interrotti perché si interromperanno le fortune del suo committente, il quale da lì a pochi anni verrà rovinato dai suoi nemici più acerrimi (Federico da Montefeltro, signore di Urbino, e il papa Pio II). Uno degli artisti che partecipa a questo lavoro è Matteo de’ Pasti, architetto della parte interna del tempio e pittore di formazione Gotico internazionale (veronese, aveva sicuramente conosciuto quindi Pisanello). Troviamo poi Leon Battista Alberti, umanista, letterato ma anche architetto, che farà il progetto dell’esterno ((in slide suo autoritratto di profilo, con i capelli alla moda, degli anni ’30). Infine, Agostino di Duccio, scultore fiorentino. Vediamo appunto che è un’architettura non finita: in alto manca qualcosa. Prende il nome proprio dal fatto che sembra un tempio antico, realizzato con dei marmi bianchi, delle colonne con capitelli, archi a tutto sesto, oculi, il portale d’ingresso con il timpano soprastante e sopra marmi di colori diversi (in gran parte di Spoglio, vicino Ravenna). Vediamo in slide a dx una medaglia celebrativa del tempio, che data 1450, e ci fa vedere come avrebbe dovuto essere se fosse stato terminato: con volute di raccordo, un altro grande arco centrale, e sopra una grande cupola semisferica, come quella del Pantheon (che vediamo sotto). La volontà quindi chiara di imitare l’antico arrivava da Leon Battista Alberti, che aveva il progetto della parte esterna del Tempio. Vediamo altre due medaglie che raffigurano uno Sigismondo Malatesta e l’altra Isotta degli Atti, l’amata del signore di Rimini: Sigismondo voleva fare all’interno di questa chiesa una cappella in onore di Isotta e da qui partì l’idea di ristrutturarla tutta. Ora possiamo vedere una parete con gli umanisti della corte dei Malatesta: il fatto che dette sepoltura a tutti i suoi umanisti qui ci fa capire l’altissimo livello anche letterario del committente. Dall’interno vediamo il tetto a capriate (originario della chiesa francescana), un Crocifisso di Giotto (che fu attivo a Rimini a inizio ‘300 e lasciò lì diverse opere, di cui oggi ci rimane solo questo crocifisso) fatto per questa chiesa. L’esterno è assolutamente antiquario e quindi rinascimentale, mentre l’interno è gotico (ampie cappelle con archi a sesto acuto). C’è una bellissima lettera di Leon Battista Alberti, che scrive da Roma, a Matteo de’ Pasti che è a Rimini: “Ma quando tu mi dici che ‘l Manetto afferma che le cupole deno esser due larghezze alte, io credo più 3 a chi fece terme e Pantheon et tutte queste cose maxime che a lui, e molto più alla ragione che a persona. Et se lui si reggie a opinione, non mi meraviglierò se egli errerà spesso. Quanto al fatto del pilastro nel mio modello, rammentati ch’io ti dissi questa faccia convien che sia opera da per sé, perchè queste larghezze et altezze delle cappelle mi perturbano. … E vuolsi aiutare quel ch’è fatto e non guastare quella che s’abbia a fare”. Matteo de Pasti, oltre ad esserle l’architetto, è anche il direttore del cantiere, mentre Leon Battista Alberti è soprattutto un intellettuale che ha una visione moderna della professione dell’architetto: oggi vanno a dirigere i cantieri controllandoli, non lavorando in prima persona, quindi con lui diventa il progettista. Nella lettera parlano di questioni tecniche e Alberti dice che ha più fiducia nell’architettura e nella razionalità degli antichi, piuttosto che ai giudizi di qualcun altro (di questo Manetti, che forse era il biografo di Brunelleschi ma non si ha la certezza che si riferisse proprio a lui). Nello specifico, secondo Alberti, Manetti dice che le cupole devono essere alte due volte la larghezza, pensando alla cupola di Brunelleschi che è verticale (quindi diversa da Pantheon per esempio). Inoltre, Alberti aggiunge riguardo al suo modello (aveva infatti realizzato un modellino di legno del tempio), che la facciata sarebbe stata completamente diversa dall’interno e che le larghezze e altezze delle cappelle lo perturbano, perché l’aspetto gotico dell’interno gli creavano difficoltà: non poteva però farci nulla, perché Sigismondo aveva iniziato i lavori dall’interno, e lo riconosce con grande pragmatismo alla fine della lettera. AGOSTINO DI DUCCIO “DECORAZIONI PER LE CAPPELLE DEL TEMPIO MALTESTIANO” Al tempio lavora anche Agostino di Duccio, fiorentino allievo di Donatello che, a causa di problemi legali, fugge da Firenze e si sposta in Veneto, per poi arrivare a Rimini. Realizza tutte le decorazioni delle 6 cappelle, ognuna delle quali ha dei soggetti che possono essere spiritelli che giocano come in slide a dx, che ricordano un po’ il gusto di Luca della Robbia nel modo di fare il fondo azzurro e i puttini in carne e gioioso: rispetto però a Luca della Robbia le figure hanno meno volume, come se questo artista fosse anche stato segnato da Ghiberti ed interpretasse il nuovo linguaggio rinascimentale in senso linearistico. A dar conto del livello umanistico sempre altissimo del Tempio, a sx vediamo “Il carro della luna”: a seconda delle scelte del committente, i rilievi di ogni cappella si ispirano a soggetti ben precisi ed in questo caso al mondo dell’astronomia, rappresentando i pianeti attraverso le divinità (questo è il carro di Diana).Agostino di Duccio, nello studiare il modo di fare queste divinità antiche, si ispira allo scritto di un umanista facente parte della corte Malatesta (Basinio da Parma), per la precisione un trattato astronomico. La scultura, quindi, inizia a legarsi con la scultura umanistica (di norma c’è sempre un umanista che decide il programma di queste rappresentazioni, ma spesso è molto difficile risalire a chi fosse). PIERO DELLA FRANCESCA “SIGISMONDO PANDOLFO MALATESTA IN PREGHIERA DAVANTI A SAN SIGISMONDO” 1451, AFFRESCO 257x345, TEMPIO MALATESTIANO RIMINI È la sua opera più antica documentata: in basso c’è la scritta con la firma e la data ancora leggibile. Raffigura al centro il signore di Rimini ritratto, non a caso, di profilo come faceva Pisanello, come nelle medaglie. Ai suoi piedi vediamo cani da caccia, elemento caratteristico dell’arte cortese del gotico perché la caccia era lo svago principale del signore di corte: rappresentano quindi le origini cortesi del personaggio. La costruzione spaziale però non ha nulla a che vedere con il Gotico internazionale, come anche le lesene scanalate che sono di gusto chiaramente antiquario. Sigismondo è inginocchiato di fronte al suo santo onomastico (San Sigismondo), anche perché agli inizi degli anni ’30 i diritti feudali su Rimini erano stati rinnovati alla sua famiglia dall’Imperatore Sigismondo del Lussemburgo: in un gioco molto divertente, Piero della Francesca rappresenta in qualche modo tre Sigismundi. È una vera e propria scena di corte in questo senso, riprodotta con linguaggio però rinascimentale e non gotico. L’artista qui ha inventato addirittura qualcosa di “super rinascimentale” (come aveva fatto Masaccio in Santa Maria Novella con la Trinità): anche lui si è divertito a bucare il muro, dove c’è una finestra dipinta sulla dx dove troviamo il castello fatto costruire a Rimini da Sigismondo. Lo ritroviamo in una medaglia, anche se la costruzione spaziale qui è molto meno esatta rispetto a quella di Piero della Francesca: il castello nell’affresco 4 è luminosissimo con anche il cielo azzurro, tipico della pittura di luce. Questo affresco oggi si trova nella zona del presbiterio, ma in origine fu dipinto all’interno di una piccola celletta (non si sa come mai) ed infatti era pensato per stare su una parete che, se davvero sfondata, ci avrebbe effettivamente mostrato il castello: era quindi proprio una volontà illusionistica di aprire una finestra “vera” per omaggiare il committente PIERO DELLA FRANCESCA “RITRATTO DI SIGISMONDO PANDOLFO MALATESTA” 1451, OLIO E TEMPERA SU TAVOLA 44x34, LOUVRE PARIGI Altro ritratto di Sigismondo, molto simile alla medaglia di Matteo de’ Pasti e al dettaglio (in basso in slide) del Tempio Malatestiano, e il modello è sempre il ritratto di profilo di Pisanello: accanto Lionello d’Este (fra l’altro erano amici). Il ritratto di Piero della Francesca, rispetto a Pisanello, ha però anche delle caratteristiche diverse: non vi sono fiori e quindi il fondo è nero, che abbiamo già visto nella pittura fiamminga. Lui, infatti, ha visto la pittura fiamminga: è stato a Ferrara, prima di andare a Rimini, e l’ha potuta vedere nella collezione degli Estensi, signori di Ferrara. Ritroviamo quindi in questo dipinto il verismo e illuminismo fiammingo: vediamo il modo di rifare i dettagli della pelle, dei capelli, il modo in cui la luce mette in evidenza il velluto della veste. Lui però non farà mai il ritratto a tre quarti. URBINO Piero della Francesca ad Urbino PIERO DELLA FRANCESCA “DOPPIO RITRATTO DEI DUCHI DI URBINO” 1467-72, OLIO SU TAVOLA 47x33 (ciascuno), UFFIZI FIRENZE Dopo Arezzo ed altre esperienze, Piero della Francesca lavora ad Urbino per un lungo periodo della sua vita. Si crede nei primi anni ’60 (per alcuni dopo), realizza questo doppio ritratto molto celebre, simbolo della pittura rinascimentale. Raffigura due sposi: il signore di rimini, Federico da Montefeltro e sua moglie Battista Sforza. Entrambi di profilo, secondo le mode del tempo (e per Federico è anche un bene, perché aveva metà del volto rovinata a causa di un torneo), e lei con l’acconciatura sempre alla moda (non più con la crocchia gigantesca, ma mostrando la fronte altissima). I gioielli sono straordinariamente raffigurati, come se brillassero di luce. Piero qui ha ancora in mente la conoscenza della pittura fiamminga che aveva avuto a Ferrara, quindi ci ricordano un po’ il ritratto dio Sigismondo Pandolfo Malatesta soprattutto nella concretezza realistica nella resa delle carni e dei tessuti, però troviamo qualcosa in più. La differenza principale è lo sfondo: Pierò apre uno sfondo straordinario, un paesaggio italiano, dietro ai due ritratti, che ricorda tantissimo il modo di dipingere in punta di pennello tipica di Jan van Eyck (l’abbiamo visto nella Madonna del cancelliere Rodin). Questi inoltre sono dipinti “double face”, ovvero hanno un fronte ed un retro, e qui nel retro troviamo la cultura antiquaria (scritte in latino, con anche un carattere antico, che celebrano i due personaggi). I due personaggi li ritroviamo più piccoli, sempre nello stesso paesaggio, ma con un tema che ci rimanda ancora una volta alla cultura umanistica italiana: raffigurano infatti il trionfo su dei carri (si pensa subito ai Trionfi del Petrarca, umanista del secolo precedente). 7 LA CATTEDRALE DI PIENZA E IL PALAZZO PICCOLOMINI Pio II nasce in un borgo della Val d’Orcia, nella zona meridionale dell’attuale provincia di Siena, e dopo essere diventato papa, decide di trasformare la sua città natale (Corsignano) in una vera e propria città (Pienza prende il nome da Pio). Innanzitutto, fa costruire una chiesa ed un palazzo, poi anche altri palazzi per i membri della sua corte. Vediamo la Cattedrale di Pienza in alto a sx: in slide, sotto, il Tempio Malatestiano perché molto simile. Entrambi nascono con l’intento di omaggiare le architetture antiche, con gli archi a tutto sesto, le colonne soprammesse, il grande timpano in alto. Il papa, negli ultimi anni della sua vita, scriverà “I commentari” (una specie di diario della sua vita), dove racconterà anche del suo odio per Sigismondo Pandolfo Malatesta, dicendo che “fra tutte le cose cattive che aveva fatto, aveva fatto anche un tempio pagano nella sua città” (e poi lui fa lo stesso tipo di chiesa: ciò vuol dire che era solo una questione di inimicizia e non di stile architettonico). La cultura, quindi, è quella di Leon Battista Alberti, anche se non ci lavorerà direttamente: il progetto della chiesa di questa città, che avrà anche il primo vero piano urbanistico moderno, viene affidato a Bernardo Rossellino, fiorentino e miglior discepolo di Alberti. Non a caso, se la facciata somiglia alle architetture antiche è per volontà di Rossellino ma anche di Pio II. A destra in alto vediamo il Palazzo Piccolomini (Palazzo del papa), oggi museo, mentre sotto il Palazzo Rucellai (della famiglia Rucellai) di Firenze progettato da Leon Battista Alberti (il cantiere era poi stato diretto da Rossellino). I due palazzi sono infatti praticamente identici: hanno un doppio portale (nel Piccolomini uno è chiuso per comodità), le finestre al piano terra, le paraste che dividono i tre piani. Inoltre, il bugnato è sempre uguale a tutti i piani (diversamente dal Palazzo Medici di Michelozzo): questo perché Leon Battista Alberti, con un gusto ancor più umanistico rispetto a Michelozzo, aveva trovato un altro sistema per alleggerire i prospetti dal basso verso l’alto. Usò infatti il sistema degli ordini architettonici: da basso, al mezzo, alla parte alta, cambiare il capitello e fare modo di alludere, a grandi linee, al passaggio dorico, ionico e corinzio (i tre ordini antichi), com’era tra l’altro nel Colosseo. L’INTERNO DELLA CATTEDRALE DI PIENZA All’interno del Duomo di Pienza, come a Rimini, ci ritroverà dentro ad una chiesa gotica: qui però non c’è il fatto di una preesistenza o che i lavori li avesse iniziati un architetto gotico. Qui c’è la volontà del committente, ovvero del pontefice (che in questo caso diventa quasi artista, perché leggendo i documenti si capisce benissimo che molte scelte vengono prese da lui in prima persona). Pio II, prima di diventare papa, era stato ambasciatore e quindi grande viaggiatore: si era così innamorato delle chiese nordiche perché molto luminose e a volte, come nel caso di quelle tedesche, ad aula unica (anche se divise in tre navate, queste mantenevano tutte la stessa altezza). A Pienza lui fa fare questo, una chiesa ad aula e con grandi finestroni gotici (senza però vetri dipinti, ma trasparenti): fra i suoi principali riferimenti, la chiesa di York in Gran Bretagna. Pienza, come Rimini, ci fa vedere come Gotico e Rinascimento dialoghino insieme. La chiesa fu consacrata ufficialmente nel 1462 ed ancora oggi vi troviamo dei dipinti molto particolari, con un formato rinascimentale. Un esempio lo vediamo in slide: Matteo di Giovanni “Madonna in Trono con Bambino tra i Santi Bartolomeo, Caterina, Lucia e Matteo”. La cornice è rinascimentale (quadrata, con una grande lunetta sopra), come anche la predella e le paraste scanalate ai lati, ma c’è un elemento gotico che permane: il fondo dorato, evidentemente richiesto sempre dal committente (tutte e sei le pale del Duomo hanno il fondo oro, ma una carpenteria di gusto rinascimentale). 8 FIRENZE PALAZZO RUCELLAI Lo confrontiamo con Palazzo Medici, qui a sinistra (che, a differenza del primo, è stato successivamente allargato): vediamo la presenza in entrambi delle bifore con l’arco a tutto sesto, ma cambia il bugnato (qui tutto liscio) e cambiano i capitelli. Il palazzo era stato commissionato a Leon Battista Alberti da Giovanni Rucellai, al quale chiese di occuparsi anche di un altro progetto. FACCIATA DELLA CHIESA DI SANTA MARIA NOVELLA Santa Maria Novella, poco lontana dalla dimora Rucellai, era una grande chiesa domenicana che aspettava ancora appunto di avere la facciata terminata. Qui Leon Battista Alberti fa qualcosa molto diverso dal tempio Malatestiano: non mette delle cose antiche, ma rifà il romanico fiorentino. A sinistra vediamo la chiesa di San Miniato al Monte, a cui l’architetto aggiunge le volute laterali (perché la doveva fare più alta) con incrostazioni marmoree che richiamano il romanico fiorentino e la termina nella parte alta con un timpano, ma mantenendo il tipo di cromia allineata a ciò che c’era di già. Quindi non sconvolge nulla, nel rispetto di quella che era la tradizione del Medioevo fiorentino, che Alberti dimostra di conoscere ed apprezzare. BERNARDO ROSSELLINO “MONUMENTO FUNEBRE DI LEONARDO BRUNI”, 1450, SANTA CROCE FIRENZE DESIDERIO DA SETTIGNANO “MONUMENTO FUNEBRE DI CARLO MARSUPPINI”, 1460, SANTA CROCE FIRENZE La nuova cultura artistica albertiana si impone anche in scultura. Nella chiesa di Santa Croce a Firenze oggi troviamo due monumenti sepolcrali di due eminenti cancellieri della Repubblica Fiorentina: Leonardo Bruni e Carlo Marsuppini. Sono importantissimi perché segnano una nuova tipologia di monumento sepolcrale, dove il defunto è disteso sotto un grande arco (a volte decorato con marmi colorati), con grandi paraste che sorreggono l’arco a tutto sesto, la Madonna nella parte alta ed in basso un basamento anch’esso all’antica. Abbiamo quindi una versione definitivamente antiquaria anche del monumento sepolcrale e da quel momento si faranno sempre così, mentre prima la maniera era molto ibrida, come vediamo a sx nei monumenti di Donatello e Michelozzo (siamo qui ancora negli anni ’20). 9 PADOVA Donatello a Padova DONATELLO “MONUMENTO EQUESTRE AL GATTAMELATA”, 1445-53, BRONZO 340x390, PIAZZA DEL SANTO PADOVA Il linguaggio artistico fiorentino, attraverso Piero della Francesca e non solo, si stava diffondendo non soltanto nel centro Italia, ma anche verso il Veneto: questo grazie al fatto che uno dei tre protagonisti del primo Rinascimento fiorentino (Brunelleschi, Masaccio e Donatello), ovvero Donatello, abbandona Firenze e va a lavorare a Padova (1443-1453), diventando la testa di ponte fra il Veneto e la Lombardia per la diffusione del nuovo linguaggio rinascimentale. Non era la prima volta che succedeva: agli inizi del ‘300 aveva soggiornato a Padova anche Giotto, dipingendo la Cappella degli Scrovegni, e ciò fu decisivo per la diffusione del suo nuovo linguaggio. Donatello non sarà nemmeno l’unico toscano ad andare a Padova, grande città universitaria, collegata a Venezia, come Paolo Uccello o Filippo Lippi: il suo passaggio però fu sicuramente quello più importante, anche perché lasciò due monumenti molto famosi, tra cui il monumento principale della città. A Padova infatti, da tradizione, si va a chiedere la grazia a Sant’Antonio, santo francescano che faceva i miracoli e che morì nella città. Questo monumento equestre è come quelli che abbiamo visto dipinti da Paolo Uccello o Andrea del Castagna e rappresenta Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, che era stato un grande condottiero dell’esercito della repubblica di Venezia e la sua famiglia lo volle omaggiare con questo grande monumento (la commissione è il motivo per cui Donatello si sposta da Firenze). La grande novità di quest’opera, oltre al fatto che sia di bronzo, è che è fatto in maniera diversa rispetto al passato. In slide in alto vediamo il Monumento di Cangrande della Scala (scultura 300esca a Verona): è un cavaliere assolutamente gotico (lo vediamo ad esempio nell’armatura). Donatello invece, per celebrare il condottiero prende spunto dall’antica Roma e prende spunto dal grande Monumento equestre di Marco Aurelio (in Piazza del Campidoglio ora ci sta una copia), nella slide a sx in basso, un grande bronzo antico. Donatello lo terminerà solo dopo diversi anni, perché nel frattempo gli viene commissionata un’opera ancora più importante. DONATELLO “PALA DELL’ALTARE MAGGIORE DELLA BASILICA DI SANT’ANTONIO” PADOVA A sx vediamo come è ora: un colossale altare con una serie di figurine di rilievi in bronzo, con spiritelli, angioletti e storie di Sant’Antonio, statue in bronzo di santi intorno a quella centrale della Madonna col bambino e sopra un crocifisso. Tutto questo è di Donatello, ma non è il suo originale allestimento: è frutto di un allestimento ‘800esco. Infatti, il crocifisso non era parte di questo altare, ma era stato fatto per un'altra zona della chiesa e l’assetto totale era completamente diverso (ne vediamo la ricostruzione in slide): le figure stavano tutte una accanto all’altra, a costituire una sacra conversazione come se fosse un dipinto. Il tempietto con le colonne era reale ed infatti dall’alto si possono vedere le basi di 8 colonne e delle 7 stature che stavano al suo interno (purtroppo non è arrivato fino a noi). Donatello, quindi, aveva concepito questo altare come se fosse una pala d’altare tridimensionale. Vediamo il particolare con la Madonna col bambino, col faldistorio all’antica, il Sant’Antonio da Padova e San Francesco. I rilievi sono nella zona bassa dell’altare odierno, come se fosse una grossa predella. Ne vediamo in particolare due e possiamo dire che sono veri e propri momenti virtuosistici di tecnica dello “stiacciato” e studio della prospettiva. Raffigurano delle storie di sant’Antonio e quindi alcuni dei suoi miracoli. In alto vediamo il Santo in mezzo ad una folla che lo festeggia, con sopra delle architetture colossali, di grande impatto di tridimensionalità: il santo si inchina a dare il 12 e fortuna: una è la chiesa di sant’Andrea (di cui avevamo già visto l’interno, con i lacunari che richiamano le architetture antiche. In slide in confronto la basilica di Massenzio nel foro romano). Anche la facciata richiama all’antico (a sx), con anche qui i lacunari, un grande arco a tutto sesto e il timpano, anche se rispetto a Rimini Alberti si diverte di più a giocare con i contrasti tra pieni e vuoti (ad esempio lo spazio centrale che immette nella chiesa). Di fianco vediamo la chiesa di San Sebastiano, anch’essa con una facciata di gusto antiquario, ma con qualcosa di più eccentrico e particolare: ha infatti il timpano nella parte alta interrotto da un arco, detto siriaco, ed era una soluzione adottata a volte nel tardo antico, e inoltre ha indubbiamente una sua forma abbastanza caratteristica rispetto alla stessa Sant’Andrea. Andrea Mantegna a Mantova ANDREA MANTEGNA “CAMERA DEGLI SPOSI”, 1465-74, AFFRESCHI (ciascuno 300X800), CASTELLO DI SAN GIORGIO MANTOVA È detta anche “camera picta” e si tratta di uno straordinario ciclo di affreschi sulle pareti della stanza, dove l’idea è quella di dipingere una stanza affinché sembri una sorta di loggiato aperto, che mostra tante scene di corte con un cielo vero e sopra i soliti festoni squarcioneschi, e che ha nella parte alta una loggia all’antica, decorata con una serie di loculi popolati da busti di antichi imperatori romani e al centro un elemento molto particolare che va a sfondare il soffitto. Le scene rendono omaggio alla vita di corte: qui vediamo il committente di Mantegna, Ludovico Gonzaga con la moglie, a cui gli viene portata una lettera e, attorno a lui, i personaggi della corte. È una scena molto vera, concreta, in cui i personaggi non sono messi in posa: qui non vale più l’idea del ritratto di profilo, o quantomeno fino ad un certo punto, ma pare piuttosto quasi un’istantanea della vita di corte. Trattandosi di arte cortese, ma non più di arte del Gotico internazionale, non mancano gli elementi cari alla raffigurazione della ricchezza del committente: per esempio i cavalli, grande passione dei Gonzaga (avevano addirittura una stanza enorme dove vi erano i ritratti dei loro cavalli da corsa), e cani da caccia, altro sport per eccellenza insieme all’ippica. Accanto, a dx, c’è una scena importante per la famiglia Gonzaga perché viene festeggiato il primo cardinale della famiglia, Francesco Gonzaga, qui di fronte al padre. Sullo sfondo, oltre al bellissimo cielo, troviamo una città piena di riferimenti all’antico che conferma la passione antiquaria di Mantegna. Altra grande caratteristica di Mantegna è la pittura illusionistica e architettura dipinta. Nel mezzo alla volta, Mantegna fa finta, come se fossimo all’interno di un tempio arrivato fino a noi (come nel Pantheon), che ci sia un foro sul soffitto e lo fa con una pittura illusionistica: fa un ovulo prospettico che guarda verso il cielo, dal quale si affacciano degli spiritelli visti dal basso di scorcio. È di fatto il primo grande esempio di illusionismo prospettico che va a sfondare un soffitto: l’avevamo visto sperimentato per primo da Masaccio, poi anche Piero della Francesca aveva fatto qualcosa del genere ma su una parete (Castelli Sigismondo). È un esperimento importante perché da qui partirà, nel giro di un secolo e mezzo almeno, la pittura delle grandi cupole che poi diventerà la grande pittura barocca. 13 ANDREA MANTEGNA “CRISTO MORTO” 1470-74, TEMPERA SU TELA 78x81, PINACOTECA DI BRERA Come già detto, lo scorcio è uno degli elementi più innovativi di Mantegna ed infatti lo vediamo benissimo in quest’opera, che è una delle sue più famose. Vediamo il Cristo morto, deposto sulla pietra dell’unzione, accanto a due dolenti, coperto da un sudario “metallico”, ma soprattutto Mantegna, facendoci vedere un’altra caratteristica di quella che sarà poi la pittura lombarda, non si vergogna di farci vedere i suoi piedi nudi in primo piano (che non era una cosa “decorosa”). Questo elemento lo rivedremo spesso appunto nella pittura lombarda nel ‘500 e poi ci sarà un pittore nel ‘600 che farà di questi dettagli la base della sua nuova pittura, scardinando i precetti della chiesa di allora: Caravaggio, che rappresenterà appunto delle figure con i piedi sporchi in PP. Che Mantegna fosse un grande pittore di scorci lo sapeva bene anche Vasari: “mostrò costui con miglior modo, come nella pittura si potesse fare gli scorti delle figure al di sotto in su, il che fu certo invenzione difficile e capricciosa…”. D’altronde non sorprende che Mantegna fosse capriccioso, perché era comunque allievo di Squarcione VENEZIA Giovanni Bellini Giovanni Bellini avrà a che fare con Mantegna, ma è un artista in realtà completamente diverso da lui: il primo, infatti, un po’ come Masaccio o Michelangelo, una volta definito il suo stile, mantiene sempre quel linguaggio (dal 1460 al 1506 dipingerà più o meno sempre nello stesso modo), mentre il Bellini “si adegua”, come Raffaello. Tutte le volte che vede qualcosa di nuovo, cambia linguaggio rileggendo le novità in maniera personale. È un pittore fondamentale per la pittura veneziana del ‘400, ma anche per quella che sarà l’arte italiana ed europea dei secoli successivi. JACOPO BELLINI “MADONNA DELL’UMILTA” 1440-45, TEMPERA SU TAVOLA 60x40, ACCADEMIA CARRARA BERGAMO Vive molto (nasce a Venezia intorno al 1430 e morirà nel 1516) e nasce da un pittore di Gotico internazionale, che si chiama Jacopo Bellini: è un pittore molto affermato e soprattutto è un allievo di Gentile da Fabriano. A destra vediamo una sua opera: una Madonna col bambino e ai suoi piedi un estense (che potrebbe essere lo stesso Leonello d’Este). Il paesaggio ha ancora un aspetto fiabesco, che ricorda la pittura di Gentile da Fabriano: vediamo infatti a sx un paesaggio molto simile del maestro, nell’opera “Le stigmate di San Francesco” (Gentile da Fabriano). Il primogenito lo chiama Gentile, quindi il fratello (o fratellastro) di Giovanni ed anche lui sarà un grande pittore veneziano. GIOVANNI BELLINI “PIETÀ””, 1465-70, TEMPERA SU TAVOLA 86x107, PINACOTECA DI BRERA Quando Giovanni Bellini inizia a formarsi negli anni ’50, guarda non più alla pittura di Gentile da Fabriano, che ormai è sentita come qualcosa di superato, ma verso le novità che venivano da Padova: Donatello, Squarcione, Mantegna, anche perché sua sorella aveva sposato proprio Andrea Mantegna. Non a caso in questo periodo le sue opere sono fortemente padovane, soprattutto donatelliane e mantegnesche. Qui vediamo una Pietà e di fianco vediamo la Pietà di Donatello nell’altare di Sant’Antonio. La soluzione di entrambi o, meglio, l’iconografia donatelliana che Bellini riprende, è di porre ai lati due angioletti che lo sostengono. 14 GIOVANII BELLINI “ORAZIONE NELL’ORTO”, 1459 TEMEPRA SU TAVOLA 81x127, NATIONAL GALLERY LONDRA Vediamo il dialogo molto stretto anche con il Mantegna (“Orazione nell’orto 1455”, sempre alla National Gallery): qui vediamo due opere con lo stesso soggetto molto molto simili dei due artisti. Raffigurano l’orazione di Cristo nell’orto, con gli apostoli che stanno dormendo e sullo sfondo coloro che vengono ad arrestare Cristo. Distinguiamo quello di Mantegna (sotto) dalle rocce sue tipiche, come anche l’attenzione per lo scorcio. Rimane molto difficile comunque distinguerli, perché anche Bellini è ad esempio molto metallico, ad esempio nelle pieghe delle vesti, fa rocce simili, anche se c’è già qualcosa di suo nella delicatezza del chiarore dl cielo, che sfuma un po’ l’aspetto metallico delle nubi. Non c’è dubbio che intorno agli anni ’60 quindi Bellini sia un pittore fortemente mantegnesco. GIOVANNI BELLINI “TRASFIGURAZIONE”, 1460 TEMPERA SU TAVOLA, MUSEO CORRER VENEZIA GIOVANNI BELLINI “TRASFIGURAZIONE DI CRISTO”, 1479 OLIO SU TAVOLA, MUSEO CAPODIMONTE NAPOLI Qui vediamo ancora un confronto fra lo stesso soggetto, ma stavolta fra due opere entrambe del Bellini, che cambia evidentemente stile. Il dipinto a sinistra aveva evidentemente una carpenteria (ci sono le tracce della cornice di un arco gotico) e vediamo le rocce ancora alla Mantegna, il cielo con le nuvole un po’ metalliche. Mentre a destra abbiamo un’opera della fine degli anni ’70, realizzata per Vicenza (oggi a Napoli) ed è radicalmente diversa, soprattutto nei colori molto soffusi e la natura. Questa è la pittura veneziana, che da Bellini in poi (quindi attraverso Giorgione e Tiziano), è fatta di luce ma soprattutto di accostamenti di colori e infatti viene chiamata “pittura tonale”. Nel ‘550 Vasari avrebbe detto che, per essere un grande artista bisogna essere un grande disegnatore, perché il disegno è alla base di tutto (dell’architettura, della scultura e della pittura), tanto che, quando fonderà la nuova accademia di artisti a Firenze, la chiamerà “Accademia delle arti e del disegno”. Quindi la pittura centro-italiana è sempre fondata sul disegno, ma lo stesso Vasari, che parlerà a lungo della pittura veneziana e non mancherà di apprezzarla (sarà anche grande amico di Tiziano), dirà appunto che quella invece è basata sui colori (dirà che i pittori veneziani non disegnavano, ma non è vero: semplicemente il colore viene prima del disegno e il dipinto è reso dagli accostamenti di colore). L’altra caratteristica dei pittori veneziani, pur abitando in mezzo al mare, saranno degli straordinari pittori della natura, una natura vera, specialmente quella dell’entroterra veneziano. Infatti, qui Bellini ambienta la Trasfigurazione di cristo nella campagna veneta, con una raffigurazione della realtà impressionante: se levassimo le figure di Cristo, degli Apostoli e dei profeti e mettessimo delle persone qualsiasi (ad esempio che fanno un pic-nic), potrebbe essere un dipinto dell’’800. Per questo la pittura veneziana si può dire sia alla base della pittura moderna, quella prima di Rubens fino poi a Manet. GIOVANNI BELLINI “PALA DI PESARO”, 1473-75 OLIO SU TAVOLA 260x240, MUSEO CIVICO PESARO Giovanni Bellini però continua a cambiare e, in questo modo, mette insieme tante cose diverse: ad esempio, fin dagli anni ’70 come ad esempio in questo dipinto, è l’interesse per la cultura “alla Piero della Francesca e alla Leon Battista Alberti”. Qui vediamo la parte centrale della pala d’altare fatta per Pesaro (cosa non strana perché Venezia nel ‘400 è una grande potenza del Mediterraneo: l’Adriatico è praticamente terra veneziana), pala quadrata con predella, i pilastri laterali, una preziosissima cornice all’antica e sopra una pietà (che oggi si trova ai Musei Vaticani). Vi troviamo ancora degli elementi mantegneschi, ad esempio nel San Paolo a sx (il modo di fare il suo panneggio “metallico”), ma al tempo stesso ci troviamo delle cose nuove: un pavimento ed un trono costruiti con una 17 ANTONELLO DA MESSINA “ANNUNCIAZIONE”, 1474 MUSEO DI SIRACUSA È un’opera molto rovinata, ma possiamo comunque vedere che siamo in un interno alla fiamminga e non ci sono elementi di gusto antiquario. La vediamo in paragone con Piero della Francesca nell’Annunciazione del ciclo di Arezzo, dove invece tutto parla un linguaggio antiquario. C’è però qualcosa di analogo: la Madonna sta da una parte, la colonna nel mezzo e l’angelo dall’altro lato. La stessa soluzione la troviamo nel dipinto provenzale in basso a dx, ma anche qui vi sono delle differenze con Antonello: è vero che lui è un pittore fortemente fiammingo, ma non è solo fortemente fiammingo. ANTONELLO DA MESSINA “POLITTICO DI SAN GREGORIO”, 1473 MUSEO DI MESSINA Per la sua città, aveva dipinto questo polittico a fondo oro, anch’esso molto rovinato. Vediamo lo scomparto centrale superstite con la Madonna e il bambino con gli angioletti alla fiamminga e due santi ai lati (San Benedetto e San Gregorio). Anche se c’è il fondo oro, Antonello da Messina dimostra di conoscere già la cultura prospettica. Anche Masaccio dovette fare, per volere della committenza, un polittico gotico a fondo oro ed utilizzò degli elementi per rendere il senso volumetrico delle figure. Qui Antonello da Messina fa la stessa cosa: c’è uno stesso basamento unico per tutti, le figure laterali mettono il piede al di là dello scalino per far sentire la prospettiva e lo stesso vale per la punta del basamento che va oltre, con il rosario appoggiato che cala. Dimostra quindi di essere un pittore di spirito profondamente fiammingo, ma che conosce la cultura tridimensionale italiana: come l’abbia conosciuto però è difficile da dirsi. ANTONELLO DA MESSINA “CROCIFISSIONE DI SIBIU”, 1465, ROMANIA Non ci sono opere sicure di Antonello da Messina precedenti agli anni ’70. Quest’opera a sinistra, che è finita addirittura in Romania, è certamente però una sua opera perché raffigura una crocifissione che ricorda molto la pittura fiamminga, però ha un dettaglio di paesaggio che ci dice per certo chi l’ha dipinta: la città di Messina, con lo stretto e le Eolie sullo sfondo. Anche qui vediamo che, pur essendo un pittore fiammingo, non fa i paesaggi alla maniera di Piero della Francesca (esempio in Montefeltro e Sforza) a micro-dettagli: fa un paesaggio che raffigura una lontana distesa di mare, visto da lontano, con la luce che cala con grande serenità, come nella pittura provenzale (ne vediamo un esempio a dx). C’è un documento molto famoso del 1460 che dice che lui, insieme alla famiglia, stava ritornando (non si sa bene da dove) a Messina: vuol dire che appunto lui era stato lontano dalla Sicilia per qualche tempo e si pensa che possa essere stato proprio in Provenza, conoscendo così anche quella cultura. Probabilmente però aveva conosciuto direttamente anche la pittura fiamminga: da una lettera di un umanista napoletano indirizzata a Michiel si sa che un pittore napoletano molto noto, Colantonio ((di cui vediamo due opere in slide)), aveva avuto un allievo ancora più bravo di lui e si fa il nome di Antonello da Messina, specificando che dipingeva alla fiamminga. Qui siamo intorno al 1450 e Napoli è una grande capitale artistica, ma lì conta ben poco l’arte rinascimentale fiorentina, tanto che a Napoli in quegli anni Bartolomeo Facio scrive le vite degli uomini illustri e dove i pittori illustri sono indicati nelle persone di Gentile da Fabriano, Pisanello, van Eyck e van der Weyden. Inoltre, a Napoli c’è un signore, Alfonso d’Aragona (anche Pisanello lavorò per lui), che colleziona opere fiamminghe e Colantonio guarderà sia alla pittura fiamminga nordica che a quella catalana. Se quindi Antonello da Messina diventa il grande artista che è effettivamente è perché da Messina, città che non aveva alcuna cultura né tradizione artistica, si sposta a Napoli e studia con Colantonio, che aveva una cultura composita (aragonese, provenzale) e, tornando a Messina fonda una sua bottega ed infine arriva a Venezia, fino a far cambiare stile a Giovanni Bellini. 18 Architettura veneziana rinascimentale MAURO CODUSSI “SAN MICHELE IN ISOLA” E PIETRO LOMBARDO “SANTA MARIA DEI MIRACOLI” Ciò non era scontato, perché Venezia per lungo tempo si era sentita l’erede di Bisanzio, quindi aveva segnato la sua arte attraverso il mosaico. Inoltre, Venezia nel ‘300, nonostante la vicinanza con Padova, era stata totalmente refrattaria all’arte di Giotto, mentre l’arte del Rinascimento avrà spazio e successo e lo vediamo in queste due chiese: a sx Codussi, a dx Santa Maria dei Miracoli nel centro di Venezia, decorata di marmi preziosi e colorati. Nella parte alta queste volute ed archi ricordano quello che mancava al Tempio Malatestiano e quindi la cultura di Leon Battista Alberti. La cultura antiquaria rinascimentale arriva quindi a Venezia e ne conquista gli architetti (nel caso di Lombardo anche scultori eminentissimi). ANDREA DEL VERROCCHIO “MONUMENTO EQUESTRE A BARTOLOMEO COLLEONI” 1480-88, BRONZO h395, VENEZIA A Venezia negli anni ’70 arriva anche uno dei più importanti maestri che avevano rinnovato l’arte fiorentina. Vicino alla scuola San Marco a Venezia (le scuole lì erano le confraternite) si innalza un grande monumento equestre realizzato da Andrea del verrocchio, grande maestro fiorentino, maestro di Leonardo: fa una sua versione del Gattamelata di Donatello, rendendo omaggio in questo caso al grande condottiero Bartolomeo Colleoni, combattente pure lui per la Repubblica di Venezia. FERRARA E GLI ESTENSI: Anche Ferrara era un grande centro culturale grazie a Niccolò III d’Este padre di Lionello. In quei decenni si incrociano i più grandi artisti come Pisanello, Piero della Francesca, Leon Battista Alberti. Alla morte di Lionello nel 1450 Ferrara passa al fratello Borso, una sua effigie fu commissionata nel 1451 a Donatello che allora si trovava a Padova che non rispettò l’impegno. Nel tempo di Borso nasce una vera scuola ferrarese con protagonista Cosmè Tura: i suoi tratti caratteristici danno vita a un linguaggio eccentrico. Si pensa che ebbe a che fare con la scuola di Francesco Squarcione. Ferrara ebbe anche un’attenzione degli Estensi per lo spazio urbano culminata nella “addizione erculea”. Il fratello di Borso, Ercole realizza un grande progetto che raddoppia lo spazio viario, migliora le difese militari e offre una dimensione più aperta alle vecchie strade medievali. L’addizione erculea si basava sul modello romano degli assi ortogonali su due viali: uno sud-nord con castello e città nuova; l’altro est-ovest con Porta Po e Porta Mare. Il fulcro era il quadrivio degli angeli dove troviamo anche il Palazzo dei Diamanti. GLI SFORZA E IL PRIMO RINASCIMENTO A MILANO FILARETE: REALTA’ E FANTASIA: Milano passava dai Visconti agli Sforza, con Bianca Maria che aveva sposato Francesco Sforza. Con lui si apre un nuovo linguaggio rinascimentale. esempio il castello Sforzesco, trasformando il precedente castello di Porta Giovia. Per l’ingresso fu eretto un torrione merlato gotico, simbolo di Milano, detta il Filarete in onore del suo architetto. L’originale andrò distrutto nel 1521 per un’esplosione, questo è una ricostruzione. Il Filarete scrisse un trattato per la progettazione di una città ideale, Sforzinda in onore del mecenate Francesco Sforza. Numerose illustrazioni, pianta geometrica a stella con piazza centrale dominata da una torre. Non fu mai realizzata, ma la mescolanza di stili nel trattato si ritrova nella sua maggiore opera: l’Ospedale Maggiore, fondato nel 1456. La facciata ha bifore ad arco acuto e loggiato con colonne e archi a tutto sesto, ibridazione del gotico e rinascimento. NAPOLI CAPITALE ARAGONESE: Il Castel Novo è il segno della dominazione aragonese, frutto della completa ristrutturazione di una vecchia fortificazione angioina voluta da Alfonso. Al centro dell’arco superiore, adesso vuoto, era previsto un monumento equestre di Alfonso fuso in bronzo. Fu richiesto a Donatello, sarebbe risultato simile a quello dell’arco ferrarese. Non terminò mai la statua ma resta una testa di cavallo che fa immaginare la magnificenza del progetto. Napoli era un grande centro internazionale. Nel 1449 era giunto pure Pisanello per realizzare medaglie per Alfonso. Non stupisce che Facio, umanista ligure, dedicasse al suo signore nel 1456 biografie di uomini illustri in cui celebrava la scultura di Donatello, con Lorenzo e Vittore Ghiberti, Pisanello, Gentile da Fabriano, mancando invece Masaccio, Filippo Lippi e Piero della Francesca, questo perchè il loro linguaggio moderno non andava di moda a Napoli dove c’era la pittura fiamminga. 1 VERSO IL NUOVO SECOLO: UMANESIMO E CULTURA ANTIQUARIA LINEAMENTI STORICI Nuove generazioni fanno maturare il linguaggio rinascimentale: Leonardo, Michelangelo e Raffaello aprono inediti scenari artistici in un'Italia ancora politicamente divisa. A Lodi in Lombardia nel 1454 fu siglata la pace tra la Repubblica di Venezia e il Ducato di Milano passato agli Sforza, accordo importante per garantire stabilità fino al tramonto del ‘400. Nel 1464 morì Cosimo de’Medici, lasciando il potere al figlio Piero il Gottoso. Nel 1469 sarebbe morto anche lui e gli succedettero i figli Lorenzo e Giuliano. I due seppero mantenere il controllo su Firenze, finché non dovettero fronteggiare un complotto dalla famiglia de Pazzi nel1478: all'interno del Duomo i congiurati assalirono i due fratelli, Giuliano morì mentre Lorenzo si salvò. Nelle ore successive i fiorentini si schierarono con il sopravvissuto sterminando i Pazzi e gli alleati. Dietro al complotto c'erano anche Papa Sisto IV e Ferdinando d'Aragona. Lorenzo de’Medici seppe dimostrare le doti politiche e in un paio d'anni raggiunse una pace che consolidò la Repubblica Fiorentina. Il ligure Francesco della Rovere aveva fatto carriera entrando nell'ordine francescano e, con una formazione umanistica, nel 1471 divenne Papa con il nome di Sisto IV. Durante il suo pontificato, si distinse per il mecenatismo e nepotismo, mentre l'attenzione per Roma lo vide promuovere la biblioteca vaticana e costruire la Cappella Sistina. Le scelte politiche furono indirizzate per i propri fini, favorendo con cariche parenti stretti come il nipote Giuliano che sarebbe diventato pontefice con il nome di Giulio II. Ad aiutare Lorenzo fu il sultano Maometto II: nel 1480 invia una flotta minacciando Roma e Napoli, che chiesero la pace a Firenze nel 1481, anno in cui Maometto muore. A quello scontro non prese parte Venezia, che nel 1479 aveva un accordo di non belligeranza con il sultano: ciò favorisce gli scambi e Gentile Bellini soggiorna pure a Costantinopoli, dove nel 1480 ritrae Maometto II (Londra, National Gallery) e la futura regina di Cipro. Un nuovo problema era rappresentato dall’ambizione dei sovrani francesi: Carlo VIII, nipote di Maria d’Angiò, vantava un diritto sul Regno di Napoli: nel 1494 varca le Alpi con l’esercito per scacciare gli Aragonesi, riesce ma brevemente. Se ne andò pochi mesi dopo nel 1495. Questo evento inaugura in periodo delle guerre, dove l’Italia è il bottino delle grandi potenze straniere: Luigi XII, successore di Carlo VIII, rivendica Napoli e Milano e nel 1499 prende Milano, facendo fuggire Ludovico il Moro. Nel 1501 tocca a Napoli ma si scontra con gli interessi del sovrano spagnolo Ferdinando il Cattolico. Nel 1504 si arriva al Trattato di Lione dove Milano è francese e Napoli spagnola. La calata di Carlo VIII aveva lasciato conseguenze a Firenze: morto Lorenzo nel 1492 la città era del figlio Piero, il quale non seppe resistere al re francese e venne cacciato dalla città nel 1494. Nasce una repubblica governata da Girolamo Savonarola, il quale spirava a far diventare Firenze una città ideale cristiana. Il suo rigore porta nel 1497 a un falò di dipinti e libri: accusato di eresia, fu impiccato e bruciato al rogo il 23 maggio 1498. Nasce una nuova Repubblica. 4 SANDRO BOTTICELLI “MADONNA COL BAMBINO E DUE ANGELI”, 1469 TEMPERA SU TAVOLA 100x70, MUSEO CAPODIMONTE NAPOLI FILIPPINO LIPPI “STORIE DI SAN PIETRO”, 1482-85, CAPPELLA BRANCACCI SANTA MARIA DEL CARMINE Dalla bottega di Filippo Lippi emergono almeno due figure che diventeranno tra i pittori più eminenti nella Firenze di Lorenzo il Magnifico. A sx vediamo Filippo Lippi con “Madonna con bambino ed angeli (Lippina)” (Uffizi, 1465) e accanto vediamo un dipinto molto simile: taglio identico, paesaggio appena più evoluto, con la soluzione degli angeli che sorreggono il bambino. Il giovane Botticelli si forma nella bottega di Filippo Lippi alla fine degli anni ’60 e quindi, una volta morto il maestro, nella sua bottega dipinge nella maniera di Lippi, prima di adottare un proprio stile pittorico. Nella bottega di Botticelli troviamo anche il figlio di Filippo, Filippino Lippi: il famoso storico dell’arte Bernard Berenson (colui che nei primi ‘900 è stato fautore del Primitivismo) pensava che le opere del giovane Filippino fossero di un pittore anonimo che lui chiamava “amico di Sandro”, per far capire che era molto vicino alla pittura botticelliana. Anche lui avrà una sua bottega e fin dagli inizi degli anni ’80, anche se ancora molto giovane, riceverà commissioni di grande rilievo, come l’opera in slide in basso: sono rappresentate le storie di San Pietro (sulla croce a testa in giù a sx, mentre a dx la disputa con Simon Mago). Viene infatti chiamato a terminare la Cappella Brancacci ed adotta uno stile molto simile a Masaccio: tutto è molto austero, semplice, senza ornato, anche se in realtà si innamorerà di ornati, anche molto particolari. ANTONIO DEL POLLAIOLO “ERCOLE E ANTEO” E £ERCOLE E IDRA”, 1475, TEMPERA SU TAVOLA 16x9 E 17x12, UFFIZI Lui è un maestro che dà una svolta decisiva all’ambiente artistico fiorentino degli anni ’60. Qui vediamo dei dipinti molto piccoli, ma sono repliche dell’artista di dipinti che invece erano enormi: grandi pannelli che lui stesso aveva eseguito intorno al 1460 per una sala del Palazzo Medici che avevano come soggetto le fatiche di Ercole. Antonio del Pollaiolo ha una formazione da orafo ed è un artista eclettico: non solo pittore ed orafo, ma anche scultore e questi dipinti lo dimostrano. La grande novità che vediamo è il suo interesse per il corpo umano (il suo movimento e le anatomie), qui indagato a fondo su un soggetto mitologico (il paesaggio è invece quasi fiammingo e pieno di luce). Quindi, anche se usa molta luce, i suoi profili saranno sempre molto delineati proprio nel bordo (a differenza, ad esempio, di Piero della Francesca), tanto quasi come se stesse disegnando un rilievo per un’oreficeria. Godrà da subito anche lui di grande fortuna presso i medici. Il gruppo di Ercole e Anteo lo ritroviamo anche in bronzo sempre da lui. La sua passione per il nudo fa sì che lui realizzi anche una vera e propria stampa, di cui non si conosce il soggetto ma viene comunemente chiamata “battaglia di nudi”: un vero e proprio studio di nudi in movimento, un’esercitazione. Questa incisione avrà però grande fortuna: sappiamo infatti da un documento che una copia si trovava anche nella bottega di Squarcione. Antonio ebbe anche un fratello pittore, a cui si deve il ritratto a destra che rimanda molto al gusto fiammingo: si ritrae di profilo, come si usava a Firenze, con attenzione al dettaglio e con preziosità e cielo molto chiaro. 5 ANDREA DEL VERROCCHIO “BATTESIMO DI CRISTO” 1475-78, OLIO E TEMPERA SU TAVOLA 177x151, UFFIZI ANDREA DEL VERROCCHIO “INCREDULITA’ DI SAN TOMMASO”, 1467-83 BRONZO 241, MUSEO DI ORSANMICHELE Altro protagonista, artista eclettico anche lui, della pittura e scultura fiorentina negli anni ’70 è Andrea del Verrocchio. È noto soprattutto per essere stato il maestro di Leonardo, ma in realtà era rinomato soprattutto come sculture (un po’ meno come pittore). Rinnova l’arte fiorentina attraverso anche lui il movimento, estremamente scenografico, e con la bellezza delle sue sculture. Qui vediamo le sue due opere più celebri a Firenze: a dx il Battesimo di Cristo, che era stato eseguito per la chiesa di San Salvi, a cui ha collaborato anche un giovane Leonardo, che in quegli anni era nella sua bottega. L’opera a sx la troviamo nella Chiesa di San Michele, nella parte guelfa: era la prima nicchia con l’arco a tutto sesto, dove nel mezzo c’era San Ludovico di Donatello. Poi però la nicchia viene venduta e acquistata dall’arte della mercanzia, che comprendeva anche la funzione del tribunale che aveva come patrono San Tommaso, che in questa scultura tocca la piaga di Cristo (santo incredule, che va a cercare le prove): Andrea del Verrocchio la terminerà solo nel 1483, quando sarà inaugurato nella nicchia di Orsanmichele. Lui lo pensa appositamente per quella nicchia ed infatti non è scolpito a tutto tondo: è come se fosse un doppio altorilievo, con l’intenzione anche di realizzare qualcosa di diverso rispetto alla tradizione scultorea fiorentina. A sx un’altra nicchia di Orsanmichele realizzata da Nanni di Banco nel secondo decennio del ‘400 per gli maestri dell’Arte della pietra (gli scultori): i santi patroni dei maestri della pietra erano i quattro santi coronati e quindi lui li raffigura affiancati ma facendogli seguire la curva della nicchia, per dare conto dello spazio e cercare la tridimensionalità. Li chiude lì dentro, in un dialogo estremamente moderno per quegli anni. Anche Verrocchio ha un gruppo di figure, anche se sono due e non quattro, e trova una soluzione stilistica molto diversa: tiene questo bellissimo Cristo (con lunga capigliatura, che sarà molto ammirato) all’interno della nicchia, mentre fa uscire San Tommaso. È un modo per rendere tutto più teatrale e scenografico e per coinvolgere maggiormente lo spettatore che vi passa davanti. Ad accentuare questo senso di movimento, Verrocchio adotta una composizione di formato piramidale con la mano dx del Cristo, che diventerà tipica di Leonardo da Vinci. La soluzione piramidale, anche qui data da un braccio, la ritroviamo anche nel Battesimo di cristo, confrontato qui con l’opera di Piero della Francesca: c’è un senso di movimento maggiore in Verrocchio, mentre in Piero della Francesca sembrano quasi in posa. ANDREA DEL VERROCCHIO “MONUMENTO EQUESTRE A BARTOLOMEO COLLEONI”, 1480-88 BRONZO h395, CAMPO SAN ZANIPOLO VENEZIA Verrocchio è un artista estremamente innovativo, di grande intelligenza, bravissimo capo bottega da cui passeranno tantissimi maestri, non solo fiorentini: morirà nel 1488 a Venezia, lasciando da finire questo colossale monumento equestre. Questo monumento colpisce perché si porta già avanti rispetto al Gattamelata di Donatello: a monte ovviamente c’è la lezione donatelliana a Padova (a sx), ma qui vediamo il cavallo di Verrocchio ancora più in movimento perché posto su sole tre zampe (Donatello fa poggiare la zampa su una sfera), ma riesce comunque a stare in equilibrio (quindi anche virtuosismo di saperlo realizzare). Inoltre, vediamo la grande forza espressiva del condottiero ed anche un grande lavoro di rinettatura (perfezionare i difetti derivati dalla fusione) 6 Gioventù di Leonardo Il dipinto di Verrocchio che abbiamo visto agli Uffizi è un dipinto emblematico del fatto che Verrocchio sia stato il maestro di Leonardo da Vinci, anche per Vasari. Leonardo nasce nel 1452 a Vinci, nel territorio fiorentino, e a 20 anni è in bottega dal maestro. Vasari racconta: ““Acconciossi … nella sua fanciullezza a l’arte con Andrea del Verrocchio, il quale, faccendo una tavola dove San Giovanni battezzava Cristo, Lionardo lavorò un angelo, che teneva alcune vesti; e benché fosse giovanetto, lo condusse di tal maniera che molto meglio de le figure d’Andrea stava l’angelo di Lionardo. Il che fu cagione ch’Andrea mai più non volle toccar colori, sdegnatosi che un fanciullo ne sapesse più di lui” (chiaramente Vasari romanza il racconto, che però ci dà prova della capacità di Leonardo di superare già il maestro da fanciullo). Le grandi novità di Leonardo in questo dipinto sono riconoscibili, come appunto dice Vasari è riconoscibile la sua mano rispetto a quella del suo maestro. Vediamo a sx l’angioletto con i capelli molto vaporosi, mentre vicino c’è un angelo di gusto molto più verrocchiesco. A dx vediamo un dipinto di Verrocchio e bottega “Tobiolo e l’angelo” (1470-75, National Gallery), con un paesaggio molto meno moderno di quello di Leonardo, altro elemento suo caratteristico in questo dipinto. È un paesaggio molto atmosferico, che non si era ancora visto nella pittura fiorentina, dove c’è l’indagine della natura e reso tutto naturale grazie al fatto che sembra di sentire l’aria (attraverso la nebbia che si dispone sulle rocce e sull’acqua). LEONARDO DA VINCI “PAESAGGIO CON FIUME (PAESAGGIO DEL VALDARNO”,1473, UFFIZI Ce lo dimostra una serie di suoi paesaggi, soprattutto se li accostiamo uno accanto all’altro: in alto è quello appena visto, sotto il dettaglio di una delle prime opere di Leonardo, mentre a dx vediamo un paesaggio disegnato, indagato in ogni suo particolare: non però come facevano i fiamminghi, ma probabilmente studiato dal vero con l’occhio dello scienziato. La data indicata nel disegno ci fa capire che era ancora nella bottega del Verrocchio. È un’interpretazione di una vallata, con l’intervento dell’uomo in alcuni castelli: molti hanno provato a riconoscerlo, ma ad oggi non si è individuato. È estremamente moderno nel sembrare uno schizzo dal vero: c’è uno studio della natura che nessuno aveva mai fatto. Ciò che interessa a Leonardo è la natura e lo studio dell’uomo, non ad esempio allo studio dell’antico perché lui guarda alla realtà e la indaga in tutte le sue caratteristiche. Qui non c’è la volontà di riordinare tutto il paesaggio, come succede nella pittura fiamminga (van Eyck pare a volte un giardiniere) o con Piero della Francesca (paesaggio perfetto, senza nemmeno un cespuglio di troppo): questo non è un paesaggio perfetto e ci colpisce per la sua aggressività, verità, dove la natura prende possesso della realtà. Anche il paesaggio di Giovanni Bellini era “controllato”, anche quello della Trasfigurazione. LEONARDO DA VINCI “ANNUNCIAZIONE”, 1472-75 OLIO E TEMPERA SU TAVOLA 98x217, UFFIZI Qui Leonardo indaga il paesaggio sullo sfondo: ci sono anche qui montagne particolarmente acuminate, permeate da un’aria vera, mattutina, umida ((il particolare del paesaggio è nella slide sopra)). La Madonna è seduta davanti ad un leggio che è di gusto antiquario, che richiama delle opere di Verrocchio, e a sx l’angelo che si inginocchia su un bel prato fiorito. In questo prato Leonardo si è divertito ad indagare ogni specie botanica, come se fosse un attento scienziato: è in questo che Leonardo va oltre rispetto al suo maestro. Sopra vediamo un’altra Annunciazione che era stata attribuita al giovane Leonardo, ma non è suo. 9 connessa con la virtù. Trova in Sandro Botticelli, fra gli anni ’70 ed ’80, l’artista ideale per impaginare queste storie e raccontarle. Nella Primavera vediamo Venere al centro in un bosco quasi fatato, da sx Mercurio, le tre grazie, la primavera nata dall’unione fra la ninfa Clori e il vento Zefiro: è una fiaba che allude alla perfezione del tempo di Lorenzo il Magnifico e rimanda agli scritti di Poliziano e Ficino. Però Botticelli dipinge queste fiabe adottando un linguaggio non propriamente rinascimentale, per il prato fiorito (anche se viene fatto anche da Leonardo), per le figure allungate e molto più bidimensionali rispetto a quelle viste fino ad ora: l’artista evidentemente si adatta anche ai contenuti e fa un tipo di pittura che per noi rappresenta molto il Rinascimento, ma in realtà adotta un linguaggio molto linearistico, prezioso, elegantissimo e bidimensionale. Basta guardare le onde del mare, eseguite come se fossero degli ornati grafici (forse non è un caso che questi dipinti piacciano particolarmente ai visitatori orientali degli Uffizi). Si potrebbe dire che più che essere capolavori del Rinascimenti, siano capolavori della cultura letteraria del Rinascimento DOMENICO GHIRLANDAIO “CAPPELLA TORNABUONI”, 1485-90 CICLO DI AFFRESCHI, SANTA MARIA NOVELLA Ghirlandaio invece rimane un artista attento alla dimensione reale e quotidiana, quindi ai valori prospettici, tridimensionali, spaziali, ed anche ai valori antiquari. Qui vediamo uno dei cicli più grandiosi della Firenze lorenziana, nella principale chiesa domenicana di Firenze e nella cappella maggiore, dove vengono raccontate le storie della Vergine e del Battista: in basso c’è L’Apparizione dell’angelo a Zaccaria e sopra La natività della Vergine. Sotto Ghirlandaio, ancora una volta, raffigura la Firenze del tempo, con tutta una serie di umanisti, fra cui Ficino, mentre sopra ci mostra come appariva una camera fiorentina dell’epoca (con il rilievo degli spiritelli che richiamano il gusto di della Robbia). Con questi grandi interventi nelle chiese medievali, si uniscono affreschi rinascimentali 400eschi in ambienti che erano ancora gotici (come era successo anche a Piero della Francesca e Filippo Lippi a Prato): lo vediamo dai finestroni gotici e dalle volte a crociera. 10 LA CORTE DI ROMA La Cappella Sistina Quando Leonardo si trasferisce a Milano presso la grande corte degli Sforza di Ludovico il Moro, un gruppo di pittori fiorentini, fra i quali c’è anche Botticelli, vanno a lavorare a Roma intorno appunto al 1482 (qualcuno dice che Leonardo sia andato a Milano perché rimasto escluso da questa committenza importantissima). Sono infatti stati chiamati per dipingere la Cappella Sistina: è stata interpretata anche come una sorta di missione diplomatica, perché nel 1478 c’era stata la congiura de Pazzi: i fiorentini prendono le parti dei Medici ed eliminano i congiurati, ma c’era anche chi li aveva sostenuti, come il papa Sisto IV che muove guerra ai Medici (aveva un esercito molto potente, alleato con gli aragonesi di Napoli: a capo dell’esercito Federico da Montefeltro). L’esercito fiorentino è messo molto in difficoltà, ma poi nel 1480 i Turchi sbarcano in Italia e prendono Otranto, dopo aver provato senza successo a prendere Rodi (in Grecia, sede dei “cavalieri di Rodi”: ordine cavalleresco che difendeva la terra santa): la città fu tenuta dai Turchi per circa un anno e imposero la conversione a tutti gli abitanti (pena la decapitazione). Otranto non era molto lontana da Roma e il papa aveva paura raggiungessero le sue terre. Era inoltre terra degli aragonesi, che quindi dovevano affrontare anche un’altra guerra. Per questo motivo si arrivò alla pace a Firenze: Lorenzo il Magnifico si riappacificò con Sisto IV e di lì a poco gli artisti partirono per dipingere la nuova cappella del papa, che dal papa viene chiamata Cappella Sistina. È una sorta di grande Cappella palatina del Vaticano, realizzata intorno al 1482 con una mole grandiosa: qui la vediamo sia all’esterno che all’interno. È frutto di molteplici interventi di decorazione: inizialmente, dopo la costruzione, c’è una prima parte della decorazione e poi dopo sarebbe arrivato Michelangelo, che la completò in due momenti diversi (prima facendo la volta tra il 1508 e ’12, e poi dopo alla fine degli anni ’30 del ‘500 realizza il grande giudizio universale in fondo sull’altare maggiore). Inizialmente c’era l’idea di dipingere in questa cappella una serie di store della vita di Mosè e della vita di Cristo: la relazione, quindi fra l’antico e nuovo testamento, attraverso i loro rispettivi protagonisti. Si decide di disporre queste storie su dei grandi quadrati laterali, sopra i quali ci sono delle finestre che hanno ai lati delle figure di santi pontefici. Ripensando al ciclo di Gentile da Fabriano e Pisanello, che andò distrutto ma di cui abbiamo un disegno 600esco, vediamo che anche lì c’erano delle grandi storie quadrate che raccontavano la vita di Battista, con sopra grandi finestroni gotici con a lato dei tabernacoli dipinti illusionistici gotici con delle figure di santi. È quindi lo stesso assetto, che da gotico diviene rinascimentale nelle nicchie, nelle finestre e nei dipinti che verranno fatti. Qui vediamo uno schema del ciclo ed in alto un’altra veduta della cappella dove vediamo anche gli arazzi di Raffaello: quando fu completata al tempo di Leone X, papa Medici nel secondo decennio del ‘500, furono realizzati anche questi arazzi (vengono rimontati periodicamente). Il ciclo della cappella viene realizzato da una vasta equipe di pittori, sia fiorentini (tra cui Botticelli, Ghirlandaio, Cosimo Rosselli) e umbri (Pietro Perugino, anche se si formò a Firenze anche lui nella bottega di Verrocchio Luca Signorelli e Pinturicchio). Perugino è il capocantiere e si capisce perché è colui che realizza più storie di tutti (sei) e soprattutto gli viene affidata la storia più importante (l’Assunzione della vergine e il ritratto del papa), che oggi non c’è più perché era posta in fondo sopra l’altare, dove oggi c’è il Giudizio universale di Michelangelo (distrugge poi le prime storie della vita di Gesù e Mosè, in slide nell’ 1A e 1B). Sulla volta c’era poi un cielo stellato dipinto da un artista umbro. 11 MELOZZO DA FORLI’ “SISTO IV NOMINA IL PREFETTO DELLA BIBLIOTECA VATICANA” 1477 Roma è tornata ad essere una grande capitale artistica, o quantomeno c’è la volontà di far sì che fosse tale. È stata rilanciata con il ritorno a Roma di Eugenio IV e successivamente da Niccolò V insieme anche a Leon Battista Alberti e già alla metà del ‘400 inizia ad esserci l’idea di rifare la Basilica di San Pietro, ma solo nel secolo successivo con Giulio II si deciderà di rifarla ex novo. Sisto IV riprende le volontà di Niccolò V e non si occupa solo di rifare la Cappella Sistina, ma di tutta una serie di interventi anche urbanistici, dando vita fra l’altro a quella che oggi è la Biblioteca Vaticana. In questo affresco a sx, realizzato appunto per la Biblioteca, raffigura il momento della sua inaugurazione e la nomina di quello che oggi definiremo primo direttore. Sisto IV è seduto di profilo e il direttore riceve la nomina, con sotto la scritta celebrativa delle imprese architettoniche del papa e, al centro di questo spazio prospettico, troviamo una scena di corte ma con un linguaggio rinascimentale prospettico. Capiamo quindi il livello culturale altissimo durante il pontificato di Sisto IV e da dove arriva tutto il lavoro della Cappella Sistina STORIE DELLA CAPPELLA SISTINA In alto a sx abbiamo Botticelli: esegue tre storie nella Cappella, tra cui quella di Mosè che sconfigge i ribelli, con un gran movimento ed un bel arco trionfale in fondo. In basso abbiamo Ghirlandaio: dipinge due storie, di cui ne resta solo una, dove vi è la vocazione di Pietro e Andrea, con questa visione molto distesa di paesaggio e un notevole interesse per il ritratto dei vari personaggi. In alto a dx c’è Cosimo Rosselli con l’episodio del passaggio nel Mar Rosso, il quale, insieme alla sua bottega, fece ben quattro storie. Su di lui, Vasari inventa un aneddoto divertente e significativo: racconta che, siccome era considerato dagli altri pittori il più debole del gruppo, tutti sogghignavano e lo prendevano in giro, ma quando scoprirono tutti quanti le storie davanti al papa, venne indicato come il più bravo perché le aveva riempite d’oro (come vediamo ad esempio nella sorta di nubifragio in alto a dx nella sua storia). Addirittura, Sisto IV chiese anche agli altri maestri di aggiungere elementi d’oro ai loro dipinti. Anche se si tratta solo di una storiella, il racconto di Vasari ci fa capire che l’interesse per l’oro era ancora forte nei committenti, perché comunque sia si doveva dar conto anche della ricchezza del committente, specialmente in questo caso. Pietro Perugino PIETRO PERUGINO “CONSEGNA DELLE CHIAVI”, 1482 DAL CICLO DI AFFRESCHI CAPPELLA SISTINA Il pittore principe della Cappella Sistina, come detto, è Pietro Perugino: nasce a città della Pieve e si formerà a Firenze con Verrocchio, che ritroviamo nel modo di fare i panneggi e nel modo di fare il Cristo con la lunga capigliatura. Questa è la scena più famosa di tutto il ciclo 400esco della Cappella Sistina (lui fa 6 storie, 3 delle quali oggi perdute): Cristo consegna le chiavi a San Pietro, quindi la scena simbolo dell’autorità della chiesa, quindi di enorme rilievo anche politico e non solo religioso. Perugino interpreta questa scena realizzando un grande episodio prospettico: al centro vediamo un’architettura a pianta centrale, annunciando quello che sarà il grande interesse verso questo tipo di architettura nei decenni successivi, sullo sfondo delle architetture all’antica (archi trionfali) ed un paesaggio estremamente sereno, con 14 IL GUSTO PER L’ANTICO Filippino Lippi FILIPPINO LIPPI “CAPPELLA CARAFA”, 1488-93 CICLO DI AFFRESCHI, CHIESA DI SANTA MARIA SOPRA MINERVA ROMA Uno dei primi pittori che dimostrano una grande attenzione per gli ornati all’antica è Filippino Lippi, che alla fine degli anni ’80 lavora a Roma: ha una grande committenza per una grande cappella nella chiesa domenicana di Santa Maria sopra Minerva, richiesta dal Cardinale Carafa amico di Lorenzo il Magnifico (che quindi manda l’artista ben volentieri). Nella parete principale troviamo L’Assunzione della Vergine (a sx) molto eccentrica e piena di movimento, con gli apostoli in basso che guardano verso l’alto e nel mezzo una pala d’altare all’interno dell’episodio, dove il Cardinale viene presentato alla Vergine. Colpisce molto anche l’utilizzo di ornati all’antica attentamente studiati: li vediamo anche nell’episodio a dx in basso con il trionfo di San Tommaso d’Aquino, dove sullo sfondo vediamo un dettaglio della Roma dell’epoca (sopra). Intravediamo Marco Aurelio, ma non nel Campidoglio bensì in San Giovanni in Laterano: rende così omaggio ad un grande monumento dell’antichità. FILIPPINO LIPPI “SAN FILIPPO SCACCIA IL DRAGONE DAL TEMPIO DI HIERAPOLIS”, 1487-1502 DAL CICLO DI AFFRESCHI CAPPELLA STROZZI, SANTA MARIA NOVELLA Filippino diventa quasi un maniaco dell’antico e lo si vedrà molto bene nella cappella Strozzi, che terminerà solo a inizio ‘500. Nelle varie storie di San Filippo e San Giovanni, si distingue sempre per l’eccentricità delle sue figure, ma anche per l’utilizzo di motivi all’antica non solo nelle decorazioni (ai lati del dipinto e nel tempio, con busti di gusto antiquario), ma anche nei personaggi stessi: vediamo centurioni, soldati antichi abbigliati come se fossero dell’antico Impero Romano, che evidentemente Filippino aveva studiato su reperti antichi a Roma. Pinturicchio PINTURICCHIO “FUNERALI DI SAN BERNARDINO”, 1484-86, DA CICLO DI AFFRESCHI DELLA CAPPELLA BUFALINI, CHIESA DI SANTA MARIA IN ARA COELI ROMA Il più grande esperto dio grottesche della fine del ‘400 sarà Bernardino di Betto detto il Pinturicchio, allievo di Perugino e si vede molto bene: vediamo una scena molto differente, dove Pinturicchio racconta la storia della morte di San Bernardino, ma la costruzione è identica: le figure in PP, prospettiva centrale sul fondo e pavimento quadrettato. 15 PINTURICCHIO “RESURREZIONE DI CRISTO”, 1492-94 CICLO DI AFFRESCHI PER GLI APPARTAMENTI VATICANI, MUSEI VATICANI Nel corso degli anni ’90 diventerà pittore per eccellenza della Roma del papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia, molto famoso per i suoi eccessi, figli e amanti). Pinturicchio decorò una grande parte degli appartamenti vaticani per questo papa, che qui vediamo inginocchiato di fronte al Cristo risorto. Ciò che colpisce qui è l’utilizzo dell’oro, in tutti i dipinti degli appartamenti: è un paesaggio umbro, ma impreziosito di dorature. È un pittore sì rinascimentale, ma attento al dato di ornato. Infatti, nel ‘900 non ha avuto grande fortuna sia perché era stato stroncato dal Vasari (che hanno delle conseguenze secolari, addirittura la famosa Madonna di Rucellai di Duccio da Buoninsegna per Vasari era di Cimabue, ma, ciò nonostante, ci volle del tempo affinché tutti si convincessero del fatto) perché Vasari aveva una visione michelangiolesca dell’arte moderna e Pinturicchio è assolutamente all’opposto (proprio per gli ornati). PINTURICCHIO “ANNUNCIAZIONE”, 1500-01 CICLO DI AFFRESCHI PER LA CAPPELLA BAGLIONI, COLLEGGIATA DI SANTA MARIA MAGGIORE SPELLO D’altronde i pittori che amavano gli ornati in quegli anni andavano per la maggiore, era ciò che era richiesto dai committenti: anche qui a Spello, piccola cittadina umbra, dipinge questa cappella con moltissime decorazioni all’antica, anche se conosce molto bene anche la prospettiva. Anche Perugino nel Collegio del Cambio, riempie tutto quanto di decorazioni alla grottesca nella parte alta (gli viene proprio richiesto). Qui torna anche il tema degli eroi antichi che diventano modelli per la contemporaneità (basandosi ad esempio su Cicerone). PINTURICCHIO “ENEA SILVIO PICCOLOMINI PARTE PER IL CONCILIO DI BASILEA”, 1502-07 CICLO DI AFFRESCHI NELLA LIBRERIA PICCOLOMINI, CATTEDRALE DI SIENA Uno dei lavori più emblematici di Pinturicchio per quanto riguarda la grottesca (gli vengono richieste addirittura per contratto) è questo ciclo di affreschi, che dipinge quando ormai non è più il principale pittore di Roma e si ritira verso la Toscana. Qui dipinge non la vita dei santi, ma di un personaggio vissuto fino a qualche decennio prima: il papa che aveva fondato Pienza e la commissione arriva da un suo erede (che poi diventerà papa anche lui, ma solo per una ventina di giorni). Tutto intorno alle storie e nella volta nella parte alta inserisce le grottesche. A questo ciclo lavora anche un pittore che, se pur giovanissimo, si sta già imponendo, ovvero Raffaello: nasce ad Urbino, si forma con Perugino ed ha a che fare con Pinturicchio. L’idea iniziale è che questa diventasse la libreria di Pio II, morto qualche decennio prima e di cui si erano conservati i libri: oggi ci troviamo i corali della cattedrale, ma soprattutto un gruppo antico romano delle Tre grazie, che i Piccolomini spostarono da Roma a Siena. Questo è un luogo laico, seppure collocato di fianco ad una chiesa, e per questo poteva accogliere anche sculture antiche, ad attestare proprio la predilezione all’antico dei committenti, oltre che degli artisti. 16 NELLA MILANO DI LUDOVICO IL MORO Leonardo da Vinci a Milano Leonardo nel 1482 da Firenze si sposta a Milano: pur essendo il più anziano fra i protagonisti della “maniera moderna” (Leonardo, Raffaello e Michelangelo), rimane un po’ fuori rispetto a ciò che stava succedendo nelle altre città. A Milano si trova benissimo, al servizio di Ludovico il Moro (qui ritratto da un pittore anonimo): apre una sua bottega e partecipa a tanti progetti diversi. Non fa solo il pittore o lo scultore, ma anche l’ingegnere, l’architetto, progetta macchine belliche ed altro ancora. L’idillio finirà nel 1499, con la conquista francese di Milano: Leonardo andrà prima a Venezia e poi tornerà verso la Toscana. Milano cominciava già ad essere una capitale artistica ancora prima dell’arrivo di Leonardo: vi erano stati altri artisti, non si era fermata al Gotico, ma di certo Leonardo diede un’importantissima svolta. LEONARDO DA VINCI “MADONNA COL BAMBINO, UN ANGELO E SAN GIOVANNINO (VERGINE DELLE ROCCE)”, 1483-85 OLIO SU TAVOLA TRASPORTATO SU TELA 199x122, LOUVRE PARIGI LEONARDO DA VINCI “MADONNA COL BAMBINO, UN ANGELO E SAN GIOVANNINO (VERGINE DELLE ROCCE)”, 1483-85 OLIO SU TAVOLA 189x120, NATIONAL GALLERY LONDRA Il primo dipinto che Leonardo realizza a Milano è un dipinto per la chiesa di San Francesco Grande (che oggi non esiste più), per la confraternita dell’Immacolata Concezione: è una pala d’altare di una modernità inaudita, come non si era mai visto prima, della quale esistono ben due versioni. La grande modernità è che la scena è ambientata nel mezzo della natura (per questo viene chiamato “la Vergine delle rocce): Leonardo indaga soprattutto il paesaggio roccioso, lo stesso che abbiamo visto ai suoi esordi, e pieno di nebbia, la natura che incombe su questa scena: non è un giardino ben tenuto “dal giardiniere”. Un’altra novità è la gestualità delle figure e il modo di rendere le stesse in modo molto attenuato, con un chiaroscuro molto sfumato. Sembra di sentire l’aria che costruisce i volumi delle forme e dei volti, dei capelli (come l’angelo nella pala del Verrocchio). Queste caratteristiche faranno parte del suo linguaggio per tutta la sua vita (come il Mantegna e diverso da Giovanni Bellini), mentre ci saranno tanti artisti che, guardando a Leonardo, cambieranno il loro stile. Ritroviamo anche lo schema piramidale. Non si sa come mai ci siano due copie dell’opera: è probabile che ci siano stati problemi di pagamenti (lui si era tenuto l’opera, poi donato al re di Francia, e poi ne aveva fatto un altro che andò definitivamente sull’altare della confraternita). LEONARDO DA VINCI “STUDIO PER IL MONUMENTO EQUESTRE DI FRANCESCO SFORZA”, 1489-90 LONDRA Leonardo arriva a Milano con una lettera di presentazione, dove sono elencate le cose che sapeva fare (una sorta di curriculum) fra cui che avrebbe potuto fare per Ludovico il Moro un grande monumento equestre dedicato a suo padre Francesco, per rendere onore alla casa degli Sforza, che aveva preso il potere a Milano dopo i Visconti alla metà del ‘400. Effettivamente si dedicherà alla realizzazione di questo monumento che doveva essere colossale ed essendo un allievo di Verrocchio, aveva pensato di superare il suo maestro. Inizialmente studia un progetto, di cui vediamo nel disegno, in cui il cavallo poggia solo su due zampe, ma poi pare avere delle difficoltà tecniche e passa ad un progetto diverso (in basso), molto simile al monumento di verrocchio, ma che ci fa capire la grande passione e lo studio dal vero dei cavalli di Leonardo (lo stesso Verrocchio, in un suo studio per il monumento, aveva annotato tutte le proporzioni di un cavallo). Il monumento di fatto non verrà mai realizzato, o meglio verrà realizzato in creta ma con l’arrivo dei francesi andrà distrutto (perché si riferiva al fondatore della dinastia Sforza). 19 I PITTORI LOMBARDI, MANTEGNA E LO STUDIOLO DI ISABELLA D’ESTE Le esperienze di Leonardo e Bramante furono decisive per le nuove strade dei pittori lombardi. BRAMANTINO: 1480-1530 è detto Bramantino per una dipendenza dell’artista di origine urbinate che lo educò al valore della prospettiva e il gusto per le forme monumentali. ISABELLA D’ESTE E LE ARTI: Primogenita del duca di Ferrara, andò in sposa a Francesco Gonzaga. A Mantova seppe mettere in piedi una corte colta, fu appassionata di lettere, musica, moda, scacchi e tanto altro. Grande collezionista, ebbe a suo servizio uno scrittore ed esperto di antiquaria Giancristoforo Romano e accolse Leonardo quando abbandonò Milano per andare a Venezia. In quell’occasione il maestro ritrasse la marchesa in un foglio ora al Louvre del 1499. Nel suo castello Isabella progettò di allestire due ambienti emblematici del suo impegno intellettuale: uno studiolo e una grotta. La seconda era destinata a conservare un eccezionale raccolta di antichità, mentre lo studiolo accolse una serie di dipinti che Isabella cercò di commissionare ai principali pittori del tempo. Il prezioso arredo è andato disperso il ciclo costituito da complicate allegorie si conserva oggi al Louvre. Non si rivolse solo gli artisti della Corte ma i migliori pittori dell'epoca, resta la corrispondenza con la quale ordina una tela Pietro Perugino spiegando il soggetto: la lotta tra amore e castità corredata da una serie di figure mitologiche. Perugino consegna il dipinto nel 1505. Isabella cercò di avere un dipinto anche da Giovanni Bellini ma non ebbe successo. 1 LA MANIERA MODERNA LINEAMENTI STORICI Nel corso del 400 ci sono eventi epocali che portano alla nascita di Stati Nazionali che esistono ancora oggi. UNA TESTIMONIANZA DI FRANCESCO GUICCIARDINI: lo storico scrive della situazione italiana di fine 400 come testimone oculare. Prima era divisa in cinque stati (papato, Napoli, Venezia, Milano e Firenze): con i francesi cadono città, ducati e regni e le guerre si fanno improvvise e violente. I destini degli stati italiani non si giocavano più sulle scelte politiche dei signori ma in guerra dagli eserciti. TUTTI CONTRO VENEZIA: LA LEGA DI CAMBRAI: con Milano già francese, Napoli vide nel 1504 il passaggio alla corona di Spagna. Nel 1508 le maggiori potenze d’Europa insieme al papato, Mantova e Ferrara si coalizzano della Lega di Cambrai per attaccare Venezia e prendere i territori. Non riuscirono perché nonostante le sconfitte veneziane venne meno l’equilibrio della Lega. GIULIO II: LE IMPRESE DI UN PAPA GUERRIERO: nel 1503 Giuliano della Rovere diviene papa Giulio II: si distinse come mecenate ma anche come bellicoso capo di uno stato secolare. Capì che Venezia era meno pericolosa degli altri stati e nel 1510 fece sciogliere la Lega di Cambrai e nel 1511 crea la Lega Santa: papato e Venezia contro Milano e i francesi per cacciarli. Nel 1512 entra anche Massimiliano d’Asburgo. I francesi promuovono il Concilio di Pisa per deporre Giulio II ma non ebbe successo. Nel 1512 i francesi sconfiggono la Lega a Ravenna ma presto abbandonano Milano che torna agli Sforza, i domini della Chiesa si ampliano, Giulio era riuscito nell’intento ma muore nel febbraio 1513. LEONE X E FIRENZE CHE TORNA MEDICEA:1513 Giovanni de’Medici viene eletto papa con il nome di Leone X. Non era incline alla guerra e si distinse per mecenatismo tra Roma e Firenze. Grazie a lui i Medici furono riammessi a Firenze. Nomina arcivescovo e poi cardinale Giulio de’Medici, papa poi con il nome di Clemente VII. RIFORMARE LA CHIESA: LUTERO ED ERASMO: nel 1517 il frate agostiniano tedesco Martin Lutero aveva affisso alla porta della chiesa di Ognissanti a Wittenberg le sue 95 tesi dove contestava la vendita delle indulgenze da parte della chiesa di Roma, iniziata nel 500 con notevole incremento perché Giulio e Leone la usarono per finanziare arte e guerre. Lutero restò scandalizzato dalla vendita ma anche dalla curia con passione per l’antiquaria. A biasimare la chiesa anche Girolamo Savonarola insieme a uno dei maggiori intellettuali europei, Erasmo da Rotterdam che nel 1511 pubblica l’elogio della follia in cui critica la corruzione del clero volendo proporre una conciliazione del culto antico con quello di cristo. Con le 95 tesi si scontra con il papato e iniziano le guerre di religione. DUE NUOVI PROTAGONISTI: CARLO V E FRANCESCO I: Carlo V nel 1519 a 19 anni viene eletto a Francoforte imperatore del Sacro Romano Impero che comprendeva anche Spagna, Napoli, Borgogna, Paesi Bassi e Franca Contea. Cerca di contrastare l’avanzata della riforma in Germania e scontrandosi spesso con il re di Francia Francesco I. Salito al trono nel 1515 riconquista Milano nella battaglia di Pavia del 1525: lo stesso sovrano fu fatto prigioniero e liberato con un riscatto e la ratifica del Trattato di Madrid del 1526 dove rinunciava a Napoli, Milano e la Borgogna. Dopo Leone e Adriano sale Clemente al papato e conosce la furia di Carlo V capace nel 1527 di conquistare Roma e metterla a sacco. La maniera moderna è ciò che noi oggi chiamiamo Rinascimento maturo, ovvero la corrente artistica che si afferma fra Firenze e Roma nei primi decenni del ‘500, in una fase decisiva e cruciale per le arti in Italia e per l’Europa. Leonardo aveva avviato la sua carriera con una decisiva formazione nella bottega del Verrocchio nei primi anni ’70 e poi si era affermato come pittore e non solo prima in patria e poi, dal 1482 al ’99 nella Milano di Federico il Moro, fino all’arrivo dei francesi guidati da Luigi XII. Già quello è un primo momento delle guerre d’Italia, che erano iniziate nel 1494 con il precedente sovrano francese Carlo VIII che era venuto in Italia per riprendersi il Regno di Napoli. In tutto questo, gli stati italiani mostrano grande debolezza e, di volta in volta, cercheranno alleati per rispondere alle presenze straniere sul territorio, con relativa fortuna. Firenze è uno di questi stati e, fino al 1492, è guidata da Lorenzo il Magnifico (non ufficialmente): qui abbiamo già visto presenze determinanti per quanto riguarda la pittura, come Ghirlandaio, Filippino Lippi, Sandro Botticelli, il quale seppe rendere meglio la cultura neoplatonica e se vogliamo più astratta. 2 VERSO IL NUOVO SECOLO Gli esordi di Michelangelo e il giardino di San Marco Nella Firenze di Lorenzo il Magnifico si forma anche un giovanissimo Michelangelo: nasce nel 1475 a Caprese, ma ben presto si trasferisce a Firenze e sul finire degli anni ’80 comincia la sua formazione. È un giovane di grande talento, che si forma inizialmente nella bottega del Ghirlandaio, dove apprende le tecniche artistiche (anche se non ne andrà molto fiero, anche perché il suo maestro aveva un linguaggio molto diverso da quello che sarebbe stato il suo). In seguito, come ci racconta anche Vasari, ebbe un momento formativo decisivo nel Giardino di San Marco: Vasari ne parla come di una sorta di proto-accademia, quando ancora non esistevano (sono un fenomeno tipicamente del ‘500), e ci dice che era uno spazio vicino al convento di San Marco, dove i Medici avevano raccolto la loro collezione di anticaglie (sculture, ma non solo) e c’era appunto una sorta di scuola per i migliori giovani talenti. MICHELANGELO “MADONNA DELLA SCALA”, 1490-92 MARMO 55X40, CASA BUONARROTI FIRENZE Qui gli artisti potevano studiare l’antico, attraverso la collezione dei Medici, ma anche l’arte di Donatello: infatti i Medici avevano scelto come “custode” di questo giardino un artista che si chiamava Bertoldo di Giovanni, il quale era stato l’ultimo grande allievo di Donatello e aveva lavorato con il maestro nell’ultima grande impresa donatelliana (lasciata incompiuta), ovvero i pulpiti con rilievi in bronzo della chiesa di San Lorenzo a Firenze (in slide in basso). In alto invece vediamo un bronzetto di Bertoldo di Giovanni. Michelangelo quindi si formò in questo ambiente particolare e lo vediamo in almeno un paio di opere: qui a destra ne vediamo una, la quale ci testimonia la conoscenza dello stiacciato di Donatello. Anche nella Cappella Brancacci avevamo visto che Michelangelo era fra coloro che, fin da giovinetto, andava a studiare attraverso il disegno le pitture di Masaccio: quindi abbiamo Donatello, Masaccio e l’antico. MICHELANGELO “BATTAGLIA DEI CENTAURI”, 1490-92 MARmO 84x90, CASA BUONARROTI FIRENZE È un rilievo non finito ed evidentemente si tratta di uno studio di un rilievo antico, che ci mostra appunto l’interesse sia per l’antico, sia per quello che sarà la sua mania per tutta la sua vita: il corpo umano. Questo è un vero e proprio studio di corpo umano in movimento (come in Pollaiolo, anche se era tutta delineata, con stile da orafo e per questo più bidimensionale). Michelangelo qui non era ancora diciottenne e quindi ci rendiamo conto dello straordinario talento dell’artista, che quindi si afferma di già nella Firenze di Lorenzo il Magnifico e conosce la cultura neoplatonica che tanto andava di moda in quegli anni. MICHELANGELO “CROCIFISSO”, 1493 LEGNO INTAGLIATO E DIPINTO 139x135, SANTO SPIRITO FIRENZE Nei primissimi anni ’90 Michelangelo realizza questo straordinario crocifisso per lo studio delle anatomie, legato anche al fatto che alcuni artisti sfruttavano la possibilità dello studio dei corpi dei defunti (anche Leonardo e Raffaello). È un’opera che per lungo tempo era stata dimenticata dagli studi ed è stata recuperata solo una cinquantina d’anni fa da un’importante studiosa: è realizzata in legno, come la maggior parte in quel tempo ma non tutti, come vediamo dalla slide in basso con un bronzo di Donatello di Padova. Sopra invece il crocifisso di Brunelleschi per Santa Maria Novella. Il Cristo di Michelangelo è l’opera culminante della fine del ‘400, che riparte in qualche modo da quello di Brunelleschi per aprire una stagione nuova, volta appunto sullo studio delle forme anatomiche: è quindi la prima grande opera pubblica di Michelangelo per Firenze e doveva stare nell’altare maggiore della chiesa di Santo Spirito, che tra ‘altro era stata ricostruita con un grande progetto brunelleschiano e per questo oggi la definiremo rinascimentale. 5 FIRENZE ALL’INIZIO DEL ‘500: LA SCUOLA DEL MONDO Michelangelo MICHELANGELO “DAVID”, 1501-04 MARMO h486, GALLERIA DELL’ACCADEMIA FIRENZE Michelangelo torna a Firenze nel 1501, quando la città non si trova più sotto il controllo di Savonarola, che era stato impiccato e poi arso, ed è vogliosa di far vedere la sua libertà nella sua Repubblica autonoma: qui ottiene una commissione molto importante, che farà di lui il più celebrato scultore. Così, in quella che Benvenuto Cellini (altro grande artista) avrebbe poi definito “scuola del mondo”, fra il 1501 e il 1504 Michelangelo realizza questa grandiosa opera. Figura colossale a tutto tondo, scolpita “in un sol sasso” (il topos della scultura all’antica era proprio quello di scolpire in un sol sasso, senza aggiunte). Il tema l’abbiamo già conosciuto con Donatello e la prima scultura a tutto tondo del ‘400 italiano. Al centro della slide una versione del David di Verrocchio, anch’essa si trova al museo del Bargello. In qualche modo questa versione conferma l’interpretazione tradizionale nel ‘400 della figura di David: un David adolescente, giovinetto, piccolo, con la spada fra le mani di grande eleganza e il braccio sx al fianco, in posa, e ai piedi la testa tagliata di Golia, come se fosse una sorta di grande trofeo. Michelangelo non fa questo, ma rielabora completamente il tema: la sua scultura innanzitutto è in marmo e non in bronzo, prediligendolo sempre perché preferisce la scultura “per via di levare” (idea all’interno del marmo da tirare fuori) a quella “per via di mettere” (quest’ultima si riferisce al modellare l’argilla). David è un giovane molto più matura rispetto agli adolescenti degli altri due artisti, e di conseguenza ha una muscolatura diversa, maggiore. Inoltre, il David di Michelangelo è in un momento diverso: non ha sconfitto Golia, ma si sta preparando a sconfiggere il nemico: è per questo una figura in tensione rispetto alle altre. Possiamo dire inoltre che è una scultura eccezionale anche per la sua funzione, perché l’artista riesce ad ottenere dall’Ordine del Duomo di Firenze la possibilità di scolpire questo enorme blocco di marmo che era nei loro magazzini dagli anni ’60 del ‘400: inizialmente era stato acquistati per ricavarci una scultura da porre sugli sproni altissimi della cattedrale, ma quel progetto fallì (era stato tra l’altro affidato ad Agostino di Duccio, scultore incontrato nel Tempio Malatestiano, che si contraddistingue per essere linearistico e privo di volume). Quando a Firenze si vede e si capisce la straordinaria opera di Michelangelo, viene fatta una commissione apposita di artisti e cittadini al fine di decidere dove collocarla: si deciderà per il luogo più eminente della città, ovvero davanti a palazzo della Signoria (dove oggi vediamo una sua copia, che ci fa capire anche il significato politico del David: il difensore della Repubblica di Firenze, come anche lì accanto la Giuditta di Donatello). LEONARDO “BATTAGLIA DI ALGHIERI”, COPIA MICHELANGELO “BATTAGLIA DI CASCINA”, COPIA La Repubblica fiorentina è in questo momento estremamente orgogliosa della sua libertà e della sua storia per le vittorie precedenti, e per questa ragione fra il 1503 e il 1504 si decide di dipingere all’interno di Palazzo vecchio due battaglie. Si approfitta del fatto che a Firenze in quel momento si trovavano i due artisti considerati più importanti: Michelangelo e Leonardo, il quale ormai era rientrato in città. Quindi si assegna a Leonardo l’incarico di dipingere la Battaglia di Anghiari e a Michelangelo la Battaglia di Cascina. La prima viene interpretato da Leonardo sostanzialmente come uno scontro tra cavalli: le fonti ci dicono che fu realizzata con una tecnica particolare, ovvero una specie di affresco in cui Leonardo cercò di rifare la tecnica antica dell’encausto, ma l’opera andò distrutta completamente. Abbiamo però delle copie (in slide una che si trova agli Uffizi) dalle quali si capisce che Leonardo aveva incentrato la scena su un duello fra cavalieri, derivato dalla sua passione per i corpi in movimento e per i cavalli. In slide sotto vediamo una replica dal perduto cartone che invece realizzò Michelangelo per la battaglia di Cascina: qui si fa quasi fatica che si tratta di una battaglia, perché l’artista interpreta la battaglia in maniera molto 6 particolare. Non ha fatto una vera e propria battaglia, ma rifà quello che già aveva fatto nella Battaglia dei centauri da giovane, ovvero un rande studio di nudi e di figure di scorcio complesse. Siccome la battaglia prevedeva uno scontro fra i fiorentini e i pisani a Cascina, Michelangelo ha immaginato l’esercito fiorentino che viene avvertito dell’arrivo dei pisani mentre fanno un bagno e quindi tutti corrono a prepararsi per combattere: vengono colti nel momento di vestirsi, di uscire dall’acqua, di imbracciare qualche arma. Il cartone di Michelangelo andò distrutto e lui non dipinse l’affresco perché nel 1505 fu chiamato a Roma, ma tuttavia quel cartone ebbe una fama enorme e da esso dipendono tante soluzioni che sono tipiche della cosiddetta “maniera” (fenomeno artistico dipendente dalle invenzioni dei protagonisti della maniera moderna, anche se a volte viene inteso come manierismo: sono artisti che comprendono di non poter superare i traguardi raggiunto da Leonardo, Michelangelo, Raffaello e si dedicano quindi a riproporre le loro idee). MICHELANGELO “SACRA FAMIGLIA CON SAN GIOVANNINO E NUDI SULLO SFONDO (TONDO DONI)”, 1507 TEMPERA GRASSA SU TAVOLA DIAMETRO 120, UFFIZI Michelangelo pittore non realizza la battaglia di Cascina, ma dipingerà per la famiglia Doni di Firenze un bellissimo tondo, uno dei capolavori degli Uffizi ancora con la sua cornice originale. È un’opera straordinaria perché ci testimonia al meglio gli ideali artistici di Michelangelo e ci preannuncia quella che sarà la sua attività per la Cappella Sistina. Lo vediamo a confronto con la Madonna di Luca Signorelli, pittore anche lui estremamente attratto dallo studio del nudo e per questo inserisce dei nudi nel dipinto: Michelangelo fa lo stesso e quale sia il significato di queste figure non è facile dirlo. Possiamo però intendere il linguaggio utilizzato dall’artista: le figure umane sono protagonista ancora una volta, come non c’è nessuna attenzione per gli ornati (nella cornice sì, che richiama quasi le grottesche) e inoltre, rispetto al Bacco, ha la volontà di andare oltre la produzione e l’armonia della scultura antica, diventando quasi anticlassico. Ad esempio, Signorelli fa una sorta di Madonna dell’umiltà, seduta a terra che gioca con il figlio, mentre Michelangelo inventa una cosa completamente diversa: è come se il padre e la mamma si stessero passando il figlio sopra le spalle di lei, con una posa estremamente contorta: infatti la Vergine è posizionata piegata a terra, con le gambe da un lato, e lei muscolosissima che si gira con il busto e le braccia a prendere il bambino dall’altro lato. È una soluzione piena di energia, dove la figura femminile è compressa all’interno del cerchio del tondo (pare quasi che, se si alzasse in piedi, solleverebbe lo spazio nel tondo): questa è la caratteristica della scultura del Michelangelo maturo, non quello quindi degli anni ’90 ma quello che sarà dalla Cappella Sistina in poi. Della Cappella Sistina vediamo i paesaggi privi di ornamenti, come quelli di Masaccio, l’interesse per il nudo e per l’antico e i colori molto acidi, molto particolari, tipici suoi. Vediamo in slide una scultura simbolo dell’antichità, il Laocoonte, legata a Michelangelo perché fu ritrovata a Roma nel 1506 e lui fu chiamato in qualità di esperto per confermare che si trattasse del Laocoonte di cui parlava Plinio: lui confermò e vedendola, si rese conto anche di un'altra cosa fondamentale. Lui, che anni prima aveva realizzato il David, si rese conto che quando Plinio parlava di “ex uno lapide” (cioè ottenuta da un solo blocco di marmo) utilizzava un topos, ovvero voleva dire che quel gruppo era così ben scolpito che le parti degli assemblaggi non so vedevano. Quindi rispetto agli scultori antichi, uno scultore moderno come Michelangelo aveva saputo fare qualcosa ancora di meglio. 7 Raffaello LEONARDO “MADONNA COL BAMBINO, SANT’ANNA E SAN GIOVANNINO”, 1497-1500 MATITA, BIACCA E SFUMINO SU CARTA INCOLLATA SU TELA, NATIONAL GALLERY LONDRA LEONARDO “MADONNA COL BAMBINO, SANT’ANNA E UN AGNELLINO”, 1503 OLIO SU TAVOOLA 168x130, LOUVRE Quando Leonardo è a Firenze e si occupa della battaglia di Anghiari, è un artista che gode di una fama come pittore pari a quella di Michelangelo. Vasari racconta che tra le opere che tutti i fiorentini andavano a vedere in quegli anni (1503-1504) era un grande cartone esposto nella chiesa di Santissima Annunziata: verosimilmente questo cartone non è arrivato fino a noi, ma ne è arrivato un altro abbastanza simile. È un cartone tipicamente leonardesco e che richiama il mondo di Leonardo che abbiamo già conosciuto, dove c’è una grande attenzione per la natura e con lo sfumato delle figure attraverso il chiaroscuro (come nella Vergine delle rocce), la gestualità delle figure resa attraverso anche gli sguardi e la composizione piramidale. A destra vediamo un famoso dipinto, con più meno lo stesso soggetto e le stesse caratteristiche: rocce, nebbia, attenzione per la natura, gestualità, costruzione piramidale, sfumato. RAFFAELLO “MADONNA COL BAMBINO E SAN GIOVANNINO (MADONNA DEL CARDELLINO)”, 1506 OLIO SU TAVOLA 107x77, UFFIZI In questo dipinto troviamo delle caratteristiche di Leonardo: il gioco di sguardi, la gestualità, i moti dell’animo ed anche la composizione piramidale. Il paesaggio invece è molto diverso, perché Raffaello è un artista, come Giovanni Bellini (e diversamente da Leonardo e Michelangelo), cambia continuamente linguaggio in base a ciò che vede: in quegli anni l’artista aveva visto Leonardo, ma aveva montato queste sue novità su un linguaggio che gli veniva dalla sua diversa formazione. RAFFAELLO “CROCIFISSIONE”, 1502-3 OLIO SU TAVOLA 279x166, NATIONAL GALLERY LONDRA È il più giovane dei protagonisti della maniera moderna (nasce nel 1483) e dei tre è l’unico non toscano: nasce ad Urbino ed è figlio di un pittore e uomo di corte, Giovanni Santi, che morirà molto presto. Raffaello quindi non avrà modo di seguire la sua formazione e diventerà allievo diretto di Perugino: questi dipinti, messi vicini, danno ben conto del fatto che fosse suo allievo e infatti a sinistra vediamo infatti Perugino con la Pala Chigi (1506-7, chiesa di Sant’Agostino Siena), commissionata dalla famiglia Chigi, potentissimi banchieri. È proprio in una lettera inviata da Agostino Chigi da Roma al padre a Siena, che viene detto che Perugino è il miglior pittore d’Italia (dopo di lui viene Pinturicchio). Il dipinto di Raffaello nasce per Città del Castello, poco distante da San Sepolcro (zone battute da Piero della Francesca). Le due opere sono molto simili: i colori sono accesi in entrambe le due opere (quello del Perugino non è stato restaurato). Il linguaggio di Raffaello, nel modo di rifare il paesaggio umbro, nei volti devoti e sfumati (che piacevano a Savonarola, ma annoiavano Vasari), gli alberelli esili, la composizione, in tutto questo muove verso Perugino. 10 Bramante e il progetto di San Pietro TEMPIETTO DI SAN PIETRO, SU DISEGNO DI DONATO BRAMANTE, 1500-06 ROMA Nella Roma del tempo un ruolo decisivo lo avrà Bramante, che avevamo già visto nella Milano di Ludovico il Moro e che anche lui, a causa dell’arrivo dei francesi, si sposterà appunto a Roma, dove diventerà il vero regista delle novità progettate da Giulio II. Tra le opere iniziali della sua attività, c’è questo tempietto: una sorta di esercitazione sull’architettura antica, ma anche sul tema della pianta centrale: è infatti un tempietto dorico a pianta centrale. Questo tema per Bramante è cruciale e l’avevamo già inteso a Milano (con la giunta alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, anche se non è proprio centrale perché innestato su un corpo già esistente) e lo svilupperà nel progetto della nuova Basilica di San Pietro. Giulio II aveva deciso di abbattere la vecchia basilica costantiniana, sulla quale si era cominciato ad intervenire già una cinquantina di anni prima, al tempo del papa Niccolò V: si voleva farla più monumentale, più magnificente e più adatta alle esigenze liturgiche del pontefice stesso (avrebbe anche voluto farsi seppellire nella nuova Basilica in un enorme mausoleo, progettato da Michelangelo). A dx vediamo la medaglia di un orafo lombardo chiamato il Caradosso e da qui vediamo il progetto di Bramante: era dominato da una grande cupola che richiamava quella del Pantheon e prevedeva una serie di campanili agli angoli della chiesa, la quale era su pianta a croce greca centrale (come vediamo nella piantina sotto). Quest’opera non sarà mai terminata, o quantomeno non nelle forme progettate da Bramante perché il progetto iniziato sarebbe stato alterato continuamente per oltre un secolo, fino ad arrivare ad una pianta longitudinale definitiva (a croce latina quindi). ANDREA SANSOVINO “MONUMENTO SEPOLCRALE DEL CARDINALE ASCANIO MARIA SFORZA”, 1505-09 MARMO, SANTA MARIA DEL POPOLO ROMA Roma è una città in cui è dominante la fortuna dell’antico: quando nel 1506 vi è il ritrovamento del Laocoonte, Giulio II chiede a Bramante di realizzare un prolungamento in una delle chiese più prestigiose e note di Roma, ovvero la chiesa di Santa Maria del Popolo (un po’ come aveva fatto a Milano), dove tra l’altro il papa fa innalzare due grandi monumenti sepolcrali, uno dei quali è per Ascanio Maria Sforza che era il fratello di Ludovico il Moro. Questi monumenti vengono scolpiti da uno scultore che si era formato con Michelangelo nel Giardino di San Marco, Andrea Sansovino: essi fanno il verso ad un arco trionfale antico e sono pieni di sculture riferite anch’esse a sculture antiche, tanto che le virtù nella parte bassa sono vestite, ma in quella alta cominciano a spogliarsi, mostrando i seni. Questi monumenti (l’altro è per un parente del papa) sono importanti perché fondano un nuovo modello di monumento sepolcrale, fortemente antiquario ma anche con l’idea innovativa di fare il giacente non semplicemente disteso e morto sul sarcofago, ma con una posizione semi cosciente (in questo caso, con la testa appoggiata su un braccio come se stesse dormendo). Questa diventa una caratteristica tipica quindi della scultura sepolcrale del ‘500, partendo proprio da questa commissione. 11 Raffaello RAFFAELLO “STANZA DELLA SEGNATURA”, 1508-11 CITTA’ DEL VATICANO ROMA Bramante lancia anche in quegli anni sulla ribalta romana il giovane Raffaello, il quale arriva a Roma nel 1508 e presto si impone come il nuovo pittore degli appartamenti di Giulio II: riesce infatti ad ottenere questa importante commissione, perché Giulio II non voleva abitare nell’appartamento di Alessandro VI (decorato da Pinturicchio nel corso degli anni ’90 del ‘400). Inizialmente chiamò diversi pittori, che poi licenziò per affidare il tutto a Raffaello, il quale inizia a lavorare da questa stanza che aveva inizialmente funzione di biblioteca. A dx vediamo la volta, che era già stata avviata prima da un altro pittore: mantiene l’elemento centrale che richiama la soluzione del Mantegna nella Camera degli sposi (sfondare il soffitto). Raffigurò una serie di allegorie delle discipline contenute nei libri della biblioteca (dalla Legge, ovvero la Giustizia, alla Poesia, alla teologia, alla Filosofia). Difatti il primo grande episodio, raffigurati nelle pareti, è La disputa del sacramento (1509), dove si vede la sua grande capacità nella resa prospettica, che vediamo nella costruzione del pavimento (che ricorda il suo maestro Perugino) e disposizione dei personaggi nella parte alta, come se fossero un’abside architettonica. Di queste capacità aveva già dato conto nell’affresco a sx lasciato a Perugia e ad altre opere che aveva visto a Firenze, come l’affresco a Santa Maria Nuova a sx. Nell’episodio successivo. La scuola di Atene (1510-11), Raffaello fa molto di più: è come se ambientasse questo episodio, dove ci sono tutta una serie di filosofi che discutono intorno a Platone (che indica verso l’alto e che qualcuno identifica come ritratto di Leonardo) e Aristotele (verso il basso, a rappresentare il mondo delle idee e della natura), nell’antico. Non mancano quindi scultore all’antica e viene costruito una specie di grande spazio architettonico che allude, con la grandiosità delle volte lacunari, al progetto in pianta centrale di Bramante per la nuova san Pietro. C’è un suo autoritratto sulla dx di spalle, insieme il Sodoma (il pittore che aveva iniziato la decorazione della stanza, proprio come fece Signorelli a Orvieto con beato Angelico). Il personaggio in PP fu aggiunto qualche anno dopo a rendere omaggio a Michelangelo (al centro chinato), qui ritratto a fare il verso all’antico nei panni del filosofo Euclide. Altro bellissimo episodio della stanza, Parnaso (1511), in cui Raffaello raffigura il monte di Apollo, con il dio al centro e le muse accanto, insieme ad una serie di poeti, a rappresentare il trionfo della Poesia. Si riconoscono qui facilmente Dante ed Omero (a sx vestiti di verde e blu) e anche qui non manca una ganda capacità di alludere alle figure artiche, di rilettura della scultura antica. In questo caso la lunetta è stata studiata per essere collocata intorno alla finestra della stanza. 12 Michelangelo e la Cappella Sistina MICHELANGELO “VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA”, 1508-12 AFFRESCO 13x36m, VATICANO ROMA Negli stessi anni, fra il 1508 e il 1512, Michelangelo, avendo alle spalle esperienze come quella vaticana e più recente del Tondo doni, si occupava di dipingere la volta della Cappella Sistina. Era stato richiamato a Roma nel 1505 da Giulio II per occuparsi del suo grande monumento sepolcrale, che avrebbe realizzato soltanto dopo molto tempo. Si andò quindi a distruggere il cielo stellato che era stato dipinto da Piermatteo D’Amelia e venne sostituita da questa monumentale soluzione: una sorta di natura architettonica aperta verso il cielo e riempita di figure che raccontano le storie della Genesi, dalla creazione a Noè. Noi oggi tutto questo lo vediamo dialogare perfettamente con la grande parete terminale della cappella, in cui Michelangelo poi avrebbe realizzato, fra gli anni ’30 e i primissimi ’40, il Giudizio Universale, ma allora lì c’erano ancora L’Assunta di Perugino e le storie sempre di Perugino che raccontavano gli episodi di Mosè e di Cristo. È un tipo di pittura che si riallaccia perfettamente al linguaggio di Michelangelo visto fino ad ora, che guarda alla scultura nella perfezione degli scorci (come dice sempre Vasari), a partire dalla scena più celebre, come quella della Creazione di Adamo (sotto vediamo anche la Creazione di Eva, che nasce da Adamo medesimo) e dove appunto non troveremo mai ornati e paesaggio. Questa è un’impresa straordinaria per un uomo solo, perché dipinge tutta la volta da solo. Ottenne un successo immediato ed enorme. Qui vediamo dei nudi che stanno nella parte bassa della volta, che vanno a prendere il posto degli ornati, in cui potevano stare le grottesche: vediamo la perfezione degli scorci, ad esempio a sx nel peccato originale dove Eva si torce come nel Tondo doni. Così come nel Tondo doni, i colori sono molto aspri ed acidi, che poi avranno fortuna nella pittura del “manierismo” (molto diversi da quelli di Leonardo e Raffaello). Inoltre, nella raffigurazione di alcuni profeti e sibille, vediamo un aspetto estremamente malinconico: qui vediamo Geremia, di straordinaria modernità, che non a caso va ad attestare come in questi anni il tema proprio della malinconia cominciasse ad affermarci presso gli artisti non solo italiani ma anche d’oltralpe. Vediamo infatti un’incisione della Malinconia di Albrecht Durer (1514), il grande maestro tedesco. Le cromie, qui quasi tendenti al monocromo per dare più volumetria possibile alle figure, sono perfettamente adatte anche a rendere il senso malinconico del personaggio. La volta della Cappella Sistina sconvolge Raffaello e tutto l’ambiente artistico romano e non solo: diventa un riferimento, un modello da cui partire, in primis per lo stesso Raffaello. Le figure di Michelangelo, infatti, sono molto diverse da quelle che abbiamo visto fino ad ora, anche rispetto all’attività romana dell’artista stesso: tutto diventa più monumentale, le forme si ingrandiscono, c’è un gigantismo generale delle muscolature e della dimensione del corpo umano, che vale anche per le figure femminili. Questo aspetto diventerà caratteristico di tutti gli artisti che guarderanno a Michelangelo nel corso del ‘500, pur in una dimensione anticlassica perché l’arte antica era attentissima alle proporzioni umane e mai si sono viste figure sovradimensionate. 15 degli affacci sull’urbe (come Mantegna nella Camera degli sposi): dimostra così una grande capacità illusionistica e dimestichezza con la prospettiva (tutto è dipinto, a parte le porte). Questa interpretazione, oltre ad essere molto moderna, è legata al fatto che, attraverso la riscoperta della letteratura antica, si stava riscoprendo il teatro antico e si stava adattando a quella che era la dimensione teatrale di allora delle scenografie nuove, che utilizzavano la prospettiva. Raffaello non è da meno ed anche lui è tra i primi a fare esperimenti in tal senso: quando inizia a lavorare alla terza delle stanze vaticane (che saranno quattro in totale: la quarta sarà realizzata dalla sua bottega dopo la sua morte), che si chiama Incendio di Borgo (1514), dà conto del fatto che ormai anche lui si interessa di scenografia. In quel periodo c’è un nuovo papa, Leone X, grande mecenate delle arti (non un guerriero quindi) ed infatti chiede che si raffiguri un protagonista suo omonimo: vediamo papa Leone che si affaccia da una finestra molto moderna nell’architettura (il modello si chiama serliana, con un’apertura con un arco a tutto sesto e ai lati colonne o pilastri che sostengono gli architravi), e spegne miracolosamente ‘incendio che ha colpito il quartiere di Borgo, che si trovava di fronte all’antica Basilica di san Pietro (vediamo infatti dietro l’antica basilica raffigurata). Il quartiere di Borgo sarà del tutto distrutto durante il ventennio fascista per aprire la grande via della conciliazione, che conduce dalla basilica al Tevere. Il quartiere viene rappresentato come se fossero delle quinte teatrali: Raffaello qui costruisce una scenografia, dove mette degli attori ad interpretare il loro ruolo, con lo sfondo che diventa una vera e propria quinta teatrale. La gara fra Raffaello e Sebastiano del Piombo SEBASTIANO DEL PIOMBO “RESURREZIONE DI LAZZARO”, 1516-20 OLIO SU TAVOLA TRASFERITO SU TELA 381x289, NATIONAL GALLERY LONDRA RAFFAELLO “TRASFIGURAZIONE”, 1518-20 OLIO SU TAVOLA 405x278, CITTA’ DEL VATICANO ROMA Giulio dei Medici fu committente anche di un’interessante gara: commissionò infatti per la Cattedrale di Narbonne due dipinti a Raffaello e a Sebastiano del Piombo, perché Raffaello era il pittore più importante di Roma e Sebastiano era divenuto amico di Michelangelo (quindi voleva dire quasi commissionarlo a Michelangelo stesso).La gara è sulle pale d’altare e il tema è in entrambi un miracolo: a sx la resurrezione di Lazzaro, dall’altro la trasfigurazione di Cristo (in alto, con i profeti e gli apostoli), seguita subito dal miracolo della guarigione dell’ossesso. Raffaello riuscirà a terminare l’opera prima di morire (1520) e la sua opera verrà esposta sul suo letto di morte, quando la sua salma verrà esposta a tutta Roma. Entrambi sono molto moderni, ma molto diversi. Quello di Raffaello si assegna a lui, anche se probabilmente vi ha lavorato la sua bottega (in passato si cercava di vedervi anche la mano di Giulio Romano, che sarebbe stato il suo più grande allievo e colui che avrebbe portato avanti la sua bottega), ma ormai sono tutti concordi a pensare che sia appunto un capolavoro del tardo Raffaello, dove non manca l’omaggio a Michelangelo (anche perché si confrontava con un artista michelangiolesco) con figure monumentali e scorci difficili, ma anche forti contrasti di luci ed ombre che invece si riferivano alla pittura veneziana. Sebastiano del Piombo dimostra assolutamente di essere veneziano e lo si capisce dai colori usati, molto particolari soprattutto nel paesaggio, ma al tempo stesso utilizza delle idee di Michelangelo. 16 SEBASTIANO DEL PIOMBO “PIETÀ”, 1516 OLIO SU TAVOLA 247X168, MUSEO CIVICO VITERBO Vediamo questa pietà notturna, che Michelangelo non avrebbe mai fatto (non si sarebbe “perso” in questi giochi straordinari di bagliori notturni), che invece è nelle corde della pittura veneziana. Però, al tempo stesso, riduce tutto a sole due figure: l’intensità della Madonna, con le braccia rivolte da un lato e la testa dall’altro, sarà ripresa da Michelangelo stesso nel Sepolcro di Giulio II (primi anni ’40). Anche l’immagine di Cristo a terra, con il corpo attentamente indagato e fortemente volumetrico e grandioso, è un omaggio alle novità michelangiolesche e proprio Michelangelo avrebbe dato all’artista un suo disegno per la Resurrezione di Lazzaro. Quindi il rapporto fra i due fu effettivamente molto intenso. La tomba di Giulio II MICHELANGELO “MOSE’”, 1513-15 MARMO h235, BASILICA DI SAN PIETRO IN VINCOLI ROMA Sarà uno degli incubi di Michelangelo, verrà definita “la tragedia della sepoltura” perché in realtà quella commissione prende avvio alla metà del primo decennio del ‘500 e sarà terminata solo negli anni ’40 con una variazione continua di progetti ed anche di destinazione. Infatti, inizialmente Michelangelo aveva pensato ad un progetto colossale per il centro della nuova basilica di San Pietro, come se la nuova basilica avesse avuto la funzione di rendere omaggio a Giulio II, il cui corpo doveva essere accolto in un grande mausoleo (ne vediamo una ricostruzione in slide). Era una sorta di parallelepipedo, con una porta, la statua del pontefice sul catafalco in alto e poi una serie di grandiose figure di nudi incatenati e di profeti (sopra, nella parte alta, come Mosè) lungo i lati: realizza Mosè nel 1514, nel momento in cui già sa che quel monumento non potrà essere così grandioso, perché si era passati da un monumento a quattro facce ad un monumento a parete, e non nella basilica di San Pietro ma nella chiesa di san Pietro in Vincoli a Roma. In questa nuova soluzione, mette al centro Mosè, che è l’unica di queste gloriose sculture a venire realizzata: scultura che da un lato rende omaggio alla grande tradizione fiorentina del ‘400, come nella barba lunghissima che si rifanno a Donatello (come nel suo San Giovanni Evangelista nella facciata del Duomo di Firenze), riletta ovviamente in maniera diversa, con la forza e l’energia dei muscoli. Questa figura sembra discesa direttamente dalla volta della Cappella Sistina. MICHELANGELO “PRIGIONI”, 1513, LOUVRE Fra le opere che realizza, vi sono una serie di prigioni (uomini con catene), che erano inizialmente studiati per il progetto iniziale. Sono figure in parte non finite, che si contraddistinguono ancora una volta per il riferimento ai nudi della Cappella Sistina, per la loro grandiosità delle muscolature e degli scorci. 17 NOVITA’ A FIRENZE DELLA MANIERA MODERNA Michelangelo a Firenze con Leone X LA FACCIATA DELLA CHIESA DI SAN LORENZO Il nuovo papa, Leone X, vuole coinvolgere Michelangelo anche in commissioni fiorentine, perché ormai i Medici, soprattutto dopo la sua elezione a Firenze, vengono riaccolti a Firenze. Inizialmente pensa a finire la facciata della chiesa di san Lorenzo, a pochi passi da palazzo Medici, ma questo progetto non andò a buon fine (oggi ancora appare con la facciata grezza, mai terminata): all’inizio voleva indire un concorso fra vari artisti, ma poi decise di affidare tutto a Michelangelo. Lui fece dei progetti straordinari, perché immaginò una facciata molto particolare. Quando Leon Battista Alberti fu chiamato a terminare la facciata di Santa Maria Novella, pur essendo architetto indirizzato verso l’antico, lui si adattò alle parti romaniche già presenti e creò un qualcosa che ben si legava a ciò che c’era già. Michelangelo invece sceglie di fare un qualcosa di radicalmente diverso, come ci attestano i disegni ed il modello ligneo che si trovano oggi in casa Buonarroti (era consuetudine degli architetti del 4/500 fare dei modelli lignei dei progetti): era completamente diversa da ciò che c’era già, ma soprattutto voleva trasformare la facciata della chiesa in qualcosa che sembra essere più quella di un palazzo. Quindi è una soluzione che tende a nascondere la differenza di altezza tra le navate e le cappelle, che invece si nota benissimo nella chiesa (è un suo elemento caratterizzante), riferendosi all’architettura all’antica ma al tempo stesso la rilegge in modo particolare, con un senso anche anticlassico nel mettere insieme in alto un timpano (tipicamente triangolare) e sotto dei timpani semicircolari (nelle porte laterali, nella finestra). SAGRESTIA NOVA DI SAN LORENZO Dal 1520 l’idea di dare una nuova facciata a San Lorenzo viene interrotta perché il papa si rivolge a Michelangelo per un’altra commissione: c’è l’esigenza di rendere omaggio a casa Medici e di costruire un nuovo ambiente, una nuova sagrestia pensata in realtà come mausoleo per la famiglia Medici. Due parenti stretti del papa, che avevano ottenuto dei privilegi feudali (i Medici non erano mai stati duchi, anche se erano signori di fatto, ma non avevano nessun titolo feudale), erano però morti precocemente e Leone X voleva rendergli omaggio. Per questa ragione chiede a Michelangelo di costruire uno spazio gemello alla Sagrestia Vecchia di Brunelleschi: vediamo in slide la pianta di San Lorenzo, con la sagrestia vecchia a sx (nella foto scorgiamo anche la tomba medicea di Verrocchio), mentre la Nova stava a dx. Michelangelo, infatti, propone la stessa cosa dall’altro lato: prende uno spazio molto simile a quello di Brunelleschi, cubico con una scarsella, ma rispetto ad essa la reinterpreta, da un lato continua a rendere omaggio all’architettura brunelleschiana (l’architettura di Michelangelo è infatti diversa da quella di Brunelleschi, ma è fondata sugli stessi concetti: la pietra serena e l’intonaco bianco sporco). Si nota anche qui l’utilizzo di timpani triangolari ma anche semicircolari ed in alto vi è una cupola. La caratteristica di quello che può essere considerato l’ultimo cantiere fiorentino di Michelangelo è il fatto di avere una sorta di altare e sugli altri tre lati dei monumenti sepolcrali: due quasi finiti, uno invece no (vi sono solo delle sculture). 20 JACOPO SANSOVINO “BACCO”, 1515 MARMO h146, MUSEO NAZIONALE DEL BARGELLO Lo vediamo in confronto al “Bacco” di Michelangelo: la versione di Sansovino guarda ancora all’antico, ma cerca un maggiore movimento. Quello di Michelangelo dà conto dell’ubriachezza della divinità, con un grande studio delle anatomie, mentre quello di Sansovino fa la stessa cosa ma, muovendo di più la figura, gli dà un senso a spirale come se fosse serpentinata (somiglia al movimento di una serpe o di una fiamma nell’avvitarsi su se stessa): questo è uno dei caratteri principali della maniera e sono movimenti tortuosi, innaturali e fantasiosi, che nascono dai complicati scorci che piacevano tanto a Michelangelo, reinterpretati dai maestri manieristi. ROSSO FIORENTINO “ASSUNZIONE DELLA VERGINE”, 1513-14 AFFRESCO 390x381, CHIESA DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA Nel lavoro in Santissima Annunziata, si distinguono un paio di allievi di Andrea del Sarto particolarmente eccentrici, che danno conto dell’interpretazione che vuole andare contro le regole per superare i grandi modelli del ‘500. Rosso Fiorentino e Jacopo Pontormo propongono un tipo di pittura fuori dagli schemi. Questo affresco di Rosso Fiorentino (che morirà lontano dall’Italia nel 1540, secondo Vasari addirittura suicida) lo troviamo nel chiostrino dei voti di Santissima Annunziata: la stravaganza di questo dipinto la troviamo nel cerchio di angeli che stanno intorno alla vergine e, nella parte bassa, nelle espressioni spiritate, quasi diaboliche, degli apostoli che guardano il salire al cielo della Vergine. La volontà di rompere gli schemi la si vede molto bene anche dal fatto che la cornice viene interrotta dal mantello di uno degli apostoli che deborda sulla cornice stessa. ROSSO FIORENTINO “MADONNA COL BAMBINO E I SANTI GIOVANNI BATTISTA, ANTONIO ABATE E GIROLAMO (PALA DELLO SPEDALINGO)”, 1518-19 OLIO SU TAVOLA 172x141, UFFIZI ROSSO FIORENTINO “DEPOSIZIONE DELLA CROCE”, 1521 OLIO SU TAVOLA 375x196, PINACOTECA CIVICA VOLTERRA Rosso Fiorentino è un artista che faticherà ad imporsi a Firenze: Vasari dice che quando lo spedalingo (dirigente) vide questa pala dipinta per Santa Maria Nuova, scappò impaurito perché sembrava che, invece dei santi, Rosso Fiorentino avesse dipinto dei diavoli (“arie crudeli e disperate” Vasari). Anche se molto fuori dagli schemi, non mancano delle interpretazioni dolcissime e delicate come quelle degli angioletti. I colori sono molto accesi e figure che sembrano quasi richiamare la pittura novecentesca. Quest’ultimo aspetto lo vediamo molto bene nell’opera considerata il suo capolavoro: non si trova a Firenze perché se ne andò dalla città, proprio per le difficoltà nel farsi apprezzare, ed infatti il dipinto si trova a Volterra, dipinto per la Compagnia della Croce, vicina alla chiesa di San Francesco. Il dipinto si contraddistingue per un linguaggio che a noi sembra molto moderno: non c’è nessun tipo di ornato, i colori sono violentissimi ed è tutto costruito sull’intreccio di figure che paiono disperate. Lo vediamo nel San Giovanni Evangelista in PP, tutto contorto su sé stesso, o quelle accalcate in alto, o la Maddalena che si lancia verso la Vergine con un panneggio molto geometrico, quasi proto-cubista. Sicuramente era un’opera molto difficile da capire per la committenza e per i devoti. 21 ROSSO FIORENTINO “COMPIANTO SUL CRISTO MORTO”, 1527-28 OLIO SU TELA 270x201, SAN SEPOLCRO (AREZZO) Rosso Fiorentino nel corso degli anni ’20 riesce ad affermarsi nella Roma di papa Clemente VII (sempre Medici): dipinge il Cristo in pietà in alto a sx che oggi si trova a Boston e che è fortemente segnato dalla pittura di Michelangelo per lo studio del nudo, anche se con interpretazione molto diversa. Infatti, Michelangelo tende a comprimere le sue figure nello spazio, molto spesso piegate come se volessero rompere lo spazio ed esplodere di energia (come, ad esempio, nel Tondo doni), mentre le pitture del Rosso al contrario sembrano quasi svuotate di energia. Rosso Fiorentino si troverà a Roma durante il sacco di Roma del 1527 (Roma viene conquistata dalle truppe dell’Imperatore Carlo V, in guerra in Italia con Francesco I), fase tragica e drammatica della città, anche ovviamente per committenti ed artisti, che vengono derubati, imprigionati. Rosso fugge da Roma, andando prima nella zona periferica vicino San Sepolcro, dove realizza questo drammatico e tragico Compianto sul Cristo morto, con il Cristo incredibilmente scheletrico e questo accalcarsi di persone intorno a lui. Dopo, siccome il re di Francia era un grande appassionato delle arti italiane, negli anni ’30 andrà in Francia, facendo conoscere nel paese il nuovo stile della maniera italiana, lavorando in una reggia non lontana da Parigi, di Francesco I. In basso a sx vediamo una Pietà di Rosso Fiorentino, realizzata durante il periodo francese, oggi a Louvre. PONTORMO “VISITAZIONE”, 1514-16 AFFRESCO 392x337, CHIESA DELLA SANTISSIMA ANNUNZIATA Se Rosso Fiorentino rappresenta la versione “diabolica”, per il carattere delle sue figure ultra-espressionistiche, della pittura di Andrea del Sarto, Jacopo Pontormo, che aveva più o meno gli stessi anni del Rosso, rappresenta invece la versione più malinconica della maniera fiorentina di questi decenni. Lo vediamo subito da questo affresco realizzato sempre nel chiostrino dei voti, dove la rottura degli schemi è giocata soprattutto sulla malinconia di alcuni personaggi: lo vediamo nel putto in PP piegato su sé stesso o nell’ancella con le ginocchia piegate, che ricorda la posizione della Madonna del Tondo doni, ma qui svuotata di energia e forza. Vediamo anche delle figure che iniziano ad essere serpentinate, come l’ancella con il braccio in alto (posizione che troveremo spesso nella maniera, non solo fiorentina e che abbiamo visto anche nel Bacco del Rosso). PONTORMO “MADONNA COL BAMBINO E I SANTI (PALA PUCCI)”, 1518 OLIO SU TAVOLA 221x189, CHIESA SAN MICHELE VISDOMINI FIRENZE Pontormo in quegli anni realizza questo dipinto che si trova nella chiesa poco lontano dal duomo, più o meno sempre nel periodo delle pale degli altri due pittori visti prima. I santi esprimono molto bene il carattere eccentrico e bizzarro della personalità di Pontormo: lo vediamo nel modo in cui si inginocchia San Francesco, di grande devozione, o anche nel precario equilibrio del bambino su San Giuseppe, nella disposizione dei vari personaggi e nei colori molto accesi. 22 PONTORMO “DEPOSIZIONE”, 1526-28 OLIO SU TAVOLA 313x192, CAPPELLA CAPPONI CHIESA DI SANTA FELICITA FIRENZE PONTORMO “VISITAZIONE”, 1528-30 OLIO SU TAVOLA 202x156, CHIESA DEI SANTI MICHELE E FRANCESCO CARMIGNANO (PRATO) Le sue opere più celebri sono certamente le due in slide, che realizza nella seconda metà degli anni ’20 per una chiesa fiorentina e pratese. La Deposizione è un vero e proprio manifesto del manierismo perché sembra di vedere la pittura di Michelangelo svuotata di energia (come se la carne e i muscoli michelangioleschi fossero stati sostituiti da aria, come gonfiate d’aria) e inoltre vediamo un colore particolare. Bill Viola, artista statunitense contemporaneo che si occupa di videoarte, è noto per essere molto attento all’arte del passato, scoperta a Firenze negli anni ’70: quando si reca a Santa Felicita e vede questo dipinto, si chiede se Pontormo fosse drogato (con Lsd) mentre lo dipingeva e ciò dimostra come quest’opera fosse moderna e fuori dagli schemi. Il dipinto faceva parte di un ciclo che purtroppo non è arrivato fino a noi perché distrutto nel corso del ‘700. Anche la Visitazione è un dipinto molto particolare, perché le protagoniste hanno pose contorte e sguardi straniati e vesti gonfiate, ma soprattutto Maria ed Elisabetta sono rappresentate, oltre che di profilo in un abbraccio, dietro anche frontali, nelle due giovani che guardano lo spettatore. Pontormo, nonostante la sua eccentricità, avrà grande fortuna a Firenze. DOMENICO BECCAFUMI “SAN MICHELE SCACCIA GLI ANGELI RIBELLI”, 1524 OLIO SU TAVOLA 347x227, PINACOTECA NAZUIONALE SIENA DOMENICO BECCAFUMI “SAN MICHELE SCACCIA GLI ANGELI RIBELLI”, 1528 OLIO SU TAVOLA 347x225, CHIESA DI SAN NICCOLO’ AL CARMINE SIENA Altro artista eccentrico, non fiorentino ma toscano, quanto Pontormo e Rosso Fiorentino ed è protagonista della maniera a Siena, che allora era ancora uno stato autonomo rispetto a Firenze (verrà conquistata negli anni ’50). Sono due dipinti con lo stesso soggetto, molto attuale allora perché prefigura l’ortodossia, la chiesa, che sconfigge l’eresia (riferito ai protestanti luterani), destinato alla chiesa di San Niccolò del Carmine e realizzato in due versioni: la prima versione non fu accettata ed infatti non è finita in alcune parti. È piena di riferimenti a Michelangelo, reinterpretata però con un luminismo molto personale. La seconda versione è più ordinata, più leggibile: il San Michele viene messo al centro, il Dio padre è in alto e le figure degli angeli vanno a costituire una sorta di abside (un po’ come aveva fatto Raffaello nella Stanza della Segnatura) e sotto una sorta di inferno, luminosissimo, con gli angeli ribelli sconfitti. Beccafumi fu molto apprezzato anche da Vasari, che lo conobbe DOMENICO BECCAFUMI “SACRIFICIO DEL RE CODRO”, 1529-36 AFFRESCO DAL CICLO PER LA SALA DEL CONCISTORIO, PALAZZO PUBBLICO SIENA Beccafumi è anche autore di un ciclo attualissimo ancora oggi: narra le storie di eroi antichi che vogliono essere esemplari dei valori repubblicani (per questo attualissimo, si è visto anche con Andrea del Castagno). Quando l’imperatore Carlo V arrivò a Siena, la Repubblica senese mostrava questo ciclo realizzato proprio in suo onore, ordinato intorno alla figura della Giustizia vista di scorcio dal basso (in slide in alto a sx), valore fondamentale della Repubblica. Vediamo due scene in particolare dove, riferendosi alla storia antica narrata da Valerio Massimo o Cicerone, Beccafumi dipinge personaggi esemplari di questi valori: a dx un eroe antico che si sta trafiggendo con una spada. È Caronda di Tiro, il quale aveva emesso una legge che vietava di entrare nel luogo del governo con le armi, ma lui stesso se ne dimentica e per questo si uccide: è un modo molto drammatico e tragico per affermare che bisogna rispettare le leggi, quindi il tema è la giustizia. Sotto invece il tema dell’amor di patria è raffigurato dal re Codro di Atene, che seppe dall’oracolo di Delphi (qui vediamo un bellissimo tempio a pianta centrale) che avrebbe sconfitto i nemici quando questi avrebbero ucciso il re di Atene e quindi si toglie le vesti, va nell’accampamento nemico e si fa uccidere. Il suo è un linguaggio molto colorato e manierista.
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