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Arte. Una storia naturale e civile, Volume 4, Settis Montanari, Appunti di Storia Dell'arte

Riassunto dettagliato di tutti i capitoli di Arte. Una storia naturale e civile volume 4, di Settis e Montanari, con anche le immagini delle opere principali. Impaginazione perfetta per la stampa, se servisse. Il libro comprende parti del programma sia di arte moderna che di arte contemporanea: disponibili anche il volume 3 e 5. Voto esame 30L

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 21/09/2023

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Scarica Arte. Una storia naturale e civile, Volume 4, Settis Montanari e più Appunti in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! 1 1595-1620: UNA RIVOLUZIONE NELL’ARTE LINEAMENTI STORICI UN SECOLO DINAMICO: L'Italia del’ 600 aveva ancora la vitalità del secolo precedente: per quasi trent'anni il controllo della Spagna sugli Stati italiani e la controriforma assicurarono una lunga quiete politica e pace militare. Le fondazioni religiose ebbero nuove chiese e confraternite, ma anche la sfera civile si divise in oligarchie borghesi capaci di integrarsi nell’aristocrazia con le magistrature. UN NUOVO ASSETTO SOCIALE: In questo assetto sociale si leggono i primi segni della frenata economica: mentre nelle città l'impegno nei commerci e industria si appannava per la ricerca del reddito attraverso le cariche virgola in campagna se larga vano i latifondi. La Repubblica di Genova era ancora la capitale economica e finanziaria dell'intero spagnolo, la Firenze granducale con Venezia e lo stato della chiesa conobbero una splendida stagione. LA RIVOLUZIONE GALILEIANA E LA CULTURA ITALIANA IN EUROPA: In questo clima si impone la rivoluzione culturale e scientifica di Galileo Galilei. Mentre l'economia della penisola viveva un momento di fioritura prima della crisi, la scultura italiana giungeva alla sua massima capacità di influenza sull'Europa che parlava italiano nella letteratura e nell’arte. Intorno al 1600 era Napoli la principale città d'Italia, seguita da Venezia e solo dopo Milano e Roma. DALL’INFLUENZA DI MADRID A QUELLA DI PARIGI: Fin dalla crisi dell'Interdetto di Papa Paolo V contro Venezia fu evidente che ogni squilibrio politico italiano veniva risolto appoggiandosi all'altra grande potenza in ascesa: la Francia. Questo primo periodo conobbe una frattura per la peste del 1630 nella parte settentrionale dell'Italia in contemporanea con la guerra dei Trent'anni in Europa. Nello stesso momento il processo e la condanna di Galileo aprirono una nuova fase della cultura. I CARRACCI Le origini della Riforma Carracci A Bologna nasce un nuovo modo di dipingere, che trova i suoi protagonisti in tre cugini: sono tre pittori che appartengono alla famiglia Carracci, in particolare di Ludovico, cugino dei fratelli Agostino e Annibale. Annibale è il più giovane dei tre, ma è anche il pittore di maggiore talento: morirà precocemente a Roma nel 1609. I suoi cugini riescono a dare avvio ad un’accademia, chiamata prima Accademia dei Desiderosi e poi Accademia degli Incamminati a Bologna, la quale diventa una nuova capitale artistica alla fine del ‘500 proprio grazie a questi tre pittori. A Bologna in quegli anni c’è anche un vescovo, Gabriele Pale, che scrive un discorso riguardo alle immagini sacre e profane e sarà uno dei testi chiave della visione artistica della Controriforma, che contiene indicazioni su come devono essere dipinte le immagini sacre: sono gli anni in cui il Giudizio universale di Michelangelo viene aspramente contestato e nascono nuovi modelli. L’accademia è un luogo dove si studiano nuovi maestri e nuovi modelli e, in quella dei tre cugini, verrà formata una nuova generazione di artisti che avranno alla base del loro linguaggio dei concetti molto semplici, appresi e diffusi in accademia. L’accademia dei Carracci vuole mettere insieme l’idea e la natura: significa che bisogna guardare al mondo reale, indagandolo, ma poi rimodellarlo attraverso la propria mente (ad esempio un paesaggio di questa accademia non sarà mai en plein air, ma sarà sempre riprodotto secondo quella che è l’idea del pittore). Inoltre, si vuole mettere insieme anche due elementi che Vasari trovava inconciliabili: il disegno fiorentino e il colore veneziano e per questo i pittori dell’Accademia dei Carracci cercheranno dei modelli nei maestri del ‘500, fra cui Raffaello, Correggio (siamo poco lontani da Parma) e Tiziano. Non troviamo quindi Michelangelo, perché nascendo dalla Controriforma, l’Accademia dei Carracci si oppone agli aspetti più artificiosi della maniera. Siamo negli anni ‘80/’90 del ‘500, quindi non solo sono già morti Michelangelo e Tiziano, ma è morto anche Vasari e quindi nella sua seconda edizione delle Vite non parla dei Carracci: in questo periodo quindi ci troveremo di fronte a nuove voci di letteratura artistica. Il più celebre e fondamentale è Giovan Pietro Bellori con “Le vite di pittori, scultori ed 2 architetti moderni” (1672), il quale era anch’esso artista e collezionista. Prima di lui abbiamo “Le vite” di Giovanni Baglione (1642), il che significa che Bernini ha realizzato solo alcune delle sue opere, come anche Pietro da Cortona. Ancora prima di Baglione, uno dei primi grandi conoscitori della pittura del ‘600 è Giulio Mancini (Considerazioni sulla pittura, che sarà edito soltanto intorno al 1950), che non è un artista ma un medico ma conoscitore di pittura e delle arti, che insieme con il fratello commerciava anche opere d’arte: il suo è quindi un occhio particolarmente allenato ed infatti è uno dei primi a comprendere la grandezza della novità pittorica di Caravaggio. Giovan Pietro Bellori è invece uno storico dell’arte che non apprezza la pittura naturalistica di Caravaggio, propendendo di più per la visione accademica e classicista dei Carracci. LUDOVICO CARRACCI “ANNUNCIAZIONE”, 1585 OLIO SU RAME 56x45, PINACOTECA NAZIONALE DI BOLOGNA LUDOVICO CARARCCI “PALA BARGELLINI”, 1588 Ludovico è un artista che da subito dà conto dell’aspetto estremamente devoto della sua pittura e della sua grande attenzione ai grandi modelli del ‘500. In queste opere appunto vediamo tutti i dati caratteristici della pittura che abbiamo visto, ma quello che colpisce è sicuramente l’aspetto devozionale, i contrasti di luce ed ombre molto netti, che ricordano quelli di Tintoretto ma qui tutto è molto acquietato rispetto all’artista, come nel movimento tenero dell’angelo che cade dall’alto e si inginocchia a saltare la Vergine intenta nella lettura. Anche nella Pala Bargellini colpiscono i riferimenti ai grandi maestri: la vediamo in confronto a Correggio, dove ritroviamo i volti della Madonna e del bambino, ma anche il modo di interpretare la luce. Inoltre, l’immagine di taglio, con le due colonne vicino, ritroviamo Tiziano: quindi abbiamo la composizione di Tiziano e il sentimento e la luce di Correggio. AGOSTINO CARRACCI “COMUNIONE DI SAN GIROLAMO”, 1592-97 OLIO SU TELA, PINACOTECA NAZIONALE DI BOLOGNA ANNIBALE CARRACCI “MADONNA IN TRONO COL BAMBINO E SANTI (MADONNA DI SAN MATEO)”, 1588 OLIO SU TELA 384x255, DRESDA Anche questo dipinto di Agostino, realizzato per la Certosa di Bologna, è estremamente intenso, sentimentale, con colori alla veneziana (basta guardare il paesaggio retrostante), ma al tempo stesso con un’inquadratura molto rigorosa. A dx vediamo un’opera di Annibale, dove si sente anche qui moltissimo la pittura di Correggio in tutte le figure e nella luce (nel San Francesco, nel San Giovanni e nell’angioletto), adattandola però ad una invenzione di un dipinto veneziano: la pala di Veronese, che vediamo a dx, che è abbastanza analoga nella costruzione della storia. Vediamo anche un’incisione di Agostino Carracci: infatti per conoscere i modelli, teoricamente bisognava averli di fronte ma ciò significava girare tutta l’Italia, quindi per farli conoscere agli allievi si facevano delle incisioni, che poteva poi essere stampata molte volte (spesso erano finanziate dai collezionisti). Quindi Agostino diventa anche il membro della famiglia che si dedica a queste incisioni, incidendo quasi tutti i capolavori della pittura italiana del ‘500, tra l’altro di alta qualità. ANNIBALE CARRACCI “MANGIAFAGIOLI”, 1584-85 OLIO SU TELA 57x68, GALLERIA COLONNA ROMA Di Annibale vediamo anche il cosiddetto “mangiafagioli”, che si trova in una galleria privata. Si può definire una scena di genere: è una scena di osteria, che ritrae un personaggio certamente non altolocato, che si trova davanti ad una tavola povera imbandita, con abiti sporchi e cappello da campagnolo. Vediamo le descrizioni di Giulio Mancini e Bellori. “Fu pittore universale, sacro, profano, ridicolo, grave e vero pittore poiché faceva di sua fantasia senza tener il naturale davanti; bonissimo compositore, espresse gl’affetti et hebbe gran decoro” (Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura; 1619- 1621). Infatti, Annibale Carracci è un pittore di grande decoro ed il decoro era anche quello che richiedeva la Controriforma alle immagini sacre, ma Annibale fu pittore universale: quindi sacro, ma anche profano come in questo caso. Inoltre, a noi questo dipinto può apparire estremamente realistico, ma è ricostruito nella testa del pittore nel suo studio: non sarà mai come Caravaggio, che interpreterebbe questo tema in maniera completamente diversa. “Il suo proprio stile fu l’unire insieme l’idea e la natura, accumulando in sé stesso le più degne virtù de’ maestri passati” (Giovan Pietro Bellori, Vite; 1672). 5 Carracci e Caravaggio ANNIBALE CARRACCI “ASSUNZIONE DI MARIA”, 1601 SANTA MARIA DEL POPOLO ROMA CARAVAGGIO “CROCIFISSIONE DI PIETRO” E “CONVERSIONE DI SAULO”, 1600-01 OLIO SU TELA 230x175, CHIESA SANTA MARIA DEL POPOLO ROMA Vediamo una grande pala dipinta a Roma, in una delle principali chiese della città, agostiniana. Agli inizi del nuovo secolo, viene allestita la Cappella del tesoriere apostolico Tiberio Cerasi: qui si confrontano i nuovi astri della pittura romana del tempo, ovvero Annibale Carracci e Caravaggio (Michelangelo Merisi). Il primo era ormai un pittore molto affermato presso le committenze, pittore di storia come stava dimostrando nella galleria Farnese, mentre Caravaggio fuggiva da quel mondo, con una sua interpretazione assolutamente personale e modernissima (ma anche che andava a cozzare con il decoro della pittura sacra della Controriforma). Nella Cappella Cerasi quindi si incontrano e si scontrano Annibale e Caravaggio. Ad Annibale viene affidata la pala più importante, quella dell’altare maggiore, dove raffigura l’Assunzione della Vergine: ancora una volta, nella sua interpretazione, Annibale sembra mettere insieme delle idee di Raffaello (la forza delle figure, come nella Trasfigurazione) e di Tiziano (colori, gli sguardi degli apostoli come quelli dell’Assunta, come anche la Madonna che ha la stessa veste rosso acceso). Ai lati della pala vediamo un modo di dipingere radicalmente diverso, dove i modelli non contano più, ma conta solo la pittura dal vero: il tema è lo stesso dipinto anni prima da Michelangelo, ma la pittura è completamente diversa. Dalla fotografia dell’interno della cappella vediamo che la disposizione delle figure in Caravaggio era studiata attentamente anche per la locazione che avrebbero avuto i dipinti all’interno. CARAVAGGIO Prima di Caravaggio: la pittura lombarda tra Brescia e Bergamo GIROLAMO ROMANINO “CENA IN CASA DEL FARISEO”, 1540-50, SAN GIOVANNI EVANGELISTA BRESCIA SIMONE PETERZANO “PIETÀ””, 1584 SAN FEDELE MILANO Vediamo una fonte dell’epoca, che ci descrive il modo di dipingere di Caravaggio: “Il Caravaggio non esegue un solo tratto senza farlo direttamente dal modello vivo. E questa non è una cattiva via per giungere a buon fine, perché dipingere servendosi di disegni (anche se tratti dal vero) non è così sicuro come tenersi il vero davanti e seguire la natura in tutta la varietà dei suoi colori; ma bisogna anzitutto che il pittore adotti il criterio di scegliere dal bello le cose più belle” (Karel van Mander, 1604). Caravaggio copia quindi direttamente il modello, laddove invece nella pittura dei Carracci c’è sempre un’interpretazione diversa del vero e della natura che passa dall’idea, però non fa esattamente quello che dice van Mander: non sceglie dal bello le cose più belle, ma raffigura anche molti dettagli che non hanno decoro (che non sono decorosi). Caravaggio nasce a Milano nel 1571 e morirà nel 1610 a Port’Ercole, in Toscana, in quello che allora era “lo stato dei presidi” (un territorio spagnolo che doveva servire a controllare il mar Tirreno): il fatto che nasca a Milano spiega decisamente il carattere della sua pittura. Era un pittore che godeva di relativa 6 considerazione nel ‘600, mentre oggi si conoscono molto di meno i Carracci, perché proponeva una pittura decisamente antiaccademica, che nasce proprio in Lombardia. Si forma infatti in Lombardia, dove vede una serie di pittori della realtà che operano a Brescia, Milano, Bergamo. Per esempio, a Brescia opera un pittore come Girolamo Romanino, che nella metà del ‘500 è uno degli artisti che decora la cappella della chiesa di San Giovanni Evangelista, dove c’è quest’opera: vediamo una grande attenzione alla realtà (basti vedere la tavola imbandita), vi sono poche figure e una luce che si avvicina a quella che sarà di Caravaggio. A dx invece vediamo uno dei più illustri dipinti di Simone Peterzano, pittore lombardo che si dichiarava allievo di Tiziano: qui vediamo una Pietà, dove le figure sembrano emergere dalla luce (è un pittore di qualità altissima) e anche qui l’interpretazione è per questo piuttosto simile a quella di Caravaggio, con queste figure che emergono dall’oscurità. Quindi evidentemente la formazione lombarda contò tantissimo per Caravaggio. CARAVAGGIO “BACCO”, 1595 OLIO SU TELA 95x85, UFFIZI Vediamo accanto un altro dipinto di Girolamo Romanino, un’Ultima cena (1542-43), di cui vediamo il dettaglio della tavola imbandita. Il Bacco invece è un’opera dell’attività romana di Caravaggio, commissionata dal cardinale Francesco Maria del Monte per Ferdinando de Medici: è un’opera tipicamente caravaggesca. Vediamo che l’interpretazione dei recipienti di vetro trasparenti, ad esempio, è identica: l’attenzione per la realtà di Caravaggio, quindi, nasce in terra lombarda, dalla sua formazione in Lombardia attenta soprattutto alla pittura della realtà. Caravaggio a Roma CARAVAGGIO “CANESTRA DI FRUTTA”, 1595 OLIO SU TELA 31X47, PINACOTECA AMBROSIANA MILANO Caravaggio, verso i vent’anni, si trasferisce a Roma, andando a lavorare nella bottega di uno dei principali pittori romani dell’epoca: il Cavalier d’Arpino, che era un pittore tardo manierista, un po’ raffaellesco, che all’interno della sua bottega mette gli assistenti a dipingere fiori e frutti. Capisce che Caravaggio è bravissimo nella pittura del naturale ed anche per questo fa questa scelta, ma al tempo stesso la distanza culturale fra i due era enorme perché, se pensiamo ad un dipinto di Caravaggio come questo e lo confrontiamo con un dipinto del Cavalier d’Arpino “Riposo durante la fuga in Egitto”, vediamo sempre la natura, ma radicalmente diversa. Non è una natura vera, esplorata in ogni minimo dettaglio attraverso lo studio della luce: è una natura fiabesca, che vuole essere di corredo alle figure principali. CARAVAGGIO “BACCHINO MALATO”, 1593-94 OLIO SU TELA 67x53, GALLERIA BORGHESE ROMA CARAVAGGIO “GIOVANE CON LA CANESTRA DI FRUTTA”, 1593-94 OLIO SU TELA 74x78, GALLERIA BORGHESE ROMA Caravaggio a Roma, oltre a lavorare nella bottega del Cavalier d’Arpino, fa dei dipinti “da galleria”, da vendere a committenti: c’è già un mercato artistico, ci sono già dei collezionisti alla fine del ‘500, e quindi questo è possibile per lui. Qui vediamo due dipinti che oggi sono nella Galleria Borghese, che conserva parte della collezione del cardinal Scipione Borghese (nipote del papa, personaggio potentissimo) e che erano stati sequestrati al Cavalier d’Arpino nel 1607. Qui vediamo Caravaggio che utilizza sé stesso come modello per fare il Bacchino malato. In questi dipinti è quasi come se tornassimo alla pittura fiamminga del ‘400: i fondi sono scuri o neutri, le figure sono non intere ma a metà e tutto è definito e delineato dalla luce, in particolare i brani di natura morta (la frutta in primo piano, la corona di fronde o la canestra di frutta). Questo è il modo in cui Caravaggio si presenta a Roma. 7 CARAVAGGIO “BUONA VENTURA”, 1593-94 OLIO SU TELA 115x150, PINACOTECA CAPITOLINA ROMA Comincia a trovare dei protettori a Roma, che capiscono il suo talento: tra questi c’è il cardinal Francesco Maria del Monte, per il quale realizza questo dipinto. Il soggetto è di genere, quindi non di storia (non mitologico o sacro), dove viene letta la mano a questo giovane elegante. Quello che colpisce di questo dipinto è ancora una volta la grande attenzione alla realtà vera, completamente diversa da quella trasfigurata dei Carracci, che in quegli anni sono a Roma anch’essi (ma seguono strade diverse: Annibale arriva direttamente a Farnese, quindi da subito proiettato in grandi commissioni, mentre Caravaggio va a Roma a far fortuna e parte dal basso). CARAVAGGIO “MADDALENA PENTITA”, 1595 OLIO SU TELA 122x98, GALLERIA DORIA ROMA La pittura di Caravaggio è straordinariamente moderna, ma ancora più rivoluzionaria: il modo migliore per comprenderla è leggere le poche righe che Bellori dedica a questo dipinto, che è uno dei capolavori assoluti del giovane Caravaggio. “Dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola con le mani in seno in atto di asciugarsi i capelli, la ritrasse in una camera e aggiungendovi in terra un vasello d’unguenti con monili e gemme, la finse per la Maddalena”. Questo dipinto raffigura Santa Maria Maddalena, ma Bellori ci spiega che Caravaggio non partì dal soggetto della Maddalena, come avrebbero fatto nell’Accademia dei Carracci: la sua interpretazione è radicalmente diversa. Lui fa un ritratto ad una fanciulla con lunghi capelli (caratteristica della Maddalena) e la trasforma in Maddalena semplicemente aggiungendo gli attributi tipici suoi (come il vasetto di unguento). È quindi un modo completamente diverso di concepire la pittura: si parte sempre dal naturale e non dall’idea. A dx vediamo un particolare di un altro dipinto, che sta sempre nella galleria Doria a Roma: è l’unica scena che Caravaggio fa in un paesaggio: “Riposo durante la fuga in Egitto” (1597). È un dipinto straordinario per lo studio luministico soprattutto nell’angioletto in PP che ci dà le spalle (posa non troppo decorosa). Anche questo è un dipinto realizzato su commissione e vi riconosciamo il bel paesaggio di gusto romano, che è assolutamente dominato dalle figure: vediamo San Giuseppe che tiene aperto lo spartito da cui legge l’angioletto, un’invenzione molto bella e fantasiosa. CARAVAGGIO “GIUDITTA E OLOFERNE”, 1599 OLIO SU TELA 145x195, PALAZZO BARBERINI ROMA Caravaggio può essere un pittore estremamente sentimentale, come nella scena precedente, ma soprattutto quando racconta le storie sacre tende ad essere estremamente violento, raccapricciante, “pulp” diremo oggi. Questo dipinto fu commissionato dal banchiere Orazio Costa, uno dei primi suoi committenti, e che racconta lo stesso tema della Giuditta di Donatello (Giuditta uccide Oloferne): anche in Donatello questa scena è violentissima e cruda, ma quella di Caravaggio ancor di più, anche perché con il colore si vede il sangue che sprizza dal collo tagliato. Alla giovane sembra quasi far ribrezzo ciò che sta facendo: lo guarda come sconcertata. La vecchia, indagata come in un ritratto nordico di 50 anni prima, ma appunto indagata nella sua bruttezza e nelle sue rughe. Caravaggio non ha paura di fare cose brutte nei suoi dipinti, le cose appunto indecorose, e questo gli creerà dei problemi nel tempo perché, finché queste opere vanno nelle gallerie private dei committenti, possono andar bene: ma quando Caravaggio inizia a dipingere gradi tele per le principali chiese romane, a quel punto si scontra con le esigenze di decoro della chiesa controriformata. 10 CARAVAGGIO “MADONNA DEI PELLEGRINI”, 1604-06 OLIO SU TELA 260x150, BASILICA DI SANT’AGOSTINO ROMA Questa è l’altra pala d’altare che Caravaggio dipinge, subito a ridosso delle altre cappelle. “Nella prima cappella della chiesa di Sant’Agostino alla man manca fece una Madonna di Loreto ritratta dal naturale con due pellegrini, uno co’ piedi fangosi e l’altra con una cuffia sdrucita e sudicia; e per queste leggierezze in riguardo delle parti che una gran pittura aver dee, da’ popolani ne fu fatto estremo schiamazzo” (Baglione 1642). E’ la rappresentazione della Madonna di Loreto decisamente inedita, perché la Madonna si affaccia alla porta con due pellegrini inginocchiati con abiti sporchi e sdruciti e anche qui i piedi tornano in primo piano. Dalle parole di Baglioni capiamo che i committenti forse potevano comprendere la forza della pittura di Caravaggio, ma il popolo restava sconvolto di fronte a quelle immagini, soprattutto in un momento in cui la chiesa voleva apparire trionfante (con nuovi edifici). Caravaggio però stava abituando Roma a tutto questo, non senza scandali però. CARAVAGGIO “MORTE DELLA VERGINE”, 1604-06 OLIO SU TELA 369X245, LOUVRE Era una personalità molto particolare ed infatti di lì a poco sarebbe stato costretto a lasciare Roma, a seguito di uno dei suoi molti litigi: la sua pittura descrive in qualche modo al meglio la sua personalità. Un dipinto celeberrimo, fra le ultime opere realizzate, oggi si trova al Louvre ma non gode di molta fortuna: è esposta nella Gran Galerì, ma ci sono sempre poche persone ad osservarla (perché ci sono molte opere più famose). In Italia invece vengono organizzate spesso mostre a tema su di lui, perché molto apprezzato per la sua pittura che si potrebbe definire proto-cinematografica. Questo dipinto era destinato all’altare di Laerzio Cherubini nella chiesa di Santa Maria della Scala a Trastevere, però anche questo fu rifiutato perché “avea fatto con poco decoro la Madonna gonfia e con gambe scoperte; fu levata via e la comperò il duca di Mantova [Vincenzo Gonzaga, tramite Rubens], e la mise in Mantova nella sua nobilissima galleria” (Baglione 1642). E’ un dipinto straordinario nella costruzione della scena, in cui la luce colpisce il volto della Vergine, con gli apostoli tutti intorno, e c’è un grande spazio vuoto nella parte alta (qui riempito da un grande tendaggio). Grande scandalo è il fatto che Caravaggio aveva raffigurato una donna che era annegata nel Tevere (per questo era gonfia) e questo mancava evidentemente di decoro. Caravaggio in fuga CARAVAGGIO “LE SETTE OPERE DI MISERICORDIA”, 1606-07 OLIO SU TELA 390x260, CHIESA DEL PIO MONTE DELLA MISERICORDIA NAPOLI Nel 1606 Caravaggio uccide Ranuccio Tommassoni e, per evitare guai, è costretto a fuggire da Roma: il lungo e travagliato viaggio, una sorta di odissea, lo porterà in Italia meridionale. Per un paio di anni lavora a Napoli, dove tra l’altro realizza questo dipinto, che si trova ancora nel suo contesto originale. Il passaggio a Napoli è fondamentale perché permette di far conoscere la sua pittura anche in quell’ambiente artistico. Qui ambienta in un vicolo di Napoli, il tema del soggetto: la e con gli angeli osserva dall’alto le sette opere, come trasportare le fonti, dare da bere agli assetati. 11 CARAVAGGIO “DECOLLAZIONE DI SAN GIOVANNI BATTISTA”, 1607-08 OLIO SU TELA 361x520, ORATORIO DI SAN GIOVANNI BATTISTA DEI CAVALIERI, LA VALLETTA (MALTA) CARAVAGGIO “SEPPELLIMENTO DI SANTA LUCIA”, 1608 OLIO SU TELA 400x300, SANTUARIO DI SANTA LUCIA AL SEPOLCRO SIRACUSA Al passaggio napoletano, segue poi Malta (1607-08), dove il fine è quello di diventare cavaliere di Malta, così da recuperare un titolo che possa essere utile per rientrare a Roma senza troppi guai giudiziari. Baglione, infatti, ricorda che fece il ritratto al principe, il quale in segno di merito, lo nominò Cavaliere di Grazia. Poi però “. E quindi avendo non so che disparere con un Cavaliere di Giustizia, Michelagnolo gli fece non so che affronto e però ne fu posto in prigione, ma di notte tempo, scalò le carceri e se ne fuggì, e arrivato all’Isola di Sicilia operò alcune cose in Palermo” (Baglione, 1642). Si sposta quindi in Sicilia fra il 1608-09, dove effettivamente c’era una sua opera a Palermo, che però è stata trafugata (si dice dalla Mafia) e non è più stata ritrovata: in realtà studi recenti l’hanno datata verso il 1600, quindi era un’opera non realizzata lì ma spedita da Roma. Invece un’opera fondamentale del soggiorno maltese la vediamo a sx: un colossale dipinto, che raffigura il patrono dei cavalieri di malta, San Giovanni Battista, nel momento in cui gli viene tagliata la testa. E’ una scena ancora una volta tragica, ma comincia a differenziarsi dalle scene tipicamente caravaggesche: solitamente le abbiamo viste tutte affollate di personaggi, come se attraverso la luce molto netta vengono scolpiti, mentre qui inizia a mutare il suo stile, non nella concezione generale, ma nella composizione. Inizia a lasciare tanti vuoti. C’è da dire anche che, se guardassimo i dipinti nella loro sede di destinazione, non ci farebbero lo stesso effetto: appaiono molto più scuri e quasi non si vede la parte retrostante, come se le figure emergessero da una grande oscurità. Invece nelle opere tarde di Caravaggio è come se ci fosse un’oscurità incombente sui protagonisti della scena. Lo vediamo molto bene anche nel dipinto a dx, dove gran parte dello spazio è riservato ad una parte oscura, una superficie dall’aspetto tenebroso. Questo dipinto è la prima grande opera che Caravaggio realizza in Sicilia, a Siracusa: “Pervenuto in Siracusa, fece il quadro per la chiesa di Santa Lucia che sta fuori alla Marina: dipinse la santa morta, col vescovo che la benedice, e vi sono due che scavano la terra con la pala per seppellirla” (Bellori, 1672). A Bellori la pittura di Caravaggio non piaceva molto: ne riconosceva i problemi di decoro e della scelta di protagonisti che non corrispondevano alla ricerca del bello, fondamentale nell’accademia carraccesca. Quella di Caravaggio in questo dipinto è una scelta innovativa e sconcertante per quanto riguarda il soggetto: non viene raffigurato il martirio di Santa Lucia, ma il suo funerale, come se fosse vero, dove i due becchini che scavano la fossa sono in PP e così diventano inevitabilmente i protagonisti di tutta la scena. Anche qui quindi troviamo delle scelte che vanno contro all’idea generale di decoro. CARAVAGGIO “RESURREZIONE DI LAZZARO”, 1609 OLIO SU TELA 380x275, MUSEO REGIONALE MESSINA CARAVAGGIO “DAVID CON LA TESTA DI GOLIA”, 1610 OLIO SU TELA 125x100, GALLERIA BORGHESE ROMA Nel 1609 Caravaggio arriva a Messina, dove lascia un paio di opere, di cui ne vediamo una a sx: è un dipinto realizzato per la chiesa dei Crociferi, dove torna l’idea vista nella Vocazione di San Matteo, con la luce che giunge da sx e tocca la mano dei Cristo e si indirizza verso la scena miracolosa (anche qui ennesimo autoritratto). Siamo nel cimitero e l’artista inserisce nella scena ossa, scheletri, teschio, a dar conto del macabro luogo scelto. Qui, ancora di più che nel funerale di Santa Lucia, una gran parte del dipinto è destinato ad una superficie scusa, per far risaltare la scena in basso. Dopo il passaggio in Sicilia, Caravaggio si muove nuovamente: c’è un nuovo passaggio napoletano, dopodiché sembra gli sia concessa la possibilità di rientrare a Roma, ma non ci tornerà mai perché morirà a Porto Ercole, al confine con il Lazio, nel 1610. Aveva con sé delle opere e aveva anche già preso contatti con un grande collezionista romani, Scipione Borghese, a cui aveva già inviato il dipinto a dx. Ritorna qui alle mezze figure, dove la testa di golia altro non è che un ennesimo autoritratto. 12 LA RIVOLUZIONE CAMMINA Pittori caravaggeschi BARTOLOMEO MANFREDI “CONCERTO” UFFIZI GHERARDO DELLE NOTTI “INFANZIA DI CRISTO”, 1620 La pittura caravaggesca si affermò nei decenni successivi, non solo in Italia ma anche in Europa. Bellori ci descrive questo fenomeno: lo fa in maniera un po’ canzonatoria, con gli occhi di chi invece crede di seguire la strada giusta della pittura accademica. “invaghiti molti della sua maniera l’abbracciavano volentieri, poiché senz’altro studio e fatica si facilitavano la via al copiare il naturale, seguitando il corpi vulgari senza bellezza. ((perché l’accademia prevedeva lo studio delle opere antiche e 500esche, cosa che non riguardava i pittori caravaggeschi: non erano intellettuali, non avevano alle spalle una lunga formazione sulla storia dell’arte, ma semplicemente si rifacevano al loro Maestro)). Così sottoposta dal Caravaggio la maestà dell’arte, ciascuno si prese licenza, e ne seguì il dispregio delle cose belle, tolta ogni autorità all’antico e a Rafaelle, dove per la commodità de’ modelli e di condurre una testa dal naturale, lasciando costoro l’uso delle istorie ((quindi la pittura di storia non ha più grossa fortuna presso i pittori caravaggeschi)), che sono proprie de’ pittori, si diedero alle mezze figure, che avanti erano poco in uso. Allo cominciò l’imitazione delle cose vili, ricercandosi le sozzure e le deformità, come sogliono fare alcuni ansiosamente: se essi hanno a dipingere un’armatura eleggono la più rugginosa, se un vaso non lo fanno intiero, ma sboccato e rotto. Sono gli abiti loro calze, brache e berrettoni, e così nell’imitare li corpi, si fermano con tutto lo studio sopra le rughe e i difetti della pelle e dintorni, formano le dita nodose, le membra alterate da morbi” Bellori, 1672. In effetti non si può dar torto a Bellori in questa descrizione: lui ne parla dal punto di vista di critico a cui non piace questo linguaggio, però le caratteristiche messe in luce sono esattamente quelle. Oggi questi artisti godono di una certa fama e sono spesso presenti nelle mostre di Caravaggio. Vediamo in alto un dipinto diventato famoso a seguito di un attentato, quello di via dei Georgofili agli Uffizi, di mano di uno dei primi seguaci di Caravaggio. Vediamo le mezze figure, in gruppo, e dà conto della passione per la pittura di Caravaggio per la musica (nella Fuga in Egitto avevamo visto già questo tema): fra i caravaggeschi, saranno in molti a dipingere suonatori e concerti. Sotto vediamo un pittore nordico, noto in Italia con il nome Gherardo delle Notti, che soggiorna in Italia nei primi decenni del ‘600 e qui conosce la pittura di Caravaggio: lui la reinterpreta in modo particolare e personale. Qui vediamo Gesù che tiene il lume al padre, in una scena molto dolce: ciò che è davvero caravaggesco in questo quadro è l’uso della luce o, meglio, la fonte di luce che non arriva dall’esterno della composizione ma dalla candela posta al centro della composizione (una soluzione vista con Correggio ne “La notte”, anche se di certo lui è molto lontano da una pittura senza decoro). ORAZIO GENTILESCHI “DAVID”, 1610 OLIO SU TELA 173x142, GALLERIA SPADA ROMA ARTEMISIA GENTILESCHI “GIUDITTA E OLOFERNE”, 1620 OLIO S TELA 199x162, UFFIZI Artemisia gentileschi è un’artista che va molto di moda adesso, anche perché è una delle prime donne pittrici (che subì fra l’altro uno stupro da un collega pittore). A dx vediamo un suo dipinto, mentre a sx un dipinto del padre, pittore toscano che conosce la pittura caravaggesca a inizio ‘600: in entrambi i casi sono dipinti caravaggeschi, anche se il padre ha una formazione tardo manierista e quindi non ha mai una convinzione caravaggesca come invece ha la figlia. Nel suo David vediamo il paesaggio dietro, la luce ed il cielo intenso, l’ambientazione in esterno che non sono tratti di Caravaggio. Invece in Artemisia vediamo il fondale scuro, le figure che emergono con la luce e una raffigurazione cruda e violenta del soggetto. “Chi penserebbe infatti che sopra un lenzuolo studiato di candori e ombre diacce degne d’un Vermeer a grandezza naturale, dovesse avvenire un macello così brutale ed efferato … Ma questa è la donna terribile! Una donna ha dipinto tutto questo?” (Longhi). 15 DOMENICHINO “STORIE DI SANT’ANDREA”, SANT’ANDREA DELLA VALLE In una nuova chiesa della Controriforma, ovvero nella chiesa di Sant’Andrea della Valle, costruita con una colossale cupola e secondo il modello della chiesa del Gesù, non troppo lontana da piazza Navona, i pittori bolognese hanno nuovamente la meglio: per decorare le Storie di Sant’Andrea dell’abside viene chiamato Domenichino, di cui vediamo un dettaglio della Vocazione di Pietro e Andrea. Una scena che rimanda anch’essa all’ispirazione carraccesca nell’interesse del paesaggio, che deriva da una buona attenzione alla pittura veneziana, e in PP delle figure che rimandano alla tradizione 500esca. Ma la cosa importante di questa chiesa è la decorazione della cupola Giovanni Lanfranco GIOVANNI LANFRANCO CUPOLA DI SANT’ANDREA DELLA VALLE, 1625-27 Infatti, in Sant’Andrea della Valle un altro pittore che viene dall’Emilia Romagna e che era passato anche lui dall’Accademia dei Carracci, dipinge la prima grande cupola barocca romana. Riprende quelle che erano state le esercitazioni di Correggio a Parma e, a metà anni ’20, realizza questa cupola ricca di figure e di personaggi e che, vista dal basso, sembra sfondare l’architettura e raffigurare un cielo vero. È la prima grande cupola barocca, che segnerà l’avvio di un modello che verrà utilizzato moltissimo, non solo a Roma ma anche in tutta l’Europa del Barocco. La cultura di stampo classicista carraccesca, infatti, ad un certo punto comincia ad interagire con il nuovo stile che si stava affermando nella Roma dell’epoca, ovvero quello barocco: stile fortemente teatrale e scenografico, fortemente coinvolgente, nel quale rientra anche questa opera. GIOVANI LANFRANCO E DOMENICHINO CUPOLA CAPPELLA DEL TESORO DI SAN GENNARO, 1631- 36, 1641-46 Giovanni Lanfranco farà un’altra grande cupola a Napoli, da una commissione di grande rilievo: viene decorata nel corso degli anni ’30 e da Napoli si vorrebbe affidare il lavoro a Domenichino, che ha molta fama. Lui però avrà sempre molti problemi a Napoli: morirà nel 1641, forse addirittura avvelenato perché i pittori napoletani non lo volevano lì: volevano loro la commissione di questo importante cantiere. Riuscì a dipingere solo i pennacchi della cupola (le parti, basse e esterne, di cui vediamo un dettaglio a dx). Dopo la sua morte, fu Lanfranco a terminare l’opera, dipingendo il grande paradiso che sfonda la cupola per mostrare ai fedeli come fosse il paradiso nei cieli ed invitarli ad agire correttamente per poi poterlo raggiungere. Un’invenzione, quella di Lanfranchi, già molto scenografica, che parla in effetti il linguaggio del Barocco. 1 IL BAROCCO LINEAMENTI STORICI ARTE E SOCIETA’ NEL SEICENTO: tra il 1623 e 1797 il declino di Roma e Venezia, i due centri barocchi, fu continuo. I detentori del potere usavano gli artisti per infondere in se e negli stranieri l’illusione di un potere ormai scarso. L’arte italiana barocca è pubblica e legata al potere. Nel 600 c’è una riduzione del rilievo politico degli Stati Italiani e dei monarchi con un ritorno alla terra che riscrive il paesaggio delle città. C’è un netto distacco tra le classi sociali. UN SECOLO DI PACE: mentre l’Europa passava un secolo di sangue l’Italia lo aveva di pace. Non mancarono momenti di riscatto collettivo. Nella dimensione della storia e cultura c’è il contributo dell’Italia. IN EUROPA E NEL MONDO: BAROCCO GLOBALE IL DECLINO DELLA SPAGNA E L’ASCESA DELLA FRANCIA: L'Europa in cui si fa strada il barocco è un continente continuamente attraversato da guerre, rivoluzioni e invasioni. Le due grandi potenze del 600 conoscono sorti inverse. La Spagna declina e la Francia scende, Luigi xiv impegna la Francia in guerre senza soluzione di continuità, nel 1667 il re sole entrò in armi contro la Spagna per la contesa dei Paesi Bassi. 1672 e la guerra contro le province unite repubblicane ma i cittadiniresistette.ro e bloccarono l'invasione. Nel 1686 la Francia al culmine dell’espansione venne attaccata da una Lega che univa Spagna, Olanda, impero, Svezia, Inghilterra e il nostro Ducato di Savoia. LA GUERRA DI SUCCESSIONE SPAGNOLA: Nel 1700 la morte dell'ultimo Asburgo di Spagna dette il via alla guerra di successione spagnola: La Francia combatteva per assicurare il trono al nipote di Luigi, Filippo d'Angiò. Le altre potenze europee si mobilitarono contro la prospettiva dell'unione tra Spagna e Francia. La guerra durò fino al 1713 lasciando sul trono quello che era Filippo V di Spagna sancendo l'incompatibilità tra le corone di Francia e Spagna. VERSO IL BAROCCO GLOBALE: LE REALTA’ PROTAGONISTE: Le armate dell'impero ottomano erano arrivate ad assediare la capitale dell'impero Vienna, salvatasi solo grazie all'esercito polacco. In Inghilterra una prima rivoluzione portò la deposizione ed esecuzione di Carlo I e alla proclamazione di una Repubblica guidata dal Lord protettore Oliver Cromwell che durò fino alla restaurazione della monarchia. La seconda rivoluzione condusse alla creazione di una monarchia costituzionale. Entrarono nel gioco europeo paesi come la Svezia e la Russia. Anche le colonie olandesi e portoghesi nelle Americhe virgola in India e nell'estremo Oriente allargarono ha una dimensione globale il raggio della cultura europea. L’INIZIO DEL BAROCCO Barocco significa tutto e nulla: la cosa fondamentale da dire è che il termine Barocco non veniva utilizzato nel ‘600. È un termine che viene relegato alle arti, con un’accezione assolutamente negativa, solo sul finire del ‘700, quando si stava affermando la cultura neoclassica, che recupera il bello e l’ordine della cultura classica. Barocco deriva da un vocabolo portoghese, “barroco”, che indica una perla di forma irregolare e passa poi al francese “baroque”, che significa bizzarro o stravagante. Colui che collega il termine barocco alla cultura artistica del ‘600 è Francesco Milizia, che è un trattatista neoclassico di fine ‘700. Qui vi sono alcuni passi del suo dizionario delle belle arti del disegno: “Barocco è il superlativo del bizzarro, l’eccesso del ridicolo. Il Borromini ((il grande architetto barocco)) diede in deliri, ma il Guarino, il Pozzi, il Marchione nella sagrestia di San Pietro ec. in barocco. Il Borromini in architettura, il Bernini in scultura, Pietro da Cortona in pittura, il 2 cavalier Marino in poesia, sono peste del gusto. Peste ch’ha appestato un gran numero di artisti. Non v’è male, da cui non si possa trarre del bene. È bene veder quelle loro opere e abbominarle. Servono per sapere quel che non si deve fare. Vanno riguardate come i delinquenti che soffrono le pene delle loro iniquità per istruzione de’ ragionevoli” (Francesco Milizia, Dizionario delle Belle Arti del Disegno, 1797). In slide vediamo tre opere simbolo degli artisti che lui nomina: per Pietro da Cortona un dettaglio della volta di Palazzo Barberini, un’altra volta super barocca progettata da Borromini nella chiesa di san Carlo e a dx la Santa Teresa in estasi nella Cappella Cornaro di Bernini. Il Barocco, quindi, nasce con accezione negativa, ma per noi non l’ha più: nel corso del ‘900 il Barocco è stato recuperato. C’è stato un momento nell’’800, a seguito delle concezioni puriste che recuperavano il Medioevo, in cui sono stati distrutti grandiosi monumento barocchi, per recuperare l’aspetto medievale originale di alcune chiese. Barocco è un termine che tende ad essere associato al ‘600, ma non solo: ad esempio sul manuale, Montanari considera Barocco tutto il ‘600 ma anche oltre, compresa anche la pittura di Caravaggio e dei Carracci (il prof preferisce staccare le cose, anche se poi ci sono momenti di dialogo fra i diversi linguaggi). Un ruolo decisivo e cruciale di quello che noi chiamiamo linguaggio Barocco lo ebbe Gian Lorenzo Bernini, che può essere considerato il profeta, se non l’inventore del Barocco. Precursori del Barocco GIAN LORENZO BERNINI “AUTORITRATTO IN ETA’ GIOVANILE”, 1635, GALLERIA BORGHESE ROMA E’ un personaggio che visse molto a lungo: nasce a Napoli da un artista toscano nel 1598 e muore più che ottantenne a Roma nel 1680, avendo la possibilità di lavorare per ben otto papi diversi. Avrà un’affermazione importante a Roma nel ‘600: comincerà, grazie anche al padre, con Paolo V (Camillo Borghese, 1605-21), proseguirà e si affermerà definitivamente con il grande regista della Roma barocca Urbano VIII (Maffeo Barberini 1623-44). Avrà invece problemi con Innocenzo X (Battista Pamphili, 1644-55) e ritornerà ad essere protagonista con Alessandro VII (Fabio Chigi, 1655-67). PIETRO BERNINI “MADONNA COL BAMBINO E SAN GIOVANNINO (MADONNA CERTOSA)”, MUSEO NAZIONALE DI SAN MARTINO NAPOLI PIETRO BERNINI” ASSUNZIONE DELLA MADONNA (ASSUNTA)”, 1610, BASILICA DI SANTA MARIA MAGGIORE ROMA Il padre è un artista che si afferma a Napoli alla fine del ‘500, per poi andare a lavora a Roma nel primo decennio del ‘600. Queste due opere danno conto del fatto che il figlio ha avuto modo di formarsi nella bottega di un artista di grande qualità. A sx un’opera che parla ancora un linguaggio tardo manierista: è una figura serpentinata, che ricorda quelle del Michelangelo (la Madonna di san Lorenzo a Firenze), con un fare molto più sdolcinato e soprattutto attento alla perfetta esecuzione di ogni dettaglio. Anche l’opera a sx è ancora fortemente legata alla maniera, molto differente ad esempio dalle opere di Caravaggio nell’interpretazione, ad esempio tutti i puttini contraddistinti da un artificio che rimanda al secolo precedente. GIAN LORENZO BERNINI “CAPPELLA PAOLINA”, CHIESA SANTA MARIA MAGGIORE STEFANO MADERNO “SANTA CECILIA”, 1599, CHIESA DI SANTA CECILIA IN TRASTEVERE CARLO MADERNO BASILICA DI SAN PIETRO La Roma di primo ‘600 cominciava a cambiare, vedeva tanti protagonisti, la basilica di San Pietro veniva terminata da Maderno con una facciata molto orizzontale per far vedere la retrostante cupola di Michelangelo. Poi la Cappella Paolina diventa uno dei luoghi dove si confrontano vari artisti dell’epoca, con un gusto che spesso ricorda quello del secolo precedente e, tra gli scultori maggiori c’è sicuramente Stefano Maderno, fratello di Carlo, che realizza la scultura in slide: bellissima e commovente, che vuole raffigurare la reliquia di santa cecilia (così si dice), che fu ritrovata proprio in quegli anni. La Controriforma, infatti, teneva molto a fare le verifiche delle reliquie (a verificare che fossero vere) e nella chiesa di Santa Cecilia, dove si diceva fosse sepolta, si fece un controllo e pare che si sia ritrovato il corpo integro, che Maderno volle riprodurre e scolpire in questo modo, come una giovane che sta dormendo. Questa scultura tende a coinvolgerci e annuncia quella che sarà la cultura barocca. 5 GIAN LORENZO BERNINI “DAVID”, 1623-24 MARMO h170, GALLERIA BORGHESE ROMA Nei due gruppi successivi, Bernini va oltre: nei primi due rimodula l’arte ‘500esca con grande movimento, mentre negli altri due inizia ad avere qualcosa di molto più moderno. In quest’opera dà un’interpretazione completamente e radicalmente nuova di un tema che aveva avuto molta fortuna nella tradizione fiorentina: il David. Lo confrontiamo con il David di Donatello e di Michelangelo e vediamo che Bernini cambia completamente l’impostazione, in senso che potremo definire barocco (in senso positivo). Il David di Bernini si muove: è una figura assolutamente in movimento, perché sta per lanciare il suo colpo di fionda ed è come se lo lanciasse a noi. Quindi, in qualche modo, ci coinvolge ancor più degli altri due: questo è l’aspetto barocco di questa scultura, pensata perché sorprenda chi la osserva, e questa sarà alla base di tutta la carriera di Bernini. GIAN LORENZO BERNINI “APOLLO E DAFNE”, 1622-25 MARMO h243, GALLERIA BORGHESE ROMA L’altro gruppo, il culmine di questa sua attività iniziale, vede Dafne trasformarsi in un albero quando viene raggiunta da Apollo: vediamo anche qui grande senso di movimento ma soprattutto il virtuosismo tecnico dell’artista, nella resa soprattutto del momento della metamorfosi (nelle mani di Dafne che si trasformano in ramoscelli). Dopo aver realizzato questi gruppi, Bernini è pronto per affermarsi a Roma, anche attraverso grandi monumenti che avranno anch’essi l’aspetto fondamentale di coinvolgimento di spettatori e fedeli. La cultura barocca si afferma negli anni ’20 non solo attraverso Bernini, ma anche attraverso altri artisti: Bernini ha un nuovo tipo di linguaggio, che prontamente in pittura trova espressione in un maestro toscano, ovvero Pietro da Cortona. Vediamo in confronto Pietro da Cortona “Ratto delle Sabine” (1627-29), come la gestualità sia simile. Pietro da Cortona PIETRO DA CORTONA “RATTO DELLE SABINE”, 1627-29, MUSEI CAPITOLINI ROMA È uno degli artisti dell’età di Benini che sarebbe stato il grande pittore del Barocco a Roma. Questo dipinto viene eseguito pochi anni dopo l’Apollo e Dafne, per la famiglia Sacchetti: abbiamo un tema antico, reinterpretato però in maniera diversa dall’antico. Rimangono degli elementi antiquari (il tempio, l’obelisco, le colonne), però cambia l’intenzione: c’è un senso estremamente scenografico e teatrale del racconto ed anche un interesse forte per il colore, dove colori vivacissimi, vivissimi ed intensi, che sono proprio una caratteristica dell’artista. Inoltre, vediamo figure che tendono ad andare verso il diagonale, in tralice, perché così facendo si aumenta il senso del movimento. 6 PIETRO DA CORTONA “TRIONFO DELLA DIVINA PROVVIDENZA NEL PONTIFICATO DI URBANO VIII”, 1632-39 AFFRESCO, PALAZZO BARBERINI ROMA In quegli anni c’è un papa toscano, ovvero Urbano VIII (Barberini), il quale fa realizzare un enorme palazzo (oggi museo pubblico), dove Pietro da Cortona dipinge per lui una colossale volta. E’ una volta che si rifà ai grandi modelli che abbiamo conosciuto (Michelangelo, anche se non si interessava all’ornato, aveva fatto una finta architettura per dare un ordine alle sue figure), soprattutto alla volta per eccellenza del ‘600, la volta Farnese dei Carracci, la quale prevedeva una composizione ordinatissima, con i quadri riportati. Qui appunto c’è una volontà di dare un’intelaiatura architettonica, ma la pittura e le pitture si fanno aggressive e vanno oltre: il Barocco prevede di superare gli schemi, è decisamente anticlassico, come questo dipinto. Al centro è raffigurato il trionfo della divina provvidenza, quindi è tutto costruito su allegorie, durante il pontificato di Urbano VIII (al quale alludono le chiavi, con intorno le api che sono l’emblema della famiglia Barberini), con tutto intorno episodi allegorici, mitologici, che sembrano voler riempire il più possibile la composizione (quasi con un senso di horror vacui), andando a debordare le figure architettoniche. Il tutto è interpretato con questa gestualità effettata, soprattutto nella figura della Divina Provvidenza, e con colori vivissimi. Andrea Sacchi ANDREA SACCHI “TRIONFO DELLA SAGGEZZA DIVINA”, 1629-33 Questa grande esuberanza barocca non piaceva a tutti: ci fu una discussione in merito e ad esempio il pittore Andrea sacchi non apprezzava gli eccessi di Pietro da Cortona. Lui stesso, tra l’altro, aveva lavorato in Palazzo Barberini qualche anno prima e aveva dipinto quest’opera, dove le figure erano meno numerose e tutto era organizzato con più equilibrio, senza gli eccessi barocchi (che in realtà piacevano ad Urbano VIII e che invece sarebbero stati criticati dalla cultura neoclassica alla fine del ‘700). ANDREA SACCHI “VISIONE DI SAN ROMUALDO”, 1631 PINACOTECA VATICANA Andrea Sacchi è artista oggi non troppo noto, ma che ci fa capire le critiche verso il barocco e che in quegli anni a Roma risalta un nuovo colorismo, una pittura molto colorata, che viene rilanciata dalla presenza di alcune opere di Tiziano. I Baccanali, realizzate a cavallo fra gli anni ’20 e ’30 per la Ferrara di Alfonso d’Este, arrivano a Roma nella collezione Aldobrandini: molto artisti vanno a studiarli e rimangono affascinati dalla loro forza cromatica, cercando poi di rifarla. Quindi in quegli anni a Roma nascono una serie di dipinti che rimandano proprio alla cultura veneta tizianesca e uno di questi è proprio quest’opera di Andrea Sacchi: vediamo la natura sul fondo con colori molto intensi, con l’impressione che abbiano la meglio sul disegno. 7 Nicolas Poussin NICOLAS POUSSIN “MIDA DINANZI A BACCO”, 1629-30, MONACO DI BAVIERA Un dipinto straordinariamente neo-veneto, di qualità eccezionale, è questa raffigurazione del re Mida di fronte a Bacco nudo (quindi tema mitologico, bacchico), che si deve a Nicolas Poussin (Nicola Pussèn), il più grande pittore francese del ‘600. Fu a Roma nel corso degli anni ’20 ed ebbe a che fare con Cassiano del Pozzo, personaggio fondamentale e determinante per la Roma artistica dell’epoca perché era un grande “collettore” (?) di artisti, li accoglieva a casa sua e gli faceva studiare, disegnando, le opere antiche e moderne: dava quindi una formazione a tutti gli artisti che arrivavano a Roma. Questa è quindi una versione molto coloristica di Poussin, nel gusto di Tiziano, ma sa essere anche altro. NICOLAS POUSSIN “MARTIRIO DI SANT’ERASMO”, 1628-29 OLIO SU TELA 320x186, MUSEI VATICANI ROMA NICOLAS POUSSIN “LA MORTE DI GERMANICO”, 1626- 28, OLIO SU TELA 148x196, MINNEAPOLIS Poussin si afferma negli anni a Roma e, sempre per i Barberini (non il papa, ma Francesco), realizza il dipinto a sx, che è molto diverso rispetto le opere di Pietro da Cortona oppure quello visto prima: è fortemente classicista, con tema antico che viene trattato fortemente all’antica, anche se ha colori molto vivi. Tanto che potrebbe preannunciare il neoclassicismo (cosa che non è perché degli anni ’20 del ‘600) o confrontarsi con David ((infatti nel libro è messo in confronto ad un dipinto di Jean-Auguste-Dominique Ingres che rappresenta la morte di Leonardo)). In questi anni, quindi, mette a punto il suo linguaggio, che poi andrà verso questa direzione, ovvero all’antico, ma che conosce anche il colore veneziano e anche le novità della cultura barocca. Infatti, l’opera di dx, realizzata per la Basilica di San Pietro, vede il barocco nella scelta di collocare in diagonale la composizione, con grande effetto scenografico. NICOLAS POUSSIN “L’ISPIRAZIONE DEL POETA”, 1629-30 OLIO SU TELA 182x213, LOUVRE Poussin tornerà poi in Francia e andrà sempre più verso il classicismo, con spunti anche fortemente letterari. Qui vediamo due opere che rimandano a questo mondo: Guercino “Et in arcadia ego” visto prima, qui a dx, con i pastori in prossimità di un sepolcro, e a sx un dipinto che raffigura l’ispirazione del poeta. Lo spirito di questi dipinti, che potremo definire classicisti (un po’ nello spirito dei Carracci, ma rivisto con occhio nuovo), lo vediamo in un brano del Bellori: “La pittura altro non è che una idea delle cose incorporee, quantunque dimostri li corpi, rappresentando solo l’ordine e ‘l modo delle specie delle cose, e la medesima è più intenta all'idea del bello ((quindi una pittura ideale)) che a tutte l'altre, onde alcuni hanno voluto che questa sola fosse il segno e quasi la meta di tutti i buoni pittori, e la pittura vagheggiatrice della bellezza e regina dell'arte” (da Poussin, secondo Bellori). 10 FRANCESCO MOCHI “ANNUNCIAZIONE”, 1605-08, ORVIETO Mochi era più anziano di Bernini e aveva dato conto di questo linguaggio già molto tempo prima, fin dal primo decennio del ‘600 in un ambito abbastanza provinciale, ovvero a Orvieto. Qui realizza questo gruppo dell’Annunciazione, che a suo modo è già protobarocco: non solo per il gesto della Vergine, che vede una figura molto compatta rispondere all’annuncio dell’angelo, ma soprattutto per la figura dell’angelo, dove tra l’altro troviamo già il panneggio che dà conto dell’aria, formando delle specie di dischi, ma anche il fatto che l’angelo sia colto nel momento in cui scende dal cielo, come se fosse appunto un attore di teatro calato dall’alto. A lui si devono anche due monumenti equestri tipicamente barocchi, anche già solo nell’impeto del panneggio: si trovano a Piacenza e furono destinati a celebrare i duchi di Parma e Piacenza (Alessandro e Ranuccio Farnese). FRANCOIS DUQUESNOY “SANT’ANDREA”, 1627-39, MARMO, CROCIERA DELLA BASILICA DI SAN PIETRO La quarta scultura raffigura Sant’Andrea per la reliquia della testa del santo, fatta dal pittore fiammingo Francois Duquesnoy (ducnuà), il quale era a Roma da qualche tempo: si era formato con Poussin sotto la protezione di Cassiano dal Pozzo e ciò fa sì che l’artista parli un linguaggio differente rispetto a Bernini. Il gesto teatrale è molto simile, ma il panneggio è di stile più classicista (mentre la veste di Bernini è decisamente anticlassica). Se Mochi ci dà conto di un’apertura della scultura sul linguaggio barocco berniniano, Duquesnoy rappresenta un artista che preferisce una scultura più di gusto classicista. Questo è un aspetto importante, perché ci mostra altre realtà al di fuori del Barocco nel ‘600 FRANCOIS DUQUESNOY “SANTA SUSANNA”, 1629- 33 MARMO, SANTA MARIA DI LORETO ROMA GIAN LORENZO BERNINI “SANTA BIBIANA”, 1624-26 MARMO, SANTA BIBIANA ROMA Queste due statue danno perfettamente conto di queste due strade parallele: quella barocca e quella classicista. A dx l’opera di Bernini, a sx Duquesnoy: apparentemente sembrano molto simili, soprattutto se si guardano da lontano. Da vicino invece sono molto diverse perché Bernini ricorda le opere sue che abbiamo già visto, mentre Duquesnoy ricorda chiaramente le sculture antiche nel panneggio, nell’attenta composizione e nel volto (non è una capigliatura proprio all’antica, come quelle che venivano fatte nel ‘500, ma guarda comunque all’antico). ALESSANDRO ALGARDI “OLIMPIA PAMPHILJ” GALLERIA DORIA PAMPHILJ GIAN LORENZO BERNINI “COSTANZA BONARELLI” MUSEO NAZIONALE DEL BARGELLO Duquesnoy non sarà l’unico a guardare in questa direzione: lo fa anche Alessandro Algardi e che rappresenta la versione in scultura dell’accademia dei Carracci. Vediamo un confronto fra Bernini a dx, che raffigura la sua bella amante e rappresenta al meglio i suoi ideali barocchi e sembra quasi vero, i suoi sembrano “marmi vivi” (come sono stati definiti di recente): esprime anche l’intimità che c’era fra i due e la donna sembra colta in un momento nella camera da letto, in prossimità di un momento di passione (veste scollata e capelli scompigliati). A sx invece il busto di Algardi di Olimpia Pamphilj, cognata del papa Innocenzo X, che prese il posto di Urbano VIII (figura tremenda, che ne fece di cotte e di crude nella Roma dell’epoca): la raffigura in senso indubbiamente celebrativo, quindi colta in posa a dar conto della sua autorevolezza (mentre Bernini non la coglie assolutamente in posa, ma in un momento di piena libertà). E’ la differenza che abbiamo visto nel ‘500 fra l’interpretazione del ritratto celebrativo del papa di Raffaello e quello ultra-realistico di Tiziano. 11 ALESSANDRO ALGARDI “SAN LEONE METTE IN FUGA ATTILA”, 1646-53 MARMO 854x500, ASILICA DI SAN PIETRO Algardi si affermerà durante il pontificato di Innocenzo X, realizzando opere importanti anche per la basilica di San Pietro: a dx vediamo la tomba di Leone XI, realizzata in modo non troppo diverso rispetto a quella di Bernini, e a sx una grande pala d’altare che raffigura l’incontro fra Attila e il papa Leone. Le caratteristiche che ci fanno capire che ha una cultura più classicista rispetto a Bernini sono anche la semplice scelta di immagini meno colorate, rinunciando ai contrasti cromatici nel rapporto fra scultura e architettura che invece erano caratteristici del linguaggio barocco berniniano, e poi anche la gestualità che è meno eccessiva e la costruzione dei panneggi non arriva mai a quelle complicazioni formali che distinguono l’arte berniniana. Bernini, Borromini e Innocenzo X GIAN LORENZO BERNINI “ESTASI DI SANTA TERESA”, 1647-51 MARMO E BRONZO h350, CAPPELLA CORNARO CHIESA SANTA MARIA DELLA VITTORIA ROMA Nella chiesa romana di santa Maria della Vittoria, per la famiglia Cornaro, Bernini realizza una delle sue opere più straordinarie e uno degli emblemi del Barocco: anche qui da scultore diventa architetto ma anche scenografo. La Cappella prevede un altare con marmi colorati, con architettura anticlassica (c’è un timpano, ma è tutto spezzato), e sopra c’è un gruppo scultoreo che vede l’angelo con la freccia che trafigge la Santa, colta in questa espressione decisamente estatica e al tempo stesso sensuale. Ritroviamo il panneggio debordante, totalmente innaturale, ma anche un grande effetto scenografico: Intanto dietro ‘altare, Bernini ha aperto una finestra per illuminare il tutto di luce naturale, però in modo che non si vedesse: gli arriva la luce, ma al tempo stesso insieme con la luce, vi sono le strisce di metallo che vogliono alludere ai raggi della luce (come se fossero degli effetti speciali e teatrali). Che questa sia un’interpretazione teatrale lo conferma il fatto che alla scena assistono i committenti: nelle pareti della cappella sono ricavati un paio di palchetti dai quali si affacciano i committenti, come se fossero davvero a teatro. Questa capacità di mettere insieme il sentimento teatrale, il gusto per il colore e l’aspetto anticlassico delle architetture, fa sì che questo fosse considerato l’assoluto capolavoro di Bernini ed anche lui stesso era convinto di questo. Lo conferma un’altra fonte, Filippo Baldinucci: “il Bernino medesimo era solito dire esser stata la più bell’opera che uscisse dalla sua mano”. 12 FRANCESCO BORROMINI “FACCIATA DI SAN CARLINO ALLE QUATTRO FONTANE”, 1634-67 ROMA Se Bernini realizzò la Cappella Cornaro è anche perché sotto il pontificato di Innocenzo X, che si distinse per l’attuazione di una politica completamente diversa da Urbano VIII, venne messo in disparte dal papa. Lui che aveva prima controllato le maggiori committenze, fu totalmente escluso dalle commissioni pontificie ed ebbe quindi la libertà di lavorare per il cardinale Cornaro. Il nuovo papa preferì a Bernini un altro artista in architettura, Francesco Borromini: altro grande architetto del Barocco, che realizzò soluzioni di eccezionale fantasia. Era coetaneo di Bernini, ma proveniva da Bissone (dai laghi lombardi), come molti arti artisti nel corso dei secoli. Borromini si forma a Roma con Bernini nel cantiere del Baldacchino di San Pietro e poi, nel corso degli anni ’30, si rivela con questa opera: la chiesa di San Carlo alle quattro fontane, contraddistinta da questa facciata totalmente anticlassica. E’ come se volesse prendere vita, volesse dare conto di un curioso movimento, accostando le colonne ad una visione totalmente anticlassica: negli ordini architettonici antichi la facciata non si incurvava di certo in questa maniera, oltretutto è anche interrotta. Borromini realizza l’intero insieme di questo complesso, in una chiesa tra l’altro con una pianta particolare, quasi ellittica invece che quadrata o rettangolare: si rifuggono le forme ordinate e si prediligono forme strane e complesse, che danno il senso di continuità e movimento. Anche il soffitto interno è tutto decorato e mosso. Nella chiesa c’è un piccolo chiostro, in slide in basso, che si contraddistingue per la volontà di alterare le forme ordinate: vediamo le colonne abbinate affiancate una accanto all’altra e, invece che metterle a distanza regolare, vengono messe a coppie e agli angoli si crea una superficie curva (da vedere in pianta, in alto a dx in slide). FRANCESCO BORROMINI “LANTERNA DI SANT’IVO ALLA SAPIENZA”, 1643-62 ROMA Questa architettura estremamente fantasiosa finisce, nel giro di qualche decennio, per diventare un’architettura che dà un nuovo volto a Roma, attraverso grandi monumenti come questo. Qui vediamo il suo coronamento straordinario e vorticoso, che vede una sporta di cupola molto particolare che dà luce all’interno dell’edificio. FRANCESCO BORROMINI “ORATORIO DEI FILIPPINI”, “IL COLLEGIO DI PROPAGANDA FIDE”, “SANT’AGNESE IN AGONE” Tra le opere più eminenti, vediamo sicuramente la chiesa di Sant’Agnese in piazza Navona (in alto a sx), commissionata direttamente da Innocenzo X perché lì accanto tra l’altro c’è il palazzo della famiglia Pamphilj (decorato da Pietro da Cortona, che al contrario di Bernini mantenne il suo successo anche sotto il nuovo papa). Accanto, altri monumenti di Borromini: l’interno del collegio e l’oratorio, tutti giocati s questa estrema fantasia e la volontà di dare movimento ai prospetti degli edifici attraverso il contrasto fra linee curve e rettilinee o tendendo semplicemente alle linee curve. Di fronte alla chiesa di Sant’Agnese, troviamo la Fontana dei Quattro fiumi, invenzione Berniniana, e proprio con quest’opera Bernini tornò a farsi apprezzare da Innocenzo X e ad avere commissioni di rilievo anche dal pontefice. 15 L’ultimo Bernini GIAN LORENZO BERNINI “ESTASI DELLA SANTA LUDOVICA ALBERTONI”, 1674, CHIESA DI SAN FRANCESCO A RIPA ROMA Bernini, quindi, in Francia ha un successo relativo, e torna a Roma, dove il successo non gli mancherà mai fino alla morte. Qui vediamo uno dei suoi ultimi capolavori: un’opera commovente, che è in qualche modo la risposta ancora più intima dell’Estasi di Santa Teresa. Raffigura la beata Ludovica Albertoni, qui effigiata nel marmo, senza l’angelo con la freccia ma anche lei in una posa di estasi estremamente sensuale. Nel sentimento ricorda quindi la Santa Teresa, ma anche nella lavorazione del marmo. Viene realizzata per il nipote del papa Clemente X, quando Bernini aveva già 75 anni e colpisce ancora di più nel loro contesto e soprattutto dal vivo, perché pensata (come le altre opere barocche) per emozionare lo spettatore. Vediamo il marmo bianco che contrasta con il dipinto retrostante e poi il panneggio policromo che accompagna il letto di morte estremamente barocco. La Cappella Cornaro è più spettacolare per la soluzione dei committenti nei palchetti, mentre qui la soluzione è più intimista. Anche qui c’è la luce naturale che gioca un ruolo fondamentale, illuminando il marmo. Sul fondo troviamo un dipinto di un nuovo protagonista del Barocco romano (Baciccio), il quale fu protagonista di una delle grandi opere del tardo ‘600 romano. BACICCIO “VOLTA DELLA CHIESA DEL GESU’”, 1674-79 AFFRESCO, CHIESA DEL GESU’ ROMA ANDREA POZZO “VOLTA DELLA CHIESA DI SANT’IGNAZIO”, 1685 AFFRESCO CHIESA DI SANT’IGNAZIO ROMA Qui Baciccio raffigura il Trionfo del nome di Gesù, straordinaria immagine barocca: è tutto giocato sulle apparizioni scenografiche delle figure e sulla luce. Infatti, i soffitti barocchi, con queste caratteristiche, si diffonderanno in Italia ed Europa. A dx un’altra delle grandi volte romane di quegli anni, in una chiesa poco lontano dalla chiesa del Gesù, dipinta dal pittore gesuita Andrea Pozzo: qui mette in scena la Gloria di Sant’Ignazio (fondatore dei gesuiti) e ancora una volta troviamo una grande scenografia barocca, ma con qualcosa in più rispetto a quella di Baciccio, ovvero la spettacolare costruzione illusionistica. È come se, attraverso illusionismo della prospettiva (visto in primis Masaccio, poi Mantegna, Correggio), la chiesa si prolungasse verso l’alto. 16 IL SEICENTO EUROPEO Le Fiandre ANTOON VAN DICK “RITRATTO DEL CARDINALE GUIDO BENTIVOGLIO”, 1623 PALAZZO PITTI ANTOON VAN DICK “SANTA ROSALIA”,1624, PALERMO ANTOON VAN DICK “RITRATTO DI CARLO I A CACCIA”, 1635, LOUVRE Nel ‘600 nascono nuovi protagonisti dell’arte europea, molti dei quali avevano avuto a che fare con l’Italia. L’abbiamo già visto con Rubens, qui invece vediamo un suo allievo che ottenne grande fama soprattutto come grande ritrattista (ma non era solo questo): Antoon Van Dick, nato ad Anversa, avrebbe avuto grande successo in tutta Europa ed anche in Italia, come ci attesta il ritratto a sx, realizzato durante un suo passaggio nel nostro paese. E’ un dipinto che, già negli anni ’20, è barocco, prefigurando quasi i panneggi che Bernini realizzerà nel marmo. A dx un altro grande committente di Van Dick, il re d’Inghilterra Carlo I, in un celebre ritratto che lo raffigura a caccia con il suo cavallo, messo in posa con grande eleganza e anch’esso lo possiamo definire assolutamente barocco. Nel mezzo vediamo un’opera di Van Dick, realizzata durante un soggiorno in Sicilia che tra l’altro coincise con la peste e con il ritrovamento delle reliquie di Santa Rosalia, tanto che la Santa fu più volte dipinta dal pittore fiammingo prima di tornare nel nord Europa. Bellori ricorda la grande qualità ritrattistica di questo maestro d’oltralpe, che rimanda a Tiziano: effettivamente i colori sembrano tizianeschi e d’altronde il suo maestro Rubens aveva mosso proprio dalla pittura veneziana. La Spagna DIEGO VELAZQUEZ “FILIPPO IV”, 1631-32, NATIONAL GALLERY LONDRA DIEGO VELAZQUEZ RITTRATTO DI INNOCENZO X”, 1649-50, GALLERIA DORIA PAMPHILI ROMA DIEGO VELAZQUEZ “LAS MENINAS”, 1656-57 OLIO SU TELA 318x276, MUSEO DEL PRADO MADRID Anche Velzquez, coetaneo di Bernini, verrà in Italia: avrà almeno un paio di passaggi romani, che saranno decisivi per la sua maturazione, uno intorno al 1631 e l’altro intorno al 1649-50, quando dipinge quello che può essere considerato uno dei suoi massimi capolavori, ovvero il ritratto di Innocenzo X. E’ dipinto “alla Tiziano”, ricorda infatti il ritratto di Paolo V nella ricerca di verità, e dialoga perfettamente anche con i marmi, i busti, di Bernini, con una materia che tende a sfaldarsi ma anche a riflettere la luce: è uno dei capolavori del ‘600, realizzato quindi da un pittore non italiano, anche se in questo caso lavora in Italia. Accanto, a sx, vediamo il committente e protettore il pittore, ovvero Filippo IV: questo è uno dei tanti ritratti fatti da Velazquez al re di Spagna, qui abbigliato secondo il gusto dell’epoca, ritratto anche in questo caso con grande verità. Rispetto al dipinto del papa, qui adotta uno stile più compatto, che probabilmente deriva da una buona conoscenza delle opere di Caravaggio. A dx abbiamo uno dei simboli della pittura dell’artista, ovvero Las Meninas: sembra di entrare negli appartamenti dei reali e nell’atelier dell’artista. Qui vediamo la figlia del re in posa, con una damigella, ed anche il pittore (a sx) che sta dipingendo una grande tela con il ritratto della piccola fanciulla. C’è poi la soluzione bellissima dei riflessi dei genitori nello specchio alle spalle dell’artista, che osservano la scena, soluzione che abbiamo visto anche con van Eyck nei Coniugi Arnolfini riproposta dopo qualche secolo in questa immagine domestica di corte. 17 In Olanda JOHANNES VEEMER “DONNA CHE VERSA IL LATTE”, 1657-58 OLIO SU TELA 45x41, AMSTERDAM REMBRANDT “LEZIONE DI ANATOMIA DEL DOTTOR TULP”, 1632 REMBRANDT “RONDA DI NOTTE”, 1642 OLIO SU TELA 363x437, AMSTERDAM Grande attenzione al realismo non solo nella Spagna di Velazquez, ma anche nei Paesi Bassi, dove Rubens e Van Dick propongono uno stile ormai barocco, ma altri artisti guardano soprattutto alla realtà, quindi a quella che era la caratteristica dell’arte fiamminga fin dal ‘400. Veemer e Rembrandt si propongono come voce eccezionale della pittura europea del ‘600. A sx due delle immagini di gruppo di Rembrandt, il quale è anche un grandissimo ritrattista (molto spesso di sé medesimo): la lezione di anatomia del dottor Tulp e la Ronda di notte, un quadro gigantesco fatto per celebrare la guardia di Amsterdam, raffigurando tutti i personaggi che ne facevano parte. La viosone di Veemer con La donna che versa il latte è più intimista e da un lato aticipa soluzioni che saranno tipiche del ‘700 e dall’altro rimanda alla pittura di grande dettagio caratteristica delle Fiandre del ‘400. L’Europa quindi comincia a differenziarsi e a proporre tanti centri artistici, che non sono ancora capaci di reggere il confronto con Roma (che, con Bernini, propone palcoscenici inarrivabili), tuttavia sono esperienze di grande modernità. L’ITALIA PARLA BAROCCO GENOVA: Nei primi anni del 600 non si era ancora interrotto il fiume d'oro e d'argento delle miniere sudamericane verso le casse dei banchieri genovesi. Ma il tracollo militare iberico e la diminuzione dell'afflusso con il fallimento dello Stato spagnolo misero in ginocchio Genova. L'instabilità politica fu il primo passo e si moltiplicarono i tentativi di annessione da parte dei Savoia e della Francia. Ciò spiega la timidezza dell'attività edilizia durante il 600: non esiste una Genova barocca ma in compenso la quantità di denaro dell'aristocrazia e la scarsità di occasioni per investirlo erano tali che la committenza ai pittori e agli scultori assunse tratti di straordinaria magnificenza. Un ritratto equestre monumentale come quelli che lui stesso dipingerà per il re Carlo I d'Inghilterra. Una delle costanti della cultura artistica genovese del barocco q la consapevolezza del rapporto tra città e paesaggio, in questo caso il mare. Avrebbe potuto avere una strepitosa riedizione della sistemazione berniniana di San Pietro in Vaticano. Nel 1657 la famiglia Sauli decise di decorare la crociera della grande chiesa di famiglia, la Nostra Signora di Carignano progettata da Galeazzo Alessi. Fu Pierre Puget a proporre di ispirarsi al modello del Vaticano. Disegnò un colossale baldacchino sostenuto da quattro coppie di colonne tortili e sopra un fastigio con una statua bronzea dedicata alla vergine. Per le quattro nicchie dei piloni progettò altrettanto statue colossali. Di tutto questo progetto presero forma solo due sculture. LOMBARDIA IN BAROCCO: 1630, culmine della pestilenza che piega la città, e la processione del corpo di San Carlo Borromeo non ottiene la remissione dell’epidemia ma il contagio. Nel barocco lombardo arde la minaccia del manierismo ma anche la pittura della realtà di Caravaggio. Anche l'architettura può essere Letta in continuità con il manierismo maturo di impronta romana, so vale anche per il più innovativo tra gli architetti, Francesco Maria Richino. La vicenda in cui si manifesta la tensione fra tradizione milanese e novità barocca è la facciata del Duomo. Dopo aver rinunciato a porre una facciata romana, da fabbrica commissionò due progetti, uno a Carlo Buzzi e uno a Francesco Castelli. Il primo era un ritorno al gotico e il secondo un tentativo di attualizzare il gotico ripensandolo attraverso il barocco. Il dibattito tra le due opzioni si prolungò e alla fine la fabbrica scelse il progetto di Buzzi. 1 SETTECENTO BAROCCO LINEAMENTI STORICI STABILITA’ SOCIALE, CRESCITA DEMOGRAFICA E NUOVI ASSETTI POLITICI: Il 700 è caratterizzato da una certa stabilità sociale, con un incremento demografico. La situazione politica conobbe rapidi e radicali mutamenti. In Italia nel 1706 l'esercito imperiale del principe Eugenio di Savoia libero Torino e conquista la Lombardia, l'anno successivo il regno di Napoli. Nel 1714 la pacificazione definì un'Italia diversa: Milano, Mantova e Napoli passarono all'Austria imperiale, la Sicilia ai duchi di Savoia. La Spagna non si rassegna alla perdita dei possedimenti e quindi ricomincia a combattere in Italia, si inserisce così la dinastia dei Borbone. VERSO L’ILLUMINISMO: Sul piano della storia culturale si osserva una progressiva mutazione che prepara le riforme, l'illuminismo e le rivoluzioni della seconda metà del secolo. Uno degli elementi discriminanti fu la scoperta dell’individuo. Inizia a cambiare anche il rapporto con la religione e quello con la storia dove la filologia smonta le conoscenze fino a quel momento accettate. Il secondo '700 è stata un'epoca di grandi movimenti politici e sociali, che culmineranno con la Rivoluzione francese (1789) e nell'avventura napoleonica (1796), con anche la Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti (1776). Anche lo scenario artistico e culturale è molto animato: è del 1751 l'Encyclopedie di Diderot e D'Ambert, per la cui conclusione ci vollero 30 anni. Il 1764 è un anno cruciale: in Italia abbiamo le pubblicazioni di Verri e Parini e soprattutto "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria (in anonimato), che mostra quanto sia insito il pensiero illuminista negli intellettuali italiani. Poi Voltaire con il suo "Dizionario filosofico" e Kant con "Osservazioni sul bello e il sublime". In questo periodo la circolazione di libri ed idee sembra impennarsi, come anche la circolazione delle persone: il cosmopolitismo è infatti uno dei tratti distintivi del secolo. I viaggi diventano uno dei fondamentali mezzi di conoscenza della realtà e il "Gran tour" uno dei palcoscenici del Neoclassicismo (insieme alle Accademie e musei): il viaggio verso sud, che gli esponenti delle famiglie più importanti compivano almeno una volta nella vita, arrivava in Italia, considerata la vera meta perchè luogo per eccellenza della bellezza. La Grecia infatti era difficilmente raggiungibile, anche perchè faceva parte dell'Impero ottomano. Fra 700 e '800 si affaccia anche la classe emergente della borghesia (un segnale di passaggio fra aristocrazia e borghesia sono la nascita di nuove tipologie architettoniche, come i Caffè. In generale, c'è un'attenzione sempre maggiore per la forma della città e le opere pubbliche: apertura di nuovi spazi e piazze pubbliche, costruzione di ospedali, cimiteri, ecc... Solitamente si definisce questo periodo come “Neoclassicismo”, ma come tutte le classificazioni è molto rigida: non si parla infatti solo di un neoclassicismo, ma bisognerebbe usare il plurale e spesso si sovrappone con il romanticismo. Già nel rinascimento (periodo in cui i pittori passano dall’essere artigiani al ruolo di artisti liberali) abbiamo il primo periodo di neoclassicismo in realtà, per poi seguire nei secoli successivi (es. Barocco). Nel ‘700 il Neoclassicismo si distingue perché è consapevole della scelta e della ricerca. In questo periodo abbiamo quindi artisti vicini nel tempo (a volte anche nello spazio), ma lontani nel linguaggio. E’ l’epoca di un doppio e contrapposto sogni: quello di un’umanità che si rivolge agli antichi per imitarne l’arte ed i valori morali, sorretta da ideali illuministi e non solo frutto di nostalgia (presidente Usa Jefferson si rifaceva ad Epicuro). Al contempo il sogno di chi si interroga sulla dimensione irrazionale, nelle regioni del sogno, anche quando si rivela incubo, su cui si svilupperà poi il Romanticismo. Il secolo dei lumi, il ‘700, il cosiddetto secolo dell’illuminismo, vede molto cambiamenti che avrebbero condotto all’età contemporanea. Qui vediamo cinque immagini che sottolineano alcuni aspetti fondamentali di quel secolo: la prima a sx è un ritratto di Luigi XIV, il grande Re Sole, assolutamente barocco di Rigaud, dove i tendaggi ad esempio ricordano quelli berniniani ed il grande fasto richiama appunto la cultura barocca. Accanto troviamo la famiglia dell’Imperatore Francesco e della moglie Maria Teresa d’Austria, nel quadro celebrativo della grande casa Asburgo, famiglia protagonista del ‘700: vediamo un abbigliamento diverso, che richiama la cultura spensierata da salotto tipica del secolo, e l’architettura Rococò. Alla cultura aristocratica si oppone una nuova visione del mondo: a dx vediamo il primo tomo dell’Encyclopedie di Diderot e Lambert (1751), simbolo della nuova cultura illuminista che condurrà all’evento che vediamo sotto, ovvero la presa della Bastiglia, con conseguente Rivoluzione Francese nel 1798 e Napoleone. Questo ultimo sarà sostenitore del nuovo stile che andrà a contrapporsi a quello barocco, ovvero il Neoclassicismo. A inizio ‘800 viene realizzata in stile neoclassico, “neo-palladiano” in questo caso, la Casa Bianca, simbolo degli Stati Uniti nati nel 1776: anche il nuovo mondo entra a far parte della storia dell’arte, soprattutto nel ‘900. L’Italia invece, protagonista fino ad ora, uscirà di scena nell’800 (l’ultimo sarà Canova) o comunque non riuscirà ad imporsi come in passato. Ci sarà una sola eccezione con il Futurismo. 2 Il Rococò Nel corso del ‘700, quello che era lo stile barocco prende una strada più frivola, decorativa e spensierata e sfocia nel cosiddetto Rococò, che prende il nome da “rocaille” (termine francese che si riferisce alle decorazioni fatte con rocce e conchiglie), quindi estremamente ornamentale e ben poco strutturale. Qui vediamo delle immagini del Castello di Sanssouci (sansousì) (1745-47), dove appunto si vede come la reggia di Federico II di Prussia adottasse questo linguaggio, con grandi finestre che davano molta luce all’interno, dove vi erano specchi con cornici estremamente mosse, utilizzo di stucchi e dorature. Tutto ciò per dare ‘impressione di una grande decorazione, estremamente ornamentale e leggera. Si fa riferimento alla spensieratezza che evidentemente aveva l’aristocrazia europea alla metà del ‘700, senza immaginare ciò che sarebbe successo di lì a poco. Questo stile è mediato e preparato dal Barocco stesso. L’Italia parla Barocco GUARINO GUARINI “SANTISSIMA ANNUNZIATA”, 1660-62, MESSINA GUARINO GUARINI “CAPPELLA DELLA SINDONE”, 1667-1690, TORINO GUARINO GUARINI “PALAZZO CARIGNANO”, 1679-85, TORINO Vediamo alcune opere che dialogano ancora con il secolo precedente e qui, ancora nel ‘600, vediamo l’esperienza di Guarino Guarini: artista modenese, grande architetto che appartenne all’ordine dei teatini (ordine religioso che ebbe fortuna nella Controriforma) e comprese bene il linguaggio eccentrico di Borromini. A sx in alto vediamo la chiesa di Santissima Annunziata (dei padri teatini) di Messina, una delle sue prime opere realizzata durante il suo passaggio in Sicilia, che è andata distrutta durante il terremoto del 1908: vediamo il grande movimento del prospetto, che alterna curve ad elementi rettilinei, la scelta di qualche elemento architettonico rimodellato con grande fantasia (ad esempio il timpano curvo in basso, ripreso in alto ma rotto). Guarini, quindi, ha il grande merito di portare in Sicilia la fantasia del Barocco, che in quella terra avrebbe avuto molta fortuna (basti ricordare Noto). Il luogo in cui l’artista lascia l migliori prove di sé è Torino, dove troviamo opere fondamentali che ancora una volta danno conto del suo legame con la cultura borrominiana: a sx il palazzo Carignano, con la facciata tutta giocata sull’alternanza delle curve. Poi la Cappella della Sindone, che si contraddistingue all’interno per i caratteri estremamente eccentrici, e lo stesso avviene all’esterno con una costruzione che culmina con una sorta di pinnacolo che ricorda molto le soluzioni di Borromini. FILIPPO JUVARRA “BASILICA DI SUPERGA”, 1731 TORINO FILIPPO JUVARRA “PALAZZINA DI CACCIA DI STUPINIGI”, 1733 TORINO FILIPPO JUVARRA REGGIA DI MADRID”, 1735 Nel ‘700 l’architetto italiano più illustre, che avrà anche fortuna europea, è Filippo Juvarra: siciliano, che si afferma lavorando soprattutto a Torino per Vittorio Amedeo II di Savoia. Qui vediamo tre opere torinesi, in particolare l’arioso scalone di Palazzo Madama a sx in alto: una delle grandi caratteristiche dell’architettura ‘700esca è quella di fare delle grandi scale estremamente aperte e luminose, dando un grande senso di spazio ma anche di comodità. Alle porte di Torino, alla sommità di un colle, Juvarra progetta anche la grandiosa Basilica di Superga (a dx in alto), capace di evocare il Barocco romano: lo vediamo ad esempio nei campanili, che ricordano la Basilica di Sant’Agnese in piazza Navona di Borromini, poi il prono che immette nella basilica (che è di gusto classicista, ma riletto), poi l’idea della pianta centrale però con una cupola che ricorda Pietro da Cortona. Il tutto è inserito nel paesaggio, come anche nella palazzina di caccia di Stupinigi 3 (sabauda), che è una sorta di grande palazzo in campagna, con i giardini intorno: è come se si gettasse nel paesaggio attorno con una serie di braccia, che muovono dal corpo centrale. Juvarra avrà grande fortuna e verrà chiamato anche a Madrid a realizzare la nuova reggia di Madrid, qui in basso a dx: anche lui è un personaggio che attesta la grande fortuna italiana in Europa nel corso del ‘700. LUIGI VANVITELLI “LA REGGIA DI CASERTA”, post 1751 La reggia più spettacolare del ‘700 italiano non può che essere quella costruita per Carlo di Borbone di Napoli da Vanvitelli a Caserta. E’ un progetto enorme, colossale, che non fu mai realizzato del tutto perché prevedeva che ci fosse un enorme viale che collegasse la reggia a Napoli. Il modello è ovviamente Versailles, non solo per l’enorme palazzo, ma anche per i grandi giardini retrostanti, che culminano in una grande cascata: ricorda quindi il gusto del Re Sole, riadattato all’epoca ‘700esca, che prevede ad esempio dei grandi scaloni che immettono ai piani superiori, pieni di aria e luce, pensati per una grande corte qual era quella di Carlo di Borbone. Rappresenta in qualche modo una cultura che è ancora ‘600esca, perché il modello è quello di Versailles (Barocco Francese) e non possiamo definirla Rococò, anche per la sua dimensione colossale, anche se questi sono termini e categorie che non sempre sono così ben definite (poi tra Barocco e Rococò c’è una continuità di linguaggio, che non c’era invece tra Gotico e Rinascimento ad esempio) NICOLA SALVI, PIETRO BRACCI, FILIPPO DELLA VALLE “FONTANA DI TREVI”, 1731-62 ROMA Fra i monumenti barocchi, non si può non pensare ad uno dei luoghi più conosciuti di Roma: la Fontana di Trevi, che è un grande progetto che ha coinvolto diversi artisti nel corso del ‘700. E’ stata realizzata utilizzando una scenografia di un palazzo di gusto ‘600esco e immaginando questa sorta di trionfo del re del mare su delle rocce che richiamano una scenografia naturale, un po’ come aveva insegnato Bernini nella fontana dei quattro fiumi, ma con un aspetto più ‘700esco nella costruzione generale: c’è una costruzione che va verso un ordine maggiore nell’architettura del palazzo retrostante e ci sono delle invenzioni che non hanno quella verve tipicamente berniniana. E’ quindi anche questo un elemento di continuità con il secolo precedente. GIACOMO SERPOTTA “L’ORATORIO DEL ROSARIO DI SANTA CITA, 1685-1718, PALERMO Nel sud Italia, a Palermo, troviamo una bottega di stuccatori straordinaria, che trova il suo vertice in Giacomo Serpotta: artista palermitano, virtuoso dello stucco, materia non troppo nobile ma che diviene eccellenza della scultura e architettura del ‘700. Nel ‘700 si lavora ancora il marmo, ma lo stucco ottiene una sua definitiva affermazione perché, pensando allo spirito Rococò, tornano molto bene se realizzati con questa tecnica. Con la sua bottega decora tutta una serie di oratori palermitani: qui vediamo l’oratorio di Santa Cita, dove vediamo una scena con la battaglia di Lepanto. C’è tutto il senso di horror vacui che contraddistingue questo tipo di decorazione, però con una grande spensieratezza, che troviamo anche nella figura a dx: pare una damigella, una bella signora abbigliata nei modi del ‘700, con il panneggio che evoca ancora il mondo di Bernini, ma con anche un piglio aristocratico e spensieratezza che rimanda al secolo corrente. Questa figura in realtà non è da salotto, ma è la virtù della fortezza, attraverso la grande colonna a cui è appoggiata che è il suo attributo. Un po’ come Caravaggio quando dipinse la sua maddalena, facendo un ritratto ad una giovane, qui Serpotta sembra fare un po’ la stessa cosa. Lui è indubbiamente uno dei più grandi artisti italiani dell’inizio ‘700, capace con questo suo spirito, di annunciare una nuova epoca: queste opere si potrebbero definire Rococò, per comprendere al meglio certe diramazioni della cultura tardo barocca. 6 GIOVAN BATTISTA TIEPOLO “ABRAMO E I TRE ANGELI”, 1726-29 DAL CICLO DI AFFRESCHI NEL PALAZZO PATRIARCALE, UDINE GIOVA BATTISTA TIEPOLO “BANCHETTO DI CLEOPATRA”, 1746-47 AFFRESCO, PALAZZO LABIA VENEZIA La pittura sacra e di storia, d’altronde, restava ancora nel ‘700 la pittura per eccellenza. Tiepolo si afferma a partire dalla fine degli anni ’20, con un ciclo straordinario per qualità esecutiva, non a Venezia ma in una città periferica (quindi non in un grande centro artistico), ovvero a Udine nel Palazzo Patriarcale: a sx vediamo l’episodio di Abramo e i tre angeli, adottando un linguaggio molto particolare, gioioso e con una pittura rapida, fresca, che allude alla spensieratezza del ‘700. Parte quindi da Veronese, rileggendo anche temi biblici, con uno stile nuovo e moderno, che si lega alle richieste dell’aristocrazia dell’epoca. Attraverso questa grande gioia, Tiepolo riesce a conquistarsi i migliori committenti veneziani dell’epoca. Arrivando verso la metà del secolo, vediamo Tiepolo dipingere a Palazzo Labia una serie di storie di Antonio e Cleopatra, quindi storie antiche: ma guardando l’affresco non paiono storie antiche, ma raffigurazioni della Venezia contemporanea, esattamente come Veronesi. Come si usa fare nel ‘700, Tiepolo utilizza anche un quadraturista (un pittore che dipinge le inquadrature, gli elementi illusionistici delle architetture: un pittore specializzato), fra i suoi assistenti, per allestire le scenografie. Quello che ci colpisce in questa scena non sono i colori glaciali, ma la grande capacità di rendere il fasto dei banchetti veneziani, con l’utilizzo della luce notevole, con i dettagli che non mancano mai (dai suonatori nella parte alta al cagnolino in basso), che vogliono dare conto dell’atmosfera cortese. GIOVAN BATTISTA TIEPOLO “AFFRESCHI NELLA KAISERAAL DELLA REGGIA DEL PRINCIPE- VESCOVO KARL PHILIPP VON GREIFENKLAU”, 1752, WURZBURG GERMANIA Sapendo dipingere a questo modo, Tiepolo riesce ad ottenere una grande commissione oltralpe: viene chiamato dal principe-vescovo di Wurzburg in Germania a dipingere una serie di opere nella sua nuova reggia, che aveva avuto delle disponibilità economiche improvvise e che decide di investire in opere che lasciassero memoria di sé. Tiepolo decora il grande scalone con stile pienamente ‘700esco, pieno di luce, decorato nella parte alta, e poi nel salone principale racconta un tema medievale, che ha per protagonista Federico Barbarossa: così come aveva fatto per la storia antica, anche questo tema viene adattato allo spirito del ‘700. Per esempio, qui vediamo il matrimonio di Federico Barbarossa che viene rappresentato come se fosse il matrimonio di un regnante dell’epoca, con i personaggi abbigliati con vesti del ‘700 e con architetture con costruzione illusionistica e prospettica: qui c’è qualcosa in più, perché vi sono decorazioni in stucchi che aggiungono uno spirito ancora più Rococò alla spettacolare decorazione del Veronese. Tiepolo tornerà poi in Veneto, dove decorerà qualche villa veneta, come Villa Valmarana a Nani in alto a sx, con un dettaglio del suo ciclo in basso a sx. Poi morirà in Spagna, lavorando nel Palazzo Reale di Madrid, dove vediamo un dettaglio di un affresco dei soffitti a dx, dove raffigura proprio la Gloria di Spagna. 7 GIAN DOMENICO TIEPOLO “RIPOSO DEI CONTADINI”, 1757 VILLA VALMARANA NANI GIAN DOMENICO TIEPOLO “PASSEGGIATA”, 1791, CA’ REZZONICO (MUSEO DEL ‘700 VENEZIANO) VENEZIA Venezia è una capitale che sta vivendo il suo canto del cigno e proprio nella pittura trova l’ultima stagione della sua grande era: nel ‘700 è capace di produrre protagonisti un po’ in tutti i generi della pittura, tanto che se Tiepolo è un pittore che si dedica alla pittura soprattutto di storia, il figlio Gian Domenico preferisce la pittura legata alle scene di genere, come s’intende dal dettaglio a dx e quello a sx, dove vediamo dei contadini immersi nella natura e con un cielo azzurro tipicamente tiepolesco. Nell’opera a dx, una passeggiata in campagna, con questa veduta molto originale di spalle e che fa capire che Gian Domenico sapeva rendere al meglio l’atmosfera da salotto veneziana (quella di Goldoni e Casanova). Parigi ANTONIE WATTEAU “L’INDIFFERENTE”, 1717, LOUVRE FRANCOIS BOUCHER “TOELETTA DI VENERE”, 1751, METROPOLITAN NY Questo spirito spensierato era anche quello che si poteva trovare a Parigi, dove è lì che troviamo i pittori che meglio si adattano allo spirito Rococò, più aristocratico e ricco di un’elegantissima grazia resa con grande spensieratezza. Vediamo ad esempio Watteau a sx, con una pittura molto rapida, mentre a dx Boucher, artista molto affermato nella Parigi dell’epoca, con questa immagine tipicamente ‘700, con anche grande sensualità. Infatti, il ‘700 recupera anche la sensualità di due secoli prima di Correggio (ad esempio con gli Amori di Giove) e Bouchet ce lo fa capire bene. JEAN-ETIENNE LIOTARD “CAMERIERA CHE SERVE LA CIOCCOLATA”, 1744 PASTELLO SU PERGAMENA, DRESDA JEAN-BAPTISTE SIMEON CHARDIN “IL THE’”, 1735, GLASGOW Nel frattempo, stava nascendo il nuovo pensiero illuminista ed anche delle nuove consuetudini, ad esempio questi due pittori ci documentano bene le nuove consuetudini dei salotti del ‘700: quella del tè, in basso a dx, con una visione molto realistica in questa scena di genere. Allo stesso modo, il dipinto a sx è impressionante nella resa dei dettagli, pare quasi un dipinto che riporta la precisione di van Eyck: utilizza anche una tecnica particolare, molto in voga nel ‘700, ovvero il pastello, in questo caso usato non per rendere una pittura vaporosa, ma per renderla estremamente volumetrica. Anche qui vediamo una nuova moda, ovvero la cioccolata, che si diffuse proprio in quel periodo. 8 ROSALBA CARRIERA “RITRATTO DI FANCIULLO”, 1725 PASTELLO SU CARTA 34x27, GALLERIE DELL’ACCADEMIA VENEZIA ROSALBA CARRIERA “GIOVANE CON UNA SCIMMIA”, 1721 PASTELLO SU CARTA 68x33, LOUVRE Il pastello è usato anche da una grande pittrice veneziana, che ebbe fortuna anche a Parigi: Rosalba Carriera è una grandissima ritrattista e specialista appunto del pastello, qui utilizzato per rendere queste figure come se fossero sfumate, quindi con un’immagine di minor realismo ed espressività graziosa, elegante, raffinata, con un tono che si adatta benissimo al Rococò in architettura. WILLIAM HOGART “IL CONTRATTO” E “IL MATTINO (LA COLAZIONE””, DA IL MATRIMONIO ALLA MODA, 1744 OLIO SU TELA, NATIONAL GALLERY In Inghilterra troviamo uno dei maggiori pittori inglesi del ‘700, William Hogart, pittore molto moderno: nei suoi dipinti ha la grande capacità di preannunciare la fine del mondo aristocratico che raffigura, perché lo fa con forte critica (ci si riferisce alla Rivoluzione Francese). Il mondo dei salotti qui viene raccontato con un’ottica molto più cruda e drammatica, con lucidità impressionante. Qui vediamo un’immagine tratta da una serie di dipinti chiamata “il matrimonio alla moda”: raccontano le disavventure e il fallimento di un matrimonio nato per comodo e il fallimento. Qui vediamo il momento del contratto del matrimonio e qui si legge il fallimento dell’operazione, fin dall’inizio: siamo in una ricca casa inglese, con una collezione di dipinti alle pareti, il cui proprietario è il signore con la gamba fasciata e l’albero genealogico vicino, e propone suo figlio (e quindi la sua nobiltà), il suo titolo) ad un vecchio commerciante, che invece propone la figlia e con essa la dote (che va direttamente nelle mani dello strozzino, in piedi col foglio in mano). Il figlio e la figlia però sono totalmente disinteressati l’uno all’altro. La scena che raffigura al meglio l’esito disastroso del matrimonio è quella del “mattino”, ovvero il momento in cui all’interno della dimora tipicamente inglese del ‘700 (con sempre collezione di dipinti e atmosfere vagamente neo-palladiane), troviamo il giovane tornato a casa dopo una notte di balordi, che si addormenta su una sedia, la moglie che sbadiglia dopo una notte di bagordi anche lei. In casa si vede che c’è stato un concerto e a sx il contabile se ne va con tutti i suoi conti non pagati. E’ un dipinto di una modernità impressionante e lo dimostra non solo il contenuto di questo dipinto, ma anche la fortuna che quest’opera ha avuto, anche perché i suoi dipinti furono incisi attraverso stampe, finendo sul mercato a prezzi bassi. Ma la fortuna la ritroviamo anche nel cinema moderno, ovvero in Barry Lindon di Stanley Kubrik (1975), dove c’è sempre una storia di un fallimento, anche se non di un matrimonio: per quel film, il regista studiò attentamente la pittura del ‘700, ricreando atmosfere e addirittura le luci di alcuni dipinti. In questo confronto in slide, ad esempio, l’ispirazione è evidentissima. L’Inghilterra, con grande pragmatismo, ci fa capire che questa classe sociale era decisamente in declino. 11 CANALETTO “VEDUTA DEL TAMIGI”, 1747 OLIO SU TELA 59x96, COLLEZIONE PRIVATA CANALETTO “LA PROCESSIONE DELL’ORDINE DEL BAGNO DELL’ABBAZIA DI WESTMINSTER, LONDRA Canaletto fece fortuna vendendo dipinti a chi passava da Venezia per il Gran Tour: ne creò un vero e proprio commercio e per fare ciò trovò un “agente” nel console inglese che era a Venezia, Joseph Smith. Ad un certo punto però ci fu un problema: i turisti iniziarono a diminuire, a seguito della guerra della successione austriaca, soprattutto quelli inglesi. A quel punto Canaletto, tramite Smith, decise di andare lui in Inghilterra: di lui, infatti, si trovano infatti delle belle vedute inglesi, con una luce che non è più quella veneziana, ma diventa una luce nordica. Queste vedute sono talvolta anche ingegnose nel taglio, come quella in slide in alto. BERNARDO BELLOTTO “VEDUTA DI DRESDA”, 1748 BERNARDO BELLOTTO “VEDUTA DI VIENNA DEL BELVEDERE”, 1759-60 Suo nipote Bernardo Bellotto, che fu detto anche lui Canaletto e che come lui si dedicò alla veduta. Si muove molto, rispetto a Canaletto, e le sue vedute ci fanno vedere immagini molto realistiche, con la stessa capacità e minuzia di Canaletto, da cartolina, di alcune delle principali capitali europee. In alto una veduta di Dresda: paesaggio ormai assolutamente barocco, segnato dalle cupole e dai palazzi barocchi, allo stesso modo della veduta di Vienna sotto (ad eccezione della Cattedrale col campanile gotico). FRANCESCO GUARDI “RIO DEI MENDICANTI”, 1785-90, ACCADEMIA CARRARA BERGAMO FRANCESCO GUARDI “CAPRICCIO CON SOTTOPORTICO”, 1780-85, ACCADEMIA CARRARA BERGAMO GIOVANNI BATTISTA PIRANESI “CARCERI D’INVENZIONE”, 1750 E 1761 GIOVANNI BATTISTA PIRANESI “VEDUTE DI ROMA”, 1757 Non ci sono solo però questo tipo di vedute a Venezia: vi sono anche i cosiddetti “capricci”, una veduta più eccentrica e stravagante. Tra i maestri che si distinguono in tal senso, c’è un altro pittore veneziano di nome Francesco Guardi, che realizza dei deliziosi ed accattivanti “capricci”: nei due dipinti a sx in slide, vediamo dei tagli meno consueti di Venezia (un sottoportico), oppure delle vedute di Venezia rese però con una pittura più svelta, rapida, che dà un senso fremente della composizione, meno nitido (come se fosse più sfuocato) rispetto a Canaletto e Bellotto. Questo spirito del capriccio si lega ad un mondo che nella seconda metà del secolo inizia ad avere grande fortuna: un mondo decisamente diverso dalla cultura barocca, ma anche dalla cultura neoclassica. Qui non si raffigura necessariamente il bello o ciò che è ordinato o ciò che riesce a meravigliare: o meglio, si raffigura ciò che riesce a meravigliare, ma proprio per il suo carattere stravagante ma a volte terribile. Un protagonista di questo linguaggio colui che può essere considerato il più grande incisore di tutti i tempi, ovvero Piranesi: un veneto anche lui, ma che si specializza nell’incisione e soprattutto in particolarissime vedute dei monumenti dell’antica Roma e non solo. Il tutto riletto con un occhio particolare, che comincia ad emergere fin dal 1750, quando Piranesi pubblica una serie di incisioni raffiguranti delle carceri d’invenzione. L’impressione, osservando queste architetture, è quella di essere piccoli di fronte a questi monumenti. Piranesi da un lato ha questo piglio fantastico, dall’altro ha una grande passione per la Roma antica. 12 Il soggetto delle 14 tavole sono le carceri: giganteschi ambienti costituiti da enormi blocchi di pietra, su cui si aprono scalini, ponti, passaggi. Questo set di incisioni ebbe una fortuna tardiva (lo stesso Piranesi non ebbe molta gloria in vita come artista, più come pensatore): fu riscoperto nel ‘900 in età contemporanea. Questo tipo di rappresentazione, pur essendo contemporanea a Canova e David, è molto distante, l’altra faccia della medaglia. Qui l’angoscia della punizione si unisce alla necessità della redenzione del carcerato. Manca un punto di vista unico, come prevedeva la prospettiva rinascimentale: lo sguardo non domina lo spazio, ma al contrario subisce il fascino di queste strutture. Non c’è alcuna storia, episodio famoso, indicazione di luogo, solo ogni tanto qualche figura indistinta (carcerieri o carcerati?). Ovunque la sensazione di decadimento contro un passato glorioso e il senso di paura che può provare lo spettatore deriva non da ciò che l’autore ci mostra, ma da ciò che è nascosto: nulla di più lontano dall’ottimismo illuminista e dalla perfezione neoclassica. Il percorso umano ed artistico di Giovanni Battista Piranesi è stato per tanti aspetti parallelo a quello di Johann Joachim (ioàn ioàchim) Winckelmann, ma divergente per molti altri (per questo Piranesi fu definito gemello diseguale). Per entrambi il viaggio e soggiorno a Roma fu fondamentale, dove entrambi produssero le opere più importanti, e per loro l’antichità classica era al centro della loro attività, ma qui nasce la prima grande differenza: Piranesi era interessato soprattutto all’architettura romana, mentre Winckelmann alla scultura greca. Piranesi ammirava le tecniche costruttive dei Romani “negli edifizi la stessa gravità e dignità serve loro da ornato”, mentre Winckelmann apprezzava la purezza immacolata delle opere greche. Anche in questo senso, si dovrebbe parlare di “neoclassicismi” al plurale: quello di Canova e David (come Winckelmann) considera la Grecia antica il periodo evolutivo più importante per l’arte, al contrario di Piranesi (ma poi ce ne saranno altri: si guarderà ad esempio anche agli etruschi ed egizi). L’ETA’ NEOCLASSICA CAPITOLO 15: LA SEDUZIONE DELL'ANTICO Lineamenti storici Il secondo '700 è stata un'epoca di grandi movimenti politici e sociali, che culmineranno con la Rivoluzione francese (1789) e nell'avventura napoleonica (1796), con anche la Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti (1776). Anche lo scenario artistico e culturale è molto animato: è del 1751 l'Encyclopedie di Diderot e D'Ambert, per la cui conclusione ci vollero 30 anni. Il 1764 è un anno cruciale: in Italia abbiamo le pubblicazioni di Verri e Parini e soprattutto "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria (in anonimato), che mostra quanto sia insito il pensiero illuminista negli intellettuali italiani. Poi Voltaire con il suo "Dizionario filosofico" e Kant con "Osservazioni sul bello e il sublime". In questo periodo la circolazione di libri ed idee sembra impennarsi, come anche la circolazione delle persone: il cosmopolitismo è infatti uno dei tratti distintivi del secolo. I viaggi diventano uno dei fondamentali mezzi di conoscenza della realtà e il "Gran tour" uno dei palcoscenici del Neoclassicismo (insieme alle Accademie e musei): il viaggio verso sud, che gli esponenti delle famiglie più importanti compivano almeno una volta nella vita, arrivava in Italia, considerata la vera meta perchè luogo per eccellenza della bellezza. La Grecia infatti era difficilmente raggiungibile, anche perchè faceva parte dell'Impero ottomano. J. H. WIHELM TISHBEIN "GOETHE NELLA CAMPAGNA ROMANA", OLIO SU TELA, 1787 Goethe, personaggio fondamentale di questo periodo, venne in Italia nel 1786 e scelse come sottotitolo del suo libro "Viaggio in Italia" una frase presente in un dipinto di Guercino "Et in Arcadia ego": lì aveva un'accezione negativa, di morte, mentre per Goethe era positiva perchè per lui l'arcadia era l'Italia. Qui lo vediamo vestito con una palandrana da viaggio, sullo sfondo la via Appia, le rovine di acquedotti e più lontano l'area dei castelli. Nel '700 tutta la penisola è luogo di incanto e di bellezza per gli stranieri (momenti carichi di memorie pagane e cristiane, rovine romantiche..). JOHAN ZOFFANY "LA TRIBUNA DEGLI UFFIZI", OLIO SU TELA, 1776 I gentleman che compivano questi viaggi erano nobili, come quelli che vediamo rappresentati in questo dipinto di Zoffany (in questo caso inglesi)((solo libro)). ma fra 700 e '800 si affaccia anche la classe emergente della borghesia (un segnale di passaggio fra aristocrazia e borghesia sono la nascita di nuove tipologie architettoniche, come i Caffè. In generale, c'è un'attenzione sempre maggiore per la forma della città e le opere pubbliche: apertura di nuovi spazi e piazze pubbliche, costruzione di ospedali, cimiteri, ecc... Solitamente si definisce questo periodo come “Neoclassicismo”, ma come tutte le classificazioni è molto rigida: non si parla infatti solo di un neoclassicismo, ma bisognerebbe usare il plurale e spesso si sovrappone con il romanticismo. Già nel rinascimento (periodo in cui i pittori passano dall’essere artigiani al ruolo di artisti liberali) abbiamo il primo periodo di neoclassicismo in realtà, per poi seguire nei secoli successivi (es. Barocco). Nel ‘700 il Neoclassicismo si distingue perché è consapevole della scelta e della ricerca. In questo periodo abbiamo quindi artisti vicini nel tempo (a volte anche nello spazio), ma lontani nel linguaggio. E’ l’epoca di un doppio e contrapposto sogni: quello di un’umanità che si rivolge agli antichi per imitarne l’arte ed i valori morali, sorretta da ideali illuministi e non solo frutto di nostalgia (presidente Usa Jefferson si rifaceva ad Epicuro). Al contempo il sogno di chi si interroga sulla dimensione irrazionale, nelle regioni del sogno, anche quando si rivela incubo, su cui si svilupperà poi il Romanticismo. Il collezionismo di antichità I marmi del Partenone. Recatosi a Londra nel 1815, Antonio Canova si trovò di fronte ai marmi del Partenone. Questo avvenne perché all’ambasciatore inglese in Grecia fu concesso di fare ricerche e scavi nell’acropoli, ma in realtà la sua squadra smontò buona parte del Partenone e la fece portare a Londra. Ne scaturì un dibattito sul definire se l’ambasciatore aveva voluto salvare delle opere preziosissime o era stato un mero saccheggio. GIOVANNI PAOLO PANNINI "GALLERIA IMMAGINARIA CON VEDUTE DI ROMA ANTICA E STATUE CELEBRI", OLIO SU TELA. 1756, STOCCARDA (GERMANIA) Il collezionismo di antichità. Esisteva di fatto già nel Rinascimento, ma crebbe molto nel Barocco e soprattutto nel ‘700. Nonostante gli sforzi dei papi, a Roma si sviluppò un vero e proprio mercato di antichità, alimentato da scavi spesso illeciti. L’idea di Roma come centro per eccellenza dell’antico, la ritroviamo in questo dipinto: le pareti di un glorioso (ed immaginario) museo ospitano quadri che riproducono monumenti celebri della città, mentre nelle sale ci sono statue famosissime (come Laocoonte). Ci racconta la romantica veduta ideale, che condensa il senso di voler educare con l’arte. Le accademie. Furono le istituzioni che più contribuirono alla diffusione del linguaggio neoclassico, sia con l’attività dell’insegnamento, sia con la promozione dei concorsi che richiamavano artisti di varie parti del mondo. A Roma vi era l’Accademia di San Luca, a Parma furono i Borboni a volere l’Accademia delle Belle Arti, dove, fra le raccolte, vi erano capolavori di Correggio e Francisco Goya fu uno dei partecipanti ai concorsi nel 1771. A contribuire all’elaborazione del linguaggio neoclassico fu lo studio del nudo (prettamente con modelli maschili, come anche gli allievi): era la perfetta imitazione della natura. Spesso i modelli posavano con atteggiamenti simili alle statue famose. Fra i corsi proposti dalle accademie c’era proprio lo studio dell’antico e i percorsi di scultura e pittura coincidevano perché basati entrambi sul disegno. JOHANN ZOFFANY “GLI ACCADEMICI DELLA ROYAL ACADEMY”, OLIO SU TELA, 1771 ((solo slide))Qui vediamo cosa capitava nelle accademie: sul fondo, sotto il lampadario, c’è la figura di uno scorticato che ci racconta dello studio sull’anatomia, molto importante. Si lavorava dall’interno verso l’esterno per ricercare la bellezza ideale, che per l’artista neoclassico si trova partendo da tante bellezze naturali, per poi arrivare a quella sovrannaturale (ovvero ideale). JAQUES LOUIS DAVID "STUDIO DEL GIURAMENTO DELLA PALLACORDA", 1791, VERSAILLES I disegni preparatori di David mostrano quanto fosse decisiva questa pratica accademica: la figura umana è costruita proprio a partire dall’analisi dei movimenti del corpo nudo. Una villa-museo: villa Albani a Roma Villa Albani fu voluta dal cardinale Albani ed ultimata nel 1765 (dal 1751). Accanto a lui in quegli anni c’era Joachim Winckelmann in qualità di bibliotecario ed è probabile che abbia avuto un ruolo nel progetto. All’interno del Casino di Villa Albani vi era la vasta collezione del cardinale: materiali antichi erano esposti isolati (come nei musei moderni) e a volte inglobati nelle strutture. ANTON RAPHAEL MENGS "PARNASO", AFFRESCO 300x600, 1761, ROMA VILLA ALBANI Al primo piano una grande sala era dedicata al Parnaso. Winckelmann ne parlava così, rivolgendosi allo stesso pittore “il vostro Parnaso sta mettendo in ombra l’intero edificio, nonostante tutto l’oro di cui è ricoperto”. Mengs era anche un grande teorico. Vediamo Apollo con le muse in un paesaggio dell’Italia centrale, con una natura gentile. Il nudo ha un ruolo centrale, come nella classicità greca: ricerca del coro e della grazia. La grazia è uguale alla bellezza messa in atto, quando diventa movimento. Nel caso della pittura, il movimento che eguaglia la grazia è condensato in un istante. Jacques-Louis David (1748-1825) JACQUES-LOUIS DAVID “IL GIURAMENTO DEGLI ORAZI”, 1784-85, OLIO SU TELA 330x425, LOUVRE Nel 1785 David ottenne un riconoscimento unanime con questo dipinto, iniziato l’anno precedente durante il suo soggiorno a Roma. Si narra un evento della storia romana più antica, dove I Curiazi e gli Orazi (romani) entrarono in guerra, ma decisero di far sfidare tre fratelli da ambo le parti: qui I tre Orazi stanno per afferrare le spade dalle mani del loro padre. Sulla destra, sedute in disparte, le donne della famiglia piangono copiosamente (momento patetico). A sinistra, I colori maschili sono prevalentemente primari, mentre a destra le linee sono più morbide. Il dipinto destò grande impressione per il tono eroico, anche se non vi era traccia della violenza del duello: si sottolinea invece il gesto solenne del padre. Winckelmann, infatti, aveva insegnato ad evitare la descrizione di scene cruente (e infatti nel teatro greco non si rappresentavano solitamente azioni di sangue). Stava quindi allo spettatore riannodare trame ed immagini, e sempre lo spettatore doveva essere inoltre indottrinato ed è per questo che abbiamo una lettura semplice. David sta mostrando che il sacrificio degli uomini è più importante dell’affetto dei cari (si sta preparando la Rivoluzione francese). A questo rigore narrativo corrisponde un’ambientazione semplice: l’atrio di un’austera domus romana, ricostruita come avrebbe fatto un archeologo del tempo (niente marmi, statue, a differenza di come si sarebbe fatto nel Barocco). La pittura di storia era il gradino più alto della pittura (rispetto, ad esempio, ai ritratti) e lo si vede anche nell’imponente dimensione dell’opera. Prospettiva puntuale, rigida, come se fosse un quadro rinascimentale, con il punto di fuga posto sulle mani del padre. JACQUES-LOUIS DAVID “I LITTORI PORTANO A BRUTO I CORPI DEI SUOI FIGLI”, 1789, OLIO SU TELA 323x422, LOUVRE Anche qui troviamo la contrapposizione fra sfera maschile e femminile. Il dipinto, esposto un mese prima della presa della Bastiglia, raffigura un episodio della storia romana in età repubblicana: il console Bruto è stato informato della congiura dei suoi due figli a danno della Repubblica e, senza esitare, li condanna a morte (per integrità morale e politica). David questa volta oppone la sensibilità femminile, espressa da gesti e posture esagerate, alla severa pacatezza di Bruto. Anche qui troviamo un’attenta ricostruzione degli arredi (David possedeva anche oggetti antichi). Il corpo del figlio è oscurato da una statua antica, in modo che il dramma non si viva in maniera patetica e diretta. Il numero dei personaggi è ridotto rispetto a Barocco e Rococò: tendenza al minimalismo per essere molto chiari agli occhi di chi osserva (la statuaria classica è semplice e lineare). JACQUES-LOUIS DAVID “LA MORTE DI MARAT”, 1793, OLIO SU TELA 162x128, BRUXELLES Nei dipinti precedenti si colgono il rigore morale e la passione patriottica di David, il quale infatti parteciperà attivamente alla Rivoluzione francese e rimarcherà I suoi principi ne “La morte di Marat”, uno dei rivoluzionari più celebri. Qui David tenta di rendere fedelmente il delitto, spinto dal popolo che voleva rivedere il volto dell’amico fedele. Marat è ancora nella vasca da bagno, usata per placare il fastidio dovuto ad una malattia della pelle. Ha davanti a sè uno scrittoio improvvisato con calamaio, penna e fogli. Tiene in mano un foglio ben leggibile, dove vi è la richiesta di udienza della controrivoluzionaria che lo assassinerà con il coltello da cucina che vediamo a terra. In basso I nomi di Marat e David: dedica e firma che hanno l’asciuttezza di un’iscrizione funeraria. Anche qui ritroviamo il principio minimalista (un solo personaggio), importante soprattutto per David. Il dipinto pare “senza tempo”, sensazione data anche dallo sfondo neutro: ogni cosa è immobile, ogni gesto retorico escluso. Molti studiosi hanno osservato che il braccio destro, protagonista quasi più del volto, ricorda quello di Gesù nelle scene di deposizione: il sacrificio dell’uomo politico è accostato a quello di Gesù e Marat diventa un vero martire rivoluzionario (Baudelaire lo definirà “santa morte”, perchè è al contempo tenera e straziante). Dopo la Rivoluzione La Rivoluzione mostra i lati più terribili e David si chiede se è poi così giusto sacrificare tutti gli affetti per la politica: i suoi ideali sono quindi mutati. Nell’ ‘800 inoltrato si allontana dalla Francia (ha sostenuto prima la Rivoluzione e poi l’Impero napoleonico) e si rifugia in Belgio. Qui non si occupa più di immagini storiche, ma guarda agli amori degli Dei, dipingendo figure più vaporose, meno definite, quasi oniriche rispetto alle precedenti. David è disilluso dalla politica francese. I monumenti funerari ANTONIO CANOVA “MONUMENTO FUNERARIO DI MARIA CRISTINA D’AUSTRIA”, 17898-1805, MARMO h 574, VIENNA CHIESA DEGLI AGOSTINIANI Verso la fine del secolo Canova ricevette questo incarico di altissimo prestigio (lei era la figlia di Maria Teresa d’Austria), con la richiesta che “fosse solo lui a porvi mano”. Canova sceglie una forma inconsueta, ovvero la piramide (da antichità egizia): aveva già studiato questo schema per Tiziano, ma non fu realizzato, e lo stesso fu poi portato a compimento dai suoi allievi per Canova stesso. A sinistra, vicino al leone sdraiato, sta un genio nudo ed alato (motivo funerario antico). Al centro la Virtù con due fanciulle che porta l’ulna, seguita dalla Carità a braccetto con un vecchio col bastone. In alto al vertice, il volto di profilo della defunta, circondato dal serpente che si morde la coda. Rispetto al Rinascimento e Barocco, Canova adotta straordinarie innovazioni: mancano infatti i simboli cristiano ed il ritratto ha uno spazio limitato, mentre è protagonista il corteo che procede verso il rettangolo buio: l’attenzione è quindi spostata dai morti ai vivi (il “maggior Canova”, come il maggior Foscolo, è quello dei sepolcri). Per Canova è essenziale guardare ai vuoti piuttosto che ai pieni: fa parte dell’estetica minimalista ed è elemento di modernità che condizionerà molto gli anni a venire. GIAN LORENZO BERNINI “TOMBA DI URBANO VIII”, 1628-47, MARMO E BRONZO DORATO, VATICANO BASILICA DI SAN PIETRO Canova lavora sul marmo di Carrara bianco, sugli incarnati con cere, patine, levigature. Le sculture, soprattutto le sue, venivano mostrate in ambienti chiusi illuminati artificialmente, rendendo il marmo ancora più vivido e vivo. Venivano inoltre inserite su piedistalli rotanti per poterle vedere a 360°: l’impatto emotivo era fortissimo. Le figure sono disposte in modo più composto rispetto al Bernini, dove invece sono in movimento (congelate in un’azione). Panneggi minimali, perché la concentrazione dello spettatore doveva essere su elementi importanti (come per David). La policromia è quindi abbandonata. Il modello delle stele antiche ANTONIO CANOVA “STELE FUNERARIA DI GIOVANNI VOLPATO”, 1804-07, MARMO h 185, ROMA Non tutti i committenti potevano permettersi un monumento e per questo Canova sperimentò altre soluzioni: “recuperò” la stele funeraria diffusa in Grecia antica e Roma, che era una lastra di pietra con bassorilievo ed iscrizione commemorativa. Tuttavia, nel passato la stele era collocata nel terreno delle necropoli, mentre lui la pone in una chiesa, come in questo caso. Una giovane donna piange vicino alla colonna che regge il busto di volpato, suo amico e conterraneo. L’iscrizione è sia firma che dedica commossa (come per Marat): “A Giovanni Volpato, Antonio Canova” e segue il ricordo di quando aveva ricevuto da lui l’affidamento e l’approvazione del sepolcro di papa Clemente XIV. ANTONIO CANOVA “STELE FUNERARIA DI GIOVANNI FALIER”, 1805-08, MARMO h 173, VENEZIA All’inizio ‘800 lo stesso riuscito schema è adottato anche per il senatore veneziano Giovanni Falier, uno dei suoi primi protettori. Ritratti neoclassici ANTONIO CANOVA “DOMENICO CIMAROSA”, 1808, MARMO h 60, ROMA MUISEI CAPITOLINI Dal ‘500 il Pantheon ospitò sepolture eccellenti e nel ‘700 si aggiunsero busti di marmo per commemorare gli illustri personaggi, come il compositore Domenico Cimarosa, il cui busto fu realizzato da Canova, il quale si diceva sembra essere riuscito ad animare il suo volto. ANTONIO CANOVA “RITRATTO DI JULIETTE RECAMIER IN VESTE DI BEATRICE”, 1818, MARMO h 56, LIONE Di tutt’altro genere è il busto che Canova esegue per Juliette Recamier: la giovane donna è infatti immaginata come una Beatrice medievale, con un indiretto omaggio a Dante, la cui opera conobbe poi una crescente fortuna nel corso dell’‘800. JACQUES-LOUIS DAVID “JULIETTE RECAMIERE”, 1800, OLIO SU TELA, LOUVRE La notorietà della donna era accompagnata da una serie di ritratti, tele e busti in marmo o terracotta, il più celebre dei quali realizzato da David. La fanciulla era considerata la regina della moda ed infatti anche il sobrio arredamento della stanza asseconda la moda all’antica, come il candelabro metallico a sx o il poggiapiedi. Se il ritratto di Canova ne fissa, idealizzandoli, i lineamenti, quello di David è capace di farne affiorare il carattere: come voltandosi verso un ospite inatteso, Juliette si gira leggermente all’indietro mantenendo la posizione rilassata (ma non meno elegante) delle braccia e delle gambe. ANTONIO CANOVA “PAOLINA BORGHESE COME VENERE VINCITRICE”, 1804-08, MARMO l 200, ROMA Canova scolpì la statua sia della madre di Napoleone che della sorella, Paolina. Distesa su un letto che ha forme e decorazioni dei giacigli greci e romani, Paolina è nuda con un velo che la copre dal ventre in giù. Anche l’acconciatura è antica. La mela nella mano ricorda il frutto che Paride diede a Venere per la sua bellezza: quindi, Paolina è effettivamente ritratta come una dea. Al tempo la nudità femminile, come quella maschile, era un problema, ma nelle statue antiche era accettata. La celebrazione di Napoleone JACQUES-LOUIS DAVID “NAPOLEONE AL GRAN SAN BERNARDO”, 1801, OLIO SU TELA 261x221 Nel 1800 l’armata napoleonica attraversò il valico del Gran San Bernardo, una delle tappe decisive della seconda campagna militare in Italia e David celebrò l’evento con un dipinto che fu talmente apprezzato da fargliene realizzare cinque versioni (più le copie che fecero i suoi allievi). Benchè non siamo nel mezzo di una battaglia, il tono eroico del dipinto è molto forte: Napoleone domina l’irrequietezza del cavallo ed indica il cammino con la mano dx. Il suo nome è inciso sulle rocce in primissimo piano, accanto a quello di Annibale e Carlo Magno, gli altri due condottieri che in passato avevano valicato le Alpi. ANTONIO CANOVA “NAPOLEONE COME MARTE PACIFICATORE”, 1803-06, MARMO h 340, LONDRA La statua colossale raffigura l’imperatore come Marte pacificatore. Canova scelse la nudità che gli antichi attribuivano agli dei e agli eroi: “penso che la nudità, se pura e bella, ci tolga dalle perturbazioni mortali e ci trasporti ai tempi della beata innocenza” (bellezza idealizzata). Prese inoltre a modello gli imperatori romani: Napoleone tiene nella mano dx un globo con sopra la figura della Vittoria e stringe una lancia con la mano sx. La statua non fu esposta al pubblico per volere di Napoleone (a causa della nudità) e fu poi venduta a Lord Wellington, il vincitore di Napoleone a Waterloo. BERTEL THORVALDSEN “ALESSANDRO A BABILONIA”, 1812, LASTRE IN GESSO, ROMA QUIRINALE Durante gli anni del governo napoleonico a Roma, il Palazzo del Quirinale fu scelto come sede dell’imperatore, ma di fatto Napoleone non riuscirà mai ad abitarvi. Furono risistemate le sale dell’appartamento dove avrebbe dovuto alloggiare e, per la Sala delle Dame, Thorvaldsen realizzò un fregio con l’entrata ed il trionfo di Alessandro Magno a Babilonia, poiché le recenti vittorie di napoleone venivano paragonate a lui. L’opera è interessante anche dal punto di vista tecnico (lo scultore non utilizzò una pietra nobile, ma il gesso) ed ebbe così successo che Napoleone ne richiese una copia in marmo, la quale non giunse però mai all’imperatore a causa degli avvenimenti storici successivi. JEAN-AUGUSTE-DOMINIQUE INGRES “IL SOGNIO DI OSSIAN”, 1813, OLIO SU TELA 348x275, FRANCIA MUESEE INGRES Nell’appartamento napoleonico del Quirinale sarebbe dovuto entrare un dipinto dal soggetto inaspettato nel Neoclassico, opera del migliore fra gli allievi di David. Negli anni ’70 del ‘700 uno scozzese aveva annunciato la scoperta di componimenti poetici di un antico cantore celtico, Ossian: in realtà si trattava di opere composte dallo stesso scozzese, che ebbero tuttavia un gran successo e lo stesso Napoleone se ne innamorò. Ingres raffigura Ossian dormiente, appoggiato sull’arpa, mentre alle sue spalle prendono corpo i personaggi dei suoi canti, bianchi come fantasmi. “LA COLONNA VENDOME (COLONNA DELLA GRANDE ARMATA)”, 1810, BRONZO h 440, PARIGI Eretta verso il 1810 per celebrare le recenti vittorie di Napoleone, la colonna di Place Vendòme è senz’altro il monumento più grandioso realizzato in onore di Bonaparte. Fu suggerito da uno storico dell’arte (che si occuperà anche della progettazione del Louvre) di utilizzare il bronzo dei cannoni strappati agli eserciti russo ed austriaco per innalzare una colonna simile a quella che Traiano aveva fatto scolpire in dacia per ricordare le sue vittorie. Fu scelta la piazza dove prima si trovava un monumento a Luigi XIV, distrutto durante la Rivoluzione. Johann Heinrich Fussli (1741-1825): tra il sogno e l’incubo Un antico differente Tutti gli artisti della seconda metà del ‘700 si sono confrontati, bene o male, con l’antichità classica e fu così anche per l’artista svizzero Johann Heinrich Fussli ((Fiùssli)), il quale però ebbe a questo proposito un approccio decisamente originale: ne sono la prova già le sue prime opere. Lui guarda all’antichità in maniera più nostalgica, rispetto ad esempio a Canova e David che cercano invece di riportare la grazia e la bellezza dell’antichità. Fussli artista nomade: si sposta in Italia e infine in Uk. JOHANN-HEINRICH FUSSLI “MEDITAZIONE DAVANTI ALLA GRANDEZZA DELLE ROVINE DELL’ANTICHITA”, 1778-1780, MATITA E SEPPIA SU CARTA Si tratta di un celebre, enigmatico disegno eseguito dopo il soggiorno di Fussli a Roma, diventato quasi simbolo di quel neoclassicismo che tende verso al romanticismo. Un uomo (presumibilmente un autoritratto) è seduto accanto ad un enorme piede di pietra, vicino ad una mano altrettanto grande, che raffigurano I resti della statua colossale di Costantino. Tra l’altro fra i blocchi di marmo sono cresciuti degli arbusti, d’indicare che questi resti rischiassero di scomparire nel tempo. Il frammento, qui colossale, diventerà poi un tema essenziale nel passaggio dal neoclassicismo al romanticismo (fermenti nostalgici, romantici): è in questo caso qualcosa di importante e sublime perché ci dà l’idea che qualcosa manca per recuperare quella grandezza dell’antichità. L’uomo sta piangendo e ci si domanda perchè: è un artista, uno studioso? Sta piangendo per ciò che si è perso o è commosso dalla bellezza dell’antichità? Il contatto con l’antichità qui non è più solo studio o imitazione, ma occasione di meditazione. JOHANN-HEINRICH FUSSLI “L’INCUBO”, 1781, OLIO SU TELA, 102X127, DETROIT USA Quest’opera è la più celebre di Fussli, il suo capolavoro. Di nuovo uso di colori non convenzionali rispetto alla scuola di David, come la disposizione dei personaggi. In quest ‘opera possiamo osservare un trattamento del tutto nuovo della figura umana. Una giovane donna sta dormendo, ma il suo non è un sonno tranquillo: un essere mostruoso, con tratti umani ed animali, è seduto sul suo ventre e guarda lo spettatore con aria di sfida. La donna, a causa di questa presenza, è rovesciata sul pavimento in una posizione innaturale e, come se non bastasse, a sx c’è una giumenta dagli occhi minacciosi. Le interpretazioni date a queste due figure simboliche sono molteplici e Fussli li inserisce nella tela quasi a costruire un rebus. Ma la cosa innovativa è proprio l’inserimento di figure grottesche: simbolo dell’onirismo e dell’immaginazione che vedremo nella seconda metà del ‘700, ma potrebbe essere tranquillamente un’opera surrealista (infatti Fussli ed altri sono stati fondamentali per questi artisti. Abbiamo quindi due piani diversi: il sonno tormentato e l’immaginazione sconvolta, poi ancora la bellezza femminile e le creature spaventose. Queste atmosfere discordanti e impensate erano state colte anche dai suoi contemporanei. (Secondo alcuni, dietro a questo dipinto ci sarebbe un amore sfortunato di Fussli). ((Appunti da altre opere, slide lezione 2)) Contemporaneamente al David che dipinge il Giuramento degli Orazi, vediamo le opere di Fussli completamente diverse sia dal punto di vista stilistico che compositivo. Abbiamo ad esempio la mitologia del nord Europa riscoperta con i poemi epici, che si affianca a quella classica greca e romana, e che diventa il campo prediletto di rappresentazione. Inoltre, spesso viene rappresentato il clou della scena, come una battaglia nel pieno della concitazione. La cosa più rilevante è il cambiamento della tavolozza cromatica: David usa colori primari, Fussli (sull’esempio dei pittori manieristi italiani), lavora con colori cangianti, più acidi e meno saturi. Anche il contorno delle figure è meno dettagliato ed i corpi hanno un’anatomia più complessa rispetto a David (corpi nudi ideali): anatomia che preferisce l’espressività rispetto alla correttezza anatomica (sempre come i manieristi), mettendone in rilievo o oscurandone alcune a seconda della rilevanza che devono avere. Inoltre, in alcuni casi il punto di vista è ribassato (dal basso verso l’alto), elemento questo di grande modernità e ci racconta che probabilmente Fussli era davvero rimasto impressionato dai grandi affreschi romani (soprattutto Michelangelo), che appunto vengono visti dal basso. Questa prospettiva inoltre aumenta la drammaticità e l’espressività dell’opera. JOHANN-HEINRICH FUSSLI “TITANIA E BOTTOM”, 1794, OLIO SU TELA, ZURIGO Nel 1779 Fussli si recò a Londra, dove manifestò un grande interesse per la poesia e dipinse temi tratti dalla mitologia classica. In quegli stessi anni si stavano diffondendo con successo le opere di Shakespeare e fu proposto di realizzare una “Shakespeare Gallery”, a cui anche l’artista partecipò con “Sogno di una notte di mezza estate”, nel quale l’incubo ha lasciato il posto ad un sogno bizzarro e delicato al tempo stesso. Oberon, re delle fate, intende punire la moglie Titania e fa sì che, sotto gli effetti di un fiore magico, si innamori di Bottom, ma il servitore di Bottom ha trasformato nel frattempo la sua testa in quella di un asino (fra loro, fate ed elfi). Francisco Goya (1746-1828) Il caso Goya Sono stati realizzati in passato diversi film sulla vita di Goya, che era uno spirito libero, con un carattere brillante, una carriera piena di riconoscimenti, intrighi e storie d’amore, i viaggi e l’esilio (quindi romanzesca). Ma l’approccio con la sua arte risulta essere più difficile, poiché non è classificabile secondo gli schemi usati per gli artisti suoi contemporanei. Goya ha imboccato una strada del tutto originale, senza lasciarsi influenzare dalle figure che dominavano la scena artistica spagnola (Tiepolo, che si trasferì in Spagna, e Mengs). ((da appunti alter opera, slide 2 lezione)) Altro campione del preromanticismo. Il suo percorso artistico iniziò con l’apprendistato nella manifattura degli arazzi di Madrid: deve quindi produrre dei soggetti differenti, che hanno ad esempio come protagonisti i ritratti di famiglie aristocratiche (soggetti campestri, dolci, con natura molto importante). La sua pennellata è molto veloce, l’uso del disegno più approssimativo proprio perché da questa tela si doveva ottenere un arazzo e quindi era inutile scendere in particolari: in realtà questa caratteristica rende la pittura di Goya estremamente spontanea, poco costruita e più immediata. FRANCISCO JOSE’ DE GOYA Y LUCIENTES “LA FAMIGLIA DELL’INFANTE DON LUIS DI BORBONE”, 1783-84, OLIO SU TELA 248x328, PARMA All’età di 24 anni giunse in Italia (viaggio non consueto per gli spagnoli, a differenza degli altri europei). Tornato in patria, una svolta importante della sua carriera fu l’incontro con Luis Antonio di Borbone, Infante di corte (definizione che indicava chi non aveva diritto di ascesa al trono: suo fratello era il re Carlo III) e diventerà di fatto pittore di corte. Questa confidenza traspare anche dal quadro: non siamo davanti ad un ritratto ufficiale, ma ad un momento qualsiasi della vita della famiglia di don Luis: vediamo un parrucchiere che pettina la moglie Maria Teresa, prima che si ritiri nelle sue stanze (che si intravedono dietro al tendaggio verde). Di fianco a lei don Luis intento al gioco delle carte, poi servitori, dame di compagnia ed una balia. Sull’estrema sx vi è lo stesso pittore mentre dipinge i suoi ospiti, chiaro omaggio ad un celebre dipinto di Velàzquez (particolarmente amato da Goya. metarappresentazione/metalinguaggio), grande ritrattista come lui. Inoltre, si pone alla stessa altezza e insieme al gruppo reale, sentendosene effettivamente parte. Una calma un po’ malinconica pervade la stanza e le strutture e atmosfere del dipinto sono completamente nuove: Goya ha imboccato una strada del tutto originale, senza lasciarsi influenzare dalle due figure che dominavano la scena artistica di Madrid in quel periodo: Giovan Battista Tiepolo e Anton Raphael Mengs. Dei 13 personaggi che compongono la corte dell’Infante don Luis ((quadro su libro)), uno solo guarda il pittore: la figlia di don Luis, Maria Teresa, di 4 anni (ritroviamo una situazione simile nel quadro l’Atelier di Courbert). Il rapporto tra Goya e Maria Teresa andò avanti e nel 1800, assunto il titolo di contessa, Goya le dedica un ritratto straordinario, in cui c’è la bellezza di una ragazza ventenne, ma anche la tristezza del recente, infelice, matrimonio con un politico spagnolo. FRANCISCO JOSE’ DE GOYA Y LUCIENTES “MAJA DESNUDA/VESTIDA”, 1797-1805, MADRID ((No sul libro))La Maja ((maha)) Desnuda, dipinta prima, fece tanto scalpore perché non fa riferimento all’antichità classica (come ad esempio fu Napoleone con Canova): Goya, qui già naturalista, fa riferimento semplicemente alla nudità del corpo. Creò molti problemi (non dissimili alla pornografia oggi) e fu costretto a rivestirla. L’utilizzo di figure, soprattutto femminili, nude, apparentemente lascive, lo ritroveremo fortemente nell’impressionismo (Manet) e per questo è un carattere molto moderno in Goya. Jaques-Louis David (1748-1825) • JACQUES-LOUIS DAVID “IL GIURAMENTO DEGLI ORAZI”, 1784-85, OLIO SU TELA 330x425, LOUVRE • JACQUES-LOUIS DAVID “I LITTORI PORTANO A BRUTO I CORPI DEI SUOI FIGLI”, 1789, OLIO SU TELA 323x422, LOUVRE • JACQUES-LOUIS DAVID “LA MORTE DI MARAT”, 1793, OLIO SU TELA 162x128, BRUXELLES • JACQUES-LOUIS DAVID “JULIETTE RECAMIERE”, 1800, OLIO SU TELA, LOUVRE • JACQUES-LOUIS DAVID “NAPOLEONE AL GRAN SAN BERNARDO”, 1801, OLIO SU TELA 261x221 Antonio Canova (1757-1822) • ANTONIO CANOVA “TESEO E IL MONOTAURO”, 1783, MARMO h 145 • ANTONIO CANOVA “AMORE E PSICHE”, 1787, MARMO h 115, LOUVRE • ANTONIO CANOVA “LE GRAZIE”, 1814-17, MARMO h 173, LONDRA • ANTONIO CANOVA “MONUMENTO FUNERARIO DI MARIA CRISTINA D’AUSTRIA”, 17898-1805, MARMO h 574, VIENNA CHIESA DEGLI AGOSTINIANI • ANTONIO CANOVA “STELE FUNERARIA DI GIOVANNI VOLPATO”, 1804-07, MARMO h 185, ROMA • ANTONIO CANOVA “STELE FUNERARIA DI GIOVANNI FALIER”, 1805-08, MARMO h 173, VENEZIA • ANTONIO CANOVA “DOMENICO CIMAROSA”, 1808, MARMO h 60, ROMA MUISEI CAPITOLINI • ANTONIO CANOVA “RITRATTO DI JULIETTE RECAMIER IN VESTE DI BEATRICE”, 1818, MARMO h 56, LIONE • ANTONIO CANOVA “PAOLINA BORGHESE COME VENERE VINCITRICE”, 1804-08, MARMO l 200, ROMA • ANTONIO CANOVA “NAPOLEONE COME MARTE PACIFICATORE”, 1803-06, MARMO h 340, LONDRA Johann Heinrich Fussli (1741-1825): • JOHANN-HEINRICH FUSSLI “MEDITAZIONE DAVANTI ALLA GRANDEZZA DELLE ROVINE DELL’ANTICHITA”, 1778- 1780, MATITA E SEPPIA SU CARTA • JOHANN-HEINRICH FUSSLI “L’INCUBO”, 1781, OLIO SU TELA, 102X127, DETROIT USA • JOHANN-HEINRICH FUSSLI “TITANIA E BOTTOM”, 1794, OLIO SU TELA, ZURIGO Francisco Goya (1746-1828) • FRANCISCO JOSE’ DE GOYA Y LUCIENTES “LA FAMIGLIA DELL’INFANTE DON LUIS DI BORBONE”, 1783-84, OLIO SU TELA 248x328, PARMA • FRANCISCO JOSE’ DE GOYA Y LUCIENTES “MAJA DESNUDA/VESTIDA”, 1797-1805, MADRID • FRANCISCO JOSE’ DE GOYA Y LUCIENTES “IL SONNO DELLA RAGIONE GENERA MOSTRI”, 1799, INCISIONE DEI “CAPRICHOS, ACCQUAFORTE, MADRID • FRANCISCO JOSE’ DE GOYA Y LUCIENTES “LA REPRESSIONE DELL’INSURREZIONE DEL 3 MAGGIO”, 1814, OLIO SU TELA, 268 x 347, MADRID • FRANCISCO JOSE’ DE GOYA Y LUCIENTES “SATURNO DIVORA UNO DEI SUOI FIGLI”, 1821-1823 OLIO SU MURO TRASPORTATO SU TELA, 143 x 81, MADRID • FRANCISCO JOSE’ DE GOYA Y LUCIENTES “DONA LEOCADIA ZORRILLA” “CANE INTERRATO”, 1820-23, OLIO SU MURO TRASPORTATO SU TELA, MADRID IL ROMANTICISMO Fermenti preromantici ((no sul libro, sola lettura)) - Frammento e modernità Vediamo come cambia il modo di guardare la realtà e la pittura in questo periodo. Il frammento è un nuovo regime scopico e condiziona il modo che gli artisti hanno di guardare la realtà. Diventa anche un concetto che si lega non solo all’antichità classica (Fussli), ma si lega ad esempio ai fatti della Rivoluzione francese. L’iconoclastia, la volontà di distruggere le immagini (di chi ritenuto responsabile), ha accompagnato l’uomo fin dalle sue origini e in questi anni diventa un fenomeno estremamente forte e violento: si distruggono statue, per disporsi verso una nuova vita e realtà. Come le teste degli aristocratici e nobili venivano addirittura ghigliottinate: la parte diventa più essenziale e più eloquente del tutto, altro aspetto questo molto importante del frammento. Sono tantissime le immagini di esecuzioni che ci sono arrivate dalla Rivoluzione francese. Come abbiamo frammenti ovunque. - La satira Anche la satira, le vignette, che dalla fine del ‘700 si diffondono in tutta Europa, raccontano di questo dramma del frammento che ha luogo in Francia (in Uk guardavano il contesto francese come un luogo in cui la rivoluzione aveva addirittura portato a cibarsi del corpo dei nobili). Questo tipo di rappresentazioni è una scappatoia per la modernità: molte delle rappresentazioni grottesche di questo periodo influenzeranno gli espressionisti poi. - Frammento e ferita (eroe ferito) Siamo nel 1814: il mito di Napoleone si è oscurato e con il Congresso di Vienna le antiche monarchie stanno riprendendo il loro posto. Si chiude un ciclo durato 30 anni, senza apparentemente che le cose cambiassero. Il frammento quindi si lega anche al senso di sconfitta e ferita rappresentato in maniera molto innovativa in questa opera di Gericault, artista formatosi nel periodo di David ma muterà completamente il clima generale. Possiamo confrontare quest’opera con il Napoleone rampante di David. Il corazziere è ferito e si guarda indietro, come a lasciare una situazione di pericolo: sta abbandonando il campo di battaglia ed è quasi sopraffatto da questo enorme cavallo (non più fieramente a cavallo quindi). Cielo tempestoso, che vedremo nella maggior parte delle pitture preromantiche. Quest’opera ci introduce al tema dell’eroe ferito: prima si parla va di eroi trionfanti, mentre ora nel periodo della Restaurazione tutto è più cupo e i guerrieri vengono letti come guerrieri feriti. Gericault visse solo una trentina d’anni ed è un pittore che non si accontenta di rappresentare il guerriero ferito, ma t trasforma lo studio dei frammenti anatomici in una vera e propria macabra natura morta. Qui arti mutilati, di nuovo l’estetica del frammento. Ancora più macabre sono le sue teste, prese dall’obitorio di Parigi, che in maniera clinica e naturalistica riporta sulla tela. Teste mozzate con un panno, solitamente bianco, che raccoglie il sangue. Queste erano delle rappresentazioni che Gericault faceva per allenare lo sguardo e per studiare il corpo, ma anche perché gli servivano per introdurle all’interno delle sue composizioni (come ne La zattera della Medusa). - Frammento e fotografia Qui un altro tipo di frammento. Ci spostiamo parecchio in avanti, di 70-80 anni perché il frammento appunto si ricava anche da un regime scopico nuovo che si ricava da uno strumento che entra in uso dagli anni ‘30/40 dell’‘800: la fotografia. Con essa gli artisti scoprono nuovi scorci e modi di porsi di fronte al reale. La fotografia rendeva la realtà non solo in maniera immediata, ma la rendeva tagliata rispetto alla visuale degli occhi e questo era qualcosa di assolutamente nuovo per i pittori. Le composizioni di prima non prevedevano personaggi tagliati a metà dalla tela: il pittore costruiva la composizione in modo che tutto fosse fruibile agli occhi dello spettatore. Invece la fotografia insegnava che era possibile tagliare, anche brutalmente e questo piace molto ai pittori perché il frammento dà quell’idea di poter essere completato al di là della tela. Si ha quindi un nuovo senso di istantaneità e dinamicità. Degas qui sembra proprio fare una fotografia a Place de la Concorde ((1)), senza preoccuparsi dei tagli delle figure. Lo stesso capita per le opere di Caillebot ((caiebob))((2)). Le visioni dall’alto, che prima non erano accettate o comunque molto infrequenti ((3)). Anche nelle opere di Manet, con le figure che si affollano, i personaggi sono nettamente tagliati ((4)): vediamo anche nel ritratto di Zolà ((5)) e nel ritratto di Nanà ((6)) (protagonista di un romanzo di Zolà). Al bar delle Folies-Bergere è ancora più evidente perché abbiamo fra l’altro un gioco di specchi ((7))(in alto a sx gambe acrobata tagliate). Ultimo esempio con il Ballo in Maschera ((8)): Arlecchino tagliato a metà e la balaustra da cui si intravedono le gambe dei personaggi. Di nuovo Degas con l’orchestra e le ballerine ((9)). Al teatro ((10)): quasi una soggettiva della signora col ventaglio. Joseph Mallord William Turner (1775-1851) William Turner non è solo l’esponente più celebrato del Romanticismo inglese: con i suoi paesaggi trasfigurati e spettacolari, è forse il miglior interprete del sublime in arte. A soli 14 anni (1775) entrò nella Royal Academy a Londra, dove imparò l’uso dell’acquarello, tecnica che non abbandonò per tutta la carriera: solo nel 1796 passò all’olio su tela. Produsse molto, anche perché era molto veloce. Turner viaggiò molto ed ogni volta tornava con centinaia di schizzi, acquarelli, rimettendoli poi con calma su tela nel suo atelier: visitò il Galles, Parigi, Svizzera e quasi non si contano i soggiorni in Italia, specialmente a Venezia, eletta patria ideale e protagonista di acquarelli tanto essenziali quanto di indimenticabile intensità. JOSEPH MALLORD WILLIAM TURNER “VENEZIA ALL’ALBA DALL’HOTEL EUROPA CON IL CAMPANILE DI SAN MARCO”, 1840, ACQUARELLO SU CARTA 19x28, LONDRA Turner cerca di riprendere con i suoi schizzi sul taccuino ciò che stava capitando. È una natura sublime e questo episodio ci aiuta a definire al meglio il concetto di sublime, il quale è una natura che sembra sovrastarci, dominarci, incuterci timore (al contrario del pittoresco). JOSEPH MALLORD WILLIAM TURNER “BUFERA DI NEVE: ANNIBALE E LE SUE TRUPPE CHE VALICANO LE ALPI”, 1810-12, OLIO SU TELA, 145 x 236, LONDRA I suoi dipinti destavano stupore e turbamento non solo per la carica espressiva, ma anche perché conciliava in un’unica opera il genere storico e quello paesaggistico (anche se quest’ultimo aveva il sopravvento). In quest’opera l’episodio storico di Annibale (che richiama inevitabilmente il passaggio sulle Alpi di Napoleone) infatti diventa marginale, sopraffatto dai vortici apocalittici di nubi bianche e nere, che di fatto altro non è che l’amplificazione di ciò che accade in primo piano: cruenti scene di uccisioni, stupri e saccheggi. Le nubi hanno la forma di una grande onda che travolge tutto ed oscura il sole, come se fosse un’eclissi. Pennellate spesse, fitte, convulse, come se il movimento della mano si stesse adeguando a ciò che l’artista sta dipingendo, come se forma e contenuto coincidessero. Pur rimanendo fedele al paesaggio, nei decenni la sua pittura subì notevoli evoluzioni, sostituendo il descrittivo degli esordi con una resa più libera, ai limiti dell’astratto: le tradizionali norme prospettiche vengono superate, lasciando spazio al cromatismo puro, anticipando di almeno 3 decenni le conquiste dell’Impressionismo. Il viaggio in Italia nel 1819 segnò un primo sensibile cambiamento nelle sue opere: le sue vedute iniziarono a respingere le dominanti verdi e brune a vantaggio di quelle rosse, gialle, ruggine e dorate. La luce mediterranea aveva rinnovato la sua tavolozza, assicurandole un ancora inedito calore. JOSEPH MALLORD WILLIAM TURNER “ROMA VISTA DAL VATICANO. RAFFAELLO ACCOMPAGNATO DALLA FORNARINA LAVORA AI SUOI QUADRI PER LA DECORAZIONE DELLA LOGGIA”, 1820, OLIO SU TELA 177x335, LONDRA Dopo questa esperienza nacque questo dipinto, omaggio al grande artista rinascimentale a 300 anni dalla sua morte. Per Turner la precisione storica non era un requisito fondamentale (vi sono infatti i colonnati di Bernini, che risalgono quindi al ‘600). Raffaello e la sua amata sono in primo piano, circondati da molte opere (spicca la “Madonna della seggiola”), ma i veri protagonisti del dipinto sono gli edifici e la luce del tramonto. JOSEPH MALLORD WILLIAM TURNER “PIOGGIA, VAPORE E VELOCITA’”, 1844, OLIO SU TELA, 90 x 121, LONDRA NATIONAL GALLERY Dagli anni ‘40 l’inclinazione di Turner per le atmosfere velate iniziò a prevalere sulla definizione dell’immagine, creando opere potenti e dai toni visionari, con figure che diventano un tutt’uno con lo spazio vorticoso. Ebbe per lui molta influenza il saggio di Goethe “teoria dei colori” (1810), secondo il quale le tonalità calde (giallo, rosso e verde, qui anche violetto, complementare dell’arancione molto presente) rappresentano valori emotivi positivi. La tecnica era davvero sperimentale, affidata all’uso della spatola: l’obbiettivo non era mettere lo spettatore dinanzi ad un’immagine caotica, ma ad una sorta di fantasma di paesaggio. Fu una scelta molto diversa, ad esempio, da quella di Friedrich, che invece usava molti strati di velature per i suoi paesaggi. Qui la ricchissima tessitura cromatica è raggiunta con colpi di spatola lasciati a vista, dando l’effetto di un quadro “al primo stadio”. Sarebbe un paesaggio senza tempo, quasi primordiale, se l’incombente presenza di un treno lanciato verso lo spettatore non ci riportasse alla realtà. Turner dipinge un inno alla velocità e al progresso. Caspar David Friedrich (1774-1840) “Chiudo l’occhio fisico per vedere dapprima il tuo quadro con l’occhio dello spirito”. Caspar David Friedrich ((Caspar david Fridrichhh)) ha sempre inteso l’arte come una forma di rivelazione: immergendosi nella propria interiorità, l’artista porta a galla le verità più profonde. Per arrivare a questo scopo, Friedrich si è affidato alla natura e al paesaggio, riferiti però alla sua terra natia. Dopo un’infanzia segnata dalla morte della madre e dei fratelli, studiò all’Accademia di Copenaghen e ne 1798 si trasferì a Dresda dove rimase per quasi tutta la vita. Oggi siamo abituati a stimare Friedrich come un caposaldo della pittura di inizio ‘800, soprattutto quella tedesca, ma la sua fama in vita fu invece limitata, anche a causa del suo carattere solitario ed introverso. CASPER DAVID FRIEDRICH “ABBAZIA NEL QUERCETO”, 1809-10, OLIO SU TELA, 110 x 171, BERLINO I suoi soggetti però non si riferivano alla paesaggistica classica: preferiva infatti l’austero ambiente nordico, ancora poco frequentato in pittura. Era un paesaggio “essenziale”, dove l’invisibile sembra prevalere sul visibile: orizzonti infiniti dominati dal silenzio, rovine di abbazie gotiche, cieli crepuscolari, rocce, alberi secolari con le radici in vista. Qui un rudere, quindi di nuovo un frammento: si intravvedono delle ombre che paiono delle lapidi, quindi probabilmente il querceto si trovava in un cimitero. L’atmosfera cupa trova in qualche modo redenzione nello sfondo: il passaggio fra la notte ed il giorno. Notiamo l’incurvatura della linea d’orizzonte, come effettivamente la vede l’occhio umano e questo fa sì che le visioni del paesaggio di Friedrich che abbiamo sembrano viste attraverso un globo trasparente. Reminiscenze gotiche e revival dei romanzi romantici che troviamo in alcuni aspetti delle sue opere sono però compensati da un occhio clinico e scientifico, che guarda perfettamente alla resa prospettica ed illuministica della natura. CASPER DAVID FRIEDRICH “DUE UOMINI CONTEMPLANO LA LUNA”, 1820, NEW YORK CASPER DAVID FRIEDRICH “IL MONACO IN RIVA AL MARE”, 1808-10, OLIO SU TELA, 110 x 171, BERLINO Sono, appunto, paesaggi del sublime, in cui spicca il contrasto fra il “vicinissimo” e il “lontanissimo” e in primo piano troviamo sempre una figura umana minuta ed indifesa, come intimorita dall’immensità dello spazio, sempre di spalle, senza che mai possiamo scorgerne il volto. Questo è un espediente voluto e che serve a coinvolgere ed immedesimare ancora di più lo spettatore. Questo il suo capolavoro, la sua bandiera: un poeta tedesco dell’epoca disse che guardare quest’opera significava guardare la natura come se il nostro occhio fosse privo di palpebre, cioè come se non si avesse la possibilità di chiudere l’occhio ed avere una barriera di fronte alla sua potenza. Qui abbiamo la sensazione vertiginosa di infinito, creata dallo spazio e dal vuoto che lo fanno sembrare quasi un quadro astratto. La linea dell’orizzonte, che congiunge il cielo con il mare, è indagata in maniera molto attenta, quasi scientifica, come nell’opera precedente. CASPER DAVID FRIEDRICH “LE BIANCHE SCOGLIERE DI RUGEN”, 1818, OLIO SU TELA, 90 x 70 Friedrich, dopo essersi sposato, intraprese un viaggio per andare a far conoscere la moglie alla famiglia e fecero tappa presso l’isola di Rugen, luogo incantato e poetico. Da qui prese l’espirazione per la sua opera: vediamo la moglie vestita di rosso, il fratello (venuto con loro) e Friedrich stesso sulla dx. La scena non ha il banale tono dell’aneddoto poiché le figure risultano decisamente secondarie rispetto al paesaggio sereno e insolitamente conciliante rispetto alle altre opere del pittore. I due grandi alberi hanno il ruolo di quinta scenica. Le tre figure hanno atteggiamenti diversi fra loro ed è come se Friedrich ci volesse dire che ci si può accostare a paesaggi così maestosi e sublimi, perché possono essere anche inquietanti da tanto che sono maestosi, in tanti modi diversi. Alcuni studiosi hanno voluto identificarvi la personificazione delle tre virtù: la fede (uomo in ginocchio), la speranza (uomo in piedi), la carità (la donna). Anche qui l’uso quasi di una lente concava per rendere in maniera armonica la visione dell’occhio che si apre verso la linea dell’orizzonte. CASPER DAVID FRIEDRICH “VIANDANTE SUL MARE DI NEBBIA”, 1818, OLIO SU TELA, 98 x 74 Un uomo elegantemente vestito ha appena raggiunto le cime di una montagna e davanti a lui vi è uno spettacolo incredibile: nebbie e vapori che avvolgono le cime montane, diventando un tutt’uno con il cielo solcato da nubi. Insieme al taglio verticale della tela, abbiamo il contrasto fra uno sfondo luminosissimo e sfumato ed un primo piano invece più definito. Lo studio delle nuvole e del cielo, soprattutto dalla influenza degli studi di Newton della metà del ‘600, saranno importantissimi sia dal punto di vista artistico che scientifico. Se si volesse individuare l’opera-manifesto del Romanticismo, sarebbe quest’opera che, potentemente allusivo, riassume in sé i maggiori temi del periodo: la visione emotivamente partecipe di un paesaggio grandioso e l’uomo quale presenza solitaria ed effimera. C’è qualcosa di solenne ed insieme di tragico in quella figura, ancora più d’effetto perché ingigantita rispetto alle solite del pittore. THEODORE GERICAULT “UFFICIALE DEI CAVALLEGGERI DELLA GUARDIA IMPERIALE”, 1812, OLIO SU TELA, 349 x 266, LOUVRE Nel 1812, il 21enne Gericault si sentì pronto per partecipare alla più importante competizione artistica parigina: il Salon Lui propose quest’opera, per la quale egli studiò i movimenti di un cavallo affittato da un vetturino, per poter studiarne a fondo la muscolatura e il manto. La posizione del cavallo è inconsueta, perché lo vediamo da dietro e l’ufficiale volge il volto verso lo spettatore. Il dipinto appare molto distante dai soggetti storici affrontati in quegli anni dagli artisti alla corte di Napoleone. Una distanza tanto più evidente, se paragonata al “Ritratto di Gioacchino Murat” di Antoine-Jean Gros, presentato nella stessa occasione. Infatti alla pittura nitida e celebrativa di un allievo di David, che pure partecipava al concorso, Gericault contrappose un modello sensuale e coloristicamente sfrontato. L’esordio fu positivo e il pittore ricevette una critica favorevole dal direttore del Louvre. THEODORE GERICAULT “CORAZZIERE FERITO CHE ABBANDONA IL CAMPO DI BATTAGLIA”, 1814, OLIO SU TELA 358x294, LOUVRE Gericault partecipò anche al Salon due anni dopo, portando “Il corazziere ferito che abbandona il campo di battaglia” ((immagini pagine precedenti)), il quale però pareva l’antitesi della precedente opera: lo sguardo smarrito e preoccupato del cavaliere, le tinte fosche del cielo, la disposizione delle due figure diagonale, il cavallo con dimensioni sproporzionate (che fu ampiamente criticato). Siamo nel pieno della Restaurazione e quell’anno al Salon vi erano innumerevoli ritratti della famiglia reale, tanto da far apparire il dipinto di Gericault ancora più anacronistico. Ai rimproveri di ordine politico si sommavano anche quelli di natura formale, notando le dimensioni sproporzionate del cavallo. THEODORE GERICAULT “LA CORSA DEI BA’RBERI A ROMA”, 1817, OLIO SU TELA 45x60, LOUVRE Le critiche ricevute toccarono profondamente Gericault, tanto da pensare di abbandonare l’arte. Partì però comunque per l’Italia, sentendo la necessità di misurarsi con gli antichi ed allontanarsi dall’ambiente parigino: si recò a Firenze e a Roma, dove si dedicò allo studio dei maestri rinascimentali. Fu impressionato nella capitale dalla tradizionale corsa dei berberi, tanto che l’evento lo ispirò per una nutrita serie di studi che doveva poi culminare in una tela mai realizzata, la quale escludeva ogni riferimento aneddotico in favore della più universale lotta fra l’uomo e la natura selvaggia. - Il presente si fa storia Il viaggio a Roma segnò la definitiva maturazione stilistica di Gericault e nello stesso anno (1817) un altro episodio lo segnò fortemente. La fregata Medusa era diretta in Senegal e su di essa vi erano il nuovo console più 450 passeggeri: l’imbarcazione naufragò al largo delle coste africane e furono calate due scialuppe, una delle quali trainava anche una zattera con 150 persone. Questa fu abbandonata per il troppo peso e i naufraghi vissero 13 giorni in condizioni disumane, cibandosi anche degli stessi cadaveri. Quando il pittore tornò in Francia, le discussioni e proteste sull’accaduto ancora divampavano. THEODORE GERICAULT “LA ZATTERA DELLA MEDUSA”, 1818-19, OLIO SU TELA, 491 x 716, LOUVRE Il pittore non scelse né una scena didascalica né quella macabra del cannibalismo, ma il momento della speranza: il primo avvistamento, verso il quale i naufraghi si protesero con tutte le loro forze. I molti bozzetti gli permisero di affrontare la vasta tela finale praticamente senza disegno preparatorio (“l’esecuzione era rapidissima: un tocco dopo l’altro al posto giusto e solo di rado ci tornava sopra”). Le due diagonali su cui è organizzata la scena, una dall’uomo riverso in acqua alla vela, l’altra ascendente dall’anziano fino al nero che sventola gli stracci, vengono enfatizzate dalle espressioni dei protagonisti e conferiscono una tensione plastica e patetica. Quest’opera è una sbalorditiva indagine sui sentimenti dell’animo umano (che poi Gericault approfondì con la serie degli alienati). Pur documentandosi dal vero sulla decomposizione dei corpi per avere un giusto cromatismo, escluse dalla composizione ogni accento raccapricciante: cadaveri e naufraghi hanno proporzioni ideali, muscolature michelangiesche, nudi eroici, pose della statuaria ellenistica, come l’enigmatico anziano in basso a sx che sorregge un giovane privo di vita che pare una citazione all’antico. Per l’artista avevano posato due veri superstiti del naufragio (l’uomo che tende il braccio vicino alla vela e quello aggrappato all’albero). ((BOZZETTO)) La zattera della medusa fu presenta al Salon del 1819 col titolo “Scene di un naufragio”, sperando di ottenere il riconoscimento tanto agognato ed in effetti l’opera non passò inosservata: Delacroix, che tra l’altro anche lui aveva posato per questo dipinto (l’uomo esanime in basso a sx) ne rimase profondamente colpito. Al Salon però l’opera divise l’opinione e vi furono sia stroncature di natura politica, vedendola come manifesto di movimenti anti monarchici, sia per il colore della pelle dell’uomo al vertice, che venne interpretato come sostegno all’abolizione della schiavitù. THEODORE GERICAULT “ALIENATI”, 1819-24, OLIO SU TELA, PICCOLI (50 x 70) La tiepida accoglienza che ricevette la Zattera della Medusa gettò Gericault nello sconforto, il quale decise di affidarsi alle cure del primario del manicomio di Salpetriere ((salpetrièr)): le loro terapie basate sul dialogo lo risollevarono. Nel 1820 Gericault si recò a Londra con La zattera della Medusa, la quale riscosse ampi consensi. Con il rientro in Francia però ripresero anche le crisi depressive e fu probabilmente in quel periodo che realizzò la serie degli alienati: 10 ritratti, 5 dei quali andati perduti e di cui tutt’oggi si sa poco (quando esattamente fu la produzione o le ragioni della realizzazione). Si è supposto che potesse far parte della sua terapia per sublimare il suo malessere oppure che si trattasse di una commissione del suo psicoterapeuta per corredare i suoi scritti. I cinque personaggi ritratti erano colpiti da monomanie, ovvero deviazioni della personalità di carattere ossessivo: ALIENATA CON MONOMANIA DELL’INVIDIA, DEL COMANDO MILITARE, DEL GIOCO, DEL FURTO, DEL RAPIMENTO DI BAMBINI ((ordine delle immagini)). Sguardi persi, espressioni intontite o diffidenti, lineamenti sciupati dal tempo e dall’incuria: il realismo scientifico di Gericault non permetteva spazio ad accenni derisori o morbosi, ma rese perfettamente uno studio accurato sui moti dell’animo umano. Forte componente drammatica, che nasce dalla scelta dei toni e di un fondale cupo e scuro. Eugène Delacroix Nato nei pressi di Parigi, probabilmente da una relazione illegittima di sua madre con un influente uomo politico, frequentò come Gericault il Lycée Imperial e poi un atelier importante. Lo studio di Michelangelo, Tiziano e Rubens al Louvre forgiarono la sua personalità, che divenne autonoma e distaccata dalle mode neoclassiche dell’epoca E proprio la raffigurazione della tragedia vissuta dal popolo greco gli valse il soprannome di “Robespierre della pittura”. EUGENE DELACROIX “IL MASSACRO DI SCIO. FAMIGLIE GRECHE ATTENDONO LA MORTE O LA SCHIAVITU’”, 1824, OLIO SU TELA, 419 x 354, LOUVRE Nel marzo del 1821 la popolazione greca insorse rivendicando l’indipendenza dopo oltre tre secoli di sottomissione ottomana e nel corso dei mesi la repressione turca divenne sempre più brutale: nell’isola di Scio (Chios) 20 mila abitanti furono massacrati o fatti schiavi e l’episodio suscitò indignazione fra i liberali europei. Scosso dalla tragedia, Delacroix si cimentò sul tema e realizzò “Massacri di scio. Famiglie greche attendono la morte o la schiavitù”, presentandola al salon del 1824. Già il titolo enfatizza molto l’episodio e il pittore si avvalse per la realizzazione della testimonianza di un colonnello di stanza in Grecia, dello studio sulle fisionomie e vestiari del popolo e delle memorie di Lord Byron. Sorvegliati da un turco armato di fucile, i greci attendono il loro triste destino: si abbracciano stremati, piangono disperati o guardano rassegnati il cielo. La dimensione patetica contrasta con le narrazioni epiche tipiche della scuola di David: nessun eroe interviene a prestare soccorso o conforto, anzi un giovane ottomano rapisce con violenza una ragazza greca. La disposizione delle figure dà risalto al vuoto centrale (confronto con Il giuramento degli Orazi), dove si intravedono gli ultimi focolai di scontri: una soluzione compositiva che suscitò critiche perché non si era mai vista una soluzione di questo tipo e fu giudicato per questo composto male (in realtà Canova ci insegna l’importanza del vuoto). il formato verticale accentua i singoli personaggi, che furono studiati in tele precedenti (“Madre morta col bambino” 1823). ((da altra slide lezione)) Vediamo il metodo di composizione di Delacroix che sembra un collage di azioni eterogenee, racchiuse in un unico “fotogramma”. Manca sempre un centro della composizione e quindi, a differenza della pittura neoclassica, il messaggio della composizione non è veicolato in maniera semplice, ma lo spettatore deve fare uno sforzo in più per riconnettere tutti gli elementi. Qui questo rosso incredibile ci riporta di nuovo al colorismo italiano e che viene anche dalla conoscenza e visione del nord Africa, in cui Delacroix andrà: famosi i suoi taccuini del viaggio e dal suo ritorno il pittore muterà la sua tavolozza cromatica. JEAN AUGUSTE DOMINIQUE INGRES “VOTO DI LUIGI XIII”, 1824, OLIO SU TELA 424x264, NOTRE DAME La maturità raggiunta da Delacroix venne riconosciuta pubblicamente al Salon del 1824, dove Massacri di Scio ebbe una medaglia di seconda classe e fu acquistato dallo Stato. Stendhal definì l’autore addirittura “allievo di Tintoretto”, ma i consensi non furono unanimi. Ci fu chi lo definì un “massacro della pittura”, ancor di più paragonato ad un altro capolavoro in mostra e ampiamente acclamato: Il voto di Luigi XIII di Ingres. Alla disinvoltura espressiva di Delacroix, che narrava una tragedia contemporanea, si contrapponeva una compostezza formale, con l’impiego virtuosistico di velature, che mostrava un episodio fondativo della storia nazionale. La distanza fra i due era incolmabile e dava inizio di fatto alla querelle tra Classicismo e Romanticismo, destinata a protrarsi a lungo. primitivi veneti hanno la meglio su classici e neoclassici. Hayez stesso scrisse al suo maestro Canova che aveva cercato di rendere l’opera più semplice nei suoi gruppi ed azioni di ciascuna figura e che cercò di abbandonarsi totalmente alla verità, consultando i maestri passati (ad esempio Bellini). Ritroviamo infatti la pittura veneta tardo ‘400esca nella scena principale e nella rappresentazione del paesaggio contadino sullo sfondo, nella resa plastica dei personaggi e delle loro vesti e nel ricercato registro cromatico. La figlia sul lato destro è invece ripresa dal monumento funebre per Vittorio Alfieri “Italia piangente” di Canova” 1810, che si trova in santa Croce a Firenze. FRANCESCO HAYEZ “GLI ABITANTI DI PARGA CHE ABBANDONANO LA LORO PATRIA (I PROFUGHI DI PARGA)”, 1831, OLIO SU TELA 201x290, BRESCIA Il successo dell’opera, soprattutto nell’élite intellettuale milanese, aprì ad Hayez le porte della città, dove si trasferì poco dopo. Nel 1831 affrontò anche un soggetto di attualità, avvenuto 13 anni prima: con “Gli abitanti di Praga che abbandonano la loro patria (I profughi di Praga)”. Il dramma delle famiglie gli consentiva di indagare i sentimenti di solidarietà e amore filiale, come in Pietro Rossi, ma raccontare la prevaricazione straniera subita dagli abitanti di Praga era raccontare in realtà la condizione attuale del popolo italiano (parallelismo che non sfuggì a Giuseppe Mazzini, che anche lui ammirava l’artista. Nello stesso anno in cui Hayez iniziava questa opera, Delacroix presentò “La Grecia spirante sulle rovine di Missolungi” 1826: per la seconda volta l’artista si confrontava con la guerra d’indipendenza greca, descrivendone un episodio. Sebbene ispirate dai medesimi principi democratici, le opere di Hayez e Delacroix erano molto diverse fra loro: il primo creava dipinti dal forte valore metaforico che alludevano alla situazione politica italiana (accademici, al limite del didascalico), mentre il secondo usava sempre la metafora ma per comunicare valori universali (la Grecia sconfitta non è altro che la Libertà oppressa). CAPITOLO 22: UN’ARTE DI ISPIRAZIONE RELIGIOSA ((non fatto)) La pittura dei Nazareni tra Germania e Italia Rifiutavano il “bello ideale” e si riconoscevano nella pittura del Tre Quattrocento, disegno perfettamente tracciato, colori chiari, forme levigate, lieve stilizzazione dell’insieme, ambientazione delle figure in un contesto naturale. Il Purismo Il suo manifesto programmatico fu sottoscritto nel 1843, in analogia con l’esaltazione dei poeti trecenteschi, gli esponenti di tale movimento riprendevano la pittura “schietta e pura” dei primitivi italiani, s’ispiravano ai grandi quattrocenteschi sino a Raffaello, difendendone il valore etico prima ancora che estetico. LORENZO BARTOLINI “LA FIDUCIA IN DIO”, 1835, MARMO, H 95 CM, MILANO Anche in Italia c’è una forma di purismo vicina a quella di Ingres, tra cui Bartolini, che era molto legato al pittore francese. Nuda, inginocchiata con le mani giunte in segno di preghiera, “la fiducia in dio” sembra simboleggiare l’anima cristiana che si affida al creatore. Immateriale e concreta, casta e sensuale, limpida ed allusiva: a scolpirla Lorenzo Bartolini, artista formatosi nello studio di David, dove conobbe anche Ingres. Lì entrambi ambivano a rinnovare il linguaggio neoclassico attraverso lo studio degli antichi. Le forme, la resa dell’incarnato e le proporzioni ideali sono molto simili ad Ingres ed una rifinitura dell’opera simile a quella di Canova (anche tecnicamente). I Preraffaeliti in Inghilterra Riconoscevano nell’arte italiana del XV (precedente a Raffaello), i loro modelli. Esaltare l’aspetto etico del fare arte, una sensibilità nuova, fondavano le proprie opere su un naturalismo vivido e analitico. Pittura basata su soggetti patetici e sentimentali quasi sempre biblici o letterati. DANTE GABRIEL ROSSETTI “ECCE ANCILLA DOMINI”, 1850, OLIO SU TELA, 72 x 43, LONDRA Quest’opera illustra con termini ardenti il passo evangelico dell’Annunciazione: Gabriele giunge da Maria e le porge uno stelo di giglio, simbolo di purezza, mentre lei si ritrae timorosa. Sebbene questo sia uno dei soggetti più tradizionali dell’iconografia cristiana, il dipinto impressiona tutt’oggi non solo per il formato insolitamente verticale, ma per la sua luminosità, ottenuta con una tecnica tipica del ‘400 (stendere sul supporto una preparazione bianca e poi lavorare con velature sottili). Rossetti si ispira infatti qui a Beato Angelico (e Piero della Francesca) con la prospettiva ribaltata in avanti, con l’incarnato bianchissimo, lineamenti sottili e capelli rossi. Tutti tratti dell’ideale femminile preraffaellita, di cui Rossetti faceva parte. Non è così elegante come Millais, ma ha delle soluzioni formali interessanti. Il quadro è contraddittorio perché intriso di spiritualità e languido erotismo insieme. CAPITOLO 23: DALLA LETTERATURA ALLE IMMAGINI Mai il rapporto fra arte figurativa e letteratura fu intenso quanto nell’’800 e questo perché il Romanticismo era nato prima di tutto in ambito letterario. WILLIAM BLAKE “L’ANTICO DEI GIORNI”, 1794, INCISIONE COLORATA 36x25, LONDRA Nato e vissuto a Londra, William Blake rese indissolubile il legame tra immagine e parola: è stato infatti autore di testi profetici, illustrati da lui con disegni altrettanto visionari e per questo incompreso dai contemporanei suoi. Aveva una vera e propria devozione per Michelangelo, incentivata anche dall’amico Fussli, i quali entrambi parevano volti a volersi inabissare con le loro opere in mondi onirici e misteriosi, ma con differenze: Fussli era pervaso dal razionalismo illuminista, mentre Blake lo abborrava. Circondato da un’oscurità profonda e ventosa, Urizen sta creando l’Universo con un gigantesco compasso dorato. Questa visione è stata ispirata da un passo della Bibbia, stravolto dall’autore. Insieme all’originalità del soggetto, abbiamo anche quella della tecnica: le sue miniature infatti erano prima realizzate a tempera su cartone, poi trasferiva il disegno su carta mediante pressione per ritoccare infine tutto con penna o pennello. In questo modo poteva addolcire i tratti duri tipici delle incisioni ed avere sempre esemplari diversi l’uno dall’altro. EUGENE DELACROIX “LA BARCA DI DANTE”, 1822, OLIO SU TELA, 189 x 241, LOUVRE Qui un Delacroix ancora acerbo e giovane e una composizione che guarda ai grandi esempi di Giorgione, Tiziano (pittura veneta del ‘500). La scena non è precedente o successiva all’acme, ma abbastanza coinvolgente e patetica, rappresentando i dannati sballottati dalle acque e combattono l’uno contro l’altro. Delacroix è un pittore “fondamentalmente letterario” avrebbe affermato Baudelaire e, per il suo esordio al Salon, sceglie di rappresentare l’ottavo canto dell’inferno dantesco: vediamo il poeta e Virgilio sulla barca. JOHN EVERETT MILLAIS “OFELIA”, 1851-52, OLIO SU TELA, 76 x 112, LONDRA Shakespeare era un vero e proprio mito nazionale in Uk e, fra coloro che ritrassero episodi dei suoi drammi, troviamo anche il preraffaellita Millais. Inizialmente egli dipingeva soprattutto soggetti sacri, con una pittura dirompente che aveva suscitato anche scalpore: qui invece si dedica ad una scena sentimentale, per riscuotere il consenso dell’alta società. Vediamo infatti una delle morti più toccanti di tutta la letteratura, ovvero Ofelia annegata per la morte del padre ed il rifiuto dell’amato. Pallida, malinconica, dai tratti sottili e i lunghi capelli rossi, circondata da un tripudio di fiori: è in tutto l’ideale femminile dei preraffaelliti. Il dipinto ha una strabiliante verità ottica, una resa tanto fedele da non rispondere alle possibilità del nostro occhio, come se fosse tutto visto al microscopio. L’effetto finale non è naturalistico quindi, perché è così descrittivo che pare sia fatto in modo “ipervisivo”: da realistica diventa quindi una pittura immaginifica, portando la visione in un tempo irreale. Millais studiò il paesaggio nella tenuta di un suo amico, cercando di rappresentare minuziosamente i fiori descritti da Shakespeare: il papavero simbolo della morte, le margherite dell’innocenza, le viole dell’amore non corrisposto. Per Ofelia invece fece posare a lungo in una vasca da bagno la moglie di Rossetti. FRANCESCO HAYEZ “IL BACIO”, 1859, OLIO SU TELA, 112 x 88, MILANO, BRERA (sul libro pag. 337) Ignaro che sarebbe stato l’ultimo bacio, Romeo saluta Giulietta prima di scendere dalla finestra della sua stanza ed andare in battaglia. Hayez dipinse una tela nel 1823 riferendosi a quest’episodio della tragedia di Shakespeare ambientata a Verona: gli venne commissionata quando già era molto conosciuto, soprattutto per il dipinto “Pietro Rossi” a Brera. Ancora una volta il pittore si imponeva sulla scena artistica cittadina: il soggetto letterario, la puntuale ricostruzione degli ambienti e dei costumi, i richiami a Tiziano lo innalzavano a campione del Romanticismo italiano. Il soggetto fu ripreso da Hayez dopo oltre 20 anni (in realtà ne esistono almeno 4 versioni) nel dipinto suo oggi più famoso: “il bacio”. Presentato a Brera nel 1859, raffigura una coppia abbandonata in un abbraccio sensuale ed insieme pieno di tenerezza. Per far capire che l’uomo si sta allontanando dalla sua amata, Hayez posiziona il piede sx di lui sullo scalino. Lei anche si abbandona a questo bacio come se fosse l’ultimo: quindi basta l’eloquenza del corpo a farci capire la situazione, anche perché i volti non si vedono e lo sguardo non ce lo può trasmettere (a differenza del ritratto del Manzoni). Gli abiti e l’ambientazione rimandano al passato medievale, come nello scritto di Shakespeare, ma c’è un particolare riferimento al presente: verde, rosso, bianco e azzurro alludono alle bandiere italiana e francese, facendo forse riferimento all’entrata a Milano di Vittorio Emanuele II e Napoleone III avvenuta solo 3 mesi prima. Quindi, oltre ad essere un inno all’amore giovanile, quest’opera celebra così l’alleanza fra due nazioni. Uso sapiente delle luci. C’è però un’ombra nella parte scura del dipinto (in tutte le versioni dipinte), che potrebbe riferirsi al tradimento di Villafranca e alla delusione dei patrioti veneti. Questo dipinto, due anni dopo, diventerà simbolo dell’unità d’Italia. Romanticismo italiano ((solo lezione)) L’Italia fino al ‘700 era al centro del mondo artistico (abbiamo visto i viaggi, ad esempio, di molti artisti durante il Neoclassicismo), mentre nell’800 perde un po’ di importanza: questo è dovuto sia alla situazione politica del paese (siamo nel pieno del Risorgimento, che porterà poi all’Unità d’Italia) e le Accademie erano focalizzate sullo studio dell’antico e del classico. Dagli anni 20/30 le cose cambiano, anche se non in maniera drastica: si inizia a pensare al Medioevo come momento importante da riscoprire, dovuto alla volontà di riscoprire le proprie radici (per il nazionalismo) (quindi ad esempio i pre raffaelliti, in Francia si guardava più al gotico). Nel Medioevo non vi erano le Accademie, ma le botteghe dove gli allievi facevano parte dei lavori (come anche abbiamo visto in David e Canova) e questo va ad influire le Accademie stesse: nascono le Mastern Classes, dove un maestro accompagnava per tutti gli anni lo studente, senza passare da un maestro all’altro. In Italia la situazione è frammentaria ed il suo Romanticismo, anche per questo, viene considerato di serie B. In realtà, vedendo i casi singoli, vi sono artisti molto importanti, che hanno avuto anche contatti duraturi e profondi con le realtà europee (quindi erano anche molto aggiornati), piuttosto era la critica ad essere rimasta un po’ indietro e che non era riuscita ad individuali. La figura più importante è quella di francesco Hayez. CAPITOLO 26: ESOTISMO ED EROTISMO EUGENE DELACROIX “DONNE DI ALGERI NEI LORO APPARTAMENTI”, 1834, OLIO SU TELA, 180x229, PARIGI LOUVRE Nel 1832 Delacroix partì per l’Oriente ((esotismo: viaggi fuori dall’Europa)) (Marocco, Spagna, Algeri…, zona off limits, come la Grecia, perché parte dell’Impero Ottomano) e rimase profondamente colpito dall’atmosfera di quei luoghi. Egli non dipinse nulla durante il viaggio, ma annotò le sue suggestioni su 7 taccuini e, una volta tornato a Parigi, trasse spunto dai disegni e schizzi per produrre moltissime opere, ciascuna delle quali indagava effetti luministici fino ad allora intentati. Era d’altronde nata una specie di moda verso il mondo nordafricano, sia in seguito alla campagna napoleonica in Egitto che ai recenti ritrovamenti archeologici. Tra le molte scene di caccia o di vita quotidiana di queste nuove opere, fu molto apprezzata “Donne di Algeri nelle loro stanze”, presentata al Salon del 1834. Durante il suo viaggio, fu concesso a Delacroix di visitare l’harem di un capitano dove le donne non portavano veli a coprire il viso, e ne poté ammirare così i lineamenti. Rimase colpito, oltre dalla luminosità particolare di questi luoghi, anche dalla vita stessa, dove il tempo pareva sospeso, rilassato. La costruzione dell’opera, come già visto nelle sue opere, è molto più libera: punto di fuga incerto, in parte mascherato dal tendaggio. Una delle giovani guarda direttamente fuori dal quadro, invitando quasi lo spettatore ad entrare nella scena, mentre la serva di colore al contrario sta uscendo dalla scena: le varietà degli stati emotivi sono così variegati che hanno l’intento di condurci da un punto all’altro dell’opera. Vediamo una profusione di stoffe ricamate, tappeti, di piastrelle in stile moresco, che accompagnano la serenità ed il torpore di tre giovani intente ad oziare o fumare il narghilè, con la ragazza di colore che sta per uscire dalla stanza (la fanciulla sulla sx è l’amante di Delacroix stesso, che posò per lui a Parigi). Il dipinto da subito fu ritenuto un capolavoro, sia per la sua sensualità, ma soprattutto per il sapiente ed innovativo trattamento cromatico: rapidissime pennellate di colore puro, seppur dettagliatissime nelle stoffe e panneggi, danno l’effetto ottico di bagliori dai dai disegni delle stoffe anche nella penombra. Renoir affermò che non c’era quadro più bello al mondo. JEAN-AUGUSTE-DOMINIQUE INGRES “IL BAGNO TURCO”, 1848-63, OLIO SU TELA, DIAMETRO 108, PARIGI LOUVRE Attratto come Delacroix dalla sensualità e dagli ornamenti orientali, anche Ingres ((Engre)) fece di questo mondo uno dei soggetti privilegiati nel suo lavoro. Non aveva però conoscenze dirette, ma si avvaleva delle miniature persiane diffuse in Francia e dalla testimonianza di una nobildonna inglese che gli scriveva da Istanbul. La sua corrispondente da Istanbul gli raccontò anche le usanze dell’universo femminile e questo ispirò Ingres nella sua opera più impegnativa. Venticinque donne, ornate di soli gioielli e turbanti, affollano una stanza di cui a stento percepiamo i confini spaziali. Ognuna ha un atteggiamento diverso (chi riposa, chi mangia, chi è fra le braccia di un’amica), ma tutte appaiono allo stesso modo compiaciute della propria seducente femminilità. La figura di spalle è la stessa de “La bagnante di Valpincon”. La forza di quest’opera risiede nella sua carica erotica, ma anche alle soluzioni artistiche e di composizione dell’artista. La composizione finale arriva da studi autonomi sulle figure, come per la bagnante di spalle (incarnato e chiaroscuro quasi autonomi rispetto alle altre). La prospettiva è molto più certa di Delacroix e delle donne di Algeri, che diventa quasi la sua controparte. Il bagno turco gli fu commissionato nel ‘48 dal principe Napoleone, ma ebbe una gestazione quasi ventennale: una prima versione fu consegnata circa 10 anni dopo, ma il formato era rettangolare e vi erano molte più donne senza gioielli (come sappiamo da una foto dell’epoca). La principessa fu scandalizzata dalla quantità di nudi, tanto da rifiutare l’opera, così Ingres la modificò come la vediamo oggi, ricorrendo al formato circolare generalmente riservato ai soggetti sacri, proprio per voler sottolineare tutto il valore simbolico che il quadro aveva ai suoi occhi. (Da “La bagnante di Valpincon”, solo slide)) Uno degli allievi più promettenti di David, sviluppa una tecnica molto vicina al maestro: qui un corpo quasi di porcellana, dando risalto al disegno e per nulla alla pennellata (al contrario di Gericault e Delacroix). Lavora uniformando le campiture di colore e seguendo il chiaroscuro. I temi sono più legati all’intimità rispetto a David: lui in particolare è molto attento al nudo femminile ed è inoltre un grande ritrattista. Raffinato e delicato, piaceva molto all’élite francese, anche perché non si scostava molto dalla tradizione, ma anche qui in realtà ci sono degli elementi di innovazione. Soprattutto per il modo in cui utilizza a suo piacimento l’anatomia umana: questa non è una figura prettamente reale (ad esempio in un altro quadro si era calcolato che per esistere dovrebbe avere una vertebra in più per essere così allungata), quindi deformazioni anatomiche quasi impercettibili, ma le fanno diventare di fatto ideali ed astratte (lo fece anche Botticelli). Lei ritratta di spalle, creando un effetto straniante, dandoci l’idea dell’occhio invasivo maschile (lo ritroveremo anche in Degas), rendendo l’opera più complessa (come se la stessimo spiando in un momento di intimità). John Constable (1776-1837) • JOHN CONSTABLE “IL CARRO DEL FIENO”, 1821, OLIO SU CARTA, LONDRA • JOHN CONSTABLE “STUDIO DI CIRRI”, 1822, OLIO SU CARTA, 11 x 17, LONDRA • JOHN CONSTABLE “LA CATTEDRALE DI SALYSBURY VISTA DALLA RESIDENZA DEL VESCOVO”, 1823, OLIO SU TELA, 87 x 111, LONDRA Joseph Mallord William Turner (1775-1851) • JOSEPH MALLORD WILLIAM TURNER “VENEZIA ALL’ALBA DALL’HOTEL EUROPA CON IL CAMPANILE DI SAN MARCO”, 1840, ACQUARELLO SU CARTA 19x28, LONDRA • JOSEPH MALLORD WILLIAM TURNER “BUFERA DI NEVE: ANNIBALE E LE SUE TRUPPE CHE VALICANO LE ALPI”, 1810-12, OLIO SU TELA, 145 x 236, LONDRA • JOSEPH MALLORD WILLIAM TURNER “ROMA VISTA DAL VATICANO. RAFFAELLO ACCOMPAGNATO DALLA FORNARINA LAVORA AI SUOI QUADRI PER LA DECORAZIONE DELLA LOGGIA”, 1820, OLIO SU TELA 177x335, LONDRA • JOSEPH MALLORD WILLIAM TURNER “PIOGGIA, VAPORE E VELOCITA’”, 1844, OLIO SU TELA, 90 x 121, LONDRA NATIONAL GALLERY Caspar David Friedrich (1774-1840) • CASPER DAVID FRIEDRICH “ABBAZIA NEL QUERCETO”, 1809-10, OLIO SU TELA, 110 x 171, BERLINO • CASPER DAVID FRIEDRICH “IL MONACO IN RIVA AL MARE”, 1808-10, OLIO SU TELA, 110x171, BERLINO • CASPER DAVID FRIEDRICH “LE BIANCHE SCOGLIERE DI RUGEN”, 1818, OLIO SU TELA, 90x70 • CASPER DAVID FRIEDRICH “VIANDANTE SUL MARE DI NEBBIA”, 1818, OLIO SU TELA, 98x74 • CASPER DAVID FRIEDRICH “DUE UOMINI CONTEMPLANO LA LUNA”, 1820, NEW YORK Théodore Géricault • THEODORE GERICAULT “CAVALLI VISTI DALLA GROPPA”, 1811, OLIO SU CARTONE 46x72 • THEODORE GERICAULT “UFFICIALE DEI CAVALLEGGERI DELLA GUARDIA IMPERIALE”, 1812, OLIO SU TELA, 349 x 266, LOUVRE • THEODORE GERICAULT “LA ZATTERA DELLA MEDUSA”, 1818-19, OLIO SU TELA, 491 x 716, LOUVRE • THEODORE GERICAULT “ALIENATI”, 1819-24, OLIO SU TELA, PICCOLI (50 x 70 • THEODORE GERICAULT “CORAZZIERE FERITO CHE ABBANDONA IL CAMPO DI BATTAGLIA”, 1814, OLIO SU TELA 358x294, LOUVRE • THEODORE GERICAULT “LA CORSA DEI BA’RBERI A ROMA”, 1817, OLIO SU TELA 45x60, LOUVRE Eugène Delacroix • EUGENE DELACROIX “IL MASSACRO DI SCIO. FAMIGLIE GRECHE ATTENDONO LA MORTE O LA SCHIAVITU’”, 1824, OLIO SU TELA, 419 x 354, LOUVRE • EUGENE DELACROIX “LA LIBERTA’ GUIDA IL POPOLO”, 1830, OLIO SU TELA, 260 x 325, LOUVRE • EUGENE DELACROIX “LA BARCA DI DANTE”, 1822, OLIO SU TELA, 189 x 241, LOUVRE • EUGENE DELACROIX “DONNE DI ALGERI NEI LORO APPARTAMENTI”, 1834, OLIO SU TELA, 180x229, PARIGI LOUVRE • EUGENE DELACROIX “GIACOBBE LOTTA CON L’ANGELO”, 1853-61, OLIO E CERA SU INTONACO, 751 x 485, PARIGI ((Pag. 332)) • EUGENE DELACROIX “MICHELANGELO NELLO STUDIO”, 1850 OLIO SU TELA 40x32 Francesco Hayez • FRANCESCO HAYEZ “PIETRO ROSSI”, 1818-20, OLIO SU TELA 131x157, COLLEZIONE PRIVATA • FRANCESCO HAYEZ “GLI ABITANTI DI PARGA CHE ABBANDONANO LA LORO PATRIA (I PROFUGHI DI PARGA)”, 1831, OLIO SU TELA 201x290, BRESCIA • FRANCESCO HAYEZ “IL BACIO”, 1859, OLIO SU TELA, 112 x 88, MILANO, BRERA (sul libro pag. 337) • FRANCESCO HAYEZ “LAOOCONTE”, 1812, OLIO SU TELA 175x246, BRERA • FRANCESCO HAYEZ “I VESPRI SICILIANI”, 1846, OLIO SU TELA, 225 x 308, ROMA ((no sul libro)) • FRANCESCO HAYEZ “RITRATTO DI CRISTINA BARBIANO DI BELGIOJOSO TRIVULZIO”, 1830, FIRENZE COLLEZIONE PRIVATA NADAR “RITRATTO DI SARAH BERNHARDT”, 1864, STAMPA ALLA GELATINA D’ARGENTO Sin dalla prima apparizione della fotografia, i suoi vantaggi rispetto alla pittura furono chiari a chiunque: permetteva infatti di avere rappresentazioni fedeli riducendo costi e tempo e ciò fu evidente soprattutto nella ritrattistica. I pittori meno abili, che però si accorsero presto delle potenzialità della fotografia, si convertirono ad essa: è il caso di Nadar, pseudonimo del caratterista Gaspard-Félix Tournachon, che divenne il più celebre ritrattista della borghesia parigina. E fu proprio il trascorso come pittore che gli consentì di trasferire nella fotografia quegli schemi compositivi tipici della pittura, raggiungendo esiti dal marcato carattere poetico. Il fondo neutro, la finta colonna classica e l’illuminazione esterna rivelano infatti una sapiente regia accademica. OSCAR GUSTAVE REJLANDER “TWO WAYS OF LIFE”, 1857, STAMPA ALL’ALBUME 10x19 Oscar Gustave Rejlander era invece un artista svedese trasferitosi a Londra che viene ricordato per i primi fotomontaggi fotografici della storia: accostava fotografie diverse, o anche ritagli di esse, per comporre un’unica immagine. Qui sommò oltre 30 negativi che illustravano vizi e virtù della vita umana. FRANCK “LA COLONNA VENDOME ABBATTUTA”, 1871, STAMPA ALL’ALBUME D’ARGENTO DA NEGATIVO DI VETRO Inizialmente la fotografia faticò a trovare un linguaggio autonomo, offrendo ai difensori della pittura una valida ragione per continuare a sostenere il primato. Durante i mesi della Comune parigina del 1871 però, dimostrò le sue potenzialità nella documentazione delle distruzioni che avvenivano in città. È questo il caso di Franck, pseudonimo di Francois-Marie-Luis- Alexandre Gobinet de Villecholle, che immortalò uno dei momenti più spettacolari: colte dall’alto ed in lontananza, le macerie della colona napoleonica di Vendome giacciono in una piazza svuotata dalla folla festante. EDWARD MUYBRIDGE “DINAMISMO DI UN CAVALLO IN CORSA”, 1887, CRONOFOTOGRAFIA Sfruttando la scoperta della fotografia istantanea, nel 1878 l’inglese Edward Muybridge si confrontò invece con il dinamismo delle immagini: riprese un cavallo in corsa, posizionando 24 apparecchi fotografici uno a fianco all’altro, che venivano attivati dal cavallo stesso. ETIENNE-JULES MAREY “CRONOFOTOGRAFIA DI UN SALTO CON L’ASTA”, 1887 Con fini invece prettamente scientifici, il francese Etienne-Jules Marey registrò su un’unica lastra il movimento umano o animale utilizzando il fucile fotografico: apparecchio che era dotato di lastre fotografiche e una piccola camera oscura, avviato in ripetizione. Nel complesso le loro esperienze furono determinanti per l’evoluzione dell’aeronautica, medicina e cinema, ma ebbero un fortissimo impatto anche nella pittura: pittori impressionisti come Edgar Degas iniziarono ad enfatizzare la riproduzione di corse di cavalli o il movimento delle ballerine e soprattutto furono fondamentali per la nascita delle avanguardie del primo ‘900, come Cubismo e Futurismo. CAPITOLO 34: UN NUOVO SGUARDO SULLA REALTA’ Gustave Coubert (1819-1877) Autoritratti GUSTAVE COUBERT, UOMO COLCANE NERO (AUTORITRATTO), 1842, OLIO SU TELA 46x55, PARIGI Nato a Ornans nel 1819, fin da giovanissimo Gustave Courbet ((gùstav Curbè)) seguì corsi di disegno e 20 anni dopo arrivò a Parigi per studiare Legge, secondo il volere del padre. Abbandonò presto gi studi per le lezioni di pittura ed iniziò a frequentare l’ambiente bohémien della capitale. “Uomo col cane nero” è uno dei primi autoritratti, che continuò a fare fino almeno al ’55. Eseguì infatti molti autoritratti, indagando ripetutamente (quasi con ossessione) i cambiamenti della propria fisionomia, travestendosi con i costumi più disparati o enfatizzando le espressioni del volto. Non era inconsueto lavorare allo specchio sul proprio autoritratto (magari anche perché non si potevano pagare i modelli). Verso il realismo GUSTAVE COUBERT “DOPO CENA A ORNANS”, 1849, OLIO SU TELA 195x257, FRANCIA Courbet mutò poi il proprio linguaggio riflettendo sugli insegnamenti dei maestri del passato: Caravaggio e Rembrant furono i suoi modelli indiscussi. Ma ci furono anche i moti del ‘48 ad incidere sul suo cambiamento, tanto da fargli riportare su tela i valori democratici rivendicati dai socialisti insorti nelle piazze. Iniziò quindi a preferire immagini popolari, ambientate in provincia, raffiguranti umili cittadini. Questo dipinto, presentato al Salon del 1849, gli valse una medaglia d’oro e l’acquisto da parte dello Stato. Colpiscono il soggetto, una scena domestica del suo paese natio, e le dimensioni riservate ad essa: 5mq di pittura riservati non ad un altisonante episodio di storia, ma a una banalissima scena di genere immersa in un ambiente povero e senza luce. 1850: anno dello scandalo Approfittando di una recente premiazione, gli fu consentita un’esposizione al Salon senza che questa passasse al vaglio della Commissione: Courbet presentò otto ambiziosi lavori eseguiti nel suo paese natale: erano opere in netta controtendenza, sia con le pitture di storia ma anche con la tradizionale gerarchia tra i generi. Per l’occasione l’artista pubblicò anche un volume intitolato “Il realismo”, contenente le sue convinzioni sociali e pittoriche. GUSTAVE COURBET “GLI SPACCAPIETRE”, 1849, OLIO SU TELA 165x257, DISTRUTTA NELLA 2GM Ne “Gli spaccapietre sono protagonisti due anonimi operai incontrati sotto la luce accecante di mezzogiorno. L’assenza di fisionomie sottrae ogni possibile identità, cosicché l’enfasi cade sulla gravità di uno sforzo fisico che accomuna l’infanzia all’età matura. Dimensioni grosse della tela, anche se non sembrerebbe. Già con Gericalt e Delacroix l’attualità diventava soggetto da rappresentare, mentre in questo caso non era tanto l’attualità storica ma quella della vita più umile. Le sue pennellate sono simili a quelle viste con Corot. GUSTAVE COURBET “FUNERALE A ORNANS”, 1849, OLIO SU TELA, 315 x 668, PARIGI D’ORSAY Ma è quest’opera la prova più significativa dell’esposizione al Salon, di fatto il manifesto della pittura realista. Monumentale quanto un quadro di storia, ritrae il seppellimento di un parente del pittore, che ne ‘48 inaugurava il nuovo cimitero di Ornans. Fu definito “un omaggio alla bruttezza”: giudizio molto severo, che però riguardò tutte le opere esposte da Courbet, non solo questa. Su una superficie di quasi 7mq, vi sono quasi 50 personaggi a grandezza naturale, ciascuno con un’espressione diversa dal vicino, come se fosse una grandiosa galleria umana. Tre gruppi di figure scandiscono la scena da sx a dx: i religiosi (chierichetti, sagrestani con le tonache rosse e becchini), poi al centro i notabili del paese (sindaco, giudice, con l’antica divisa) ed infine il gruppo delle donne, con le tre sorelle di Courbet in primo piano. La vera protagonista è però la fossa a terra: collocata al centro, oltre al limite della tela come se proseguisse nello spazio reale, rende lo spettatore pienamente partecipe della cerimonia funebre non meno degli abitanti di Ornans. La resa dettagliata delle fisonomie genera un calcolato conflitto con l’asciuttezza del paesaggio brullo sullo sfondo. Il pittore ha preso spunto sia dalle stampe popolari degli annunci funebri, sia dalle lezioni degli antichi: il suo era un linguaggio nuovo, ancora intentato, in linea con quel popolo al quale l’opera si rivolgeva. Questi colori bruni, che caratterizzano diverse tele degli artisti che abbiamo visto, saranno poi abbandonati nell’Impressionismo. GUSTAVE COURBET “CONTADINI DI FRAGEY DI RITORNO DALLA FIERA”, 1850, OLIO SU TELA 205x275, FRANCIA Tra i dipinti esposti al Salon del 1850 abbiamo anche questo dipinto, dove ancora una volta un episodio della quotidianità è protagonista. Nelle vesti del sindaco di Flagey vi è il padre del pittore, che torna a cavallo affiancato da un giovane fattore e, davanti a lui, i buoi appena acquistati, mentre dietro le donne con grandi ceste. Il dipinto è colmo di incongruenze: le figure sono estremamente rigide e anatomicamente poco credibili, quasi da sembrare impietrite o dei manichini. Vi è inoltre la mancanza di una visione prospettica unitaria, che rende i personaggi fluttuanti sul medesimo piano: ad esempio l’uomo con il maialino al guinzaglio dovrebbe introdurre al cuore della composizione, amplificando la profondità spaziale, ma le sue movenze rendono ancora più evidenti le disarmonie del dipinto. Queste mancanze furono pienamente colte anche dai contemporanei, che derisero il dipinto (furono fatte anche delle caricature), tanto che Courbet negli anni rimise mano al dipinto, come ad esempio per la donna con il cesto sul capo che era inizialmente all’estremità destra del dipinto. Honoré Daumier (1808-1879) Satira realista HONORE’ DAUMIER “DUE RITRATTI DI CELEBRITA’ CONTEMPORANEE ((UN MINISTRO E UN GIORNALISTA))”, 1832, CRETA E OLIO h19, PARIGI D’ORSAY Nato a Marsiglia, Daumier è il terzo grande protagonista del Realismo francese. Si trasferisce giovanissimo a Parigi e lavora come fattorino e commesso, ma inizia ad interessarsi alla pittura frequentando i corsi all’Accademia. Fu una personalità poliedrica: caricaturista, illustratore, pittore e persino scultore e il suo interesse alla politica avvenne molto prima rispetto agli altri due artisti, partecipando attivamente alle “tre gloriose giornate di luglio” del 1830. L’anno successivo iniziò la sua collaborazione con la rivista “La caricature” ed in seguito anche con un quotidiano parigino, il cui direttore stesso commissionò questi spietati busti di politici e fiancheggiatori della monarchia, oltre al proprio ritratto. Sono realizzati in terracotta dipinta e testimoniano le capacità del loro autore di cogliere in profondità il carattere dei protagonisti e racchiuderli in soli 20 cm. La classe proletaria HONORE’ DAUMIER “IL VAGONE DI TERZA CLASSE”, 1862-64, OLIO SU TELA 65x90, USA La libertà che Daumier si prendeva nei confronti dell’oligarchia parigina gli costarono ovviamente la censura e sei mesi di carcere. Questo, insieme all’indurirsi delle norme giornalistiche, portò l’artista a cambiare soggetti per le proprie opere. Nel 1848 invece poté riprendere la propria missione di denuncia sociale e dedicarsi finalmente alla pittura: così il popolo entrò nelle sue tele, come per gli altri due autori francesi e “Il vagone di terza classe” è il capolavoro della stagione: indifferente al tema della velocità del treno, che invece di lì a poco avrebbe appassionato gli impressionisti, Daumier mostra la sua contesta il divario insanabile fra le classi sociali. In un vagone poco illuminato fai finestrini a sx, un’anziana dal capo coperto, attorniata da un ragazzino appisolato e una madre con il neonato addormentato, siede tenendo stretta a sé una cesta di vimini. Il suo sguardo basso e rassegnato contrasta con il vivace chiacchiericcio dei borghesi dietro a lei (riconoscibili per il cappello a tuba). Siamo nella Rivoluzione Industriale, dove c’è lo spopolamento dalle campagne verso la città: anche qui vediamo la grande dignità che Daumier dà ai suoi personaggi. Vediamo due mondi estranei fra loro e la solidarietà dell’autore che va verso i viaggiatori più umili e sofferenti. Oltre al soggetto, colpisce anche lo stile: è, quella di Daumier, una pittura corsiva, magra, lasciata quasi alla prima stesura: i passeggeri, definiti da marcate linee di contorno, sembrano essere al limite del caricaturale, ma anche di incredibile sintesi espressiva, rendendo l’opera estremamente moderna, i cui tratti rivedremo nelle avanguardie del ‘900. HONORE’ DAUMIER “TRE RAGAZZE DA MARITO”, 1865, LITOGRAFIA (slide) Una delle caricature di Daumier che prende in giro le opere di Courbet: i due non erano amici, anzi, e Daumier era fra quelli che criticava più aspramente i dipinti del collega, soprattutto per il fatto che le sue figure erano viste come molto rigide, non anatomicamente corrette (qui vediamo le teste sproporzionate). Courbet era considerato un pittore “rozzo”, non accademicamente formato. Realismo e paesaggio ((non sul libro)) Realismo: realismo della natura quasi scientifico (come già visto con Friedrich) e realismo sociale, ovvero si guarda a come vivono le persone, alle loro difficoltà. Si guarda agli umili e poveri, un elemento quasi mai preso in considerazione (solo fra ‘600/’700 ma in maniera caricaturale). Questa nuova manifestazione artistica anch’essa passa anche attraverso il paesaggio, come anche la pittura del primo ‘900. Questo perché il paesaggio è un genere fluido, più facile da gestire e più libero rispetto ad altri e per questo usato soprattutto per l’introduzione di novità. JEAN-BAPTISTE CAMILLE COROT “LA CATTEDRALE DI CHARTRES”, 1830 (RITOCCATO NEL 1872), OLIO SU TELA, 64 x 51, PARIGI LOUVRE ((No sul libro)) Corot è un punto di unione fra la scuola di Barbizon e l’impressionismo. Lavorava dal vero, con ampie pennellate, quasi uniche e sintetiche (elemento che sarà fondamentale nell’impressionismo). Poi però realizzava una tela di dimensioni maggiori, con pennellate meno evidenti, avvicinandosi più alla tradizione (anche perché aveva necessità di piacere e quindi di vendere). Per questo sembra quasi bipolare. CAPITOLO 35: I MACCHIAIOLI Il centro nord (non sul libro) Nel centro nord operano alcuni artisti, tra cui Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni, che attuano una pittura non dissimile a quella di macchia, anche se l’effetto finale è più sfumato. La tendenza comunque è quella di non delineare il contorno e lavorare semplicemente con il pennello, diventando più istintivi e liberi per raccogliere al meglio l’emotività di chi dipinge e l’istantaneità dello sguardo che si rivolge verso il reale. Gli “Scapigliati” sono artisti più bohemienne rispetto ai macchiaioli che erano molto legati al clima letterario. Le pennellate sono vaporose e di personaggi vengono ritratti come se si vedessero attraverso uno specchio non ben definito. Succede qualcosa di analogo con la figura di Antonio Fontanesi ((fatto nel romanticismo/paesaggio)). Nasce l’Italia, nasce il Realismo Nel Rinascimento vi era la competizione fra la pittura e la scultura, mentre nell’’800 vi è quella fra pittura e fotografia: ci si chiede che senso abbiano i dipinti realisti di Millet o Courbet, quando è possibile avere una fotografia ad esempio dello stesso paesaggio, ma ci si chiede anche se considerare la fotografia un’arte. Questo porta gli artisti nella seconda metà dell’’800 a rivedere la loro idea di rappresentazione del reale e che il percorso dell’arte può andare verso l’introspezione, l’immaginazione e l’enfatizzazione, cose che la fotografia non poteva raggiungere. Nel 1861 Firenze ospitò la prima Esposizione Nazionale d’arte, inaugurata da re Vittorio Emanuele II: la rassegna festeggiava l’unità italiana, ma anche l’inizio di una nuova sensibilità estetica volta alla fedele rappresentazione dal vero. Si registrò infatti un aumento esponenziale di opere dedicate a vicende contemporanee e i loro autori vennero definiti “Macchiaioli” dal critico de “La Gazzetta del popolo”: benché il termine avesse un’accezione negativa, i suoi esponenti la fecero comunque propria perché effettivamente essi dipingevano accostando campiture di colore puro, oltre a non utilizzare nessun disegno preparatorio, né linee di contorno, chiaroscuro o velature. Il loro obbiettivo era tradurre sulla tela il processo ottico nella maniera più naturale possibile, quindi facendo leva sui rapporti luminosi e cromatici della realtà. Fu essenziale quindi per loro dipingere all’aperto ma, diversamente dal Realismo francese, vi fu anche l’indagine della società borghese e dei sentimenti umani. RAFFAELLO SERNESI “TETTI AL SOLE”, 1861, OLIO SU CARTONE 13x19, ROMA Dipinto piccolissimo, visione estemporanea probabilmente tenuta dalla sua finestra, proprio come Niepce e probabilmente hanno impiegato anche lo stesso tempo per la realizzazione della loro opera (un’ora?). I colori sono ridotti, ma la profondità data dalle ombre in rapporto con il sole abbagliante che invade le facciate in primo piano, sono realizzate appunto per campiture nette e veloci, ovvero “per macchia”. Esiste ancora per i macchiaioli il colore nero, che invece non sarà più un colore per alcuni impressionisti (nei processi di rifrazione del colore non esiste)e lo ricreeranno sommando altri colori. Inoltre, le ombre per gli impressionisti sono colorate: non esistono per loro le ombre nere: ad esempio l’ombra di un oggetto blu che ricade su una superficie gialla è data dalla somma dei due colori (non lavorano infatti mescolando i colori sulla tavolozza, ma ponendoli puri sulla tela). Questa pittura rapida e sintetica però non dimentica di favorire una composizione totalmente equilibrata, in cui le parti sono meditate e non sono mai lasciate al caso, come invece poteva capitare nella fotografia: minuzia e attenzione nella struttura dell’opera. Le campiture di Sernesi sono costruttive, che ritroveremo nel periodo post-impressionista ad esempio con Cezanne, che derivano dai bozzetti di Corot: sono campiture non “per tocchi”, ma per pennellate ampie e costruttive. Gli impressionisti invece avevano un gesto molto più rapido sulla tela. Caratteri del Realismo italiano Provenienti da varie regioni di Italia, Raffaello Sernesi, Giovanni Fattori, Telemaco Signorini, Silvestro Lega e Giuseppe Abbati si ritrovavano a discutere animatamente al Caffè Michelangelo per elaborare insieme il concetto di “macchia”, perfezionandolo fino a quando, alla fine del decennio, il movimento iniziò a perdere la propria spinta propulsiva. Il caffè era diventata una bevanda di moda fra le classi di élite e quindi fra ‘700/’800 vengono creati luoghi appositi per berlo.
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