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Arte. Una storia naturale e civile, Volume 5, Settis Montanari, Appunti di Storia dell'arte contemporanea

Riassunto dettagliato dei capitoli di Arte. Una storia naturale e civile volume 5, di Settis e Montanari, fino alla Sezione 5, capitolo 26 "Land Art" compresa. Contiene le immagini delle opere principali e l'impaginazione è perfetta per la stampa, se servisse. Disponibili anche il volume 3 e 4. Voto esame 30L

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 21/09/2023

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Scarica Arte. Una storia naturale e civile, Volume 5, Settis Montanari e più Appunti in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! TRA ‘800 E ‘900: LA BELLE EPOQUE Lineamenti storici Ascesa della borghesia, fiducia positivista nella scienza e benessere economico dominarono la cosiddetta Belle époque, ovvero i decenni fra la fine dell'’800 e l'inizio del 900, segnati però al contempo da una situazione politica sempre più instabile e conflittuale. Si trattò davvero di una stagione felice, anzi, euforica, segnata da un progresso scientifico e tecnologico che di fatto aveva generato una seconda Rivoluzione industriale. Nei decenni compresi tra il 1880 e lo scoppio della Grande Guerra, la società europea, o almeno il suo ceto borghese, visse nel benessere guidata da una fiducia apparentemente incrollabile nel pensiero positivista. Nel 1900 vi fu l'Esposizione Universale di Parigi, vi furono nuovi monumenti, ponti, architetture, stazioni ferroviarie, la metropolitana e molto altro ancora. Solo in apparenza, però, la Belle Époque è una stagione di pace. Sotto, in realtà covano tensioni e risentimenti destinati a esplodere con la guerra di inizio secolo. I rapporti tra le nazioni risultano effettivamente quanto mai instabili e in politica avanzano governi autoritari. È in opposizione all'eccesso di fede nel Positivismo e nella scienza, che si era diffuso nella seconda metà dell'Ottocento, che nel mondo della cultura cominciano a palesarsi sensibilità sempre più attratte dalla dimensione irrazionale. E il misterioso, il non espresso, intuibile, che ora esercitano il fascino e attenzione più di ciò che si presenta concretamente agli occhi. Sono il richiamo del Simbolismo, corrente artistica e letteraria, che con il manifesto pubblicato da. Moréas su Le Figaro nel 1886 ha trovato l'atto di battesimo ufficiale. Nei più aggiornati ambienti culturali si diffonde un clima nuovo, raro e iper-raffinato: è l'estetismo, un vero culto per la bellezza, un'arte tutta concentrata in sé e pertanto sottratta a quei fini morali e sociali che erano stati esaltati dal realismo di Courbet. Il comportamento che ne deriva è riassunto nella figura del Dandy: un esteta appunto come Oscar Wilde e Gabriele D'Annunzio, Abbigliato secondo dettami dell'eleganza più mondana, attorniato da oggetti rari e preziosi, ama elevarsi al di sopra delle masse. Dopo la prematura scomparsa di Manet, gli stessi protagonisti che una decade prima avevano avviato la rivoluzione impressionista, manifestarono evidenti segni di cambiamento. Organizzata nel maggio del 1886 e destinata a diventare l'ultima, l’ottava mostra del gruppo sancì la fine di un'esperienza comune. I percorsi da allora diventarono autonomi: Renoir iniziò a dare importanza al disegno, Monet alla pittura seriale ordinata per cicli temporali, Pissarro, adotto la tecnica puntinista che aveva teorizzato Seurat, Degas accentuò l'arditezza dei tagli prospettici. Non furono però solo questi maestri a sviluppare un consapevole distacco dall'impressionismo: proprio negli anni’ 80 si affermò infatti una nuova generazione della quale faceva parte anche Paul Cezanne, sebbene fosse presente da tempo sulla scena. Erano i post-impressionisti. Oggi come allora la definizione suona generica, unicamente fondata sull'appartenenza a una medesima epoca. Ma d'altra parte le strade battute dai nuovi protagonisti risultavano così varie e tra loro difformi, da impedire ogni altra definizione comune. Vediamo la forma geometrica per Seurat, la messa in crisi delle consuete forme rappresentative dello spazio in Cezanne, la resa sintetica dell'immagine per Gauguin e l'uso del colore in termini emotivi in Van Gogh. Per ciascuno, comunque, si trattava di sviluppare l'eredità impressionista portando l'attenzione sui valori della pittura in sé: l'attenzione cadeva quindi soprattutto sui valori della forma, sullo specifico linguaggio della pittura. “Si ricordi che un quadro, prima di essere un cavallo di battaglia, una donna nuda, un qualsiasi aneddoto, è essenzialmente una superficie piana ricoperta di colori disposti in un certo ordine”. In quegli anni proprio l'attenzione ai valori primi della pittura porterà gli artisti a sperimentare, ad esempio con il Pointillisme, tecnica messa a punto da Seurat attorno al 1885, dove il pigmento puro veniva steso per mezzo di minute quanto fittissime pennellate puntiformi. Scelta opposta a quella di Gauguin, che invece preferiva campiture ampie, uniformi, il più delle volte sigillate entro una marcata linea sinuosa, tali da ricordare le vetrate gotiche le cui singole parti erano saldate tra loro con un filo di piombo (detto “cloison”, per questo viene chiamato Cloisonnisme). Cezanne ricorreva ad una pennellata regolare e sempre uguale a sé stessa, quasi a suggerire l'effetto di una pioggia cromatica: il contrario di quanto usava fare Van Gogh, che invece lavorava con colore quasi tridimensionale. CAPITOLO 1: IL POST-IMPRESSIONISMO A differenza degli impressionisti, i post-impressionisti non si considerano un gruppo unitario: sono stati definiti così per etichette successive e in particolare nel 1910 in occasione di una mostra retrospettiva londinese un critico identifica il lavoro di alcuni esponenti francesi successivo all’Impressionismo (in particolare Gauguin e Cezanne) con questo termine. Mentre gli impressionisti creano delle occasioni in cui si mostrano al pubblico, i post-impressionisti hanno una realtà molto più “sfilacciata”, anche dal punto di vista cronologico (l’Impressionismo è delimitato fra il ’74 e l’’86, anni delle loro mostre). Dopo l’esperienza del padiglione del realismo di Courbet del 1855, diventa sempre più frequente promuoversi, facendosi carico anche dell’aspetto delle pubbliche relazioni nel mondo dell’arte, mentre prima ci si appoggiava all’Accademia e ai Salon. Fra ‘800 e ‘900 alcune figure, come il critico dell’arte militante (partecipava ai Salon e sulle pagine di riviste e quotidiani faceva delle vere e proprie recensioni) e il gallerista (chi sostiene l’opera degli artisti in ambienti privati, figura nuova che compare a fine ‘800), li aiuteranno in questo nuovo sistema di promozione nell’arte. GEORGE SEURAT (1859-1891) GEORGE SEURAT “BAGNO AD ASNIERES”, 1884, OLIO SU TELA 201x300, LONDRA Quando George Seurat ((georg serà)) debuttò sulla scena artistica parigina, aveva appena 24 anni e una robusta formazione alle spalle. Amava i pittori del proprio tempo, soprattutto Pierre Puvis de Chavannes, ma nel contempo era attratto dalla grande tradizione rinascimentale italiana. Tanti riferimenti sono ancora oggi intuibili in quest'opera, la grande tela presentata nel 1884 al Salon de Independants, dopo che il Salon ufficiale si era rifiutato di esporla, e che segna proprio il passaggio dalla pennellata virgolettata tipica impressionista a tocchi geometricamente equilibrati. Di impressionista c'è il soggetto, una rilassata scena estiva sulle rive della Senna, ma anche la luce tersa e i colori, distribuiti con pennellate dall'effetto sfavillante. Di Puvis de Chavannes riconosciamo la resa sintetica delle figure sigillate entro un profilo che le sbalza con forza sullo sfondo. Di Masaccio e Piero della Francesca troviamo invece la compostezza di un insieme che, pur non avendo nulla di rigido, osserva una limpida costruzione geometrica ritmicamente animata da verticali, diagonali e orizzontali: la costruzione prospettica però è data dalle figure e dal paesaggio in secondo piano. Spicca in particolare l'uomo disteso avvolto in un camicie dal bianco gessoso, quasi un volume puro, perfettamente tornito, per il quale ritorna fondamentale il lavoro sui chiaroscuri (non trattato con il nero, ma attraverso i complementari). Sarà proprio sul cappellino rosso a dx che Seurat lavorerà per la prima volta di complementari (tra l’arancio e il blu, mescolandoli per ottenere l’ombra). Insomma, quest'opera è la prova di un'artista alla ricerca di una via alternativa originale rispetto a quella ormai molto sperimentata dell'impressionismo. Già le sue imponenti dimensioni, d'altra parte, bastavano per distinguerla: impossibile dipingere en plein air una superficie di ben 6 metri quadri. Per Seurat, infatti, il lavoro artistico doveva tendere alla razionalità e al rigore: se la vita moderna rimaneva al centro degli interessi, ora cambiava il modo di osservarla e l'approccio si faceva più riflessivo e meditato. Non c’è più la competizione fra il pittore e l’ambiente: l’artista non vuole più rappresentare la natura così com’è, ma piuttosto l’idea della natura, una sua sublimazione. Si rielabora la natura attraverso un pensiero scientifico. PAUL CEZANNE (1839-1906) Paul Cézanne ((sezann)) è stato un compagno di strada degli impressionisti: era loro coetaneo e ha vissuto e lavorato a Parigi condividendone le uscite espositive. Comprendeva tutta l'importanza di Monet e colleghi, ma al contempo ne rifiutava gli assunti: l’idea di una pittura limitata alla registrazione dei fenomeni più fugaci, come la luce e l'atmosfera, e la rappresentazione della vita moderna. La sua idea era che l'arte dovesse sempre fare i conti con i puri valori della forma da elaborare razionalmente, sovvertendo le consolidate norme della visione prospettica. “Il quadro doveva nascere da un processo meditato: chi non l'ha mai visto dipingere, non può immaginare fino a che punto in certi giorni il suo lavoro fosse lento e penoso”, ricorda il suo gallerista. Cezanne è insomma un'artista strenuamente fedele alla tradizione e insieme rivoluzionario. Ha ammirato nel profondo i maestri del passato, specie i francesi come Delacriox e Courbet, ma nel contempo ha disseminato nei suoi quadri un'incredibile varietà di intuizioni che solo la generazione a lui successiva, quella delle avanguardie di inizio ‘900, avrebbe davvero compreso e sviluppato. Il padre della modernità! PAUL CEZANNE “LA TENTAZIONE DI SANT’ANTONIO”, 1870, OLIO SU TELA 57x76, ZURIGO Nato a sud della Francia, Cezanne fu avviato dal padre agli studi giuridici e in contemporanea frequentò la scuola gratuita di disegno della sua città. A 22 anni raggiunse Parigi, dove trovo l’amico scrittore Emilie Zola ((emil zolà)), il quale lo incoraggiò a seguire la via dell'arte e ad iscriversi all'Accademia (dove conobbe, fra gli altri, Pissarro). L'impressionismo stava per nascere, ma la pittura del giovane Cezanne era lontanissimo da quella di Monet o Renoir: la distinguevano nei temi, non scorci di vita urbana, ma drammatiche scene di ispirazione letteraria affrontate con pathos romantico. E poi la risoluzione formale drastica e la semplificazione dei toni: il colore distribuito in abbondanza, non con il pennello ma con la spatola. La pittura del primo Cezanne non poteva certo dirsi facile o accattivante e, anche per queste ragioni, faticò a essere compreso nell'ambiente parigino, anche dagli stessi “compagni” impressionisti. Ciò nonostante, continuò per la propria strada, alternando lunghe sedute al Louvre, dove si esercitava nella copia dei maestri antichi. PAUL CEZANNE “LA CASA DELL’IMPICCATO A AUVERS-SUR-OISE”, 1873, OLIO SU TELA 55x66, PARIGI D’ORSAY Nel 1874 Cezanne partecipò alla prima mostra degli impressionisti e tra i suoi tre quadri figurava “La casa dell'impiccato”. L’aveva realizzato l’anno prima, quando si era trasferito con la famiglia in un piccolo centro nei pressi di Parigi, dove poteva contare sull'appoggio di un giovane medico appassionato d'arte che incontreremo di nuovo parlando di Van Gogh. La casa dell'impiccato segna una svolta nella ricerca dell'artista: la pittura si illumina confrontandosi con un soggetto en plein air. Eppure, a ben vedere, si tratta di una sintonia solo apparente con i colleghi parigini: infatti l'opera manca di ogni leggerezza e notiamo le distorsioni prospettiche destinate a diventare la cifra distintiva di molte sue tele. Il suo è uno sguardo che costruisce: questo perché non è un’opera realizzata interamente en plein air, ma ristudiata in atelier. La tavolozza è arsa, incentrata su toni ocra e sabbiosi. Il pigmento risulta stratificato, pennellata dopo pennellata, tanto che l'intera superficie ha acquistato un'evidenza grumosa. L'impianto è fortemente geometrico, dato dai tetti spioventi, e, diversamente da una tela di Monet o di Renoir, la luce non dissolve le forme, ma le scolpisce. La prima maturità e l’isolamento Sentendosi sempre più incompreso, Cezanne scelse di tornare nei luoghi nativi. I contatti con i colleghi non cessarono del tutto, tuttavia preferì non partecipare più alle mostre impressioniste. Troncò anche i rapporti con Zola, che aveva scritto un libro incentrato su un pittore fallito perché incompreso dal pubblico e amici: si trattava, in buona sostanza, di un ritratto neanche troppo trasfigurato, dello stesso Cezanne. Nel Mezzogiorno francese, l'artista accentuò il carattere geometrico della composizione, così da raggiungere un'immagine che, sebbene ispirata dalla natura, superasse ogni evidenza fenomenica. Per il Cezanne della maturità, la pittura doveva concentrarsi sul suo stesso linguaggio, vale a dire sul sistema di rapporti e di equilibri tra parti e colori, tra volume e disegno: non l'arte dell'istante, ma qualcosa di classico, solido e durevole. PAUL CEZANNE “I GIOCATORI DI CARTE”, 1890-92, OLIO SU TELA 45x57, PARIGI D’ORSAY Nei primi anni ‘90 la situazione economica di Cezanne diventa finalmente più confortevole: la morte del padre, infatti, gli aveva garantito una cospicua eredità e inoltre un giovane, ma già molto abile, gallerista inizia ad acquistare il blocco la produzione, diventando in seguito il principale promotore. Fu allora che l'artista iniziò la serie dei giocatori di carte: due o più figure maschili sedute in un interno attorno ad un tavolo. L'iconografia non era certamente originale, specie per un pittore francese (scuola caravaggesca), tuttavia lui affrontava il tema in chiave nuova: non esaltava il carattere aneddotico e neppure insisteva sulla psicologia dei singoli attori, ma concentrava l'attenzione sull'aspetto spiccatamente formale. Quest’opera in particolare è un capolavoro di essenzialità: due uomini baffuti ritratti di profilo, con lo sguardo posato sulle carte. Tra loro manca ogni forma di comunicazione. La tavolozza autunnale è limitata ai toni degli ocra, dei gialli e dei rossi: nessun brusco passaggio, solo qualche tocco di bianco. A colpire maggiormente è però la composizione simmetrica organizzata in due metà quasi speculari: gli avambracci sul tavolo e le teste reclinate degli anonimi personaggi cadono sulle diagonali della tela e le loro mani sul centro. Inoltre un’altra caratteristica di Cezanne erano i piani inclinati perché non guarda la realtà così com’è, ma la rappresenta da diversi punti di vista. Questo sarà un punto di contatto fondamentale con i cubisti, Picasso in primis. Nonostante ciò, l'effetto finale non appare innaturalmente rigido. PAUL CEZANNE “NATURA MORTA CON TENDA E BROCCA A FIORI”, 1895, OLIO SU TELA 54x74, SAN PIETROBURGO Ma è soprattutto nelle nature morte che si comprende quanto rivoluzionaria sia stata la pittura di Cezanne, il quale accentua la ricchezza della composizione, l'intensità delle cromie. Frutti dalle tonalità calde, caraffe decorate con motivi floreali, piatti di ceramica, panneggi bianchi e broccati: composizioni sontuose, discendenti delle nature morte seicentesche. Eppure, le tele di Cezanne non possiedono nulla di tradizionale, al contrario. In “Natura morta con tenda e brocca a fiori” il nucleo principale è decentrato sulla destra, ma controbilanciato nella parte opposta dal massiccio panneggio. Il piano del tavolo è inclinato, anzi precipita vistosamente verso sinistra, mentre i piatti colmi di frutta sembrano scivolare. In un secondo momento, per bilanciare la composizione, Cézanne ha aggiunto sulla destra un panneggio, ma ne ha intenzionalmente lasciato incompleta l'esecuzione, cosicché lo spigolo del tavolo affiora in trasparenza. PAUL CEZANNE “MELE E ARANCE”, 1899, OLIO SU TELA 74x93, PARIGI D’ORSAY In “Mele e arance” tornano gli stessi frutti e oggetti con l'aggiunta di un'alzata, che risulta decisamente asimmetrica e il tavolo ha la prospettiva invertita. È come se l'artista avesse cambiato il punto di vista in corso d'opera, sovvertendo di conseguenza i più elementari principi usati nella rappresentazione dal Rinascimento in avanti. Lontani dall'essere semplici copie dal vero, quadri del genere ambiscono a indagare il sistema della pittura, dunque i suoi rapporti, le sue armonie e le sue regole interne. Il fatto di riprendere il soggetto da più punti di vista è forse anche perché probabilmente lo faceva concretamente, spostandosi in questo caso all’interno della stanza, ed è questo più di ogni altra cosa a far si che sia il “padre della modernità”. Questo aspetto nel ‘900 diventerà importantissimo e non solo dal punto di vista ottico (per i cubisti era importante indagare intellettualmente l’oggetti, aprendolo e guardandolo in tutte le superfici. In questo modo lo si studia in maniera più approfondita e dal punto di vista ottico), ma apre alle pratiche performative: all’idea di muoversi, dipingere in maniera fenomenologica. PAUL CEZANNE “LE GRANDI BAGNANTI”, 1898-1905, OLIO SU TELA 208x249, USA Tra le prove più clamorose della sua tarda maturità spicca quest'opera. Rimasta sul cavalletto fino alla scomparsa dell'artista, sconcerta per la capacità di sovvertire i termini di un genere iconografico assai diffuso nella Parigi di fine ‘800. Un folto gruppo di donne è radunato nei pressi di uno specchio d'acqua sovrastato da alberi imponenti: non è il senso di svago che ci si vuole rappresentare, ma pura forma, solidi che abitano uno spazio. Mai nessuno ancora aveva osato introdurre aberrazioni tanto evidenti: le nuche sono rimpicciolite, i bacini allargati a dismisura, torso e cosce e vertiginosamente allungati. Inoltre, tutte le fisionomie mancano di caratterizzazione: sono quasi identiche l’una all'altra. L'insieme però appare studiatissimo: gli altri tronchi flettono verso l'interno creando una grande cuspide vegetale, quasi si trattasse di un’immensa cattedrale gotica, che, in proporzioni ridotte, viene riproposta nei gesti delle bagnanti in primo piano. L'intera superficie è disseminata di porzioni non toccate dal pennello e dunque bianca, specialmente sulla dx, dove volti, braccia e natiche appaiono poco più che abbozzati: si pensa che Cezanne enfatizzasse la parte del corpo che gli interessava di più (ad esempio natiche e cosce della bagnante che si sta muovendo), lasciando abbozzato il resto. Le incoerenze anatomiche diventano quindi per lui fondamentali. Lontani dall'esprimere richiami sensuali, questi corpi petrosi e per nulla aggraziati non avrebbero tardato a fare scuola: Già l'anno successivo Pablo Picasso avrebbe dipinto Les demoiselles ((le demosèll)) d'Avignon, l'opera che inaugura il ‘900 artistico, portandosi negli occhi il grande maestro Cezanne. PAUL CEZANNE “LA MONTAGNA DI SAINTE-VICTORIE”, 1902-06, OLIO SU TELA 63x83, ZURIGO ((solo slide)) Anche Cezanne si cimenterà in una serie, dedicata alla montagna Sainte- Victoire ((san victuar)). Sono opere anche queste additive, costruttive, ma anche sfibrate: è evidente che non si vuole più negare che l’effetto della tridimensionalità della pittura è ricercato su una superficie piatta e bidimensionale. Quindi uno degli elementi fondamentali del post- impressionismo è quello di non mascherare più la tela e di dichiarare che si sta lavorando su una superficie piana (da Piero della Francesca in poi l’intendo era sempre stato quello di voler “sfondare” la tela, ovvero che su una superficie bidimensionale si potesse rappresentare un ambiente, un oggetto, in 3D). La stessa intenzione la troviamo in tante altre opere post-impressionisti, come ad esempio nelle Donne Bretoni di Bernard (amico sia di Gauguin che di Van Gogh) PAUL GAUGUIN “LA ORANA MARIA”, 1891, OLIO SU TELA 114x89, USA Con il nuovo decennio, Gauguin cambio ancora esistenza, stavolta trasferendosi a Tahiti, l'isola della Polinesia allora colonia francese, credendo che solo in un luogo come quello avrebbe potuto trovare quella naturalità fra l’uomo e l’ambiente che lo circonda. In quel luogo le condizioni di vita non erano di certo confortevoli, ma i quadri del periodo non lasciano trasparire alcun disagio: al contrario, esprimono uno stato di gioia e felicità. La Orano Maria, che in lingua maori significa Ave Maria, è il capolavoro del primo periodo tahitiano. Da questo momento i quadri di Gauguin presentarono spesso scritte evidenti, ovvero i titoli che l'autore apponeva in lingua francese o locale per connotare con più precisione nel senso dell'opera. In questo dipinto vediamo la descrizione di un mondo felice, governato dall'armonia fra uomo e natura: un paradiso terrestre. Ancora una volta un tema di ispirazione religiosa: la Vergine che regge il bambino avvicinata da due donne e un Angelo. I protagonisti hanno fisionomie e abiti locali, mentre l'ambientazione all'aperto. PAUL GAUGUIN “DA DOVE VENIAMO? CHI SIAMO? DOVE ANDIAMO?”, 1897, OLIO SU TELA 139x374 USA Questa è un'opera ambiziosa, non solo perché è la più grande da lui mai eseguita (quasi 4 m di lunghezza). Questo grande fregio dai colori notturni, affollato di figure e idoli esotici, è un'opera sulla condizione umana, un'opera filosofica sul ciclo della vita. Ecco come l'ha raccontata l'autore stesso. “A destra, in basso un bambino addormentato e tre donne sedute. Due figure vestite di porpora si confidano i loro pensieri. Un'enorme figura accovacciata che elude intenzionalmente le leggi della prospettiva guarda attonita le due donne che osano pensare al loro destino. Al centro una figura maschile (una delle pochissime dipinte da Gauguin) coglie un frutto (forse il frutto del peccato della tradizione cristiana, con cui l’artista è sempre stato molto ostile), due gatti accanto a un fanciullo, una capra bianca, un idolo che sembra additare l’aldilà. Una fanciulla seduta pare ascoltare l'idolo. Infine, una vecchia prossima la morte che sembra placata, abbandonata ai propri pensieri, completa la storia: ai suoi piedi uno strano uccello bianco che tiene una lucertola negli artigli, rappresenta la fertilità della parola. È quasi una pittura di storia ma dotata di un significato simbolico, con un sottotesto narrativo misterioso. La cosa curiosa è quest’opera si legge da dx (dal bambino) verso sx (la donna anziana), adottando la lettura del luogo dove si è inserito. I NABIS Nella Parigi di fine anni 80, prese vita una nuova compagine capace di declinare il Simbolismo in termini propri e originali: i Nabis, letteralmente “i profeti” in lingua ebraica (quasi un’odierna setta mistica), i cui modelli erano Gauguin, Van Gogh e Cézanne. Erano degli intellettuali “decadenti”, perché in qualche modo si erano allontanati dalla realtà sociale a loro intorno, ed usavano un linguaggio comprensibile solo a loro. Vivono ritirati, nonostante siano a Parigi. Ne facevano parte una dozzina di giovani, fra cui Sèrusier, Maurice Denis ((moris denì)) (che ne divenne la guida teorica) e Félix Vallotton ((felìx vallottòn)). Nabis erano una sorta di confraternita volta a perseguire un'idea di arte non limitata alla pittura, ma estesa ai vari ambiti della quotidianità: illustrazioni editoriali, disegni per le vetrate delle chiese, scenografie e costumi teatrali. Le opere erano riconoscibili per la bidimensionalità delle superfici, le atmosfere irreali, profondamente antinaturalistiche, per le superfici piatte e contornate da segno scuro, come nella tradizione medievale delle vetrate. “basta con la verosimiglianza, con le proporzioni, con le impressioni”. PAUL SERUSIER “PAESAGGIO DEL BOIS D’AMOUR A PONT-AVEN” O “IL TALISMANO”, 1888, OLIO SU TAVOLA 27x22, PARIGI D’ORSAY Nell'estate 1888 il giovane pittore Paul Serusier si trovava a Pont-Aven e qui, sotto gli insegnamenti di Gauguin, dipinse una piccola tavola en plein air: un paesaggio boschivo che ancora meraviglia per l'intensità del colore la stesura a larghe macchie. Gauguin ne aveva seguito passo passo da gestazione, suggerendogli di dipingere assegnando massimo risalto al colore puro. Tornato a Parigi, Sérusier mostrò l'opera agli amici, raccontando anche gli insegnamenti del maestro e costoro ne rimasero così entusiasti da voler ribattezzare l’opera: in quel quadro identificavano un vero insegnamento, l'inno alla libertà espressiva, l’emblema di tutto quanto il gruppo degli artisti chiamati Nabis. Sembrerebbe quasi un’opera astratta, che starebbe benissimo nel contesto statunitense degli anni ’50: riconoscere gli alberi, il fiume, il mulino sarebbe difficile senza conoscere il soggetto. MAURICE DENIS “APRILE”, 1892, OLIO SU TAVOLA 37x61 ((commento da slide simile, img da libro ma non c’è commento sul dipinto)). La sua è una pittura elegante, estremamente raffinata, che non ha più nulla a che vedere con i momenti di svago e divertimento rappresentati dagli impressionisti. Le figure sono quasi senza tempo, come l’intera opera, abbigliati con abiti che non seguono la moda del tempo. Denis non vuole rappresentare la realtà così com’è, l’età a lui contemporanea, ma è come se ne volesse estrarre un’idea, un simbolo. Il prato è diventato un tappeto decorato (siamo nell’epoca dell’art nouveau) e la tavolozza è molto delicata. FELIX VALLOTTON “DONNA CON CAMERIERA CHE FA IL BAGNO”, 1896, OLIO SU TELA 52x66 ((commento da slide simile, img da libro ma non c’è commento sul dipinto)). Gli espressionisti tedeschi si riferiranno moltissimo a questo artista e soprattutto alle sue rappresentazioni della donna, per la trasfigurazione delle anatomie del corpo. VINCENT VAN GOGH (1853-1890) I primi anni Vincent Van Gogh era figlio di un pastore. Dopo gli studi tecnici, aveva lavorato per una società di mercanti d'arte a Londra, l'Aia e Parigi. Nel 1877, una volta tornato in Olanda, si era dedicato per circa un anno alla teologia, diventando predicatore laico. Da autodidatta, iniziò ritraendo a carboncino il brullo paesaggio locale e copiando le opere di Millet. I suoi primi lavori prediligevano colori cupi, racchiusi entro un profilo rigidi quanto il filo di ferro: erano le prove di chi voleva rendere, senza attenuanti, i disagi di una vita di stenti e nel contempo stava faticosamente mettendo a punto la propria identità artistica. Quella prima fase di ricerca, come del resto la sua intera carriera, fu resa possibile dal sostegno del fratello Theo, mercante d'arte più giovane di quattro anni e figura cardine nella vita di Vincent. Era lui a confortarlo durante le crisi nervose che lo minavano sin dalla prima gioventù, a incoraggiarlo sulla via della pittura e a finanziarlo. I due intrattennero un fittissimo scambio epistolare, quasi 700 lettere. VINCENT VAN GOGH “I MANGIATORI DI PATATE”, 1885, OLIO SU TELA 81x114, AMSTERDAM VGM Un interno povero ma decoroso, unicamente illuminato dalla fioca luce di una lampada d'olio pendente dal soffitto. Attorno al tavolo una famiglia contadina si appresta a cenare: la donna più giovane spartisce un grande piatto di patate fumanti, quelle da loro stessi coltivate nei campi, la più anziana sulla dx scodella il caffè d'orzo, ingobbita dal duro lavoro. Le figure hanno mani nodose e volti segnati da rughe profonde, l'atmosfera e di silenzioso raccoglimento. Van Gogh aveva 32 anni ma, privo di un'effettiva educazione artistica, poteva ancora dirsi in pieno tirocinio pittorico. Quest'opera è il suo primo esito notevole, un quadro ambizioso per dimensioni e complessità, al quale era giunto dopo svariati studi e bozzetti preparatori. Se si tratta di un quadro importante è anche perché ne percepiamo tutta la sincerità: la scena è ritratta con sguardo partecipe, come se l'artista fosse stato il sesto invisibile commensale. La sua è una resa solenne, quasi monumentale: il manifesto del primo Van Gogh, un'artista convinto che la pittura debba assolvere un ruolo sociale e che per questo fa proprio l'aspro il linguaggio del realismo. Apprezzata da lui stesso sia nel presente, sia in futuro e il fatto di indicare come proprio capolavoro una prima opera è caratteristica dell’artista del ‘900: essa racchiude l’incipit e la fine di tutta la carriera. L'evoluzione stilistica era maturata proprio nella capitale francese nel 1886, quando rimase profondamente suggestionato da quadri impressionisti, e dove approfondì lo studio delle stampe giapponesi. L'arrivo a Parigi era coinciso inoltre con un evento importante, l'ultima mostra impressionista che aveva sancito la definitiva affermazione del puntinismo. Proprio quella pittura basata sulla stesura di piccoli tocchi di colore puro, aveva esercitato un ascendente fortissimo su van Gogh, ma il carattere freddamente scientifico della tecnica seuratiana non poteva venire condiviso in pieno da uno spirito sensibile come il suo. Infatti, la sua sarà una pennellata non puntiforme, ma tratteggiata. Per la sua indole scontrosa E per l'ostilità dei colleghi, tuttavia, non era mai riuscita a integrarsi veramente nell'ambiente artistico. E sebbene nell'arco di due anni avesse licenziato oltre 200 dipinti, pochi sembrarono effettivamente accorgersi della sua presenza. Tale ragione, unita alla sempre più forte attrazione per la luce del Sud, lo spinse a trasferirsi in Provenza, ad Ales. L’AFFICHE Negli ultimi due decenni dell'Ottocento, nella Belle époque, ci fu l'affermarsi della borghesia. Le donne smisero di indossare rigidi corsetti a favore di cappelli piumati e abiti dalle forme fascinanti, tali da esaltarne la femminilità. Gli uomini si abbandonarono a divertimenti spensierati frequentando i cabaret. Ma il nuovo stile di vita richiedeva anche nuove tecniche di comunicazione: una delle più diffuse fu quella del manifesto pubblicitario, in ambito parigino, noto come affiche. Se già dal 1845 l'invenzione della cromolitografia rese possibile affiancare al tradizionale bianco e nero litografico l'uso del rosso e del blu, fu solo a fine secolo con affinarsi delle tecniche di stampa e l'abbattimento dei costi di produzione, che la tiratura di cartelloni raggiunse numeri impressionanti. Le strade di Parigi ne vennero letteralmente tappezzate e in essi si promuovevano prodotti alla moda e nuovi divertimenti notturni. HENRI DE TOULOUSE-LAUTREC “MOULIN ROUGE: LA GOULUE”, 1891, LITOGRAFIA A PENNELLO E SPRUZZO 167x115, FRANCIA Toulouse-Lautrec ((tulùs lutrèc)) divenne il massimo interprete del genere: a lui si devono alcuni dei maggiori più sperimentali manifesti dell'epoca. Nonostante le nobili origini, la sua esistenza fu piuttosto tormentata, oppresso da una madre soffocante e fisicamente segnato da una dolorosa malformazione alle gambe. Dedicò uno dei suoi primi e celeberrimi manifesti al Moulin Rouge, cabaret aperto nel 1889. Semplificando al massimo le linee e colori, così da agevolarne la riproduzione, Toulouse-Lautrec fissò un passo della quadriglia naturalista, danza alla moda derivata dal can-can. Ad esibirsi fra la folla di spettatori profilati come ombre cinesi, vi sono due ballerini noti. Venne stampato a quattro colori (giallo, rosso, blu e nero), con scritte di reclame sovraimpresse. HENRI DE TOULOUSE-LAUTREC “AMBASSADEURS: ARISTIDE BRUANT”, 1892, LITOGRAFIA A PENNELLO E SPRUZZO 150x100 L'anno successivo Toulouse Lautrec affinò ulteriormente la tecnica in una affiche dedicata ad un amico cabarettista, dove vediamo l'uso circoscritto ai quattro colori tipografici, l'impaginazione asimmetrica tipica delle stampe giapponesi e tutta la formidabile modernità dell'artista. HENRI DE TOULOUSE-LAUTREC “AL MOULIN ROUGE”, 1892, OLIO SU TELA 123x141, USA Non solo un eccellente disegnatore, Toulouse-Lautrec fu anche un ottimo pittore, sodale di Van Gogh. In una delle sue opere più note, egli ritrasse sé stesso con il cugino mentre attraversavano la sala da ballo del Moulin Rouge. E quasi un ritratto di gruppo, dove incluse tutti gli amici che frequentavano abitualmente il cabaret, ma mostra anche l'apatia che vi regnava. La sensazione di inquietudine emanata dalla reciproca indifferenza dei personaggi è accentuata dalla figura in primo piano a dx: il volto della ballerina assume un pallore allucinato e un'espressione da mostruoso fantoccio. Se sui manifesti l'artista dava un'immagine affascinante della vita febbrile della Parigi notturna, sulla tela ne svela le molte contraddizioni. *Nella lezione inserisce anche Henri Rousseau, che nel libro è nelle Avanguardie George Seurat (1859-1891) • GEORGE SEURAT “BAGNO AD ASNIERES”, 1884, OLIO SU TELA 201x300, LONDRA • GEORGE SEURAT “UNA DOMENICA POMERIGGIO ALLA GRANDE JATTE”, 1883-85, OLIO SU TELA 207x308, USA Paul Signac • PAUL SIGNAC “LA COLAZIONE”, 1886, OLIO SU TELA 89x115, PAESI BASSI • PAUL SIGNAC “OPUS 217. RITRATTO DI FELIX FENEON”, 1891, OLIO SU TELA 73x92, NEW YORK Paul Cezanne (1839-1906) • PAUL CEZANNE “LA TENTAZIONE DI SANT’ANTONIO”, 1870, OLIO SU TELA 57x76, ZURIGO • PAUL CEZANNE “LA CASA DELL’IMPICCATO A AUVERS-SUR-OISE”, 1873, OLIO SU TELA 55x66, PARIGI D’ORSAY • PAUL CEZANNE “I GIOCATORI DI CARTE”, 1890-92, OLIO SU TELA 45x57, PARIGI D’ORSAY • PAUL CEZANNE “NATURA MORTA CON TENDA E BROCCA A FIORI”, 1895, OLIO SU TELA 54x74, SAN PIETROBURGO • PAUL CEZANNE “MELE E ARANCE”, 1899, OLIO SU TELA 74x93, PARIGI D’ORSAY • PAUL CEZANNE “LE GRANDI BAGNANTI”, 1898-1905, OLIO SU TELA 208x249, USA Paul Gauguin (1848-1903) • PAUL GAUGUIN “DOPO IL SERMONE (GIACOBBE CHE LOTTA CON L’ANGELO)”, 1888, OLIO SU TELA 74x93, SCOZIA • PAUL GAUGUIN “CAFFÈ DI NOTTE AD ARLES”, 1888, OLIO SU TELA 73x92, MOSCA • PAUL GAUGUIN “IL CRISTO GIALLO”, 1889, OLIO SU TELA 92x73, USA • PAUL GAUGUIN “LA ORANA MARIA”, 1891, OLIO SU TELA 114x89, USA • PAUL GAUGUIN “DA DOVE VENIAMO? CHI SIAMO? DOVE ANDIAMO?”, 1897, OLIO SU TELA 139x374 USA Vincent Van Gogh (1853-1890) • VINCENT VAN GOGH “I MANGIATORI DI PATATE”, 1885, OLIO SU TELA 81x114, AMSTERDAM VGM • VINCENT VAN GOGH “ORTI A MONTMARTRE:LA BUTTE MONTMARTRE”, 1887, OLIO SU TELA 86x120, AMSTERDAM • VINCENT VAN GOGH “IL CAFFE’ DI NOTTE”, 1888, OLIO SU TELA 72x92, USA • VINCENT VAN GOGH “LA CAMERA DA LETTO”, 1888, OLIO SU TELA 72x91, AMSTERDAM VGM • VINCENT VAN GOGH “NOTTE STELLATA”, 1889, OLIO SU TELA 73x92, NY • VINCENT VAN GOGH “CIELO STELLATO SUL RODANO”, 1888, OLIO SU TELA 72x92, D’ORSAY • VINCENT VAN GOGH “TERRAZZA DEL CAFFE’ LA SERA”, 1888, OLIO SU TELA 81x65 • VINCENT VAN GOGH “LA CHIESA DI AUVERS-SUR-OISE”, 1890, OLIO SU TELA 94x74, D’ORSAY • VINCENT VAN GOGH “RITRATTO DI PAUL GACHET”, 1890, OLIO SU TELA, D’ORSAY • VINCENT VAN GOGH “CAMPO DI GRANO CON VOLO DI CORVI”, 1890, OLIO SU TELA 50x103, VGM Henri de Toulouse-Lautrec. • HENRI DE TOULOUSE-LAUTREE “MOULIN ROUGE: LA GOULUE”, 1891, LITOGRAFIA A PENNELLO E SPRUZZO • HENRI DE TOULOUSE-LAUTREE “AMBASSADEURS: ARISTIDE BRUANT”, 1892, • HENRI DE TOULOUSE-LAUTREE “AL MOULIN ROUGE”, 1892, OLIO SU TELA 123x141, USA Altri_______________________ • PAUL SERUSIER “PAESAGGIO DEL BOIS D’AMOUR A PONT-AVEN” O “IL TALISMANO”, 1888, OLIO SU TAVOLA 27x22, PARIGI D’ORSAY • MAURICE DENIS “APRILE”, 1892, OLIO SU TAVOLA 37x61 • FELIX VALLOTTON “DONNA CON CAMERIERA CHE FA IL BAGNO”, 1896, OLIO SU TELA 52x66 IL SIMBOLISMO E LE SECESSIONI CAPITOLO 2: IL SIMBOLISMO FRANCESE Il Simbolismo incarnava i valori respinti dal Positivismo e per molti aspetti ne rappresentava l'antitesi: rifiutava l'apparenza delle cose, ne indagava l'aspetto misterioso e sotterraneo e si appellava alla mitologia, al sacro all'esoterismo. Emerso in Francia e presto diffusosi in tutta Europa, il Simbolismo si manifestò inizialmente in ambito letterario: oltre alle arti visive, finì poi per coinvolgere il teatro e la musica. Il Simbolismo ha il sapore del Decadentismo in letteratura, da Oscar Wilde a D’Annunzio, che si sono allontanati dalla società civile. La filosofia diventò di fatto uno stile di vita e di pensiero destinato a rimanere vitale sino al ‘900 inoltrato. Nacque nell'autunno del 1886, quando il poeta Jean Moréas ne pubblicò il manifesto sul supplemento letterario de Le Figaro. Gustave Moreau (1826-1898) GUSTAVE MOREAU “L’APPARIZIONE”, 1876, OLIO SU TELA 142x103, PARIGI Nella Reggia di Erode la testa appena decapitata di Giovanni Battista fa la propria orrifica apparizione. Si libera magicamente nell'aria sovrastando la principessa Salomè: è stata lei a chiederne il sacrificio, come premio per aver danzato al cospetto del re seduto sul trono nella penombra. Il nuovo testamento ha ispirato questa scena raccapricciante, ma già al primo sguardo si intende che il pittore non ha voluto dipingere un canonico quadro religioso. A meravigliare è anche l'esecuzione, tecnicamente insolita e ricercata: sembra una scenografia smaterializzata e priva di evidenza tridimensionale, i colori estesi a larghe campiture si contrappongono a un minuto calligrafismo dell'architettura e generano un contrasto straniante. Gustave Moreau ((gustav morò)) dipinse l'apparizione nel 1876, mentre Monet, Sisley e Renoir ingaggiavano la battaglia impressionista. Ma di impressionista in questa opera non c'è nulla: non il tema, non la tecnica, non la temperatura emotiva. Qui la pittura respinge ogni forma di realtà oggettivamente verificabile per assumere un carattere potentemente visionario. L'opera evoca un'atmosfera torbida, decisamente notturna, che stregò l'immaginario di scrittori contemporanei come Marcel Proust. L’immagine della femme fatale nasce in Europa, ma anche in Giappone, quando in contemporanea vediamo anche il movimento delle suffragette. Lo vediamo particolarmente in Germania, Francia ed Austria. Pierre Puvis de Chavannes (1824-1898) PIERRE PUVIS THE CHAVANNES “PACE”, 1861, OLIO SU TELA 108x148, USA Evadere dalla contemporaneità, rifugiandosi in un mondo idilliaco, fu esigenza di molti artisti di quell'epoca, tra cui Pierre Puvis de Chavannes ((puvì de sciavann)), il quale per l'intera carriera nutrì l’interesse per le dimensioni monumentali e l'opacità cromatica tipica dell'affresco, oltre che a frequentare importanti atelier come quello di Delacroix. Più volte rifiutato dal Salon parigino, nel 1861 l'artista riuscì finalmente a presentarvi i grandi pannelli della “Pace” e della “Guerra”. Figure scultoree, anatomicamente perfette ma lontane dagli stereotipi accademici e irrigidite entro contorni nettissimi. Stesure sintetiche, colori complementari, quasi stridenti tra loro. I dipinti dell'artista trentasettenne anticiparono i caratteri peculiari del suo stile maturo. Da allora Puvis de Chavannes sembrò procedere per sottrazioni, influenzando intere generazioni con tele sempre più essenziali. Max Klinger (1857-1920) MAX KLINGER “TRITONE E NEREIDE (LA SIRENA)”, 1895, OLIO SU TELA 100x183, FIRENZE Max Klinger si diplomò come pittore e incisore all'accademia di Belle Arti di Berlino. Pur dedicandosi soprattutto alla scultura policroma, Klinger elargì prove pittoriche di notevole intensità, mescolando mitologia ed erotismo. Ma fu specialmente l'attività grafica A fargli guadagnare visibilità. Fra 1878 e il 1915 egli realizzò 14 serie incisorie di matrice simbolista. L'artista era attratto dal tema della morte, sul quale compose due cicli di acqueforti: il primo si compone di 10 tavole che illustrano in termini didascalici il decesso di altrettanti personaggi, mentre lungo i margini del foglio corrono fregi allegorici sul loro destino ultraterreno. MAX KLINGER “FILOSOFO”, 1898, ACQUAFORTE SU CARTA 49x33; NEW YORK Il secondo ciclo costituiva invece una meditazione interiore sul tema. La terza tavola è il capolavoro di perizia tecnica e rappresenta la morte del Filosofo. Stagliandosi sopra una figura androgina e sullo scorcio di un paesaggio, un nudo eroico tende il braccio fino a toccare la propria immagine riflessa. Gli studiosi hanno individuato nel colosso la personificazione di Madre Natura e dunque dell'antagonismo fra la sensualità passiva e raziocinio attivo. Il protagonista può riconoscere la propria impotenza dinanzi all'enigma, riscattando così l'esistenza terrena. LA SECESSIONE DI MONACO Nell'ultima decade dell'Ottocento, nelle principali città di area tedesca emerse una radicale forma di insofferenza verso le istituzioni accademiche: Stanchi del naturalismo e desiderosi di emergere sulla scena in senso polemico, svariati giovani artisti iniziarono a separarsi dai raggruppamenti ufficiali fondando gruppi autonomi. A questo proposito, gli storici parlano di fenomeno delle secessioni a Monaco, Vienna e Berlino. La secessione di Monaco fu la prima in ordine cronologico e i suoi rappresentanti rifiutavano il Realismo di Courbet, accogliendo piuttosto la lezione simbolista di Böcklin. L'esito fu una pittura tenebrosa e ricca di rimandi colti. Gli innovatori ambivano in realtà a sostituirsi ai conservatori e ottenere un riconoscimento istituzionale tale da garantire loro una stabile autorità. Franz Von Stuck (1863-1928) FRANZ VON STUCK “IL PECCATO”, 1908, OLIO SU TELA 91x59, PALERMO Franz von Stuck condivise la fascinazione verso i soggetti mitologici e religiosi, esaltandone però il carattere sensuale. Quest'opera non va considerata come la traduzione in pittura delle colpe di Eva, ma la personificazione della femme fatale, della donna ammaliante tentatrice, spesso al centro delle opere simboliste. Eva non è più la donna tentata dal serpente, ma è essa stessa la tentatrice. L'artista, affronto il tema in almeno 11 varianti: in quest'ultima l’artista disegnò anche una sontuosa cornice dorata che trasforma l'opera in un piccolo altare. Il serpente avvolge il corpo della donna, generando un'impressionante continuità anatomica e cromatica, interrotta solo dal torso nudo inondato di luce. I due sembrano invitare l'osservatore a unirsi alla loro conturbante complicità, ma la carnagione della donna come l'oscurità nella quale siano calati, svela il carattere macabro del gioco. IL SIMBOLISMO NORDICO E LA SECESSIONE DI BERLINO Anche a Berlino gli artisti dell'ultima generazione si impegnarono a rompere i ponti con i polverosi ambienti accademici. La secessione berlinese affondava le proprie radici in un evento di sei anni prima: la mostra personale del pittore norvegese Edvard Munch. Le opere in apparenza non finite, le stesure pittoriche veloci e risentite, il disegno essenziale: tutto ciò aveva spinto i commentatori del tempo a esprimere giudizi severissimi. “Un insulto all'arte”, sostennero alcuni. Edvard Munch (1863-1944) Munch ricevette un'educazione rigidamente moralista e puritana, tipica dell'alta borghesia norvegese. Su incoraggiamento del padre, che ne aveva colto il precoce talent, nel 1879 si iscrisse ai corsi di ingegneria presso l’istituto tecnico, abbandonandolo pochi mesi dopo per intraprendere la carriera di pittore. A metà anni ‘80 l'artista rimase fortemente suggestionato dalle riflessioni del filosofo Kierkegaard: qualunque fosse il mezzo espressivo impiegato, sosteneva il pensatore esistenzialista, l'arte doveva offrire un'immagine alle esperienze e alle intime inquietudini dell'autore. EDVARD MUNCH “SERA SULLA VIA KARL JOHANN”, 1892, OLIO SU TELA 84x121, NORVEGIA Munch aveva 29 anni ed era appena tornato da un soggiorno a Parigi, quando nel 1892 dipinse “Sera sulla via Karl Johann”, uno dei quadri più emblematici della mostra berlinese. Il titolo si riferisce alle tradizionali passeggiate cittadine. Gli inquietanti protagonisti si distinguono a fatica fra loro, è come se indossassero delle maschere: occhi sbarrati e visi scarni li fanno assomigliare ad anonimi fantocci, anche se invece intendiamo con sicurezza l'estrazione sociale borghese, dai cappelli a cilindro e velette di raso. Il pallone dei volti, la dominante nera e l'ambientazione notturna conferiscono alla scena un'atmosfera spettrale: sembra di vedere quasi un corteo funebre. L'aria attonita e la reciproca indifferenza dei viandanti denunciano l'alienazione propria della moderna società cittadina. La solitaria figura di spalle sul lato destro della tela sembra accentuare questa condanna della contemporaneità: nel suo fiero distacco dal gruppo, gli storici hanno identificato un autoritratto dell'autore. EDVARD MUNCH “DANZA DELLA VITA”, 1892, OLIO SU TELA 125x191, OSLO La personale tenutasi nel 1892 fu un evento denso di conseguenze: sei anni dopo i membri della secessione di Berlino ne riconobbero il valore dirompente, identificando da allora nell'artista norvegese un vero e proprio modello. esattamente 10 anni dopo, fu rivolta all’artista la dovuta attenzione critica che i tedeschi lo omaggiano ancora con una nuova mostra. Ventidue tele dipinte nell'ultima decade, allestite una accanto all'altra e sigillate da una cornice bianca da lui stesso ideata. Vi figuravano non pochi capolavori, tra cui “Sera sulla Via Carl Johann”, “l'urlo” e “danza della vita”. Un tale allestimento mirava all'opera d'arte totale. Articolato su quattro pareti contigue, il fregio della vita sviluppava II temi importanti della poetica di Munch: il risveglio dell'amore, sviluppo e dissoluzione dell'amore, angoscia di vivere e morte. Il tutto diventava una sorta di confessione privata pubblicamente esibita: la rivelazione dei propri e più reconditi turbamenti interiori. Il linguaggio munchiano e la rappresentazione dell'angoscia provocata dalla realtà contemporanea avrebbero costituito un esempio irrinunciabile per i più giovani espressionisti. EDVARD MUNCH “LA BAMBINA MALATA”, 1886, OLIO SU TELA 119x118, OSLO Sino dalla gioventù, l'esistenza di Munch venne scandita da un'impressionante catena di lutti familiari (della madre e della sorella, il fratello e il padre e l'altra sorella in manicomio). Fu inevitabile che la morte diventasse una presenza assidua nei suoi quadri. “Non ero solo su quella sedia mentre dipingevo, erano seduti con me, tutti i miei cari”. L'artista licenziò il quadro nel 1885 dopo un soggiorno a Parigi: le lunghe sedute di studio al Louvre, come la conoscenza diretta dell'Impressionismo e del Simbolismo, avevano impresso un sensibile cambio di rotta al suo lavoro. Nelle sfilacciate pennellate verticali si può leggere l'influenza di Monet e di Toulouse-Lautrec. Nello strazio della madre, nello sguardo sfuggente della fanciulla, nella fusione delle loro mani va invece colta la dimensione simbolica della scena. L'artista avrebbe continuato a viaggiare in Francia, aggiornandosi costantemente sulle nuove tendenze. Cloisonnisme e Postimpressionismo, in particolare, costituirono sicuri punti di riferimento per il risalto conferito al colore e per la libertà delle scelte formali. EDVARD MUNCH “IL BACIO”, 1897, OLIO SU TELA 99x81, OSLO Munch respinse sempre l'idea del matrimonio: lo ossessionava l'idea di trasmettere a eventuali figli sia la cagionevole salute ereditata per via materna, sia i disturbi mentali di ascendenza paterna, e “Il bacio” testimonia bene una condizione tanto drammatica. Nonostante la grande finestra. domina l'oscurità: colta in un potente effetto di controluce, la coppia si abbandona un bacio di addio, corpi e volti si avvinghiano, fondendosi l'uno nell'altro. L'effusione non suscita tenerezza, ma tensione. Nell'abbraccio della donna si percepisce la volontà di trattenere a sé il compagno nella parte della scena più buia e misteriosa. Il dipinto appare ancora più perturbante al cospetto dell’analogo soggetto licenziato giusto un decennio dopo da Gustav Klimt “Il bacio” (1908). Anche questi due amanti sono in simbiosi, ma il completo abbandono dei corpi, la luce dorata, le teste coronate da fiori traducono il sentimento amoroso in una celebrazione della rinascita primaverile. Altri protagonisti del simbolismo nordico FERNAND KHNOPFF “LE CAREZZE (L’ARTE O LA SFINGE”, 1896, OLIO SU TELA 50x121, BRUXELLES L'artista era compatriota e collega di Ensor, ma diversamente da lui, proseguì un'ideale femminile dalle sembianze androgine, algido e dal carattere introspettivo. Questo è il suo dipinto più emblematico ed illustra un finale alternativo al mito greco di Edipo e la Sfinge: alla soluzione degli indovinelli da parte dell'eroe, la creatura dal corpo di leopardo, il volto femminile non si getta da dirupo ma si sottomette a lui carezzando, anche se sembra sul punto di cedere all'indole predatrice. Il paesaggio rende la scena ancora più funesta e Khnopff allude alla duplice natura della donna, capace di ammaliare dolcemente l'uomo e di ingannando fino alle peggiori conseguenze. FERDINAND HODLER “LA NOTTE”, 1890, OLIO SU TELA 116x299, SVIZZERA In uno scenario brullo, l'artista si raffigura svegliato nel cuore della notte da una presenza incombente: il fantasma della morte. Intorno a lui dormono coppie di uomini e donne nudi nei quali si riconoscono altri autoritratti e l'amante della sua vita. L'incubo di Holder diviene un monito universale al piacere carnale, non può che seguire il dolore estremo. LA SECESSIONE VIENNESE Come a Monaco, anche nella capitale dell'Impero austro-ungarico nasceva la secessione. I propositi del nuovo gruppo erano portare la vita artistica viennese in un rapporto vitale con l'evoluzione dell'arte estera e proporre delle esposizioni dal puro carattere artistico, libere dalle esigenze del mercato. Per quanto in conflitto con i cultori della tradizione accademica, i secessionisti stimolarono l’interesse degli ambienti ufficiali, premurosi di aggiornarsi sulle tendenze più attuali, e nel marzo del 1898 si inaugurò la prima mostra della secessione. L'evento riscosse un successo clamoroso: la strada della modernità poteva dirsi tracciata. ((Klimt è proprio il ponte teso fra la pittura accademica naturalistica di fine ‘800 e la modernità)) GUSTAV KLIMT “PALADE ATENA”, 1898, OLIO SU TELA 75x75, VIENNA Una donna schermata da elmo e corazza dorati, dallo sguardo magnetico, lunghi capelli rossi sciolti ai lati è identificata dalla scritta sulla cornice metallica “Pallade Atena”. Esposta da Klimt alla seconda mostra secessionista, l'opera impersonava gli ideali della nuova tendenza, diventandone presto l'emblema. Per soggetto, frontalità e taglio dell'immagine, riconosciamo un precedente nella “Pallade Atena” di Franz von Stuck. Anche l’Atena di Klimt si ammanta di simbologie: sullo sfondo, nello scontro tra Eracle e il Tritone, c’è l’illusione del conflitto tra l'uomo e la natura selvaggia. Alla solita Nike subentra un minuscolo nudo femminile con pube e capelli fulvi: si tratta della Nuda Veritas, che l'anno seguente Klimt avrebbe tradotto in un dipinto a olio di grande formato. Pallade Atena è l'emblema di ragione e verità, ma rappresenta anche la donna sensuale, un tema destinato a diventare centrale nella pittura klimtiana. I caratteri innovativi di Pallade Atena Contraddistingueranno molti dei futuri lavori secessionisti. Nominato Presidente nel 1897 e rimasto in carica sino al 1905, Klimt fu la personalità dominante della secessione: grazie al suo esempio, andò presto imponendosi uno stile secessionista i cui tratti risultano per molti versi assimilabili all’Art Nouveau. Attentissimi alla propria immagine pubblica, tra il 1898 e il 1903 i secessionisti pubblicarono la rivista Ver Sacrum (cioè primavera sacra), la quale si distinse anche per le inedite scelte grafiche che contribuirono a rinnovare l'editoria. Il suo formato quadrato, il rapporto nuovo e sperimentale tra testo e immagine, le decorazioni lineari ispirate a motivi floreali fecero di Ver Sacrum un'opera d'arte autonoma ed elegantissima. Decisero inoltre di fondare un proprio edificio funzionale all’allestimento espositivo ed estraneo allo stile eclettico che distingueva l'assetto urbanistico della città. Inaugurato nel novembre del 1898, dopo solo un anno di lavoro, il Palazzo della secessione fu realizzato. Anche Klimt collaborò alla progettazione iniziale, forse prevedendo la decorazione pittorica della facciata, poi ornata solo con un fregio floreale. Ma l'aspetto più originale del palazzo riguarda l'ambiente interno: unico, liberamente trasformabile grazie alle pareti mobili che consentivano di allestire lo spazio in base alla mostra in agenda e risultato fu la creazione di un tempio moderno per l'arte. Gustav Klimt (1862-1918)((messo nell’Espressionismo dal prof)) GUSTAV KLIMT “GIUDITTA I”, 1901, OLIO SU TELA 84x42, VIENNNA Nato in un sobborgo di Vienna da una famiglia di orafi incisori, a 15 anni fu iscritto alla Scuola d'Arte applicate del museo dell'arte dell'industria, distinguendosi nella pratica disegnativa e pittorica. Con la morte del fratello nel 1892, Klimt precipitò in una profonda crisi psicologica e creativa da cui ne sarebbe uscito solo tre anni dopo, orientando la propria ricerca verso temi e linguaggi marcatamente simbolisti. Affrontando il tema biblico di Giuditta, l'artista riprese il motivo della donna seduttrice e crudele che abbiamo già incontrato precedentemente in altre opere. Quella di Klimt, tuttavia, non emana perversione: diversamente dalla femme fatale dei colleghi, è un inno alla sensualità femminile. Giuditta ostenta tutta la propria conturbante bellezza: indossa un collare d'oro e gemme che, separando il viso dal resto del corpo, sembra alludere al gesto tragico appena compiuto di mozzare la testa al generale assiro. Lo sguardo languido, le labbra dischiuse, la nudità solo parzialmente celata, sono indice di un atteggiamento provocante, accentuato dalla visione dal basso. La naturalezza del ritratto e il gioco di velature, grazie al quale Klimt ottiene la trasparenza delle vesti, risultano impressionanti a fronte del paesaggio invece stilizzato sullo sfondo. Nell'opera, infine, l'autore approfondisce le scelte espressive già adottate nella Pallade Atena: disegnò la cornice in legno ornandola con motivi a spirale e usò abbondantemente l’oro. L'interesse di Klimt per il metallo prezioso aumento dopo il soggiorno a Ravenna del 1903, incantato dalla tecnica del mosaico e dall'uso dell'oro come mezzo per trasfigurare la realtà, tanto che questo periodo sarebbe stata battezzato dagli storici come “stagione aurea”. GUSTAV KLIMT “GIUDITTA II (SALOME’)”, 1909, OLIO SU TELA 178x45, VENEZIA Questo periodo si chiuse nel 1909, quando Klimt dipinse la seconda versione di Giuditta: di profilo, seminuda, l'eroina è costretta in un formato vertiginosamente allungato in cui l'oro è pressoché soppiantato dai toni neri e aranciati, così come dagli arabeschi che ne ornano vesti e capelli. Lo sguardo assente e la nervosa presa delle mani, ne tradiscono lo stato di tensione: una tensione erotica tale da trasformare la casta Giuditta nella libidinosa Salomè, titolo con il quale lo stesso Klimt indicò l'opera in svariati cataloghi. Giovanni Segantini (1858-1899) GIOVANNI SEGATINI “LE DUE MADRI”, 1889, OLIO SU TELA 157x280, MILANO Una madre è assopita su uno sgabello, regge il bimbo in grembo: al suo fianco una giovenca china sopra la mangiatoia e un vitellino che riposa a terra. Ambientata in una stalla di notte, la scena è illuminata dalla luce soffusa di una lampada che esalta i tratti gentili, quasi correggieschi, della donna. Il Trentino Giovanni Segantini espose Le due madri alla Triennale di Milano del 1891: al pari del collega Previati, dipinse attraverso tocchi rapidi sovrapposti direttamente sulla tela, rese universale il sentimento amorevole evocato dalle due genitrici nel ricovero e restituì il valore assoluto della maternità. Palese fin dal titolo, l'equivalenza tra la donna e la mucca, neonato e vitello, viene ulteriormente sottolineata dalla armonia cromatica e compositiva dell'insieme. A differenza della tela di Previati, l’opera venne però lodate dalla critica. Il legame con la realtà rimase centrale durante l'intera carriera di Segantini: ritratti e paesaggi colti dal vero diventavano pittura di idee. L'artista crebbe nel riformatorio di Milano, città dove successivamente frequentò i corsi di pittura all'Accademia di Brera. Anche nel suo caso fu decisivo l'incontro con Grubicy: la ricerca imperniata sul rapporto armonico tra uomo e natura e la preferenza rivolta ai soggetti contadini e pastorali, lo allontanarono dalla vita cittadina e si trasferì quindi in Brianza. GIOVANNI SEGATINI “LE CATTIVE MADRI”, 1894, OLIO SU TELA 105x200, VIENNA Nel 1889 uno scrittore pubblicò Nirvana, poema di sua invenzione, e Segantini si ispirò al testo per realizzare quattro dipinti e due disegni, oggi denominati nell'insieme “Ciclo del Nirvana”. Tra questi troviamo Le cattive madri, il quale inscena la redenzione delle donne lussuriose, ovvero di coloro che si abbandonarono all'atto sessuale per puro piacere, interrompendo la gravidanza e quindi sottraendosi al naturale istinto materno. Segantini trasformò il panorama innevato in uno straziante purgatorio, ma all'orizzonte il sorgere del sole prefigura la salvezza imminente. Secondo un pensiero al tempo molto diffuso e condiviso dagli ambienti simbolisti, infatti, lo scopo principale della donna rimaneva la cura domestica e filiale. Ma quest’opera documenta anche la maturazione stilistica dell'autore, avvertibile sia nella sapiente regia luministica, accentuata dalla polvere dorata mescolata ai pigmenti, sia all'audace contorsione della donna e dei rami, affine al linearismo tipico dell'Art Nouveau. Esposta a Milano nel 1894, l'opera ricevette giudizi negativi per il suo carattere intellettuale sofisticato. Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907) Il Divisionismo italiano percorse anche una linea di carattere sociale che mirava a illustrare le condizioni di vita e lavoro delle classi popolari e ne rivendicava un sostanziale miglioramento. Nato a Volpedo, in provincia di Alessandria, Giuseppe Pellizza fu il principale rappresentante di tale corrente. Studio all'Accademia di Brera ma, insoddisfatto degli insegnamenti, viaggiò nelle principali città d'arte italiane. A Firenze frequentò le lezioni di Fattori, stringendo legami con Silvestro Lega e Telemaco Signorini, che lo introdussero alla pittura di macchia e allo studio dal vero. GIUSEPPE PELLIZZA DA VOLPEDO “IL QUARTO STATO”, 1901, OLIO SU TELA 293x545, MILANO Tornato a Milano, Pellizza assistette alle ondate di scioperi brutalmente repressi negli anni ‘90. L'artista elaborò poi infatti svariati studi e dipinti che avevano per soggetto un'imponente marcia popolare: dagli “Ambasciatori della fame” del 1892, “Fiumana” del 1896, fino al bozzetto “Il cammino dei lavoratori”, la cui versione finale fu intitolata “Il quarto Stato”. Si parla di “socialismo umanitario”, che avrà effetto poi anche sul primo Futurismo: Pellizza parte da un contesto familiare che conosce, quello dei contadini di Volpedo, e lo trasfigura in un manifesto (un po’ come La Vertà che guida il popolo di Delacroix). L'opera riassume in immagine gli ideali socialisti di Pellizza e dunque l'auspicio di un'auto consapevolezza dei lavoratori che sapesse tradurre la lotta di classe in movimento di massa. Ambientato nel borgo nativo dell'autore, i volpedesi, avanzavano lentamente, quasi fossero consapevoli di poter finalmente raggiungere la tanto agognata giustizia sociale. Procedendo dall'ombra alla luce, il cammino verso il sole dell'avvenire è suggerito anche dalle scelte cromatiche, mentre la disposizione quasi semicircolare dei partecipanti ne suggerisce la mobilità. Le tre figure alla testa del corteo simboleggiano tanto l'unione delle forze lavoratrici quanto il significato proprio di ciascuna età dell'uomo: rinascita (la donna con il bambino), maturità (il giovane al centro), esperienza (anziano) e il gesto quasi oratorio che la madre proletaria fa con la sinistra dà al quadro il senso e le ambizioni di un manifesto politico. Altri protagonisti EMILIO LONGONI “ORATORE DELLO SCIOPERO”, 1891, OLIO SU TELA 193x134 Come Pellizza, anche il lombardo Emilio Longoni puntò a conciliare resa del vero, tecnica divisionista e celebrazione degli ideali socialisti: esposto insieme alle opere di Previati e Segantini alla Triennale di Milano del 1891, “Oratore dello sciopero” è la sua opera maggiore. Il contrasto fra gli abiti logori del protagonista e la ricchezza della città più moderna d'Italia, Milano, è lampante: tra i grandi palazzi sullo sfondo, il tram continuano la corsa, mentre la borghesia rimane indifferente agli scioperanti. ANGELO MORBELLI “IL NATALE DEI RIMASTI”, 1903, OLIO SU TELA 62x110, VENEZIA Alessandrino di nascita e formatosi presso l'Accademia di Brera, dove ebbe modo di conoscere segantini, Previati e Longoni, anche Angelo Morbelli fece dell'umanità umile, impotente, il perno del proprio lavoro. In quest'opera insiste sul desolante abbandono patito dagli ospiti del ricovero milanese: al freddo, senza affetti e reciprocamente indifferenti. Per questa e scene simili, Morbelli ricorse anche alla riproduzione fotografica, della quale accentuava gli effetti luminosi grazie a fitti tocchi di colori puri accostati sulla tela. CAPITOLO 3: LA SCULTURA FRA I DUE SECOLI Auguste Rodin (1840-1917) Augusto Rodin ((ougust roden)) è stato lo scultore più celebrato del suo tempo. Il suo percorso matura in parallelo all'impressionismo, in un momento (dopo la disfatta contro la Prussia nel 1870) in cui lo Stato francese incremento la committenza di monumenti pubblici per celebrare le glorie nazionali. E fu proprio lui ad assicurarsi molte di quelle commissioni pubbliche, per le quali utilizzo i materiali più vari (creta, gesso, bronzo e marmo). Nato a Parigi nel 1840, Rodin studiò alla Scuola imperiale speciale di disegno e matematica e già durante la formazione sviluppo un'ammirazione profondissima per Michelangelo. Intrapresa in seguito un lungo viaggio in Italia, dove comprese come la potenza delle sculture michelangiolesche non dipendesse unicamente dalle proporzioni gigantesche o dalle muscolature esagerate, quanto dalle continue tensioni provocate dalle singole parti. Fu questo insegnamento del “gran mago” (così Rodin chiamava Michelangelo) a potenziare la sua naturale propensione per l'espressività del corpo umano. È alla luce di una tale consapevolezza che va letta l'affermazione spesso ripetuta dall'artista “la scultura moderna deve esagerare, da un punto di vista morale, le forme”: movimento dei muscoli, dunque opposto alla olimpica stabilità della scultura greca classica. AUGUSTE RODIN “L’ETA’ DEL BRONZO”, 1877, BRONZO H182, NEW YORK Tornato dal soggiorno italiano nel 1876, Rodin lavorò a un nudo maschile, probabilmente iniziato prima della partenza. Si tratta di un'opera ambiziosa, dove la figura umana viene ritratta per intero e a grandezza naturale. L'età del bronzo è un atletico personaggio maschile, nudo, colto in un gesto che non sapremo dire se di muta disperazione o di risveglio dal torpore. L'artista si servì di un soldato di 22 anni come modello e non di un professionista, poiché questi al suo parere gli avrebbe offerto pose convenzionali o accademiche. Forse va scorto un riflesso dallo Schiavo morente di Michelangelo, conservato al Louvre, ma la scultura di Rodin non sembra alludere a nulla se non a un corpo che si esibisce in tutta la sua fisicità. Quest'opera suscitò scandalo e i critici si dissero disarmati da tutta la verosimiglianza anatomica, tanto da accusarlo di plagio, ovvero di essersi servito di un calco di gesso direttamente eseguito sul corpo del modello. Effettivamente lui non prenderà il calco dei suoi modelli, ma delle sue stesse opere. Superato il fraintendimento, L'età del bronzo finalmente accreditò l'artista sulla scena parigina. AUGUSTE RODIN “LA PORTA DELL’INFERNO”, 1880-1917, BRONZO 636x401x84, USA Il 1880 corrispose ad un vero spartiacque nella carriera di Rodin, la sua fama crebbe notevolmente e la commissione di una porta monumentale destinata a nascituro museo di arti decorative rimane il segno più tangibile del suo nuovo status. Il museo in realtà non sarebbe mai stato costruito (al suo posto venne edificata la stazione ferroviaria d’Orsay, che oggi trasformata in museo, raccoglie maggiori capolavori della pittura impressionista) e l'iniziale tempo di esecuzione della porta monumentale, stimato in tre anni, si sarebbe dilatato dismisura per quasi tre decadi, sino alla morte dell'artista nel 1917. Rodin non riuscì a vedere la fusione in bronzo che venne realizzata proprio in quell'anno, mentre in seguito ne furono ricavate ben 5 versioni, oggi sparse in tutto il mondo. Inizialmente il progetto prevedeva una partizione ordinata dei settori (come quella dei Ghiberti, la Porta del Paradiso, nel Battistero di Firenze): alla fine essa appare come una cascata di corpi intrecciati tra loro, gruppi di figure che spesso escono a tutto tondo dal piano, creando una superficie dall'incredibile dinamicità in cui l'occhio fatica a individuare un centro. Se la porta fosse stata poi davvero utilizzata, forse sarebbe stato difficile anche aprirla. In questo modo Rodin conciliava la forza e l'intensità delle anatomie michelangiolesche con l'epica proprio della prima cantica dantesca. Altri______________________ • GUSTAVE MOREAU “L’APPARIZIONE”, 1876, OLIO SU TELA 142x103, PARIGI • PIERRE PUVIS THE CHAVANNES “PACE”, 1861, OLIO SU TELA 108x148, USA • PIERRE PUVIS THE CHAVANNES “FANCIULLE IN RIVA AL MARE”, 1879, OLIO SU TELA 205x154, PARIGI D’ORSAY • ODILON REDON “GLI OCCHI CHIUSI”, 1890, OLIO SU TELA FISSATA SU CARTONE 44x36, LOUVRE • ARNOLD BOCKLIN “L’ISOLA DEI MORTI”, 1880, OLIO SU TELA 110x156, SVIZZERA • MAX KLINGER “FILOSOFO”, 1898, ACQUAFORTE SU CARTA 49x33; NEW YORK • FRANZ VON STUCK “IL PECCATO”, 1908, OLIO SU TELA 91x59, PALERMO • EMILIO LONGONI “ORATORE DELLO SCIOPERO”, 1891, OLIO SU TELA 193x134 • ANGELO MORBELLI “IL NATALE DEI RIMASTI”, 1903, OLIO SU TELA 62x110, VENEZIA Edvard Munch (1863-1944) • EDVARD MUNCH “SERA SULLA VIA KARL JOHANN”, 1892, OLIO SU TELA 84x121, NORVEGIA • EDVARD MUNCH “DANZA DELLA VITA”, 1892, OLIO SU TELA 125x191, OSLO • EDVARD MUNCH “LA BAMBINA MALATA”, 1886, OLIO SU TELA 119x118, OSLO • EDVARD MUNCH “IL BACIO”, 1897, OLIO SU TELA 99x81, OSLO • EDVARD MUNCH “L’URLO”, 1893, OLIO, TEMPERA E PASTELLO SU CARTONE 91x73, OSLO • EDVARD MUNCH “ANGOSCIA”, 1894, OLIO SU TELA 94x74, OSLO • EDVARD MUNCH “AUTORITRATTO TRA L’OROLOGIO E IL LETTO”, 1943, OLIO SU TELA 149x120, OSLO James Ensor (1860-1949) • JAMES ENSOR “LE MASCHERE SCANDALIZZATE”, 1883, OLIO SU TELA 135x112, BRUXELLES • JAMES ENSOR “L’ENTRATA DI CRISTO A BRUXELLES NEL 1889”, 1888, OLIO SU TELA 252x430, USA Gustav Klimt (1862-1918) • GUSTAV KLIMT “PALADE ATENA”, 1898, OLIO SU TELA 75x75, VIENNA • GUSTAV KLIMT “GIUDITTA I”, 1901, OLIO SU TELA 84x42, VIENNNA • GUSTAV KLIMT “GIUDITTA II (SALOME’)”, 1909, OLIO SU TELA 178x45, VENEZIA • GUSTAV KLIMT “L’ANELITO ALLA FELICITA’”, DA “FREGIO DI BEETHOVEN”, 1902, TECNICA MISTA SU INTONACO 220x2400, VIENNA • GUSTAV KLIMT “L’OSTILITA’ DELLE FORZA AVVERSE”, DA “FREGIO DI BEETHOVEN • GUSTAV KLIMT “INNO ALLA GIOIA E GLI AMANTI”, DA “FREGIO DI BEETHOVEN • GUSTAV KLIMT “RITRATTO DI FRITZA RIEDLER” 1906, OLIO SU TELA 153x133, VENEZIA Gaetano Previati (1852-1920) • GAETANO PREVIATI “MATERNITA’”, 1891, OLIO SU TELA 174x411, NOVARA • GAETANO PREVIATI “TRITTICO DEL GIORNO”, 1907, OLIO SU TELA, MILANO Giovanni Segantini (1858-1899) • GIOVANNI SEGATINI “LE DUE MADRI”, 1889, OLIO SU TELA 157x280, MILANO • GIOVANNI SEGATINI “LE CATTIVE MADRI”, 1894, OLIO SU TELA 105x200, VIENNA Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907) • GIUSEPPE PELLIZZA DA VOLPEDO “IL QUARTO STATO”, 1901, OLIO SU TELA 293x545, MILANO Auguste Rodin (1840-1917) • AUGUSTE RODIN “L’ETA’ DEL BRONZO”, 1877, BRONZO H182, NEW YORK • AUGUSTE RODIN “LA PORTA DELL’INFERNO”, 1880-1917, BRONZO 636x401x84, USA • AUGUSTE RODIN “LE TRE OMBRE”, PARTICOLARE DE “LA PORTA DELL’INFERNO”, 1880-1917 • AUGUSTE RODIN “IL PENSATORE”, 1880-1910, BRONZO H70, USA Medardo Rosso (1858-1928) ((non fatto a lezione)) • MEDARDO ROSSO “LA PORTNAIA”, 1883, CERA H39 • MEDARDO ROSSO “L’HOMME DES COURSES”, 1894, CERA 44x33x35, NEW YORK L’ETA’ DELLE AVANGUARDIE Lineamenti storici Nell'Europa del primo ‘900, agli effetti benefici della seconda rivoluzione industriale, innovazione tecnologica e aumento della ricchezza, si accompagna la formazione di movimenti nazionalisti che generano tensioni destinate a sfociare nella Grande guerra. Il mondo dell'arte del primo ‘900 in Europa fece un grande balzo in avanti grazie alle cosiddette avanguardie, ma non fu solo l'ambito artistico a essere coinvolto in una straordinaria accelerazione tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del secolo successivo: infatti, si verificò la cosiddetta seconda rivoluzione industriale, che coincise con straordinarie innovazioni (la diffusione dell'energia idroelettrica, il telegrafo senza fili, l'adozione di nuovi sistemi di trasporto di uomini e merci). Ne derivarono un considerevole aumento della ricchezza e un altrettanta significativa crescita demografica, in particolare nelle grandi città. Il bisogno di espandere la produzione di merci indusse diverse nazioni a conquistare nuovi territori, anche alla ricerca delle necessarie materie prime. Ecco allora il fenomeno del colonialismo ed insieme la diffusione di movimenti nazionalisti che esaltano la patria, a partire da teorizzazione di tipo etnico e razziale. E forse non è un caso che anche nell'ambito artistico si imponga un termine tecnico di origine militare: avanguardia è infatti il reparto di soldati che precede una colonna per evitare l'attacco a sorpresa delle truppe nemiche. Dai primi anni del ‘900 il sostantivo identifica anche le più aggiornate esperienze artistiche, volte a rompere con il flusso corrente. Nell'Europa di inizio secolo essere innovativi significa soprattutto reagire all'Impressionismo, il quale appare invece talmente penetrato negli occhi e nelle case dei contemporanei da essere ormai arte ufficiale. Questo, d'altro canto, sarà il destino di ogni avanguardia: appena si diffonderà, verrà accolta dalla maggioranza, smetterà di essere tale e perderà di ogni forza. Espressionismo, Cubismo, Futurismo, Astrattismo, Dadaismo sono le avanguardie storiche, distinguendosi dalle neoavanguardie maturate molto dopo. Tutte le avanguardie che si sono rincorse dal 1905 alle soglie della Grande Guerra si sono alternate l'una all'altra, oppure hanno convissuto tra loro all'insegna di quella formidabile varietà di indirizzi estetici già incontrata alla fine del XIX secolo. Per quanto l'influenza sia stata reciproca, ciascuna ha però seguito strade diverse. Se continuiamo ad avvertire la totalità di quelle esperienze, è anche perché in molti casi esse si sono allargate al piano esistenziale: i loro esponenti, i futuristi su tutti, professavano la simbiosi tra arte e vita, cercando nuove forme di comportamento, stili di vita basati su valori estranei a quelli borghesi. Doveva uscirne trasformato non solo il loro ristretto ceto intellettuale, ma la società intera. Pubblicati su quotidiani e riviste specializzate, i manifesti delle avanguardie furono veri e proprie dichiarazioni di programma ed i toni di quei documenti impressionano ancora oggi, per una veemenza che di norma sconfina nell'aggressività. Chiudere con una traduzione nella quale ormai ci si riconosceva a fatica è stata una priorità delle avanguardie storiche, eppure sarebbe riduttivo e un po’ superficiale leggerle solo come una brusca interruzione rispetto a quanto le ha precedute. Picasso, Matisse, Boccioni, Kandinsky e i loro colleghi hanno mantenuto un continuo dialogo con il passato, sia con il passato recente che quello che indietreggiava fino alle antiche civiltà mediterranee. Proiezione nel futuro, in contemplazione del passato: per quanto suonino inconciliabili tra loro, sono ideali condivisi dagli artisti d'avanguardia. In queste vicende Parigi ha avuto un ruolo centrale: la città manteneva il primato guadagnato già a inizio ‘800e, sino alla Seconda guerra mondiale, rimarrà un confronto obbligato anche per le non poche novità che contemporaneamente avanzavano nelle altre capitali europee (come Milano, Roma, Berlino, Dresda, Monaco, Londra, Mosca). A partire dal 1900, l'anno della Grande Esposizione Universale, pittori e scultori da tutta Europa vi emigravano per completare la loro formazione, misurarsi con le ultime novità oppure con l'intento di stabilirvisi e aprire un proprio studio. Parigi li attirava per svariate ragioni: c'erano il Louvre e gli altri musei e inoltre esisteva un ambiente culturale che negli anni aveva maturato la sensibilità per capire e promuovere le più aggiornate invenzioni artistiche. Inoltre, due neonati Salons contribuivano a svalutare il ruolo delle mostre ufficiali: si trattava del Salon degli Indipendants, fondato nel 1894, e del Salon d'Automne, nato nel 1903. Proprio queste sedi ospitarono molte delle più clamorose novità di inizio secolo. CAPITOLO 5: L’ESPRESSIONISMO “L'espressionismo è l’arte che vede con gli occhi dello spirito, cioè ritorna all'uomo, al suo io più intimo. È il predominio assoluto del sentimento come fattore etico e creativo”. L'Espressionismo in ordine di tempo, infatti, è la prima corrente d'avanguardia nella pittura europea: nacque attorno al 1905 e rimase vitale fino alle soglie della 1GM. Andò imponendosi in Francia, in Germania, ma ben presto si allargò anche ad altri paesi. Più che un movimento, fu un clima, una una comune forma di linguaggio e anche per questo l'arte figurativa è solo una delle discipline nella quale ha preso corpo: troviamo infatti un Espressionismo letterario, teatrale e cinematografico. Una spiegazione un po’ abusata ma efficace, lo legge in opposizione all’Impressionismo, dove le immagini si imprimono sulla retina, giungono al cervello e vengono tradotte sulla tela con pennellate colorate e un approccio quasi scientifico al vedere. L'Espressionismo, invece, muove in direzione contraria: si fonda sulla proiezione all'esterno di un contenuto interiore, rivendica un allontanamento dalla visione oggettiva. Quanto si palesa agli occhi non va rappresentato, ma interpretato, la realtà deve essere creata da noi. L'artista non vede ma guarda, non rappresenta ma vive, non riproduce ma plasma, non prende ma cerca. Sparisce l'individuo: vi è la creatura la cui esistenza è regolata non dalla meschina legge della logica, ma dalla grandiosa unità di misura del suo sentimento. Ma come dare veste di immagine a tutto ciò? Gli esiti variano notevolmente in relazione ai singoli autori, come pure ai luoghi di attività, ma tra tante differenze alcuni punti rimangono però costanti. Il colore prima di tutto guadagna una centralità indiscussa, diventa acceso e brillante, innescando un impatto violento nell'occhio dell'osservatore. E poi la linea non si limita alla stilizzazione, ma tende a deformare figure e ambienti, così da suggerire una spazialità instabile. Poi il rifiuto del chiaroscuro tradizionale, unito al disinteresse per le secolari leggi prospettiche, crea composizioni dall'atmosfera febbrile e pulsante. Si aspira a un ritorno alla civiltà libera e primigenia. Anche per questo gli espressionisti si consorziano tra loro piccole comunità, spesso trascorrendo lunghi periodi lontano dalle metropoli come Parigi e Berlino. HENRI MATISSE “NUDO BLU”, 1907, OLIO SU TELA 92x140, USA Ciò però non riuscì a scalfire la fiducia di Matisse in se stesso, il quale continuava la via della sperimentazione: rimaneva in cerca di uno stile capace di identificarlo e sul quale assestare l'intera ricerca a venire. Uno stesso tema poteva essere svolto in una duplice versione, così da assaggiare registri pittorici tra loro antitetici. Ed è proprio la continua tensione sperimentale a fare di Matisse un apripista nella Parigi di inizio secolo. Quando attorno al 1907 i modi Fauve erano ormai superati, lui iniziò a misurarsi sempre più con la figura umana: voleva raggiungere una resa del corpo nuova, decisamente anticonvenzionale, e capì che occorreva indagarne la struttura in profondità. HENRI MATISSE “NUDO DISTESO I”, 1907, BRONZO 35x50x28, PARIGI Ricorse anche alla terza dimensione, realizzando un piccolo bronzo destinato a fungergli da modello davanti al cavalletto. Si trattava di un nudo femminile coricato, dalla posa manierista e dall'anatomia decisamente enfatizzata. Tradotte sulla tela, la scultura sarebbe apparsa in molti dipinti al fianco di affollate nature morte o ingigantita in carne e ossa nel mezzo di un paesaggio esotico. Fu allora che Matisse raggiunse un'essenzialità ancora sconosciuta sulla scena parigina. HENRI MATISSE “LA DANZA” -”LA MUSICA”, 1910, OLIO SU TELA 260x390, SAN PIETROBURGO La danza e La musica rappresentano i vertici di questo periodo: grandi scene corali dove giovani orgogliosi della propria nudità vivono in armonia con la natura. Ancora una volta Matisse ci parla di un'umanità senza drammi, pacificata con se stessa e con l'ambiente che lo ospita. Ora però tutto è ridotto al minimo, quasi azzerato: difficile immaginare figure più essenziali di queste e l’artista pare lavorare per distillazione, limitando la palette cromatica. Che siano presenze mitiche, i primi abitanti del pianeta? Matisse ha suggerito una condizione ancestrale incontaminata dell'esistenza e la resa spaziale pittorica avviene di conseguenza: manca ogni profondità, non c'è atmosfera, i corpi sembrano prima ritagliati e poi incollati sulla superficie. Vi sono appena tre colori: arancione per le epidermidi, verde il prato, oltremare il cielo (+ il nero), e sono saturi e senza sfumature. Come la Gioia di vivere, anche qui le dimensioni delle tele sono enormi e, ne La danza, ritorna il girotondo presente nel dipinto: siamo a distanza di circa tre anni e ne La gioia di vivere l’atmosfera è comunque gioiosa, ariosa, mentre ne La danza l’effetto è contrario, denso, chiuso. La musica invece è un quadro più statico. Dal punto di vista stilistico, la secchezza di risorse e strumenti deriva dalla scelta di Matisse di virare verso opere grafiche: lavorare con la pittura come se stesse lavvorando su carta o litografia (influenza Toulose- Lautrec). Gli stessi colori sono quelli usati in litografia. ESPRESSIONISMO TEDESCO Die Brucke ERNST LUDWIG KIRCHNER “MANIFESTO DIE BRUCKE”, 1906, XILOGRAFIA, NEW YORK A Dresda nella primavera del 1906 un gruppo di ventenni noto come Die Brucke pubblicò un manifesto. Il nome del gruppo, Die Brucke ((die brucke)) suona emblematico: significa “il ponte” e alludere al bisogno di promuovere l'unione tra gli esordienti insoddisfatti del gusto dominante. Ma significava anche porsi idealmente sotto l'ala del filosofo più influente di quelle generazioni, Nietzsche: “la grandezza dell'uomo sta nel suo essere un ponte, non un fine”, aveva infatti spiegato il filosofo in un aforisma di Così parlò Zarathustra. Ernst Ludwig Kirchner ((ern liudvig kirkner)) fu l’autore materiale del manifesto e divenne la personalità dominante. Tutti i giovani del gruppo arrivavano dalla facoltà di architettura di di Dresda. Per quanto decentrata rispetto ai grandi eventi internazionali, la Dresda di inizio ‘900 era già stata toccata dalla modernità: si potevano trovare alcune tra le migliori litografie di Toulouse-Lautrec, mentre furono organizzate ampie collettive dedicate alla pittura francese dagli Impressionisti ai Fauves. A fronte di tanti stimoli, gli artisti della Brucke iniziarono a riconoscersi sempre più in un'arte estranea a ogni accademismo. Vagheggiano un passato mitico incorrotto della modernità tecnologica, in pieno accordo con la natura. Sulla tela i loro ideali si esprimevano con una pittura spontanea, impetuosa, senza dettagli: stese con vigorose pennellate, i colori venivano combinati cercando contrasti dissonanti, e il più delle volte un segno scuro rigido, snodato quanto un filo di ferro, interveniva a sigillare i profili. Opere di questo genere non desideravano compiacere l'osservatore, piuttosto lo volevano provocare. ERNST LUDWIG KIRCHNER “MARCELLA”, 1909, OLIO SU TELA 71x61, STOCCOLMA La pittura dell'Espressionismo tedesco appare infatti meno attenta alla tecnica, è più concentrata sul soggetto. Ciò che subito la distingue e la spiccata dimensione esistenziale: ci suggerisce stati di ccontinua tensione, ci parla di rapporti emotivamente irrisolti, evocano situazioni ambigue al limite dell'indicibile. Questa vena drammatica manca, o comunque non appare così spinta, nei protagonisti francesi: se i quadri Fauves emanano una gioiosa vitalità, quelli della Brucke diventano il manifesto dell'angoscia. Non a caso i loro modelli vanno cercati tra quanti nel passato recente avevano richiamato la difficoltà di vivere, quindi Munch, Ensor e Van Gogh. Gli studiosi su questo punto chiamarono in causa il differente sviluppo socio economico dei due paesi: in Germania il processo di industrializzazione e urbanizzazione era maturato più tardi rispetto alla Francia, ma con ritmi accelerati, quasi convulsi. E non ci fu il fenomeno Impressionista, tantomeno quello Postimpressionista: piuttosto trovò larga fortuna il Simbolismo segnato da una carica drammaticamente esistenziale. L’espressione a cui ci riferiamo quando parliamo del Die Brucke è quella di una trasposizione del malessere e della condizione emotiva interiore nella rappresentazione del paesaggio (urbano o agreste). ERNST LUDWIG KIRCHNER “PANNELLO PUBBLICITARIO PER UNA MOSTRA DELLA BRUCKE”, 1910, XILOGRAFIA 90x60, VIENNA Prima della pubblicazione del manifesto, il gruppo preferì cimentarsi soprattutto con opere di grafica, specie con le xilografie. Si trattava di una scelta piena di significato, un modo per evocare le proprie origini identitarie, nobili e popolari insieme (infatti, la xilografia è tipicamente nordica). Kirchner disse: “l’esigenza che spinge l'artista verso l'Incisione è forse quella di conferire al contorno, di per sé straordinariamente vago, caratteri definitivi e inequivocabili”. Quel lungo tirocinio grafico ha avuto ricadute notevoli sulla pittura espressionista: il segno nero che profila le figure è talmente invasivo da far sembrare l'insieme una xilografia clorata. Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938) Tra i pittori della Brucke, andrò presto instaurandosi un'ideologia comunitaria volta a superare i confini fra professione ed esistenza. Oltre a dipingere insieme con i cavalletti davanti a uno stesso soggetto, Kirchner e i suoi si intrattenevano nella lettura di poesie, commentandole poi animatamente, e si trovavano in un atelier affittato nello storico quartiere di Berlino. L'Atelier ospitava giovani modelle, mai professioniste ma amiche, chiamate per posare da sole o in coppia. Li si sperimentavano comportamenti alternativi, disinibiti e decisamente sconvenienti per la classe borghese. ERNST LUDWIG KIRCHNER “AUTORITRATTO CON MODELLA”, 1910, OLIO SU TELA 150x100, AMBURGO Nel clima informale, i ruoli si confondevano e tutto poteva diventare arte anche se sulla tela, per la verità, non rimaneva segno di tanta spensieratezza: piuttosto l'atmosfera era incline verso qualcosa di torbido, come bene esemplifica un dipinto dello stesso Kirchner. I colori sono vividi, solari, al limite dell' accecante. Eppure l'incomunicabilità sembra la protagonista. Ritto in piedi in primo piano, armato di tavolozza e pennello, l'artista indossa un ampio camice e volta alle spalle alla giovane modella, concentrandosi sul quadro in gestazione che dobbiamo immaginare su un cavalletto escluso dalla visuale. Le fisionomie mancano di espressione, non tradiscono sentimenti: per quanto invisibile, il muro che separa le due figure è comunque tangibile.Se abbiamo visto quanto fossero state importanti le stampe giapponesi per gli impressionisti, ora vediamo invece l’influenza dell’Africa in un nuovo modo di intendere i tratti fisionomici e di intendere la figura umana. Era visto anche come un modo per evadere dalle tradizioni accademiche. ERICH HECKEL “BAGNANTI AL LAGO”, 1910, OLIO SU TELA 87x93, OSLO ERNST LUDWIG KIRCHNER “NUDI CHE GIOCANO SOTTO UN ALBERO”, 1910, OLIO SU TELA, L'iconografia della Brucke non si limita però alle claustrofobiche scene d'interno, al contrario, gli artisti hanno fatto del paesaggio, e più ancora della figura in un paesaggio, un tema frequente. Anche queste non sono scene di fantasia: ritraggono l'esperienza di alcuni giovani pittori che insieme a coetanei, si allontanano dalla città per ristorarsi. Di quelle uscite, rimane memorabile l'estate del 1910 trascorsa su un lago a circa 30 km dal Dresda: “vivevamo in assoluta armonia, lavoravamo e facevamo il bagno”. All'aperto, lontani dalla città, Heckel ((eckel)), Pechstein e Kirchner raggiunsero un'impressionante consonanza attivistica. Questi dipinti ci raccontano proprio l’alba del movimento Die Brucke. MAX PECHSTEIN “PLEIN AIR”, 1910, OLIO SU TELA 70x80, GERMANIA Pechstein ((pesctain)) con pennellate fulminee ha trascritto la scena in termini tutti emotivi: ai margini di una radura, coperti da una penombra minacciosa, vediamo sei nudi dalle anatomie puntute e dall'epidermide aranciate come ustionate dal sole. È una scena di svago, non accadono i drammi, eppure manca ogni leggerezza. E come se l'artista avesse guardato a Matisse con il deliberato scopo di capovolgerne l'armonia: i suoi paradisi terrestri hanno subito un'inversione e, da ameni che erano, son diventati luoghi carichi di tensione. EGON SCHIELE “AUTORITRATTO NUDO”, 1910, ACQUARELLO SU CARTA 55x36, VIENNA È stato però la figura umana al centro dei suoi interessi: egli ha ossessivamente dipinto e disegnato corpi nudi, isolati e in coppia, la cui esibita anoressia li trasformava in personaggi consumati da una malattia esistenziale. Su sfondi neutri senza alcun accenno al contesto spaziale, li vediamo agitarsi con pose contorte oppure fermi, come bloccati dopo una scarica elettrica. La galleria umana dell'artista è molto ampia: include amici e conoscenti, modelle, amanti, e non si contano le volte in cui egli ha ritratto se stesso con smorfie e atteggiamenti semplicemente osceni agli occhi della morale borghese del tempo. EGON SCHIELE “L’ABBRACCIO”, 1917, OLIO SU TELA 150x170, VIENNA L'abbraccio ritrae una coppia di amanti circondata da un lenzuolo bianco: mancano riferimenti al contesto, ma dato lo sfondo verde, immaginiamo che l'ambientazione sia offerta da un prato. I volti appaiono strategicamente nascosti e grazie tale esperiente la nostra attenzione cade soprattutto sulla nervosa muscolatura dei corpi, descritta con la stessa insistenza applicata al panneggio. Anche l’impaginazione contribuisce ad accentuare il generale effetto di tensione: la coppia è vista dall'alto, disposta in diagonale, racchiusa in un rettangolo che sembra contenerla a stento (prospettiva molto insolita in Europa o dell’arte occidentale: è come se li stessimo spiando). E poi ancora colpisce il segno scuro che non è mai sinuoso, ma inciso e continuamente ritorto. I il dipinto trasmette sentimenti di inquietudine, come se l'uomo e la donna fossero stretti in un ultimo abbraccio prima dell'addio. E’ una scena molto più tormentata rispetto a quelle viste fino ad ora (pensiamo al Bacio di Klimt). Oskar Kokoschka (1886-1980) OSKAR KOKOSCHKA “MANIFESTO”, 1909, LITOGRAFIA Oskar Kokoschka ((cocosc ca)) svolse l’attività di pittore e drammaturgo. Il suo dramma intitolato “Assassino,speranza delle donne” venne messo in scena a Vienna nel 1909, accompagnato da un manifesto che non poteva anticiparne meglio la storia: una donna dal pallore cadaverico, stretta a un uomo letteralmente scorticato e intriso di sangue. OSKAR KOKOSCHKA “RITRATTO DI ADOLF LOOS”, 1909, OLIO SU TELA 74x91 Oskar continuò a dedicarsi al teatro ancora per un paio d'anni, fino a quando abbracciò integralmente l'attività di pittore. Si affermò da prima come ritrattista, affrontando il genere in termini tutt'altro che celebrativi: erano tutti ritratti psicologici. Nella contorsione delle pose, nell'intreccio delle mani nervose, negli occhi assenti oppure indagatori, nei colori sulfurei e nelle pennellate continuamente frammentate è restituita un'umanità percorsa da dubbi e inquietudini. OSKAR KOKOSCHKA “LA SPOSA NEL VENTO”, 1914, OLIO SU TELA 181x220, BASILEA La sposa nel vento venne dipinta nel 1914, tre anni prima de Gli amanti di Schiele: ritorna la coppia nel paesaggio, solo che qui la scena appare decisamente calata in un'atmosfera irreale. Distesi su una piccola quanto precaria imbarcazione, i due sono in balia del mare in tempesta, mentre nel cielo notturno si distingue una falce di luna velata dalle nubi. La donna dorme, mentre l'artista si ritrae sveglio e cosciente. E’ un dipinto dal richiamo autobiografico: Kokoschka vi ha trasfigurato la dolorosa fine della propria relazione con la moglie di Mahler, con cui aveva una relazione. Non è però dichiarato il suo autoritratto 8° diffrenza di quello di Schiele ne L’abbraccio). Da notare le notevoli dimensioni e rende ancora di più l’opera potente. E’ comunque una scena allegorica, molto simile a quelle di Munch e Matisse. OSKAR KOKOSCHKA “AUTORITRATTO CON LA BAMBOLA”, 1922, OLIO SU TELA 80x120, BERLINO Come Schiele, anche lui presenta un rapporto amoroso dai risvolti cupi: nella Vienna degli anni ’10 l'amore non è un sentimento che dà piacere o elevazione spirituale, ma dramma e tormento. Per quanto cercasse di sublimare attraverso la pittura il trauma dell'abbandono, Kokoschka non lo superò mai. Tornato sconvolto dal fronte e trasferitosi a Dresda, decise di farsi fabbricare una bambola a grandezza naturale con le fattezze dell’amata: il fantoccio sarebbe diventato il grottesco soggetto di alcuni quadri. ESPRESSIONISMO A MONACO VASILIJ KANDISKIJ “DAVANTI ALLA CITTA’”, 1908, OLIO SU CARTONE 68x49, MONACO Monaco ha rivestito un ruolo importante nella cultura europea sin dalla fine dell'Ottocento: era l'avamposto della declinazione tedesca dell'Art Nouveau. Uno dei suoi maggiori interpreti aveva pronunciato parole quasi profetiche: “Ci si trova alle soglie di un'arte completamente nuova, un'arte con forme che non significano nulla, non rappresentano nulla e non richiamano nulla, che ci commuoverà così fortemente, così profondamente come finora ha fatto solo la musica”. Inoltre, Monaco vantava una prestigiosa Accademia di Belle Arti dove insegnava a Franz von Stuck, il simbolista più acclamato in terra tedesca. L'ambiente risultava decisamente cosmopolita e da questa varietà di culture nacque una miscela effervescente, resa ancora più vivace dallo spirito romantico che continuava a permeare la sensibilità tedesca. Anche a Monaco alcuni giovani si unirono in gruppo con l'ambizione di riformulare alla base ragioni e linguaggi dell'arte. Per la prima volta, grazie soprattutto all'attività del russo Vasilij Kandinsky, venne reciso ogni legame con le convenzioni figurative: si scoprì che la pittura doveva esistere indipendentemente dal soggetto e dunque l’imitazione della realtà non doveva essere il suo primo scopo. La Monaco di inizio secolo, in una parola, diventò la culla dell'astrazione. Naturalmente ciò richiese un percorso graduale, dopo “Innumerevoli tentativi, passando per la disperazione, la speranza e le nuove scoperte”, come Kandinskij stesso raccontava con orgoglio del del pioniere. Gli artisti, peraltro, e lui intesta, non si accontentarono di assolvere il proprio lavoro solo coi pennelli davanti al cavalletto: vollero accompagnare ogni conquista sulla tela con riflessioni che in breve avrebbero acquistato il valore di teorie. ALEXJ VAN JAWLENSKY “DONNA CON LE PEONIE”, 1909, OLIO SU TELA 101x75, GERMANIA Nel 1909 venne fondata la Nuova Associazione di artisti di Monaco: oltre agli artisti aderirono anche storici dell'arte, musicisti, intellettuali e letterati. Erano però le presenze straniere a spiccare, in particolare i russi Kandinsky e Jawlensky ((iavlenski)): i loro quadri si distinguevano per un gusto dichiaratamente fauve, non tanto per la scelta dei soggetti, quanto per l'enfasi che veniva assegnata al colore, puro, smagliante, distribuito con pennellate che sortivano un effetto quasi tattile. Qualcosa di simile stava contemporaneamente accadendo a Dresda e a Berlino, ma l'Espressionismo emerso a Monaco possedeva tratti solari che lo distanziavano dalla drammatica emotività della Brucke. Sia la compagna di Jawlensky che di Kandiskij ebbero un rapporto altrettanto importante nella costituzione del cenacolo del movimento de Il cavaliere azzurro: il Futurismo invece per esempio aveva osteggiato l’inclusione delle donne e per questo si può dire che il movimento di Monaco fu progressista in questo senso. VASILIJ KANDISKIJ “COMPOSIZIONE V”, 1911, OLIO SU TELA 190x275 Sebbene avesse già superato i 40 anni, Kandiskij era un'artista in continua crescita: nel 1911 i suoi dipinti acquistarono un'aura di mistero, vista la presenza di soggetti identificabili solo dopo un'attenta lettura. A molti esponenti della Nuova Associazione un cambio del genere parve troppo ardito: i contrasti divennero insanabili e il rifiuto di esporre il suo “Composizione V” sancì la rottura del gruppo a due anni dalla fondazione. Tutt'altro che sconfortato, Kandinsky insieme a Frank Marc costituì il gruppo Der Blaue Reiter, il Cavaliere Azzurro: da quel momento la corsa all'astrazione subì un'impennata. Paul Klee, altra figura fondamentale, vi avrebbe aderito nel 1912 in occasione della seconda mostra del gruppo dedicata alla grafica. VASILIJ KANDISKIJ “COMPOSIZIONE VII”, 1913, OLIO SU TELA 200x300, MOSCA Iniziò a dipingere quadri di stupefacente vitalità. Fino al 1913, la realtà appariva trasfigurata sulla tela, ma in fondo ancora presente, mentre dopo quell'anno l'artista si liberò completamente, dipingendo tele sovraeccitate, rutilanti di colore. Dilatate sino alla monumentalità, ora le dimensioni offrivano all'osservatore un'esperienza anche fisica, non solo ottica ed emotiva. Come nel caso del Cloisonnisme di Gauguin, possiamo trovare un riferimento all’immagine della vetrata, che si fa totalmente trasparente e composta da tanti tasselli diversi che si dispongono sulla sulla superficie. Paul Klee (1879-1940) PAUL KLEE “CASE ROSSE E GIALLE A TUNISI”, 1914, ACQUARELLO SU CARTA 21x28, BERNA La partecipazione di Paul Klee ((pol klè)) a Der Blaue Reiter fu piuttosto defilata e d’altro canto la sua maturità professionale giunse in corrispondenza dello scioglimento del gruppo. Sino ad allora egli si era distinto come disegnatore e acquafortista: i suoi fogli possedevano un segno tremolo, stentato, deliberatamente infantile, ma dalla formidabile efficacia grottesca. Poi, nel 1914 un viaggio in Tunisia segnò la svolta: il paesaggio del Nord Africa gli offrì una tavolozza ricchissima. “Il colore mi possiede. Io e il colore siamo tutt'uno”. La natura e l'architettura magrebina vengono suggerite più che descritte in termini armoniosamente geometrici, con colori luminosi e trasparenti. Vediamo qui da una parte l’influenza del Cubismo, dall’altra quella dell’Astrattismo, anche se nel caso di Klee è un’astrattismo più domato rispetto a Kandiskij. Queste opere, ispirate ai suoi viaggi e al ripensare al mediterraneo e nord dell’Africa, si basano su una griglia compositiva che ritroveremo frequente nel Neoclassicismo di Mondian o nelle Avanguardie russe, ma anche più in generale in tutta l’arte della seconda metà del ‘900. La griglia compositiva diventa una griglia stratta: è come un momento di sospensione, di silenzio, nella produzione dell’opera. Non c’è narrazione: viene infranto il principio narrativo, che invece in altri c’è ancora. Non abbiamo qui un punto focale, ma ci muoviamo in maniera partattica lungo tutti i margini dandogli la stessa importanza. PAUL KLEE “MITO FLOREALE”, 1918, ACQUARELLO SU CARTA 29x16 Finalmente scopertosi pittore, il trentacinquenne Klee si concentrò sul repertorio di immagini di ascendenza simbolista, utilizzando composizioni dal tono lirico, inni alla fantasia, al segno e al colore. Il piccolo formato gli consentiva di stabilire con questi temi un rapporto ravvicinato, quasi intimo. In parallelo, tecnicamente parlando, dava a fondo a un'incessante tensione sperimentale: poche volte si è accontentato di usare la tela e colori ad olio tradizionali, ottenendo effetti che si trovano solo nei suoi quadri. PAUL KLEE “VILLA R”, 1919, OLIO SU CARTONCINO 26x22, BASILEA Nato a Berna nel 1879, a Monaco aveva seguito i corsi accademici di Franz von Stuck. In gioventù era entrato come violinista nell'orchestra sinfonica di Berna e dunque, come per Kandinskij, anche per lui la musica assolse in un ruolo centrale. Contrariamente al collega russo però, egli abborrava l'astrazione: un mondo felice produce un'arte legata al reale. L'astrazione era un linguaggio da frequentare occasionalmente, affiancandolo a forme più riconoscibili. PAUL KLEE “PAESAGGIO CON UCCELLI GIALLI”, 1923, ACQUARELLO SU CARTONCINO 44x35 Infatti il linguaggio di Klee appare ibrido, l'esito di una contaminazione fra un un'infinità di stimoli: dai mosaici bizantini alle miniature antiche ai disegni infantili. Ciò che più distingue la sua arte è l'aspetto antinaturalistico, la dimensione del mistero, il carattere primordiale, antichissimo e moderno allo stesso tempo. Tutto ciò esprime lo stupore di Klee davanti al creato: simboli cosmici, organismi viventi, forme geroglifiche, lettere dell'alfabeto e molto altro. Immagini di ardua decifrazione, ma tali da suscitare in chi guarda un effetto magico. Henri Matisse (1869-1954) • HENRI MATISSE “RITRATTO DI MADAME MATISSE. LA LINEA VERDE”, 1905, OLIO SU TELA 40x32 • HENRI MATISSE “LUSSO, CALMA E VOLUTTA’”, 1905, OLIO SU TELA 98x118, PARIGI • HENRI MATISSE “GIOIA DI VIVERE”, 1906, OLIO SU TELA 176x240, USA • HENRI MATISSE “NUDO BLU”, 1907, OLIO SU TELA 92x140, USA • HENRI MATISSE “NUDO DISTESO I”, 1907, BRONZO 35x50x28, PARIGI • HENRI MATISSE “LA DANZA” -”LA MUSICA”, 1910, OLIO SU TELA 260x390, SAN PIETROBURGO Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938) • ERNST LUDWIG KIRCHNER “MANIFESTO DIE BRUCKE”, 1906, XILOGRAFIA, NEW YORK • ERNST LUDWIG KIRCHNER “MARCELLA”, 1909, OLIO SU TELA 71x61, STOCCOLMA • ERNST LUDWIG KIRCHNER “PANNELLO PUBBLICITARIO PER UNA MOSTRA DELLA BRUCKE”, 1910, XILOGRAFIA • ERNST LUDWIG KIRCHNER “AUTORITRATTO CON MODELLA”, 1910, OLIO SU TELA 150x100, AMBURGO • ERNST LUDWIG KIRCHNER “NUDI CHE GIOCANO SOTTO UN ALBERO”, 1910, OLIO SU TELA, • ERNST LUDWIG KIRCHNER “LA PORTA DI BRANDEBURGO A BERLINO”, 1915, OLIO SU TELA 70x50 • ERNST LUDWIG KIRCHNER “CINQUE DONNE PER STRADA”, 1913, OLIO SU TELA 120x90, GERMANIA • ERNST LUDWIG KIRCHNER “AUTORITRATTO COME SOLDATO”, 1915, OLIO SU TELA 69x61, USA Egon Schiele (1890-1918) • EGON SCHIELE “DUE DONNE ABBRACCIATE”, 1915, MATITA E ACQUARELLO SU CARTA • EGON SCHIELE “CITTÀ MORTA III”, 1911, OLIO E GUAZZO SU TAVOLA, VIENNA • EGON SCHIELE “AUTORITRATTO NUDO”, 1910, ACQUARELLO SU CARTA 55x36, VIENNA • EGON SCHIELE “L’ABBRACCIO”, 1917, OLIO SU TELA 150x170, VIENNA Oskar Kokoschka (1886-1980) • OSKAR KOKOSCHKA “MANIFESTO”, 1909, LITOGRAFIA • OSKAR KOKOSCHKA “RITRATTO DI ADOLF LOOS”, 1909, OLIO SU TELA 74x91 • OSKAR KOKOSCHKA “LA SPOSA NEL VENTO”, 1914, OLIO SU TELA 181x220, BASILEA • OSKAR KOKOSCHKA “AUTORITRATTO CON LA BAMBOLA”, 1922, OLIO SU TELA 80x120, BERLINO Vasilij Kandiskij (1866-1944) • VASILIJ KANDISKIJ “DAVANTI ALLA CITTA’”, 1908, OLIO SU CARTONE 68x49, MONACO • VASILIJ KANDISKIJ “COMPOSIZIONE V”, 1911, OLIO SU TELA 190x275 • VASILIJ KANDISKIJ “IL CAVALIERE AZZURRO”, 1903, OLIO SU TELA 55x60 • VASILIJ KANDISKIJ “PAESAGGIO CON TORRE”, 1908, OLIO SU CARTONE 75x98, PARIGI • VASILIJ KANDISKIJ “IMPROVVISAZIONE 6”, 1909, MONACO • VASILIJ KANDISKIJ “COMPOSIZIONE VII”, 1913, OLIO SU TELA 200x300, MOSCA Paul Klee (1879-1940) • PAUL KLEE “CASE ROSSE E GIALLE A TUNISI”, 1914, ACQUARELLO SU CARTA 21x28, BERNA • PAUL KLEE “MITO FLOREALE”, 1918, ACQUARELLO SU CARTA 29x16 • PAUL KLEE “VILLA R”, 1919, OLIO SU CARTONCINO 26x22, BASILEA • PAUL KLEE “PAESAGGIO CON UCCELLI GIALLI”, 1923, ACQUARELLO SU CARTONCINO 44x35 Altri____________________ • ANDRE’ DERAIN “DONNA IN CAMICIA”, 1906, OLIO SU TELA 100x81, COPENHAGEN • MAURICE DE VLAMINCK “GLI ALBERI ROSSI”, 1906, OLIO SU TELA 65x81, PARIGI • ERICH HECKEL “BAGNANTI AL LAGO”, 1910, OLIO SU TELA 87x93, OSLO • MAX PECHSTEIN “PLEIN AIR”, 1910, OLIO SU TELA 70x80, GERMANIA • GUSTAV KLIMT “LA CULLA”, 1918, OLIO SU TELA 110x110, USA • ALEXJ VAN JAWLENSKY “DONNA CON LE PEONIE”, 1909, OLIO SU TELA 101x75, GERMANIA • FRANZ MARC “I GRANDI CAVALLI AZZURRI”, 1911, OLIO SU TELA 104x81, USA • FRANZ MARC “VOLPE BLU E NERA”, 1909, OLIO SU TELA 50x63, Verso il Cubismo PABLO PICASSO “LES DEMOISELLES D’AVIGNON”, 1907, OLIO SU TELA 243x233, NEW YORK Dopo una gestazione a dir poco tormentata, nella primavera del 1907 Picasso licenziò un quadro dal formato monumentale: si trattava di un lavoro di snodo nel catalogo del pittore, come pure nelle vicende dell'avanguardia. A fronte della fama odierna, un po’ stupisce sapere che per tanti anni sia rimasto ignoto al pubblico più ampio: fino al 1920, infatti, Picasso preferì conservarlo girato verso la parete nel chiuso del proprio studio parigino. Lo mostrava di rado solo agli eletti che reputava in grado di coglierne la portata rivoluzionaria e, anche fra gli osservatori più preparati, suscitò un vero effetto di sgomento. Si può dire che quest’opera sia profondamente incoerente, proprio come la “Gioia di vivere” di Matisse, realizzata solo un anno prima: i due artisti si prendono per opposizione in questo periodo. Il paesaggio così gioco e colorato di Matisse, così osteggiato all’epoca, Picasso lo riduce ad una tavolozza cromatica sempre più terrosa (in realtà quest’opera si inserisce al termine del periodo rosa). Almeno 3 delle 5 figure contrastano fortemente nella loro fattura pittorica e nel segno che le marca. Le due centrali con le braccia alzate sono probabilmente più legate alla tradizione iberica e alla scultura romanica iberica (di cui vediamo riferimenti anche nel suo periodo rosa e in quello blu). La figura di profilo ha gambe possenti e piede in primo piano ricorda iconografie, come per Gauguin, egizie (soprattutto nella scelta del profilo). Diversamente ancora per le due figure di dx, hanno apparentemente alla base una trattazione molto simile agli altri personaggi (in particolare alle due centrali), ma in realtà i volti e alcune parti del corpo hanno subito una trasformazione durante la lavorazione che le ha trasformate in qualcosa di assolutamente anti-grazioso, di spiacevole alla vista, di espressivo ma nei termini di bruttezza. Il brutto diventa una via alternativa per una nuova linfa vitale nella composizione e deriva probabilmente dalle passeggiate di Picasso a Trocadero. Di quei 6 metri quadri di tela (tra l’altro il formato non è allungato, come solitamente veniva scelto invece quando il soggetto erano delle bagnanti), impressiona ancora oggi l'energia dirompente e la carica vitale di figure ataviche ma anche modernissime. Cinque grandi nudi femminili si stagliano contro un panneggio dai riflessi bianchi e celesti: li vediamo abitare uno spazio compresso, come se tutto fosse schiacciato sul primo piano. A sinistra appare il lembo di un sipario sollevato, in basso al centro c’è lo spigolo di un tavolo con una natura morta. La gamma cromatica è dissonante e il paesaggio dai caldi ai freddi avviene bruscamente. I profili sono aguzzi quanto schegge di vetro. Picasso ha mortificato ogni piacevolezza sensuale, anche perché le modelle ci fissano con uno sguardo sbarrato, mentre i volti sulla destra assumono deformità spaventose: indossano maschere africane, esattamente quelle usate nei riti tribali. Fisionomie tanto stravolte rendono il dipinto stilisticamente disomogeneo, tanto che non pochi studiosi ne hanno supposto l'incompiutezza. Di certo a spiccare il carattere antinaturalistico dell'insieme. Non c'è però solo l'arte africana alla base del dipinto: Picasso vi ha infuso un'impressionante quantità di riferimenti. Nel profilo del volto, nell’inverosimile modo di rappresentare l'occhio frontalmente, riconosciamo un tratto distintivo dell'arte egizia. Inoltre, possiamo trovare riferimenti anche a “Il bagno turco” di Ingres, sia nell’idea stessa del gineceo che lella citazione letterale della figura con le braccia dietro la nuca, complice la grande mostra al Salon d'autunno del 1905 che per la prima volta esibiva l’opera al pubblico. Infine, possiamo ritrovare un Cezanne, con “Le grandi bagnanti” (dove i corpi sono trattati in maniera antinaturalistica e inespressiva nei volti. Poi in particolare la figura sulla sx, che è richiamata nella stessa posizione nell’opera di Picasso), ripreso e aggiornato nel nuovo secolo. Poi anche Pierre Puvis de Chavannes con “Fanciulle in riva al mare”. ((Altri riferimenti riportati a lezione: Delacroix “Donne di Algeri” nella claustrofobia piacevole, poi anche lo “Schiavo morente” di Michelangelo nelle figure con le braccia alzate)) Una serie di studi, bozzetti e disegni, documenta un'altra partenza: Picasso voleva infatti dapprima inscenare un tema denso di significati, un'allegoria della vita e della morte, carica di allusioni autobiografiche. Matisse aveva da poco esposto Gioia di vivere e Picasso è plausibile pensare che provasse a rispondergli con un quadro altrettanto grande ma al contempo opposto, cupo e notturno. Nella versione iniziale uno studente di medicina, munito di libro e teschio in mano, entrava in un bordello con alcune prostitute e un marinaio ed infatti il titolo originale era “Le bordel philosophique” (si fa riferimento alle malattie veneree, cosa che spaventava Picasso, come la sifilide che in quel periodo flagellava la Francia anche più borghese). Picasso si autorappresenta nella figura del medico (la fetta di anguria la troveremo anche nella versione finale, visto come il frutto carnale e rappresentato come un’arma tagliente). Poi un episodio muto i programmi dell’artista: all'inizio del 1907 Picasso aveva visitato il museo etnografico del Trocadero, rimanendo colpito dalle sue sculture primitive, ricevendone come una rivelazione, uno shock benefico. Da allora il contenuto del quadro passò in subordine rispetto alle ricerche formali: l'artista ne attenuò il carattere simbolico, o meglio, decise di renderlo meno esplicito, limitandone la carica drammaticamente esistenziale ai soli nudi sulla dx. GEORGE BRAQUE “GRANDE NUDO”, 1909, OLIO SU TELA 140x100, PARIGI POMPIDOU I più avveduti intuirono subito che quel quadro segnava uno spartiacque, un “prima” e un “dopo” nelle vicende del presente. E infatti gli artisti più vicini a Picasso provarono a ribattere a tanta disarmante novità, come fece Braque con il Grande nudo. La monumentalità del corpo, la brusca semplificazione anatomica, le pennellate tratteggiate, i pesanti semi neri: il quadro sarebbe impensabile senza le recenti conquiste picassiane. Si tratta di una donna, ma la muscolatura così pronunciata le conferisce possenti sembianze mascoline, quasi michelangiolesche: si tratta di una figura in piedi oppure distesa e colta dall'alto? Effettivamente la parte in basso sembrerebbe quasi un prato verde. Questo interrogativo s potrebbe porre anche per le due figure centrali dell’opera di Picasso. Il Cubismo analitico PABLO PICASSO “RITRATTO DI AMBROISE VOLLARD”, 1909-10, OLIO SU TELA 92x65, MOSCA Dal 1909 al 1911, Picasso e Braque vissero la fase più radicale della loro esperienza, nella quale maggiormente si allontanarono dalla resa mimetica della realtà e si avvicinarono alla frammentazione della forma e alla riduzione cromatica. E la fase, questa, solitamente indicata come Cubismo analitico. PABLO PICASSO “RAGAZZA CON MANDOLINO”, 1910, OLIO SU TELA 100x73, NEW YORK Nei quadri di questo periodo gli oggetti e lo spazio circostante sono scomposti, indagati, descritti isolandone singoli brani: vengono, in una parola, analizzati. Il soggetto smarrisce la propria unità formale, mentre la molteplicità dei punti di vista genera la continua interruzione dei profili. Le pennellate rimangono distinguibili e si allineano in tanti tasselli ordinati: è uno dei tanti espedienti per suggerire lo sfaldamento del campo pittorico. I colori calano di tono, diventano plumbei, grigi, terrosi, tendono al monocromo per non interferire con il già complicato assemblaggio delle forme. GEORGE BRAQUE “BROCCA E VIOLINO”, 1910, OLIO SU TELA 117x73, SVIZZERA In quest'opera di Braque alzando lo sguardo ci si accorge di un chiodo e di un foglio bianco con un angolo piegato in avanti, i quali sembrano uscire dal quadro. Le ombre proiettate conferiscono ad entrambi l’inatteso effetto tridimensionale, ma a ben vedere ci si accorge poi di un inganno: il chiodo non appartiene al muro, dove è ambientata la scena, ma la superficie della tela. È come se Braque lo avesse piantato direttamente sul quadro, generando un corto circuito visivo. Il piccolo chiodo in alto ci dice che è un dipinto a tutti gli effetti, anche se non è tridimensionale: quello di Braque vuole essere un puro esercizio retorico. Il violino e la brocca sono ancora riconoscibili, ma le linee sono scomposte diventando taglienti, perché lo sguardo si muove su diverse prospettive. Palette cromatica ridotta al minimo, facendone quasi un’opera monocroma. I quadri cubisti possono arricchirsi anche di altre presenze decisamente stranianti, come lettere e numeri. Il loro scopo, in prima battuta, è quello di esaltare la bidimensionalità della superficie: rimanendo estranee alla scena raffigurata, inserzioni del genere ci ricordano che un quadro è sempre una finzione e dunque non è la realtà, ma la sua copia. Inoltre, le lettere diventano, per così dire, una dichiarazione di poetica: nello stesso modo in cui la scrittura disegna le cose senza assomigliargli, così può fare la pittura usando segni e formule che non implicano l'oggetto. Infine, le scritte tipografiche sono già di per sé immagini: possiedono una precisa bellezza estetica e gli artisti, per la prima volta, se ne accorgono e scelgono di esaltarla. GEORGE BRAQUE “IL PORTOGHESE”, 1912, OLIO SU TELA 117x81, SVIZZERA E’ ‘dunque un approccio tutto mentale quello che Braque e Picasso instaurano con i loro soggetti: all'osservatore spetta poi un continuo esercizio di comprensione. Questa può essere considerata un’opera di snodo fra il 1911 e ’12. Proprio alludendo all’ambiguità percettiva, nel 1911 alcuni interpreti come coniarono un'altra definizione: “Cubismo ermetico”, per quanto sono scomposte e monocrome le opere, tanto da far scomparire i soggetti, rendendoli illeggibili. Alcuni le avvicinarono per questo alle opere astratte, ma sia Braque e Picasso ripugnavano l’Astrattismo. Ne “Il portoghese” non è facile distinguere il soggetto, ovvero un uomo intento a suonare la chitarra sul ponte di una nave con il porto alle spalle. Le scritte “10, 40” e “DBAL”, come su di recenti hanno appurato, alludono rispettivamente al peso in libbre impresso sui sacchi delle merci e ad un ha un manifesto pubblicitario di un ballo (Gran Bal) appeso nei caffè del porto. Gli altri cubisti Sebbene tutto ruotasse attorno a loro, Braque e Picasso erano figure appartate, indifferenti all'idea di formare un gruppo con altri colleghi. Per questo le informazioni dei contemporanei si basavano soprattutto sul suolo di cubisti presenti nelle grandi rassegne. Tra i “Cubisti dei Salons”, da una parte vi era chi rimaneva legato al dato figurativo più riconoscibile, sebbene frammentato in mille geometrie, dall'altro invece, chi spingeva il Cubismo verso nuovi approdi, forse addirittura a quello dell'astrazione. MARCEL DUCHAMP “NUDO CHE SCENDE LE SCALE”, 1912, OLIO SU TELA 147x90, USA La Section d’Or era un'altra declinazione del Cubismo (il nome alludeva alla geometria). Spiccavano figure che di lì a poco sarebbero state destinate a cambiare ancora una volta strada: era il caso di Marcel Duchamp, con sei dipinti, tra i quali quest’opera. Un lavoro decisamente eretico nella più integrale logica cubista, perché la scomposizione della figura si combinava al movimento, elemento che arrivava dai futuristi. JUAN GRIS “RITRATTO DI PICASSO”, 1911, OLIO SU TELA 92x73, USA Juan Gris avrebbe continuato in quella direzione, offrendo una propria personale interpretazione del Cubismo. Il suo approdo al movimento nel 1911 era stato sancito da un ritratto di Picasso: il colore chiaro suggeriva una superficie pulsante di luce e la scomposizione dei profili in tanti segmenti, diritti e arcuati, culminava in un volto che veniva contemporaneamente presentato di fronte e di lato. L’Orfismo Guillaume Apollinaire individuò l'ennesima declinazione del Cubismo. Robet Delanuay, Ferand Léger e Frantisek Kupka erano i principali esponenti dell’Orfismo, la nuova tendenza battezzata con un nome di ispirazione mitologica. Era l'arte di dipingere nuove strutture con elementi attinti non dalla sfera visiva ma interamente creati dall'artista stesso. ROBERT DELANUAY “FINESTRA SIMULTANEA SULLA CITTA’”, 1912, OLIO SU TELA 46x40 Su tutti, in particolare Delanuay. Il suo cubismo si distingueva per due vistose peculiarità: l'eredità degli esordi fauves, ovvero l'uso dei colori vividi e tra loro complementari, e il paesaggio urbano, soprattutto la Torre Eiffel, la quale rappresentava un soggetto nuovo per una pittura nuova. Fu proprio concentrandosi su questo tema, che Delanuay raggiunse, per poi varcarle, le soglie dell'astrazione. La Torre Eiffel vista in lontananza smarriva progressivamente la propria riconoscibilità e diventava un tutt'uno con l'ambiente circostante: cessava la differenza tra primo piano e secondo piano e il vero protagonista era il colore, al punto da uscire dalla tela, invadere la cornice. FERAND LEGER “LA PARTITA A CARTE”, 1907, OLIO SU TELA 129x193 Ferand Léger, al Salon degli Indipendants, presentò “Nudi nella foresta”, un'opera monumentale per il formato e più ancora per l'energia emanata da ogni singolo elemento. In altri dipinti poi scelse colori luminosi tra loro complementari. Divenuti ibridi tra uomini e macchine, i suoi personaggi acquistarono anatomie cilindriche dai riflessi metallici. Il solito Louise Bruxelles avrebbe parlato di Tubismo. Brancusi e Modigliani Dal 1878 si potevano vedere manufatti delle popolazioni extraeuropee al Trocadero, il museo etnografico parigino. Arte primitiva: tutti usavano questa formula che possedeva venature discriminatorie perché alludeva all'arretratezza dei popoli non civilizzati. Per gli artisti, però, quei manufatti creati a scopi magici e rituali rappresentavano le testimonianze più autentiche della civiltà ai suoi primordi, un antidoto alla contemporaneità. Nel 1906 un episodio aveva incoraggiato gli artisti a percorrere quella via: il Salon d’Autumne, infatti, dedicò un'imponente retrospettiva a Gauguin, il primo artista allontanatosi dalla società occidentale. Fu così che pittori e scultori iniziarono a collezionare le opere d'arte primitiva: il primo fu Derain, poi anche Matisse, Braque e Picasso. Il Primitivismo ha esercitato un ascendente fortissimo anche su due figure difficilmente inseribili in gruppi o correnti: il rumeno Constantin Brancusi e Livornese Amedeo Modigliani. COSTANTIN BRANCUSI “MAIASTRA”, 1912, OTTONE H73, VENEZIA Formatosi all'accademia di Belle Arti di Bucarest, Brancusi arrivò a piedi nella capitale francese nel 1905. Dopo qualche settimana di praticantato presso lo studio di Rodin, lo scultore gli propose di diventare suo allievo, ma lui rispose “All'ombra di una grande quercia non può esserci un'altra grande quercia”. La sua idea di scultura, d'altro canto, era assai lontana dalla tradizione francese: si basava su forme elementari, semplici, dai tratti stilizzati. In quest'opera vediamo un uccello sacro della tradizione rumena: il suo canto sembra scaturire dal petto spropositatamente gonfio attraverso il collo arcuato e il becco aperto. E’ una scultura che emana senso di sacralità, un oggetto da contemplare con ammirazione. AMEDEO MODIGLIANI “TESTA”, 1912, PIETRA H89, LONDRA Modigliani giunse a Parigi nel 1906. Le sue opere in pietra, realizzate tra il 10 e il 13, si limitarono a due soli temi: cariatidi e soprattutto teste femminili. Le fisionomie si ripetono con insistenza: occhi obliqui e senza iride, canna nasale allungata a dismisura e bocca piccolissima. Il tutto è estremamente pulito, quasi fosse un gigantesco inquietante osso di seppia. Sono opere nate dalla spinta dell'arte primitiva, ma che fondono suggestioni etrusche, indiale e della Grecia preclassica. Henri Rousseau Henri Rousseau era una figura singolare nella Parigi di fine ‘800. Era un autodidatta e fino al 1893, quando decise di dedicarsi alla pittura, lavorò come impiegato del dazio (da qui il soprannome il doganiere). Le figure immerse in un'atmosfera incantata, il disegno preciso al limite del calligrafico, la stilizzazione delle forme, il nitore delle superfici dai colori smaltati, la luce chiara e quasi artificiale: questi tratti che ne distinguono lo stile, conferendo alle sue opere un profondo senso lirico. HENRI ROUSSEAU “IO, RITRATTO-PAESAGGIO”, 1890, OLIO SU TELA 143x100, PRAGA Nell'autoritratto del 1889 Rousseau impugna una tavolozza e pennelli si mostra dunque nei panni di pittore, non certo quelli del suo ordinario lavoro d'ufficio. Eppure, non è al cavalletto nel chiuso della propria casa-studio, ma all'aperto: si raffigura in posa sulla riva della Senna e alle sue spalle, dietro l'albero di un veliero, spunta appena eretta la Torre Eiffel (è la primissima opera d'arte che la ritrae). Colpiscono i colori piatti, le forme sigillate entro i profili nettissimi, l’'assenza di ombre, ma più di tutto l'inverosimile scarto proporzionale tra ambiente e figura di cui non capiamo le ragioni. Il gigantismo dell'artista nasce da un moto di autoesaltazione, oppure è il frutto della sua maldestra conoscenza prospettica? HENRI ROUSSEAU “IL SOGNO”, 1910, OLIO SU TELA 204x298, NEW YORK Tra i molti temi delle sue tele, sono le scene esotiche che spiccano: contro cieli senza nuvole, si stagliano foreste dal verde intenso e fra foglie emergono frutti giganteschi, fiori carnosi, uccelli variopinti. Come in un’apparizione irrompono sensuali veneri stese sul sofà o fanciulle elegantemente vestite, o più spesso belve nell'istante in cui sembrano sbranare sfortunati indigeni o esploratori disarmati in un'atmosfera ovattata, priva di dramma, come senza suoni. La sua conoscenza di piante animali tropicali veniva dai pomeriggi passati al Jardin de Plantes parigino e dalle immagini osservate sui libri illustrati. I suoi quadri comunicavano il desiderio di evasione: ma, mentre i contemporanei Gauguin e il Rimbaud avevano lasciato l'Europa, lui si ritirava in un mondo tutto interiore. Nell'ambiente della dell'avanguardia parigina gli si riservava il rispetto che si deve a un maestro. Fu Apollinaire a introdurlo a Picasso e alla sua cerchia: le ultime generazioni ne erano affascinate. I suoi dipinti, con il carattere apparentemente ingenuo, testimoniavano uno spirito puro, semplice e incontaminato. Fu così che l'artista, insieme a Cezanne e ai manufatti delle civiltà extraeuropee, andò a comporre la catena di riferimenti che hanno ispirato le avanguardie di inizio secolo (ad esempio, nei ritratti protocubisti di Picasso e punto di riferimento di Giorgio Morandi). Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) Nato nel 1876, Marinetti vantava una cultura francese di impronta simbolista. Le sue risorse economiche gli consentivano di percorrere l'Europa in lungo e in largo, risiedendo di base a Milano, dove dal 1905 dirigeva una rivista letteraria nata per accogliere mensilmente i più aggiornati scrittori del momento. Marinetti divenne il teorico e la guida instancabile del Futurismo, insieme a Boccioni: fu una specie di imprenditore artistico. CARLO CARRA’ “RITRATTO DI MARINETTI”, 1911, OLIO SU TELA 118x81, COLLEZIONE PRIVATA Carlo Carrà nel dipingerà il ritratto e si preoccuperà di combinare le novità formali del Futurismo coi suoi effettivi caratteri fisici e psicologici. Seduto al tavolo di lavoro, vediamo Marinetti tutto proteso in avanti circondato da un energico colore rosso: l'orologio segna la mezzanotte e lui è ancora lì a sfogliare delle lettere. Testa calva, sigarette, baffi ispidi, sguardo magnetico: le sue sembianze così riconoscibili si accompagnano movenze scattose, come robotiche. La lunga carriera di Marinetti venne scandita da eccessi, intemperanze e non pochi errori di valutazione, ma, ciò nonostante, i suoi meriti rimangono formidabili. Il maggiore fu di riportare il nostro paese al centro del dibattito internazionale, cosa che non succedeva da oltre un secolo, ma fu una conquista della durata effimera, che durò fino allo scoppio della Grande guerra. Il dialogo con Parigi non poteva però essere interrotto e andava fatta una strategia promozionale per spingere questa nuova corrente di pensiero artistica. Dal 1909 e fino a quasi alla sua morte nel 44, Marinetti promosse un evento pubblico dietro l'altro per diffondere nei modi più pervasivi la nuova ideologia. Nacquero azioni tanto provocatorie quanto spettacolari, come le serate futuriste: si trattava di spettacoli teatrali simili a comizi, dove i futuristi declamavano poesie, leggevano manifesti, intonavano a sorte anche musiche sperimentali. Il pubblico reagiva con fischi e insulti più delle volte gli incontri finivano nel disordine e la polizia doveva intervenire per placare risse. Il programma di Marinetti del Manifesto era totalizzante e mirava a trasformare l'essenza stessa dell'essere umano, proiettandolo in un nuovo mondo e in una nuova epoca dove spazio e tempo sarebbero stati aboliti dall'energia della velocità: una vera rivoluzione antropologica. Fu così che i principi futuristi vennero presto declinati in ogni ambito creativo: nacquero, ciascuno accompagnato dal proprio manifesto, un futurismo pittorico, scultoreo, architettonico, fotografico, letterario e musicale in teatrale (i fu addirittura un manifesto della cucina futurista). FILIPPO TOMMASO MARINETTI “GUIDO GUIDI” E “ZANG TUMB TUMB” Anche se ci ha lasciato alcuni esperimenti a dir poco coraggiosi con materiali di scarto assemblati tra loro, Marinetti non pensò mai di trasformarsi in pittore, tantomeno in scultore. Il suo contributo all'estetica del movimento avvenne invece in ambito letterario: “Il manifesto tecnico della letteratura futurista” da lui scritto nel 1912 diventò il primo di molti documenti guida rivolti a poeti e scrittori. Distrutta la sintassi insieme a ogni traccia di punteggiatura, le parole galleggiavano in un foglio dove anche le porzioni bianche intoccate dall'inchiostro assumevano una funzione espressiva. Il confine tra invenzioni del genere e l'opera d'arte figurativa diventava pressoché indistinguibile. Pubblicato nel 1914, Zang Tumb Tumb rappresenta il capolavoro del Marinetti scrittore: i caratteri tipografici sono di varie dimensioni e spesso ricorrono a grassetto. CARLO CARRA’ “MANIFESTAZIONE INTERVENTISTA (FESTA PATTRIOTTICA-DIPINTO PAROLIBERO), 1914, TEMPERA, PENNA, CARTE INCOLLATE SU CARTONCINO 38x30, MILANO Nel 1914, Carlo Carrà, all'indomani dell'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo il 28 giugno, aveva realizzato quest'opera: un piccolo, dirompente collage interpretabile come una pioggia di volantini liberati da un aeroplano sopra piazza Duomo a Milano. Mai come in questo caso, le parole diventano immagini e si fondono con la pittura e, una volta superato l'effetto di vortice entro il quale ci si sente risucchiati, ci si può avventurare nella lettura dei singoli frammenti. In realtà non è un’opera propriamente interventista, perché Carrà la realizza per le celebrazioni del’ Statuto Albertino del 1914, ma raccoglie comunque ciò che Marinetti aveva espresso a parole con il suo Manifesto. Qual è il verso di quest’opera? In realtà fu “deciso” solo quando fu pubblicata su una rivista, scegliendo quale fosse la parte superiore e quella inferiore. Educato all’accademia di Belle Arti di Brera, Carlo Carrà militava negli ambienti dell'anarchismo milanese, come testimonia anche uno dei suoi dipinti, “I funerali dell'anarchico Galli”. Il Futurismo dei pittori Gli ideali Marinetti piani vennero condivisi e rilanciati dall'ultima generazione di artisti. Nel febbraio 1910 uscì il Manifesto dei pittori Futuristi: “largo ai giovani, ai violenti e ai temerari” era la conclusione. Meritavano l'oblio tutti gli autori del passato (tranne Segantini, Previati e Medardo Rosso). A sottoscrivere quelle convinzioni era Umberto Boccioni, la figura più rappresentativa del Futurismo: l'artista più attivo, la cui precoce scomparsa provocata da una caduta da cavallo mentre era al fronte nel 1916, avrebbe decretato la chiusura della prima fase del movimento. L'arte del futuro non avrebbe più avuto ambizioni naturalistiche e l'uomo che per secoli aveva occupato il centro dell'universo figurativo, avrebbe ceduto il primato diventando parte di un tutto in movimento. La realtà, continuava il Manifesto, andava verso un modo diverso, secondo gli stimoli suggeriti dalla vita metropolitana, con i suoi nuovi colori, luci, riflessi, odori e rumori. Benché muovessero da intenti e propositi comuni, i firmatari del Manifesto si distinguevano per molti aspetti. Innanzitutto, per la geografia: Boccioni, Carrà e Russolo lavoravano a Milano, Balla a Roma, Severini a Parigi, e poi anche per l'età (Balla era il più anziano). UMBERTO BOCCIONI “STUDIO PER STATI D’ANIMO I: GLI ADDII”, 1911, OLIO SU TELA 71x96, MI Tra il 1910 e il 1911, Boccioni, lavorò a uno dei suoi più ambiziosi progetti: il trittico degli “Stati d'animo”. L'idea di fondo era quella di descrivere le reazioni emotive di persone che si separavano in occasione di un viaggio in treno e la modernità, il mondo delle macchine e della velocità non sono ora il tema portante dell'indagine artistica, ma diventano uno scenario. La serie si articola in tre momenti: gli addii, quelli che vanno, quelli che restano. Le opere furono presentate a Parigi in occasione della mostra “I pittori futuristi italiani” (c'erano anche Carrà, Russolo e Severini). UMBERTO BOCCIONI “QUELLI CHE VANNO”, 1911, OLIO SU TELA 70x96, NEW YORK Boccioni stesso descrisse le opere: le linee perpendicolari ondulate e come spossate possono esprimere facilmente languore e scoraggiamento, linee confuse di richiamo e di fretta esprimeranno invece un'agitazione caotica di sentimenti, mentre le linee orizzontali, fuggenti, rapide e convulse daranno invece l'emozione plastica che suscita in noi colui che parte. Velocità e Parigi I primi quadri futuristi si concentrarono sui temi della vita cittadina, ma il linguaggio rimandava ancora a quello divisionista. CARLO CARRA’ “LA STAZIONE DI MILANO”, 1911, OLIO SU TELA 80x90, COLLEZIONE PRIVATA Osservando per esempio “La stazione di Milano” di Carrà, il pittore afferma con forza la propria adesione al presente, ritrae un nuovo repertorio di ambienti, figure, atmosfere, ma le pennellate tradiscono all'istante un linguaggio già noto da un paio di decadi. GIACOMO BALLA “DINAMISMO DI UN CANE AL GUINZAGLIO”, 1912, OLIO SU TELA 91x110, USA In quest’opera gli arti, per rappresentare il movimento, sono semplicemente duplicati. La pennellata è filamentosa, divisionista, per rendere ancora meglio il suo rapporto con il movimento. I dipinti di Balla, caso unico tra i membri del gruppo, affrontavano il dinamismo sulla base della percezione ottica e sembravano tradurre in pittura le foto di Muybridge e di Marey (e Bragaglia). La sua ricerca, che aveva come riferimento la sperimentazione fotografica, era biasimata dagli altri, in particolar modo da Boccioni che la considerava una riproduzione illustrativa del movimento, incapace di entrare davvero nel cuore della questione futurista. Insomma, esisteva un problema di non facile soluzione, i quadri sembravano incapaci di stare al passo con i proclami. Infatti, i quadri di Boccioni e colleghi avevano provocato una delusione sdegnosa. “Quei giovani come potevano anche solo fiatare senza conoscere la rivoluzione di Braque e Picasso? Una serie molto interessante che produrrà Balla è quella delle “Compenetrazione iridescente”, nata per decorare in realtà un’abitazione privata (anche serie cosmologiche, come “Sole che passa davanti a Mercurio”. GIACOMO BALLA “BAMBINA CHE CORRE SUL BALCONE”, 1912, OLIO SU TELA 125x125, MILANO Soluzione ottica e dinamica di Balla in questo celebre quadro: la pennellata si è fatta più corposa, ma di fatto parte dal puntinato e filettato divisionista. Di Cubismo in effetti in Italia del tempo si sapeva poco o niente. Fu così che nel 1911 Boccioni e Carrà decisero di recarsi di persona nella capitale francese e, nello stesso periodo, Marinetti capì che ai tempi erano ormai maturi per lanciare la squadra anche all'estero, programmando una mostra in una galleria parigina nel 1912. Fu un successo e innescò un dibattito: non pochi parigini iniziarono a contaminare il loro linguaggio con quello futurista. Divenuta itinerante, la mostra sancì l'affermazione del movimento in molte città europee. UMBERTO BOCCIONI “ELASTICITA’”, 1910, OLIO SU TELA 100x100, MILANO Da allora i suoi esponenti mutarono registro espressivo: adesso ricorrevano alla frammentazione dell'immagine, alla visione simultanea dello stesso soggetto. Il confronto con l'avanguardia francese servì ad ampliare gli orizzonti estetici, ma anche a precisare la loro identità: gli italiani, infatti, si ponevano idealmente sulla via dell'Impressionismo, nel senso che volevano oltrepassarlo e non rifiutarlo. Cambiò anche la scelta cromatica, ma in direzione contraria a quella cubista: la nuova tavolozza diventò accesa, violenta, basata sull'uso di colori primari, dichiarando una sintonia con le contemporanee tendenze espressioniste. Umberto Boccioni (1882-1916) • UMBERTO BOCCIONI “LA CITTA’ CHE SALE”, 1901, OLIO SU TELA 199x301, NEW YORK • UMBERTO BOCCIONI “STUDIO PER STATI D’ANIMO I: GLI ADDII”, 1911, OLIO SU TELA 71x96, MI • UMBERTO BOCCIONI “QUELLI CHE VANNO”, 1911, OLIO SU TELA 70x96, NEW YORK • UMBERTO BOCCIONI “ELASTICITA’”, 1910, OLIO SU TELA 100x100, MILANO • UMBERTO BOCCIONI “LA STRADA ENTRA NELLA CASA”, 1912, OLIO SU TELA 100x100, GERMANIA • UMBERTO BOCCIONI “STUDIO PER LA FUSIONE DI UNA TESTA E DI UNA FINESTRA” • UMBERTO BOCCIONI “FORME UNICHE DELLA CONTINUITA’ NELLO SPAZIO”, 1913, GESSO Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) • FILIPPO TOMMASO MARINETTI “GUIDO GUIDI” E “ZANG TUMB TUMB” Carlo Carrà (1881-1966) • CARLO CARRA’ “LA STAZIONE DI MILANO”, 1911, OLIO SU TELA 80x90, COLLEZIONE PRIVATA • CARLO CARRA’ “RITRATTO DI MARINETTI”, 1911, OLIO SU TELA 118x81, COLLEZIONE PRIVATA • CARLO CARRA’ “MANIFESTAZIONE INTERVENTISTA (FESTA PATTRIOTTICA-DIPINTO PAROLIBERO), 1914, TEM- PERA, PENNA, CARTE INCOLLATE SU CARTONCINO 38x30, MILANO Giacomo Balla (1871-1958) • GIACOMO BALLA “DINAMISMO DI UN CANE AL GUINZAGLIO”, 1912, OLIO SU TELA 91x110, USA • GIACOMO BALLA “BAMBINA CHE CORRE SUL BALCONE”, 1912, OLIO SU TELA 125x125, MILANO • GIACOMO BALLA “FIORE FUTURISTA”, 1920, LEGNO DIPINTO Altri_____________________ • FORTUNATO DEPERO “PANCIOTTO”, 1930, PANNI COLORATI SU STOFFA • WYNDHAM LEWIS “LA FOLLA”, 1915, OLIO E GRAFITE SU TELA 200x153, LONDRA METROPOLITAN • JACON EPSTEIN “LA PERFORATRICE”, 1915, GESSO 205x141 CAPITOLO 9: IL DADAISMO Il Dadaismo a Zurigo Proclamatosi territorio neutro, la Svizzera non venne coinvolta nella Prima Guerra Mondiale e poté quindi offrire un riparo a tante personalità di diversa estrazione. Zurigo diventò un centro cosmopolita, dove circolava un senso di libertà che tuttavia non impediva di riflettere su quanto di assurdo accadeva a poche centinaia di chilometri. La società borghese fu sottoposta a una critica radicale e si biasimava la fiducia nel progresso tecnologico a vantaggio del suo opposto: l'irrazionale e la spontaneità, la provocazione. Il Centro di Zurigo ospitava locali a metà tra la bettola e il circolo culturale, dove bere alcolici e assistere a spettacoli più o meno grotteschi era la regola. Il Cabaret Voltaire si distinse per il carattere dissacratorio delle iniziative e per i linguaggi rivoluzionari sperimentati: il nome invocava il filosofo che più di ogni altro aveva condannato la morale e costumi dei contemporanei. Inoltre, appellarsi a Voltaire, significava richiamare un barlume di ragione in un frangente storico che sembrava aver smarrito il proprio. Si ospitavano conferenze di arte e letteratura, ma subito dopo la sala veniva sgombrata da tavoli e sedie per improvvisare danze su musica assordanti. Dinanzi a simili spettacoli, il pubblico partecipava nel modo più vario e alle pareti del Cabaret Voltaire i quadri cambiavano ciclicamente: da quelli di Arp, a Picasso, Modigliani, De Chirico e Prampolini. L'interesse andava soprattutto all'Espressionismo tedesco, al quale nel 1917 si dedicarono due mostre. La sera del 23 luglio 1918, Tristan Tzara montò sul palco per declamare un testo di suo pugno che oggi deve essere riletto tenendo presente la dimensione anarchica, paradossale e provocatoria del Cabaret Voltaire. L'intervento fu subito pubblicato su Dada, la rivista edita dal cabaret, e venne considerato in manifesto ufficiale di Dada. Oggi come allora, non è facile spiegare che cosa esso sia effettivamente stato. Dada ha infatti respinto ogni definizione univoca, facendo della contraddizione e del non senso il maggiore punto di forza. Dada fu un'espressione scelta per indicare un modo di vivere, prima ancora che di fare arte. Almeno nei primi tempi, le loro ambizioni furono di carattere più distruttivo che propositivo: speravano di abbattere le forme di un sistema sociale, politico e culturale nel quale non si riconoscevano. La loro ideologia rifiutava l'idea di famiglia, religione, gerarchie sociali e sessualità ancora consentita. “Dada è contro tutto, anche contro Dada”, era la contraddizione ripetuta da Tzara. Cambiare il mondo, rivoluzionarlo, significava innanzitutto scardinare i linguaggi quotidiani, dare loro una forma inedita e provocatoria. HANS ARP “SENZA TITOLO” DAL CICLO “SECONDO LE REGOLE DEL CASO”, 1917, COLLAGE SU CARTA 48x34, NEW YORK In ambito pratico, Dada ha trasformato l'estetica del ‘900 perché per la prima volta ha esaltato in modo sistematico la casualità dell'atto creativo. Nel 1916 Hans Arp intitolò “Secondo le regole del caso” alcuni suoi collage: lavori nati all'insegna della casualità (che diventa un elemento fondamentale del Dadaismo), realizzati strappando e lasciando cadere sul foglio dei frammenti di carta colorata: si segnava poi dove erano caduti, per riprodurli infine allo stesso modo. Qual è il loro significato? Nessuno, se non quello di un puro gesto libero. Anche comporre una poesia dadaista non sembrava così arduo: si prendeva un quotidiano, con le forbici si sminuzzava un articolo e il tutto andava infilato in un cappello e poi andavano in estratte casualmente delle parole una dopo l'altra. Dada era indifferente alla tradizionale idea di coerenza stilistica, preferiva battere più strade insieme. La prima fase di questa avanguardia non ha perciò una fisionomia precisa. Finita la guerra, il ruolo di Zurigo e della pacifica Svizzera andò esaurendosi: il Cabaret Voltaire fu chiuso e alcuni tornarono nei luoghi di origine, mentre altri migrarono negli Stati Uniti. Il Dadaismo in Germania Nell'immediato dopoguerra la Germania era una nazione sconfitta, esasperata dalle tensioni sociali, gravata dalle sanzioni inflitte dal trattato di Versailles, oltre che in grave crisi economica. In terra tedesca, il Dadaismo assunse sin dalle prime prove accenti marcatamente politici: quasi tutti iscritti al partito comunista, i suoi esponenti confidavano in un'arte autonoma dalle implicite finalità sociali, con un atteggiamento ferocemente satirico e dissacrante. Nel 1918 fu pubblicato un manifesto con cui si prendevano le distanze dall'Astrattismo e dall'Espressionismo. GEORGE GROSZ “RICORDATEVI DELLO ZIO AUGUSTO, L’INVENTORE INFELICE. VITTIMA DELLA SOCIETA’”, 1919, OLIO, MINA DI PIOMBO, CARTE E 5 BOTTONI INCOLLATI SU TELA, 49x39, PARIGI Questi artisti prediligevano la tecnica del fotomontaggio, alla quale ricorrevano per realizzare composizioni su carta, ma anche manifesti, volantini e pamphlet (ricordano le caricature satiriche viste anche a lezione a fine ‘800). Questa forma espressiva consisteva nella rielaborazione di immagini già esistenti: le foto venivano scelte, ritagliate e infine riassemblate tra loro in nuove composizioni, talvolta arricchite dal colore ad olio. Ogni immagine era una potenziale risorsa per loro: quotidiani, rotocalchi, libri illustrati, pubblicità, santini, oppure foto scattate da loro stessi. Alla base c'era chiaramente il collage cubista e futurista, ma i tedeschi si distinguevano tuttavia per il massiccio uso d'immagini fotografiche rispetto alla parola scritta. Ancora oggi è un fotomontaggio dadaista innesca nello spettatore un effetto spaesante: figure raccolte in contesti diversi venivano giustapposte, generando improbabili entità deformi se non mostruose. Colpisce lo scarto tra la tridimensionalità dell'immagine fotografica e la piattezza del fondo, tra la parte monocroma e quella dipinta e fra le proporzioni delle figure e dei dettagli. Ritroviamo tutto ciò in “Ricordatevi dello zio Augusto, l'inventore infelice vittima della società” di Grosz. La grottesca parodia dell'artista sul ritratto di un anonimo borghese vede occhi, mento, bocca e orecchie che non sono più i suoi, ma quelli sottratti da chissà quali personaggi e il naso è diventato uno strumento da ferramenta. Il colpo di grazia viene però dal gigantesco punto di domanda sulla fronte: in un personaggio così ridicolo potrà mai esistere qualche lampo di intelligenza? RAOUL HAUSMANN “TATLIN A CASA SUA”, 1920, FOTOMONTAGGIO SU CARTONE 41x28, SVEZIA In “Tatlin a casa” sua di Hausmann, l'effetto diventa ancora più perturbante. Protagonista è l'architetto e scultore russo Vladimir Tatlin, autore del monumento dedicato alla Terza Internazionale comunista. Hausmann ne ha sostituito la calotta cranica con un motore: è una scena da incubo, tanto più allucinata a causa del brusco passaggio tra il primissimo piano di Tatlin e la lunga fuga prospettica all'indietro. RAOUL HAUSMANN “TESTA MECCANICA (LO SPIRITO DEL TEMPO)”, 1920, PARIGI POMPIDOU I dadaisti si professavano tecnici del montaggio e la loro attenzione non cadeva soltanto sull'immagine bidimensionale. Sempre Hausmann nella “Testa meccanica (lo spirito del tempo)” propone un assemblaggio che va a significare la denuncia della l'alienazione umana: secondo il suo autore, essa dimostra come la coscienza umana consista solo di accessori insignificanti applicati al suo esterno. • HANS ARP “SENZA TITOLO” DAL CICLO “SECONDO LE REGOLE DEL CASO”, 1917, COLLAGE SU CARTA 48x34, NEW YORK • GEORGE GROSZ “RICORDATEVI DELLO ZIO AUGUSTO, L’INVENTORE INFELICE. VITTIMA DELLA SOCIETA’”, 1919, OLIO, MINA DI PIOMBO, CARTE E 5 BOTTONI INCOLLATI SU TELA, 49x39, PARIGI • RAOUL HAUSMANN “TATLIN A CASA SUA”, 1920, FOTOMONTAGGIO SU CARTONE 41x28, SVEZIA • RAOUL HAUSMANN “TESTA MECCANICA (LO SPIRITO DEL TEMPO)”, 1920, PARIGI POMPIDOU • MAX ERNST “DUE FIGURE AMBIGUE”, 1920, TECNICA MISTA SU CARTA 25x18, COLLEZIONE PRIV. • KURT SCHWITTERS “MERZBAU”, FOTOGRAFATA AD HANNOVER NEL 1933 • MARCEL DUCHAMP “FOUNTAIN”, 1917, FOTOGRAFIA • MARCEL DUCHAMP “RUOTA DI BICICLETTA”, 1913, E “SCOLABOTTIGLIE”, 1914 • FRANCIS PICABIA “MACHINE TOURNEZ VITE”, 1916, TECNICA MISTA SU CARTA 49x32 CAPITOLO 10: IL SUPREMATISMO (la Russia prima e dopo la Rivoluzione) Il Futurismo in Russia Se il Futurismo è stato un movimento tra i più importanti d’inizio ‘900, non è solo per l'originalità delle sue idee, ma anche per la forza con cui ha saputo diffondere tali idee, ben oltre i confini italiani e riuscì a favorirne la rapida penetrazione anche in ambienti lontani da quelli di origine. La nuova avanguardia italiana finì per affascinare gli artisti stranieri, i quali ne adottarono ideali linguaggi, declinandoli alla propria maniera, insieme al Cubismo. Il Cubofuturismo fu il termine con cui si soleva definire opere dallo stile ibrido, in bilico fra Cubismo e Futurismo. In alcuni paesi, invece, il Futurismo attecchì generando tendenze autonome. Nel 1914 Marinetti fece il proprio ingresso a Mosca, ma a quell'epoca le idee dell'avanguardia italiana potevano dirsi già penetrate (diverse opere di Giacomo Balla, infatti, erano state esposte in gallerie private e vi erano stati i soggiorni parigini di alcuni pittori russi). Fu così che in Russia, tra Mosca e San Pietroburgo, maturarono esperienze, per molti versi debitrici al Futurismo. MICHAIL LARIONOV “VETRO”, 1912, OLIO SU TELA 104x97, NEW YORK Teorizzato nel 1912 da Michail Larionov e da sua moglie, il Raggismo elaborò un linguaggio sempre più sganciato dalla realtà, approdando infine a una pittura non oggettiva. Si pose come primo scopo quello di rivelare le forme dello spazio che possono prodursi laddove si incrociano i raggi riflessi da oggetti diversi, forme create secondo il volere dell'artista. Attraverso lunghi segmenti colorati, vengono restituite sulla tela le rifrazione della luce e il soggetto si fonde con il contesto, il primo piano diventa indistinguibile dal secondo. NATALIA GONCANOVA “IL CICLISTA”, 1916, OLIO SU TELA 78x105, SAN PIETROBURGO A differenza del marito. Goncarova preferì mantenersi entro i confini della leggibilità: il dinamismo rende instabili i profili della figura, mentre tutto attorno galleggiano grandi lettere dell'alfabeto cirillico. Si potrebbe dire che è dipinto alla prima maniera di Balla. Kazimir Malevic (1878-1935) KAZMIR MALEVIC “QUADRATO NERO”, 1915, OLIO SU TELA 79x79, MOSCA Un aspetto, tuttavia, distingue il corso dell'Avanguardia russa da quelle francesi, italiane e tedesche: il desiderio di non rompere i ponti con il pensiero, la religiosità e le tradizioni locali. L'artista russo più radicale fu Kazimir Malevic e qui vediamo il suo capolavoro “Quadrato nero”: un dipinto che, quando nel dicembre del 1915 apparve in pubblico, generò un vero sgomento. I critici affermarono di trovarsi dinanzi al deserto, meglio ancora al nulla. Il quadro è una semplice figura geometrica interamente campita di nero e galleggiante nel bianco. È un'opera che sembra azzerare la storia dell'arte e ci fa sentire la vertigine del vuoto. Nero è un muro invalicabile, un'invocazione al silenzio oppure a un nuovo spazio da sondare per scoprirne il mistero? Non ritrae il mondo di tutti i giorni, ma assume il valore di oggetto autoreferenziale, rimanda a sé e nient'altro. A dispetto del titolo, non siamo dinanzi in realtà a un quadrato, ma un quadrilatero. È questa una peculiarità di tutte le opere geometriche di Malevic: anche quando sembrano all'insegna della forma più pura e regolare, presentano un motivo di instabilità che, per quanto lieve, sconvolge l'idea di forma perfetta. LA SALA PERSONALE DI MALEVIC ALLA MOSTRA O, IO, 1915 SAN PIETROBURGO L'allestimento di una mostra tenutasi nel 1915 a San Pietroburgo non era meno criptico delle opere esposte (il suo titolo “O, IO”). Da questa foto, capiamo che il dipinto non costituiva un caso isolato in Malevic: le opere appese erano fortemente inclinate in avanti per esaltare il carattere materiale di ciascuna tela e il suo impatto sull’osservatore. “Quadrato nero” era collocato allo spigolo della sala, nel posto in cui le famiglie contadine solevano collocare le icone religiose: in questo modo l'artista svelava il carattere spirituale, anzi mistico, della propria ricerca. KAZMIR MALEVIC “COMPOSIZIONE SUPREMATISTA”, 1915, OLIO SU TELA 88x70, AMSTERDAM Malevic diede il nome di Suprematismo. Dopo gli esordi Post-impressionisti, infatti, aveva messo a punto un personale linguaggio Cubofuturista: i temi erano d'ispirazione sociale, figure di dei dintorni di Mosca, dove si era trasferito dalla originaria Ucraina. Finché nel 1915, in collaborazione con il poeta Vladimir Mayakovsky a San Pietroburgo, l'artista pubblicò il manifesto “Dal Cubismo al Suprematismo. Il nuovo Realismo pittorico”: “per Suprematismo. Io intendo la supremazia della pura sensibilità nell'arte, le apparenze esteriori della natura non offrono alcun interesse”. È impressionante quale operazione di sintesi Malevic abbia condotto: nel suo caso le forme ruotavano liberamente in una spazialità ambigua, talvolta sovrapponendosi. KAZMIR MALEVIC “BIANCO SU BIANCO”, 1918, OLIO SU TELA 79x79, NEW YORK Nel 1918 Malevic creò la serie del “Bianco sul bianco”: opere dall'essenzialità estrema, nelle quali un quadrato bianco, decentrato e ruotato rispetto ai suoi assi, risulta appena percepibile grazie a una diversa sfumatura. A questa fase corrisponde un testo in cui l'artista identifica la conoscenza dello zero con la conoscenza di Dio, della natura, della bellezza e dell'assoluto. Malevic smise quasi di dipingere per dedicarsi all'insegnamento e alla trasposizione delle sue ricerche in campo architettonico: riprese poi la tavolozza e pennelli solo dopo un decennio e nel 1930 fu arrestato. assumendo un andamento centripeto, quasi ovale. Anche i colori mutano. Mosso da un atteggiamento quasi didattico, è come se Mondrian ci facesse entrare nel vivo del suo percorso, spiegandoci con puntiglio le tappe di una conquista talmente innovativa da superare quella di Braque e Picasso. PIET MONDRIAN “MOLO E OCEANO”, 1915, OLIO SU TELA 85x108, PAESI BASSI La sfida dell'artista fu di andare ancora oltre: nel 1915 dipinse “Molo e oceano”, composizione ovale su una tela da fondo bianco attraversata da una pioggia di segni neri ortogonali. Sono i segni del più e del meno, formula che darà il nome a un'intera serie successiva. Un ultimo riferimento reale permane nel titolo, ma è proprio questo lavoro (tra i primi monocromi nella pittura del 900) a sancire l'ingresso dell'artista nei ranghi dell'astrazione. De Stijl GERRIT THOMAS RIETVELD “SEDIA ROSSO-BLU”, 1918, LEGNO DIPINTO 86x64x68, AMSTERDAM Mondrian non fu solo in questa impresa: una volta tornato in Olanda, condivise i propri ideali con alcuni colleghi. Nel 1917 nacque così De Stijl (letteralmente “lo stile”), gruppo da lui stesso promosso e dotatosi di una rivista omonima. Il manifesto del gruppo inneggiava la tensione verso l'universale e rifiutava l'individualismo dell'atto creativo. Merito del De Stjl fu soprattutto quello di favorire il passaggio dall'esperienza pittorica di Mondrian a quella architettonica e del design. È in questo ambiente che viene ideata “La sedia rosso-blu” dall'architetto olandese Gerrit Thomas Rietveld, accostandosi di fatto al linguaggio del razionalismo architettonico europeo. THEO VAN DOESBURG “CONTRO- COMPOSIZIONE V”, 1924, OLIO SU TELA 100x100, AMSTERDAM Il Neoplasticismo si diffuse in Europa e in Russia, ma compagine originaria del De Stjl era però destinata a vita breve: consumata da polemiche interne e dalle continue defezioni dei suoi protagonisti, nel 1924 Mondrian uscì dal gruppo. La scelta fu dettata dalle sempre più aspre divergenze, specie con Van Doesburg: pare sia stata risolutiva la sua decisione di reinserire la linea diagonale nei suoi dipinti. PIET MONDRIAN “VICTORY BOOGIE WOOGIE”, 1942-44, OLIO E CARTA SU TELA 127x127, L’AIA Nel 1940 l'artista si trasferì negli Stati Uniti per sfuggire ai pericoli della guerra in corso. La sua pittura qui cambio, acquistando una freschezza nuova, e sparirono le bande nere. Ispirata ai ritmi della metropoli, la composizione divenne più animata, in alcuni casi al limite del frenetico. Lasciato incompiuto per la morte improvvisa, “Victory Boogie Woogie” vuole essere un tributo allo scatenato ballo americano e alla terra che lo aveva accolto. Piet Mondrian (1872-1944) • PIET MONDIAN “COMPOSIZIONE A”, 1919-20, OLIO SU TELA 91x91, ROMA • PIET MONDRIAN “ALBERO ROSSO”, 1910 / “L’ALBERO”, 1912 / “MELO IN FIORE”, 1912 • PIET MONDRIAN “MOLO E OCEANO”, 1915, OLIO SU TELA 85x108, PAESI BASSI • PIET MONDRIAN “VICTORY BOOGIE WOOGIE”, 1942-44, OLIO E CARTA SU TELA 127x127, L’AIA Altri_________________________ • GERRIT THOMAS RIETVELD “SEDIA ROSSO-BLU”, 1918, LEGNO DIPINTO 86x64x68, AMSTERDAM • THEO VAN DOESBURG “CONTRO-COMPOSIZIONE V”, 1924, OLIO SU TELA 100x100, AMSTERDAM TRA LE DUE GUERRE Lineamenti storici Gli anni successivi alla grande guerra Mostrarono un'Europa non solo devastata dal conflitto, ma di fronte a uno scenario tutt'altro che pacificato: nei decenni seguenti, infatti, si imporranno diversi regimi dittatoriali, Alimentati da sentimenti nazionalisti forti e dalle catastrofiche conseguenze. Il conflitto, peraltro, continua a uccidere anche ad armistizio siglato: viene battezzata spagnola l'influenza letale partita dalle trincee e che per almeno un biennio mieterà più vittime di quante ne aveva fatte la peste nera. Sono così crollate come carte da gioco realtà secolari che si pensavano eterne, come l'impero austro ungarico e quello ottomano, e i confini degli Stati vengono ridefiniti. A dominare è comunque un clima di insoddisfazione profondissima. La storia di quegli anni interminabili ci insegna che alcune radicali ideologie del ‘900, comunismo e nazifascismo, sono state le peggiori nemiche dell'arte, perché se ne sono servite per scopi biecamente strumentali. Per la loro natura totalitaria, le dittature hanno bisogno che tutti gli ingranaggi della macchina concorrono all'identico fine, ovvero il proprio mantenimento, attraverso l'uso dell'arte come strumento puro di propaganda. Il tutto diventa tanto più indispensabile se il retroscena è occupato da una popolazione per lo più analfabeta e priva di strumenti della cultura. Sotto le dittature, il linguaggio degli artisti non può permettersi innovazioni e sperimentalismi: le avanguardie perdono dunque diritto di esistenza a vantaggio di una ricerca estetica fondata non sulla forma ma sul contenuto. Stalin deprecava le conquiste di Malevic e del Costruttivismo: non accettava quelle che gli sembravano ricerche troppo sofisticate e soprattutto riteneva che le masse meritassero opere in cui rispecchiarsi senza intellettualismi. Ecco allora nascere il Realismo Socialista. Courbet aveva affrontato gli stessi temi, ma le sue erano opere di denuncia, opere coraggiose, nate da un sentimento di sincera adesione alle classi più umili. Gli illustratori di Stalin, invece, stavano con il governo, appoggiandone indiscriminatamente le manovre e per questo ci hanno mostrato scene ben poco verosimili: lavoratori nerboruti e sorridenti e niente affatto piegati dalla fatica. Questo fenomeno alla fine ha generato un'inflazione di quadri simili ed indistinguibili tra loro. Poco meno di dieci anni dopo in Germania si ripeté un copione per molti versi analogo. Hitler non tollerava gli espressionisti di inizio secolo, le loro figure sgraziate, sosteneva che trasmettevano valori insani, decisamente corrotti. Fu così che non solo quelle personalità furono interdette dalla vita pubblica, ma si iniziò a requisire le loro opere, che divennero oggetto dell’“Arte degenerata”, mostra itinerante che tra il ‘37 e il ‘38 attraversò la Germania intera. Terminato il lungo tour, i quadri e le sculture finirono al rogo. Il Terzo Reich favorì, anzi impose, un'arte tendente al bello ideale e dalla indiscutibile perizia tecnica: si trattava di sculture e dipinti di una perfezione talmente gelida da mancare di vita e dunque il più delle volte di ogni interesse artistico. In Italia le cose non andarono diversamente, anche se Mussolini non giunse mai a codificare una linea estetica sulla quale collocarsi, anche perché i suoi gusti potevano dirsi alquanto instabili, per non dire contraddittori. Amava il Futurismo, che nel primo dopoguerra stava continuando la sua corsa, anche se in forma assai diverse da quelle pensate da Boccioni, ma nel contempo apprezzava e favoriva il “Novecento”, neonato gruppo di orientamento classicista. È soprattutto per questo motivo che in Italia fiorì una straordinaria gamma di linguaggi: dalla figurazione più composta e classicheggiante, all'astrazione passando per l'Espressionismo. Questo almeno fino al 1938, quando nella stretta mortale con la Germania, vennero emanate anche in Italia le leggi razziali e la maggioranza degli artisti seguì con favore l'ascesa del regime. Vennero istituiti premi e nacquero mostre sparse in ogni provincia italiana allo scopo di offrire visibilità agli iscritti al Sindacato degli artisti. Proprio perché maturata sotto la più deprecabile forma di governo, l'arte italiana del tempo è stata a lungo vittima di incomprensioni e solo nelle ultime decadi è iniziata una paziente rilettura, libera da lenti ideologiche e volta a studiare le opere in sé. CAPITOLO 12: IL PANORAMA ITALIANO DOPO LE AVANGUARDIE (Metafisica, Ritorno all’ordine, Novecento e Futurismo) Giorgio De Chirico (1888-1978) e la Metafisica Nel 1909 Giorgio de Chirico era un pittore appena ventunenne, ignoto al pubblico e in continuo viaggio fra le capitali d'Europa. Fino ad allora aveva dipinto drammatiche scene mitologiche e molte prove alludevano alla sua terra natale, la Grecia, svelando una sensibilità tardo romantica maturata presso l'Accademia di Belle Arti di Monaco di Baviera. Nell'autunno di quell'anno, ospite dello zio materno, l'artista trascorse alcune settimane a Firenze. Era un periodo segnato dai postumi di una gastrite, che gli procuravano spasmi tali da avere una percezione alterata della realtà. E successe proprio questo in un limpido pomeriggio d'ottobre: De Chirico sedeva su una panca di piazza Santa Croce, quando a un tratto ebbe un'esperienza di rara intensità intuitiva. Il fascino per quel luogo carico di storia, l'aria ancora calda, la luce del tramonto, uniti al suo particolare stato fisico, gli procurarono quasi un’allucinazione. GIORGO DE CHIRICO “L’ENIGMA DI UN POMERIGGIO D’AUTUNNO2, 1909, OLIO SU TELA 45x60, COLLEZIONE PRIVATA Nei giorni a seguire provò a tradurre sulla tela quell'immagine interiore e così nacque “L'enigma di un pomeriggio d'autunno”. Quando nel 1912 il quadro venne finalmente esposto in pubblico al Salon des Indépendants a Parigi, l'artista scelse di accompagnarlo con alcune note che ne raccontavano la genesi: “ebbi la strana impressione di guardare quelle cose per la prima volta e la composizione del dipinto si rivelò all'occhio della mente”. In quest'opera rimane una traccia piuttosto vaga della piazza fiorentina: De Chirico ne ha dato un'interpretazione trasfigurata, collocandola in una dimensione temporale pressoché indefinibile. Il suolo non è lastricato ma sabbioso, mentre il cielo assume un'improbabile intonazione verdastra. La statua ottocentesca di Dante, che oggi si trova sul sagrato ma che all'epoca sorgeva al centro della piazza, si è trasformata in una statua antica e per di più è senza testa. La facciata gotica di Santa Croce viene sostituita a sua volta da marmoreo edificio classicheggiante, ma ricorda anche molto gli edifici degli affreschi giotteschi presenti nella cappella della stessa chiesa. Una quiete carica di tensione permea l'intera scena. L'ambiente è diviso in un apparato scenico orizzontale: la parte più vicina sembra il regno dell'immobilità, mentre quella più lontana, attraversata da un veliero, presume invece la vita e il movimento. Possiamo solo immaginare quanto accade oltre l'orizzonte e in questo c'è forse un rimando letterario all'idea di infinito di Giacomo Leopardi: l’intuibile è più poetico e misterioso di ciò che si vede. Il drappo nero nel tempio allude invece al mistero inviolabile e ai piedi della statua vagano due figure con atteggiamenti sconsolati, dove una reca la mano al volto in un gesto di muta disperazione. De Chirico considerava il quadro concepito in piazza Santa Croce un punto fermo nella propria carriera. E in effetti si tratta di un'opera cruciale, che inaugurava una sensibilità nuova: era il battesimo dell'arte Metafisica, come De Chirico stesso l'avrebbe chiamata desmumendone il nome dalla filosofia antica e appellandosi al pensiero di Schopenhauer e Nietzsche. Insieme al Futurismo, la Metafisica rappresentò il maggiore contributo italiano all'arte di inizio ‘900: senza il suo esempio, negli anni ‘20 sarebbero pressoché impensabili sia il Surrealismo che anche la Pop Art. Seppur contemporanea del Futurismo, la Metafisica avanzava secondo Ritorno all’ordine MARIO SIRONI “BALLERINA”, 1919, TEMPERA E COLLAGE SU CARTA 76x55, MILANO MARIO SIRONI “L’ALLIEVA”, 1924, OLIO SU TELA 97x75, COLLEZIONE P Per capire cambiamenti nell'arte italiana ed europea sul finire degli anni ‘10 del ‘900, si può procedere a un confronto fra due opere di Mario Sironi. In “Ballerina” vediamo una tecnica complessa (olio su tela con ampi brani a collage), un tema di esplicita modernità,anatomie stilizzate e il piglio un po grottesco del volto. Il tutto risulta antgrazioso. Ne “L'allieva” invece dichiara una sensibilità opposta, votata alla classicità. L'opera presenta una chiarezza esemplare, il busto della giovane donna si erge circondato da una statua antica, un vaso, una squadra (i suoi strumenti dell'apprendistato) e alla finestra si scorge una piramide. L'opera richiama i modelli della ritrattistica rinascimentale e tutto e evoca un senso di ordine e misura e controllo. Le due opere di Sironi, dunque, non potrebbero essere più diverse tra loro. C’è il recupero dei più canonici linguaggi figurativi e “tradizione” diventa la nuova parola chiave. Si parla anche di “classicità moderna”, intendendo ispirarsi all'antico per fare un'arte che sia espressione del presente. La storiografia ha battezzato questa tendenza con l'espressione “Ritorno all'ordine”: è un ritorno all'arte come imitazione della realtà, con i suoi dati costruttivi e plastici, all'importanza della tecnica, all'abilità artigianale del mestiere di pittore e scultore e ai generi pittorici come natura morta, paesaggio e figura umana. Ma che cosa provocò un così potente appello al passato? È vero che le avanguardie di inizio secolo sembravano aver sancito un punto di non ritorno e avevano esaurito la loro carica più vitale. Per tutti il rischio consisteva nel trasformare l'avanguardia in un'accademia, ma questo pareva solo il primo dei problemi. Presto si comprese infatti, che il sogno utopico e rigeneratore degli artisti più innovativi aveva mancato il segno e a molti parve sufficiente per decretare il fallimento di quell'esperienza. Tanta disillusione era aggravata dalla guerra appena finita, da cui non avevano fatto più ritorno dal fronte molti artisti o che, come Apollinaire, erano morti di febbre spagnola. Insomma, tutto sembrava invocare una sosta, una pausa da tanto affanno: doveva iniziare un severo riesame di quanto fatto finora. GINO SEVERINI “MATERNITA’”, 1916, OLIO SU TELA 92x65, AREZZO In realtà, a metà degli anni ‘10 si erano già visti in alcuni casi segnali rivelatori di una nuova sensibilità, ad esempio in Picasso, Derain e in Gino Severini. Ad esempio, in “Maternita” l'artista ritrae la moglie mentre allatta e assume la monumentalità degna di una Madonna toscana del ‘400. Opere singolari, tanto più sorprendenti perché dipinte da chi per primo aveva scardinato le norme della rappresentazione e mostrano come il guardare indietro diventa il solo modo per avanzare. Valori plastici era un periodico d'arte redatto dagli artisti stessi che volevano allontanarsi dalle avanguardie e si dedicava per intero ai temi della pittura e della scultura. Vi erano pubblicate immagini e testi di non pochi autori stranieri e allo stesso modo circolarono anche oltralpe le opere nazionali, garantendo una prima ma sicura visibilità agli autori italiani. GIORGIO DE CHIRICO “LA PARTENZA DEGLI ARGONAUTI”, 1920, TEMPERA SU TELA 54x73 Giorgio de Chirico fu l'alfiere del Ritorno all'ordine in Italia. Ne “La partenza degli Argonauti” vediamo una scena mitologica, ma i protagonisti del titolo (gli Argonauti) possiamo solo immaginarli: sono infatti appena salpati sul piccolo veliero in lontananza. Rimangono due atletici nudi, un vecchio in meditazione e una donna. Lo spazio è cristallino, comprensibile al primo sguardo: niente a che vedere con le piazze metafisiche dipinte poco innanzi. Il nuovo de Chirico si ispira al primo Rinascimento e la tecnica è soprattutto quattrocentesca: non olio, ma tempera all'uovo, distribuita con brevi pazienti pennellate. CARLO CARRA’ “LE FIGLIE DI LOTH”, 1919, OLIO SU TELA 11x80, TRENTO Esattamente come de Chirico, anche Carrà si appellò al passato, ma nel suo caso si indietreggiò ancora più nel tempo. Ne “Le figlie di Loth” incanta l'atmosfera tersa come una mattinata primaverile e i colori sono profondi e smaltati. Il titolo rimanda a un episodio dell'Antico Testamento, ma nessuna Iconografia della storia dell'arte ha mai mostrato così le figlie di Loth colpevoli di aver commesso incesto con il proprio padre. Le due figure ricordano piuttosto i protagonisti di un’Annunciazione. Il paesaggio brullo, i volumi così semplificati portano invece il nome di Giotto. C'è addirittura una citazione: il levriero al centro della scena sembra trasportato di peso dalle storie di Gioacchino e di Maria, che si trova nella Cappella degli Scrovegni di Padova. ARTURO MARTINI “IL FIGLIOL PRODIGO”, 1927, BRONZO 212x149x99, ALESSANDRIA Arturo Martini è uno scultore che raggiunge la prima maturità proprio al fianco del dei compagni di Valori plastici. Anche per lui la classicità rappresenta la meta, ma si impose sulla scena anche per la disinvoltura con cui attingeva a registri stilistici tra loro diversi, quasi opposti. Né “Il figliol prodigo” Martini appare un maestro antico rinato nel ‘900. Quando, già pochi anni dopo la sua esecuzione, questo gruppo fu esposto in pubblico i critici, si affannano per individuarne fonti e modelli, ma mancava quello effettivo, svelato solo da studi recenti: Martini si era infatti ispirato a un gruppo scultoreo duecentesco, la “Deposizione”, conservata nel Duomo di Tivoli. MARINO MARINI “L’ANGELO DERLLA CITTA’”, 1948, BRONZO 175x176x106, VENEZIA Come per Martini, anche per Marino Marini fu fondamentale il rapporto con l'arte del passato. Si era innamorato di un nuovo tema, quello dell'uomo a cavallo e ne “L'angelo della città” un cavallo punta dritto dinanzi a sé. Il cavaliere, nel frattempo, stira le gambe, allarga entrambe le braccia con le mani chiuse a pugno, alza il capo verso l'alto. Ogni parte del corpo, compreso il membro virile, è come attraversata da una scarica elettrica. Non c'è alcun intento narrativo: c'è al contrario una riflessione sull'incrocio tra spinte orizzontali e tensioni trasversali, mentre si recuperano forme sia dell'arte arcaica sia dell'avanguardia di primo ‘900. Il gruppo Novecento Esattamente nella stessa stagione di Valori plastici, a Milano maturava un'esperienza di pari valore e destinata a lasciare tracce profonde negli anni a seguire. Protagonista era un gruppo di artisti quasi tutti dai trascorsi futuristi e un'agguerrita critica, Margherita Sarfatti. Anche per loro si trattava di superare gli sperimentalismi di inizio secolo e, diversamente dai romani, occorreva però rifiutare quel carattere antico non in linea coi tempi. I quadri di De Chirico, Carrà e colleghi sembravano un'adesione passiva e un pò troppo ostinata agli ideali del passato. “Contro tutti i ritorni in pittura” è il manifesto del 1920: l'arte moderna, dove ben imboccare un'altra via, quella della costruzione sintetica e geometrica dell'immagine, della solidità della forma contro l'Impressionismo e il Futurismo. Per Sarfatti bisognava ricercare un'arte fondata sul primato della figura umana, ma non per questo destinata a sfociare in un piatto naturalismo. Presso il suo salotto letterario iniziò a radunarsi settimanalmente una compagine di autori autobattezzatisi “Sette pittori di Novecento”. Era un nome altisonante, con il quale gli artisti volevano accreditarsi come protagonisti di un'epoca. I propositi in effetti non furono smentiti e i successi giunsero rapidamente (la conferma giunse nel 1926). Per oltre un lustro, Novecento divenne l'etichetta per definire la maggioranza degli artisti italiani ispirati a una ricerca genericamente classicista. ACHILLE FUNI “LA TERRA”, 1921, OLIO SU TELA, COLLEZIONE PRIVATA Uno dei suoi protagonisti fu il ferrarese Achille Funi. Ne “La terra” è protagonista una giovane donna il cui sguardo è fisso nel nostro. In questo dipinto la moderna classicità, ambita dagli artisti di Novecento e teorizzata da Sarfatti, trova uno degli esiti più alti. Funi ha dipinto un'allegoria, quella della madre terra, della rinascita in tempo di pace dopo il conflitto: ha riscritto un quadro di Tiziano, la cosiddetta “Lavinia”, oggi a Berlino, e al contempo ha però conferito all'insieme un'aria di attualità, una naturalezza tutta quotidiana. MARIO SIRONI “ITALIA CORPORATIVA”, 1936, MOSAICO 800x350, MILANO Tra tutti gli artisti di 900 è stato Mario Sironi, il prediletto di dasar fatti. E in effetti egli era colui che spiccava come il più originale ((Di lui abbiamo visto prima, ad esempio, l'allieva)). Nell'Esposizione Universale di Parigi del 1937, per la quale Picasso dipinse in gran velocità Guernica, l'Italia esibiva un gigantesco pannello: un mosaico per l'esattezza di quasi 100 m², collocato in un salone con le pareti lastricate di marmo bianco. “L'Italia corporativa” era stato realizzato l'anno prima da Mario Sironi per creare un'allegoria dell'operosità e del buon governo (da notare che il corporativa del titolo una parola del lessico fascista). Al centro spicca una matrona avvolta da una stola bianca: personifica la Nazione e, con il gesto della mano sinistra, dirige l'umanità circostante. Tutt'attorno, disposte su vari livelli di un paesaggio terroso, si allineano laboriose figure, a torso nudo o vestiti all'antica. I richiami alle civiltà mediterranee, soprattutto quelle etrusca, sono evidenti. “L'Italia Corporativa” Figure a sé: Morandi, De Pisis e Savinio GIORGIO MORANDI “PAESAGGIO CON CASA ROSA”, 1927, OLIO SU TELA 61x47, ROMA Giorgio Morandi è un caso speciale nella storia del ‘900. Nato a Bologna, scelse di continuare lì la propria esistenza e si assicurò da vivere grazie all’ insegnamento. Viaggiò pochissimo e la sua cultura visiva maturò grazie ai libri e alle riviste con le tavole dei maestri degli antichi e quelli francesi del ‘7/’800. Morandi comunque non fu isolato, semmai fu una figura schiva, estranea a movimenti e tendenze, se si eccettua la breve ma fondamentale fase metafisica. Non è senza il significato il fatto che egli stesso abbia distrutto diversi dipinti perché li reputava irrisolti o lontani dalla compiutezza. Sono solo due i generi affrontati in una carriera lunga oltre cinque decadi: il paesaggio e le nature morte. Morandi non inventava, non concedeva sfoghi alla fantasia: gli serviva sempre un modello davanti agli occhi. Prendeva sempre gli stessi umili oggetti, che vediamo lentamente consumarsi nei vari dipinti, vittime di piccoli incidenti domestici. L'artista ne altera le proporzioni, ce li fa sentire solidissimi oppure smaterializzati, drammatizza le luci creando minacciose ombre o effetti bidimensionali. Visto in questi termini c'è ben poca monotonia: Morandi è il pittore più vivo e mutevole che esista. GIORGIO MORANDI “NATURA MORTA”, 1923, OLIO SU TELA, COLLEZIONE PRIVATA Tutto ciò diventa lampante dinanzi a un capolavoro del 1923, una natura morta che diversamente dalle altre, è dipinta su una tela dal formato quadrato. La composizione si addensa attorno al nucleo centrale, formata da sette oggetti tra i più comuni nella nelle povere case italiane di inizio secolo. Potremmo interpretare il quadro come la testimonianza di un tempo andato, quasi un documento dal valore antropologico. Negli stessi anni il poeta Eugenio Montale elaborava il concetto di “correlativo oggettivo”, riconoscendo negli oggetti più umili il suo stato esistenziale, la propria interiorità. Quasi sicuramente, però, Morandi aveva altri propositi: in questo quadro intimo e austero ad un tempo, il desiderio era fare pittura allo stato puro. Egli ha consegnato una tela miracolosamente dipinta, capace di emozionare ed emozionarci perché della pittura qui percepiamo tutto il calore e la fragranza. Insieme alla pittura, Morandi ha frequentato con assiduità anche l'incisione. L'essere in continua controtendenza non gli ha però precluso la stima dei contemporanei, anzi già in vita la fama di Morandi fu altissima. I critici dicevano di lui che ha fatto proprio e rinnovato ciò che più connota la tradizione italiana: il rigore della forma, l'equilibrio della composizione e la luminosità del colore. FILIPPO DE PISIS “LA LEPRE”, 1933, OLIO SU TELA 62x90, FERRARA Anche Filippo de Pisis rappresenta per molti versi una figura a sè nelle vicende artistiche del ‘900. Oltre ai generi del ritratto e del paesaggio, frequento costantemente anche la natura morta, ma in modo ben diverso da Morandi, come lo dimostra l’opera La lepre. La fattura è rapida e non poteva che essere così: la lepre si sarebbe altrimenti putrefatta, facendo perdere alla pittura il suo incanto. De Pisis, pittore e poeta, agli esordi nella Ferrara metafisica di De Chirico si è impegnato per tutta la carriera a contaminare tra loro i due linguaggi. Solo così è possibile capire i quadri che, nell'apparente banalità del soggetto, ci sorprendono perché memorie di un istante autenticamente vissuto. ALBERTO SAVINIO “RUGGERO E ANGELICA”, 1931, OLIO SU TELA 90x73, COLLEZIONE PRIVATA Alberto Savinio è il fratello di Giorgio de Chirico: per distinguersi dal fratello, cambio nome. È una personalità rara nella cultura italiana del secolo, un genio versatile: pittore e musicista, poeta, scrittore, drammaturgo e scenografo. Per la commistione tra sogno e realtà, le sue opere rivelano piuttosto la vicinanza al Surrealismo, rispetto al quale, tuttavia, egli avrebbe sempre rivendicato l'autonomia. La storia di Ruggero e Angelica ricorre con una certa frequenza nella storia dell'arte: nell'episodio che li ivede protagonisti Angelica è stata legata a uno scoglio e data in pasto a un'orca marina, ma viene salvata da Ruggero che giunge a liberarla in sella all’ippogrifo. Tra le tante versioni, però, nessuna somiglia a quella dipinta nel 1931 da Savinio: la consueta iconografia viene rispettata solamente in parte e inoltre i corpi hanno assunto proporzioni esagerate. Quanto veramente sconvolge, però, è il volto di Ruggero: non più umano, ma di un gallo. Allegri e solari, i colori sono applicati sulla tela con una miriade di pennellate e ciò non toglie che alla fine l'effetto d'insieme risulti ben poco rassicurante. Anche perché gli ingombranti personaggi spiccano in un ambiente che non sapremmo definire con esattezza, visto che gli stucchi alle pareti ci fanno pensare a un interno borghese, ma la prospettiva è così sghemba che sembra essere su una barca. La posa di Angelica è ripresa da un capolavoro di Correggio “Educazione di Cupido”. ALBERTO SAVINIO “ANNUNCIAZIONE”, 1932, OLIO SU TELA 99x75, MILANO Quest'opera è un quadro tipico di Savinio e da solo quasi basterebbe per spiegarne l'intera formidabile carriera. Il carattere letterario, il mito rivisitato, l'irrazionale, il fantastico e soprattutto l'uso della storia dell'arte come enorme bacino da cui attingere. Questi sono elementi presenti anche nell'opera “Annunciazione”, senonché qui un gigantesco angelo appare all'esterno di una finestra sghemba, mentre la vergine ha un volto di pellicano, un animale che nel Medioevo era stato un simbolo di Cristo. Giorgio De Chirico (1888-1978) • GIORGO DE CHIRICO “L’ENIGMA DI UN POMERIGGIO D’AUTUNNO2, 1909, OLIO SU TELA 45x60, COLLEZIONE PRI- VATA • GIORGIO DE CHIRICO “CONQUISTA DEL FILOSOFO”, 1914, OLIO SU TELA 125x100, CHICAGO • GIORGIO DE CHIRICO “LA STAZIONE DI MONTPARNASSE”, 1914, OLIO SU TELA 140x184, NY • GIORGIO DE CHIRICO “ETTORE E ANDROMACA”, 1917, OLIO SU TELA 60x60, COLLEZIONE PRIVATA • GIORGIO DE CHIRICO “IL GRANDE METAFISICO”, 1917, OLIO SU TELA 105x69, COLLEZIONE PR. • GIORGIO DE CHIRICO “LE MUSE INQUITANTI”, 1918, OLIO SU TELA 97x66, COLLEZIONE PRIVATA • GIORGIO DE CHIRICO “LA PARTENZA DEGLI ARGONAUTI”, 1920, TEMPERA SU TELA 54x73 Carlo Carrà (1881-1966) • CARLO CARRA’ “MADRE E FIGLIO”, 1917, OLIO SU TELA 90x59, MILANO • CARLO CARRA’ “LE FIGLIE DI LOTH”, 1919, OLIO SU TELA 11x80, TRENTO Mario Sironi (1885-1961) • MARIO SIRONI “BALLERINA”, 1919, TEMPERA E COLLAGE SU CARTA 76x55, MILANO • MARIO SIRONI “L’ALLIEVA”, 1924, OLIO SU TELA 97x75, COLLEZIONE P • MARIO SIRONI “ITALIA CORPORATIVA”, 1936, MOSAICO 800x350, MILANO Achille Funi (1890-1972) • ACHILLE FUNI “LA TERRA”, 1921, OLIO SU TELA, COLLEZIONE PRIVATA • ACHILLE FUNI “SAN GIORGIO E IL DRAGO”, 1934-38, AFFRESCO, FERRARA Enrico Prampolini (1894-1956) • ENRICO PRAMPOLINI “RAREFAZIONE SIDERALE”, 1940, OLIO SU TAVOLA, COLLEZIONE PRIVATA • ENRICO PRAMPOLINI “RITRATTO POLIMATERICO DI MARINETTI”, 1929, OLIO E MATERIALI SU TAVOLA Giorgio Morandi (1890-1964) • GIORGIO MORANDI “PAESAGGIO CON CASA ROSA”, 1927, OLIO SU TELA 61x47, ROMA • GIORGIO MORANDI “NATURA MORTA”, 1923, OLIO SU TELA, COLLEZIONE PRIVATA Alberto Savinio (1891-1952) • ALBERTO SAVINIO “RUGGERO E ANGELICA”, 1931, OLIO SU TELA 90x73, COLLEZIONE PRIVATA • ALBERTO SAVINIO “ANNUNCIAZIONE”, 1932, OLIO SU TELA 99x75, MILANO Altri________________________ • GINO SEVERINI “MATERNITA’”, 1916, OLIO SU TELA 92x65, AREZZO • ARTURO MARTINI “IL FIGLIOL PRODIGO”, 1927, BRONZO 212x149x99, ALESSANDRIA • MARINO MARINI “L’ANGELO DERLLA CITTA’”, 1948, BRONZO 175x176x106, VENEZIA • FORTUNATO DEPERO “GRATTACIELI E TUNNEL. NEW YORK”, 1930, TEMPERA SU CARTA 68x102 • GERARDO DOTTORI “LA CORSA” E “L’ARRIVO”, 1924-27 • FILIPPO DE PISIS “LA LEPRE”, 1933, OLIO SU TELA 62x90, FERRARA Il Surrealismo Negli anni ‘20 gli stessi artisti che prima professavano una fede assoluta nella modernità, ora tendevano a riconciliarsi con la tradizione. Per quanto diffusa, però, questa non fu la sola tendenza del decennio: in contemporanea emerse infatti il Surrealismo, un movimento che ha introdotto novità così dirompenti da far sì che alcuni storici lo abbiano considerato l'ultima grande avanguardia di inizio secolo. Dopo l'affermazione del Surrealismo, quanto è seguito ha dovuto misurarsi con un'eredità talmente generosa da esercitare un ascendente anche sui nostri giorni. Svariate ragioni hanno determinato tanta fortuna. Diversamente da altre esperienze, il Surrealismo non si è vincolato a uno stile unico e immediatamente riconoscibile: ha preferito servirsi di un'incredibile varietà di formule espressive e tecniche anche molto diverse tra loro. Emerso in ambito letterario grazie al poeta e critico André Breton, il Surrealismo ha presto sconfinato verso ogni aspetto della ricerca creativa, come era accaduto quindic anni prima con il Futurismo. Inoltre, l'obiettivo era la totalità e si confrontò con gli ambiti più disparati. sapere. SALVADOR DALI’ “IL SOGNO”, 1937, OLIO SU TELA 51x78, COLLEZIONE PRIVATA La definizione del movimento, stilata da Breton nel 1924, diceva: “il Surrealismo si fonda sull'idea di un grado di realtà superiore, connesso a certe forme di associazione finora trascurate, sull'onnipotenza del sogno e sul gioco disinteressato del pensiero”. Le teorie di Breton hanno un punto di riferimento ben preciso: “L'interpretazione dei sogni”, saggio di Sigmund Freud. “Di notte, nel sogno”, spiegava Freud, “cadono le inibizioni, vengono rimossi i freni imposti dalla morale corrente. In quel preciso momento noi ci sveliamo a noi stessi, comprendiamo cosa siamo veramente. L'inconscio, vale a dire l'attività psichica lontana dal livello della coscienza, sale in superficie. Tuttavia, non si palesa nel modo più limpido, ma richiede di essere interpretato”. Breton individua nel sogno non una forma di evasione dalla realtà, ma la via per il miglioramento prima del simgolo e poi del dell'umanità intera, arrivando a una realtà superiore, invisibile ma più autentica di quella quotidiana, la “Surrealtà”. La sensualità, l'erotismo, lo svelamento delle pulsioni represse avrebbero guidato il mondo verso una nuova forma di vita piena, soddisfatta e finalmente senza vincoli. Si rivaluta anche il gioco come sinonimo dell'infanzia, stagione ancora dominata dall'incoscienza. In nome di tanti ideali, i surrealisti fecero della provocazione, e talvolta anche dello scandalo, una pratica consueta. MAX ERNST “LAVERGINE SCULACCIA IL BAMBINO GESU’ DAVANTI A TRE TESTIMONI: ANDRE’ BRETON, PAUL ELUARD E L’ARTISTA”, 1926 Nella pittura dei secoli precedenti abbiamo già incontrato il visionario, il fantastico l'onirico e l'irrazionale (le pitture nere dell'ultimo Goya o gli incubi di Fussli) , ma con il Surrealismo diventano la regola, la consuetudine. Ecco allora che dinanzi a un dipinto o una scultura surrealista, è facile provare un sentimento ambiguo: ne siamo irretiti allo stesso tempo disturbati, come respinti. Sono immagini che sovvertono le nostre consolidate abitudini visive, dissacrano icronografie secolari o inscenano metafore di un erotismo torbido. JOAN MIRO’ “UOMO E DONNA DAVANTI A UN MUCCHIO DI ESCREMENTI”, 1935 E per quale ragione, anziché stringere amorevolmente a sé il bambino, stavolta la Vergine lo punisce severamente, sotto gli sguardi impenetrabili di tre uomini? E ancora, che cosa mai vorranno comunicarci due bizzarre figure dai genitali ipertrofici nel bel mezzo di una landa primordiale? Perché mai un’innocua coppia di amanti è avvolta da un velo che ci impedisce di vederne le fisionomie? RENE’ MAGRITTE “GLI AMANTI”, 1928 Ogni prova surrealista sconvolge le più elementari norme logiche e l'obiettivo è generale e potenti cortocircuiti che svelino lo stato profondo dell'essere. Su questa via, artista e scrittori hanno trovato continue risorse nell'”automatismo”. La tecnica era semplice: si trattava di fissare su carta pensieri e immagini in uno stato di trance o comunque senza consapevolezza. Era, secondo la definizione di Breton, una forma di pensiero parlato. Convinti del valore della casualità, i surrealisti elaborano un divertente gioco: riuniti attorno a un tavolo, i partecipanti scrivevano e disegnavano su un foglio, passandolo poi di mano in mano ripiegandone una parte in modo da celare il suo contenuto. “Il cadavere squisito berrà il vino nuovo” fu la frase composta la prima volta da Breton e amici, quando sperimentarono il gioco da allora noto come “Cadavre exquis”. Molti esponenti del Surrealismo avevano alle spalle non una trascurabile militanza nel Dadaismo ed è proprio in questa avanguardia che il Surrealismo affonda le sue radici: il gusto per la provocazione antiborghese, la scelta di non individuare uno stile, la sperimentazione incessante e la volontà di dare libero sfogo alla fantasia. Eppure, allo stesso modo, si impongono anche delle diversità: Dada rappresentava la quinta essenza dell'anarchia, mentre il Surrealismo non voleva limitarsi alla critica del sistema, ma al contrario, cercava di appartenervi per sovvertirlo dall'interno. E’ l'autunno del 1924, quando Breton battezza ufficialmente il movimento pubblicando il Manifesto del Surrealismo, con la volontà di omaggiare Apollinaire. Era stato lui, infatti, a impiegare il termine per primo a proposito di Parade. MAX ERNST “INCONTRO DEGLI AMICI”, 1922, OLIO SU TELA 135x190, GERMANIA Il gruppo, capitanato da Breton, era apparso in un grande quadro dal sapore antico, realizzato da Max Ernst. In un inospitale paesaggio ghiacciato e notturno, le figure si agitano con movimenti rigidi come quelli di automi. Oltre al pittore stesso, l'uomo dai capelli bianchi seduto in basso a sinistra, sono rappresentati poeti e scrittori. Breton con una sorta di mantello rosso sulle spalle e tra i tanti, spiccano anche Raffaello e Dostoevskij. Nella tela di Ernst riconosciamo anche Giorgio De Chirico: non in carne ed ossa, ma come busto antico nella parte destra del dipinto, allusione alle sue origini greche. René Magritte confessava di aver subito uno sconvolgimento emotivo alla vista di un'opera di De Chirico. In effetti, insieme all'esperienze dadaista, de Chirico rappresentò un modello irrinunciabile per i surrealisti: lui per primo aveva inscenato la realtà secondo una dimensione nuova. Per qualche anno, prima che si consumassero liti clamorose e insanabili, l'artista intrattenne scambi diretti con il gruppo parigino e Breton ne divenne collezionista assiduo. Con il tempo Breton avrebbe rivelato sempre più la sua natura di accentratore: era lui a distribuire patenti di riconoscimento, soprattutto a Picasso, e a lanciare scomuniche impietose, specie a de Chirico, che da esempio irraggiungibile diventò un nemico, visto il nuovo orientamento classicista verso cui stava rivolgendosi. Il protagonismo di Breton rispetto al Surrealismo è stato tale, che molti storici ne riconoscono la fine con la sua morte avvenuta a Parigi nel 1966. Breton era un intellettuale eclettico: aveva compiuto studi di medicina e durante gli anni del primo conflitto, lavorò come attendente medico nel reparto malati per traumi di guerra in un ospedale parigino. Il contatto con persone con problemi psichici lascerà una traccia importante nelle sue ricerche. Nel 1916 conobbe Apollinaire e strinse contanti con l'ambiente dadaista e con Tristan Tzara. Nel 1930 licenziò il secondo manifesto surrealismo, per chiarire la posizione politica del gruppo che vedeva la combinazione con il materialismo dialettico alla psicoanalisi. RENE’ MAGRITTE “L’ASSASSINO MINACCIATO”, 1927, OLIO SU TELA 150x195, NEW YORK “L'assassino minacciato” venne dipinto dal belga René Magritte nel 1927, anno del suo trasferimento a Parigi. Siamo in una stanza dove le vertiginose fughe del pavimento in legno portano la mente agli interni di de Chirico. È una scena corale, ma ciascun personaggio appare indifferente all'altro: quello al centro davanti al grammofono sembra in uno stato di trance e il terzetto di invadenti voyeurs allineati come birilli appena oltre la balaustra osservano inespressivi, trascurano il nudo esamine e sanguinante sul letto. È una scena carica di suspense, eppure alcuni elementi ne raffreddano la tensione. I volti per prima cosa che sono inespressivi, simili tra loro, al punto da sembrare intercambiabili. Poi la composizione simmetrica, bilanciata sino a sfiorare la monotonia, e infine la pittura accurata ma senza personalità, dove nessuna vibrazione del pennello o colore accattivante era presente. In questo modo Magritte non distrae lo spettatore, bensì lo invita a concentrarsi sul senso dell'immagine e si presenta come pittore di di enigmi. RENE’ MAGRITTE “IL TRADIMENTO DELLE IMMAGINI”, 1929, OLIO SU TELA 62x81, USA “Il tradimento delle immagini” è eseguito con la solita impeccabile tecnica pittorica. È presentata una pipa, ma la scritta sottostante recita “Questa non è una pipa”. Si crea così un conflitto tra l'enunciato e l'immagine a ragione, visto che si tratta solo dell'immagine di una pipa e non di una pipa vera e propria. RENE’ MAGRITTE “LA CONDIZIONE UMANA”, 1933, OLIO SU TELA 100x81, USA Né “La condizione umana” Magritte si interroga sui modi e sui limiti della percezione della realtà. Un quadro appoggiato su un cavalletto davanti a una finestra riproduce il paesaggio circostante, ma è quasi impossibile distinguere quello reale da quello dipinto, se non fosse per minimi dettagli, come il botto della tela. JOAN MIRO’ “IL CARNEVALE DI ARLECCHINO”, 1925, OLIO SU TELA 66x90, USA “Il carnevale di Arlecchino” venne dipinto a pochi anni di distanza rispetto alle tele di Magritte da Joan Miró, artista catalano trasferitosi a Parigi nei primi anni ‘20. Ancora una stanza gremita da figure, qui spinte al massimo grado della stilizzazione, in continuo movimento e prive di una forma stabile. L'effetto ricorda la materia organica vista al microscopio e l'occhio rimbalza alla ricerca di un centro. Mirò disse: ”nella tela appaiono elementi che si ripresenteranno più avanti in altre opere. Cercavo di approfondire il lato magico delle cose”. L’oepera appartiene a un ciclo (triennio 1925/1927) conosciuto come “pitture di sogno”. Il tutto emana un senso di leggerezza, ma fatichiamo a intendere se prevalga un carattere giocoso o mostruoso? Mirò preferirì accompagnare la rivoluzione del pensiero surrealista a un linguaggio inedito e dunque sviluppò in chiave pittorica la tecnica dell'automatismo. ((ricordarsi che Magritte si ispira a De Chirico, Mirò all’automatismo e Opphenheim a Dada, dimostrazione di come il Surrealismo sia vario nelle espressioni, prima ancora che in tecnica e stile)) MERET OPPENHEIM “COLAZIONE IN PELLICCIA”, 1936, NEW YORK “Colazione in pelliccia” è un'opera di Meret Oppenheim, artista tedesca trapiantata a Parigi dal 1932, unica presenza femminile in un gruppo di uomini: una vera tazzina da caffè, corredata da piattino e cucchiaino, ma interamente ricoperta dal pelo animale. Si tratta di un oggetto tridimensionale, ma avremo qualche imbarazzo a riconoscerlo come una scultura: semmai è più proficuo collocarlo sulla linea delle invenzioni di Duchamp, come un Ready-made rettificato, poiché l'oggetto, oltre a essere sottratto al proprio contesto di origine, ha subito una manipolazione che ne ha mutato il senso. Sontuosamente vestita in pelliccia, un giorno Oppenheim incontrò Picasso in un caffè parigino. Il pittore fu colpito dall'abito alla moda e non poté trattenersi: “in fondo” esclamò “ogni cosa poteva essere foderata con un materiale del genere”. Tornata a casa, l'artista seguì alla lettera la provocazione di Picasso creò “La tazza in pelliccia”, che Breton volle ribattezzare “Colazione in pelliccia” in omaggio al celebre quadro di Manet. Essa ha lo scopo di far reagire per contrasto sfere sensoriali diverse: le percezioni tattili e degustative evocate dalla tazza sono contraddette dalla pelliccia, un materiale lontanissimo dalla liscia, bianca e asettica ceramica. Oppenheim approfondisce quindi le intuizioni dell'avanguardia dadaista.
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