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La Transformazione dei Ruoli Familiari e l'Evoluzione dell'Educazione Familiare, Dispense di Metodi E Tecniche Del Servizio Sociale

Come i processi trasformativi degli ultimi decenni abbiano indebolito i punti di riferimento tradizionali che hanno orientato il ruolo educativo dei genitori e influenzato la definizione dei ruoli e delle funzioni di tutti i membri della famiglia. anche delle difficoltà che le istituzioni scolastiche incontrano nel fornire supporto all'educazione familiare e della necessità di superare i pregiudizi e le distanze tra genitori e insegnanti per creare una solida alleanza scuola/famiglia.

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 04/10/2022

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sofia-martelli 🇮🇹

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Scarica La Transformazione dei Ruoli Familiari e l'Evoluzione dell'Educazione Familiare e più Dispense in PDF di Metodi E Tecniche Del Servizio Sociale solo su Docsity! Quale pedagogia per le famiglie contemporanee? Premessa In passato i modelli educativi familiari erano fortemente influenzati da idee, parametri di giudizio, regole e valori trasmessi di generazione in generazione e divulgati nelle comunità da personaggi autorevoli come istitutori, uomini di chiesa, medici e pedagoghi. I processi trasformativi in atto negli ultimi decenni hanno notevolmente indebolito i punti di riferimento che orientavano l’agire educativo dei genitori e influenzavano la definizione dei ruoli e delle funzioni di tutti i membri della famiglia. Il venir meno di questi «modelli forti», l’affermarsi del processo di individualizzazione e l’emergere di mentalità alternative maggiormente flessibili hanno prodotto visioni molteplici e multiformi del concetto di famiglia, nonché degli aspetti relazionali ed educativi a esso collegati: i genitori si trovano oggi, diversamente dal passato, a dovere organizzare il funzionamento familiare e l’educazione dei figli rispondendo a valori e credenze maggiormente individualizzati. Da un lato si assiste a una pluralizzazione, per certi versi positiva, dei modelli educativi messi in atto, dall’altro si rischia un’eccessiva responsabilizzazione dei singoli. Il non facile compito di sostenere il ruolo educativo delle famiglie assume oggi un carattere ancora più problematico, anche per la scarsità di contesti reali in cui esercitare tale supporto. Le istituzioni scolastiche, che potrebbero rappresentare un fertile campo di incontro e, in alcuni casi, di intervento su e con le famiglie, lamentano notevoli impasse: nel serrato susseguirsi di attività, non solo didattiche ma anche gestionali e burocratiche, poco spazio rimane oggi a insegnanti ed educatori per un sereno scambio con le famiglie su tematiche educative; tale spazio spesso, si riduce a pochi minuti in un anno, durante i quali dare vita a un dialogo è cosa ardua. Purtroppo, nella scuola si investe ancora troppo poco su azioni di prevenzione e di confronto e su progetti che facilitino la partecipazione attiva delle famiglie al processo educativo; troppo spesso si interviene solo laddove vi siano forme di disagio ed evidenti situazioni di rischio socio-psicologico o di disagio conclamato. La prospettiva di una solida alleanza scuola/famiglia, auspicabile in quanto veicolo di potenziamento reciproco delle funzioni educative, si sta indebolendo lasciando campo a relazioni tra genitori e insegnanti connotate da distanza, vicendevoli pregiudizi, possibili incomprensioni, discontinuità di modelli educativi proposti ai giovani. A loro volta i servizi sociali, che negli ultimi anni hanno visto indebolire drasticamente le risorse disponibili, limitano sempre di più i loro interventi alle situazioni problematiche: solo in fortunati contesti, infatti, sono disponibili servizi di consulenza educativa per le famiglie che rientrino nella «normalità». Si sta, per contro, sviluppando una rete di servizi privati di consulenza, supervisione, terapia familiare che, per quanto utili, restano appannaggio di élite economicamente e culturalmente avvantaggiate. La riflessione sulle non facili condizioni che caratterizzano il panorama attuale conduce a interrogarsi sul rapporto tra pensiero pedagogico e problematiche educative familiari; in particolare appare centrale il ruolo che la pedagogia può avere per contribuire a superare i limiti e sostenere il compito educativo genitoriale. Un primo aspetto controverso riguarda l’atteggiamento con cui, seppur da prospettive spesso diverse, gli «esperti dell’educazione» si rapportano, interpretandola e valutatandola, alla mutata fenomenologia delle forme familiari. Forse ciò che accomuna chi si trovi a riflettere sulle problematiche educative dell’attualità è il riconoscimento della pluralizzazione delle modalità con cui oggi si vivono i legami intimi; ma, nonostante tale presa d’atto, la riflessione teorica, gli aspetti metodologici, il linguaggio, gli atteggiamenti di insegnanti e operatori sociali sono ancora troppo spesso orientati e influenzati dall’«ideale di famiglia», ossia quella nucleare tradizionale. In altri termini, secondo questa ipotesi, persiste l’abitudine di far dipendere il benessere familiare dalla struttura e non, invece, dalle coordinate relazionali: il paradigma interpretativo che tutt’oggi prevale sarebbe ancora quello che collega lo stare bene in famiglia alla sua «normalità», ossia al suo corrispondere a un’icona idealizzata di famiglia. Per molti, ad esempio, la sola presenza di entrambi i genitori naturali nel nucleo basterebbe a garantire la serenità dei figli, indipendentemente dalla qualità delle relazioni… Questa tendenza, che identifica un ideale astratto e patinato, dovrebbe, a parere di chi scrive, essere oggetto di riflessione e autocritica da parte di chi esercita un ruolo educativo: per quanto il suo perdurare possa essere giustificato nell’opinione pubblica, essa non è affatto legittima né sul piano scientifico né a livello etico e il suo superamento è oggi auspicabile per far posto a modelli d’analisi più pertinenti e rispettosi della complessità e della pluralità. Come abbiamo visto, la validità del «paradigma della normalità» è stata messa in discussione da numerose ricerche e indagini longitudinali che hanno osservato come le forme familiari diverse da quella nucleare costituiscano, al pari di questa, contesti di sviluppo più o meno funzionali. In realtà, le strutture familiari cosiddette «diverse» non implicano necessariamente un potenziale di disfunzionalità: fonte di problematicità sono, invece, prevalentemente le dinamiche relazionali e la qualità delle forme organizzative. Questo concetto fondamentale meriterebbe forse più attenzione e, data la sua fatica ad affermarsi, dovrebbe essere oggetto di programmi di formazione e di aggiornamento per operatori. Altra fonte di errore epistemologico è rappresentata dalla difficoltà a considerare la relazione educativa genitore/figlio come la risultante di un modello triadico di interazione . Questa concezione, che trova le sue radici nel modello ecologico di Bronfenbrenner e nella teoria dei sistemi, può essere estesa alla rete sociale e istituzionale. In particolare concepire l’intervento educativo o formativo in termini triadici per e con le famiglie significa ammettere la reciprocità dei processi. L’approccio pedagogico che si sviluppa su modelli diadici – ossia secondo una concezione del rapporto educatore/educando, genitore/bambino indipendenti dal contesto e dalle relazioni con gli altri attori sociali che fanno parte del sistema relazionale – esprime fragilità sul piano epistemologico. In seguito alle considerazioni appena esposte, prima di calare la riflessione sul terreno della prassi educativa, è forse opportuno ricapitolare alcune delle considerazioni e valutazioni fin qui espresse. Un orientamento pedagogico impegnato a confrontarsi con la complessità delle problematiche educative delle famiglie contemporanee e teso a rifiutare il paradigma «devianza/normalità» e accogliere, invece, quello della «differenza», dovrebbe essere orientato dai seguenti concetti chiave: a. porre come compito della riflessione pedagogica la denuncia del perdurare di meccanismi pregiudiziali e di errori epistemologici che spesso sottendono l’agire educativo (come ad esempio la concezione del rapporto educativo secondo un modello diadico, ossia indipendente dal contesto e dalle relazioni con gli altri attori sociali che, invece, fanno parte del sistema relazionale in modo strutturante); b. evitare ogni forma di discriminazione, emarginazione, colpevolizzazione (magari attuata in nome di valori oggettivanti, predefiniti in termini assoluti) nella formulazione dei criteri interpretativi delle realtà familiari; essi dovrebbero essere improntati al rispetto per le differenze, alla considerazione delle scale valoriali espresse dai soggetti, ad atteggiamenti non giudicanti e non predicatòri; c. l’esplorazione teoretica sui temi dell’educazione dovrebbe essere effettuata sul terreno delle direzioni esistenziali dell’esperienza umana (affettive, sociali, culturali ecc.) e, pertanto, connesse alla dimensione storica. In questi termini, lo studio dei fenomeni e le ipotesi pedagogiche su di essi assumerebbero connotati aperti, dialettici, evitando di esprimere assiomi e certezze ideologiche; d. nell’intento di perseguire l’espansione e il potenziamento delle possibilità esistenziali dei soggetti in una dimensione intersoggettiva, progettazione esistenziale e rispetto della demonicità individuale, educazione alla ragione e all’impegno etico- razionale, pedagogia delle emozioni sono parole chiave che possono orientare l’azione educativa per le famiglie; e. esercitare il richiamo alla responsabilità politica, cui pedagogisti ed educatori non possono sottrarsi: sensibilizzare e informare in modo corretto sulle reali problematiche educative esperite nelle famiglie; rivendicare l’identità democratica e laica delle politiche sociali e degli interventi educativi che lo Stato e gli Enti Locali dovrebbero promuovere; denunciare, e rendere visibili ai più, tutte le forme di mistificazione ideologica o speculazione di altro genere operate nel terreno delle azioni educative o sociali rivolte alle famiglie. Prospettive teoriche e metodologiche di educazione familiare Prima di proseguire nella definizione delle «buone pratiche», adatte a corrispondere ai bisogni delle famiglie nell’epoca contemporanea in tema di educazione, è opportuno esplicitare che nel sistema famiglia convergono molteplici dimensioni educative, risultando pertanto poco opportuno riferirsi a «una» educazione familiare intesa in termini generali; viceversa, appare necessario operare dei distinguo. Le azioni educative, che qui si intendono trattare, possono essere ricondotte a un approccio essenzialmente preventivo e promozionale, profondamente diverso dai molti possibili interventi terapeutici di taglio psicologico. La logica che sottende la prevenzione e la promozione è quella di prendersi cura (to care) delle famiglie, rafforzando le competenze e le capacità di coping dei suoi membri; in particolare «prendersi cura di chi si prende cura» potrebbe essere un motto adeguato per descrivere l’intenzione di migliorare realtà individuali e sociali facendo leva sulle risorse esistenti nel sistema, sul rinforzo delle potenzialità latenti, sullo stimolo ad acquisire nuove competenze relazionali e strumenti interpretativi. In altri termini, si vuole porre l’attenzione sulle pratiche atte a valorizzare le risorse del nucleo familiare e a sostenere una genitorialità riflessiva. Considerare la famiglia, o meglio le famiglie, come soggetti attivi e autonomi al centro del processo educativo sgombra il campo da tutte quelle prassi che tendono, invece, a trattarla come oggetto passivo di educazione o di terapia. Posta la sostanziale e scontata differenza tra intervento terapeutico e pratica pedagogica, quella cui si fa riferimento è una prospettiva che guarda non solo al complessivo sistema famiglia ma anche, e soprattutto, ai singoli soggetti che ne sono parte, nel rispetto delle loro peculiarità. Non si tratta quindi di educazione «della» famiglia, ma, eventualmente, «per» la famiglia. L’idea di educazione che qui si prefigura prende nettamente le distanze dalle pratiche finalizzate alla trasmissione di valori, improntate a dirigere gli interlocutori verso «un dover essere» aprioristicamente definito e riferito a un ideale di famiglia «sana» e «normale». Quindi lo spirito che qui guida le riflessioni guarda ai fenomeni familiari nella loro interezza e problematicità con l’obiettivo di comprenderli e non giudicarli. Le pratiche corrispondenti al termine «educazione alla genitorialità» possono essere definite come tentativi formalizzati e intenzionali di accrescere le competenze dei genitori in tema di educazione dei figli. Esse dovrebbero essere, dunque, mirate al cambiamento esplicito di atteggiamenti e schemi comportamentali nella direzione dell’acquisizione di maggiore consapevolezza critica del ruolo educativo e, di conseguenza, dovrebbero mirare alla promozione del benessere psicologico e relazionale dei sistemi familiari. Ma cambiamento e consapevolezza sono due processi molto complessi che richiedono altresì la considerazione degli aspetti problematici, come ad esempio le resistenze, le spinte omeostatiche, i meccanismi autopoietici e i rischi di autoreferenzialità. In primo luogo le aspettative di cambiamento si possono definire solo in relazione alle componenti «manipolabili», cioè quelle che realisticamente possono essere toccate dall’intervento; ci sono variabili situazionali, ad esempio, che difficilmente potranno essere modificate da un’esperienza di formazione. In secondo luogo è bene che ogni eventuale auspicata evoluzione di una situazione data sia perseguita alla luce di obiettivi definiti dai protagonisti stessi del processo educativo, o almeno non del tutto indotti dall’esterno. Inoltre l’adozione dell’ottica progettuale da parte dei genitori richiede una preventiva analisi dei bisogni, delle motivazioni, delle variabili di contesto che li hanno indotti a intraprendere un percorso educativo: nel caso di adesione libera, ad esempio, si potrà contare su un buon grado di coinvolgimento motivazionale; nel caso di interventi attivati in relazione a segnalazioni o iniziative coatte intraprese da terzi (magari in seguito a situazioni particolarmente problematiche), allora bisognerà capire il reale grado di adesione al lavoro verso il cambiamento. In ogni caso l’opera educativa dovrà essere rivelatrice, nel senso che dovrà tentare di far emergere le eventuali resistenze al cambiamento e, soprattutto, i saperi impliciti che hanno contribuito a definire l’identità genitoriale dei soggetti. Nel lavoro educativo con i genitori, la strada verso la coscientizzazione e la riflessione critica deve passare attraverso l’emersione di quello che J.P. Pourtois chiama «arbitrio represso», ossia i modelli educativi trasmessi implicitamente di generazione in generazione. Questa trasmissione si svolge in maniera implicita. I poteri di tale educazione implicita sono estremamente forti e di questo si è poco consapevoli. Quest’eredità costituisce il modello pedagogico di base, che assimiliamo al punto di contrastare ogni suo cambiamento. Da queste rappresentazioni, sembrerebbe che i genitori contemporanei abbiano smarrito le coordinate della relazione educativa, che confondano i ruoli e le responsabilità, che non siano più in grado di comprendere i reali bisogni dell’altro, che tendano a proiettare sui figli desideri, paure, ambizioni, fragilità. Un dato interessante è che queste “défaillances genitoriali” si manifesterebbero trasversalmente a tutte le tipologie familiari: non solo in quelle “particolari” (come ad esempio i nuclei in via di separazione, quelli in ricomposizione ecc.) ma anche in quelle cosiddette “tradizionali”, che rispondono cioè al modello di famiglia “normale” consolidatosi nei Paesi occidentali (ossia coppia coniugata con figli). Credo che queste manifestazioni di “cattiva educazione” vadano comprese, spiegate e interpretate rifuggendo dalla logica del “capro espiatorio” e da alcuni “cattivi paradigmi” che, isolando i fenomeni dal contesto in cui si sviluppano, tendono a attribuire ai genitori (soprattutto alle mamme) la colpa di fenomeni che sono piuttosto il prodotto di meccanismi di più ampia portata, di molteplici dispositivi sociali che si “inceppano” e rendono il lavoro educativo molto più complesso di un tempo. Non è facile fare il genitore nell’era della globalizzazione, del disgregarsi delle reti sociali primarie, dell’individualizzazione dei processi sociali, della società del rischio, della precarietà, della competizione, della paura dell’altro, dell’idea privatistica di educazione. Nel corso di una ricerca ho potuto chiedere direttamente ai genitori quali fossero i principali problemi incontrati nel quotidiano nell’educazione dei figli e la maggioranza ha indicato la mancanza di tempo, la vita frenetica, i problemi di condivisione delle funzioni di cura nella coppia, il sovraccarico femminile, le difficoltà di conciliazione, la mancanza di riferimenti precisi per rispondere alle questioni educative. La stessa ricerca, però, ritrae una nuova generazione di madri e padri attenti, consapevoli, informati, desiderosi di essere presenti, di essere autorevoli e dediti alla ricerca del “meglio” per i propri figli e per questo, forse, un po’ più ansiosi e tormentati dei loro genitori. Tutt’altro che immaturi, quindi, piuttosto disorientati e alla ricerca di un modo per esercitare le numerose nuove competenze che non erano certo patrimonio della generazione che li ha preceduti. Sono proprio questi dati che, a ben vedere, mostrano le analogie tra la condizione dei genitori e quella degli/delle educatori/trici dei servizi per la prima infanzia: entrambe le categorie devono affrontare situazioni speculari e complementari, correlate al loro ruolo educativo e sociale; a entrambi si pone il problema di svolgere le loro funzioni superando condizioni difficili, talvolta “disabilitanti”, di non “perdere la bussola” e, anzi, ritrovare la chiarezza sui principi e sui valori che orientano le proprie azioni. L’incontro tra servizi educativi e famiglie è centrale nella vostra ricerca. Qual è lo stato dell’arte? Gli atteggiamenti, i pregiudizi, le difficoltà, le opportunità… E quali gli atteggiamenti propri di un servizio orientato all’accoglienza e all’inclusione? Le testimonianze raccolte durante le ricerche sul campo mostrano come genitori ed educatori si trovino, pur con le dovute differenze, a fronteggiare alcune sfide legate alla propria identità di soggetti educanti; una maggiore consapevolezza di questa “condizione comune”, forse, potrebbe essere il “cemento” per l’alleanza educativa o comunque attenuare i fenomeni di “dis-alleanza” come ad esempio le dinamiche attacco/difesa, la diffidenza reciproca, la visione dell’evento educativo come “questione privata”, che il modello individualista e competitivo dominante hanno reso parte della quotidianità. Per gli educatori, in particolare, si pone anche il problema di relazionarsi con la pluralizzazione dei modelli familiari e, quindi, di adottare paradigmi conoscitivi, dispositivi metodologici e strumenti operativi in grado di accogliere le differenze, accettare le diversità “restando nella relazione”, senza alzare barriere comunicative, pregiudizi o quant’altro possa minare la fiducia reciproca. Se le diversità, in tutte le possibili declinazioni, sono ancora considerate e trattate come “deviazione dalla normalità” il concetto di integrazione rischia di perdere di significato, di diventare una di quelle parole logore, molto utilizzate nei progetti ma raramente perseguita in modo autentico. Credo che, mai come oggi, sia necessario chiedersi cos’è realmente l’integrazione e cosa si intende per accoglienza, e fare chiarezza sul fatto che non si tratta di una “condizione statica” ma di un processo dinamico che si basa sulla capacità di “accogliere il cambiamento, decentrarsi cognitivamente ed emotivamente, sostenere la frustrazione che può derivare dall’incontro con l’altro diverso da sé e gestire eventuali posizioni divergenti, stabilire regole condivise”. Per considerare le differenze come risorse piuttosto che come “defi cit di normalità” è necessario che gli operatori compiano due fondamentali azioni tra loro strettamente connesse. La prima è la revisione dei propri paradigmi conoscitivi e interpretativi: è necessario abbandonare l’abitudine a considerare le famiglie normali/diverse in relazione a un “modello di famiglia ideale”, basato sulla struttura morfologica. Oggi possiamo affermare che la struttura familiare (cioè da chi è composta la famiglia), seppur importante, non può da sola determinare la riuscita di un modello familiare: per capire quanto una famiglia assolva i suoi compiti in modo idoneo bisogna osservare anche la qualità delle relazioni e dei processi comunicativi, il modo in cui si sviluppano ed evolvono i legami interpersonali, le capacità di far fronte a eventi critici, le interazioni con il contesto. In altri termini si tratta di adottare il paradigma della diversità e della funzionalità al posto di quello della normalità/devianza La seconda azione necessaria prevede la capacità di porsi in modo empatico anche nei confronti di quelle famiglie che appaiono molto lontane da sé. Per dirla in altri termini, si tratta di “[…] mettere tra parentesi i propri schemi di riferimento abituali in cui si annidano i pregiudizi più nascosti e inconsapevoli per «aprirsi» al signifi cato che l’altro individua nei vissuti che sta sperimentando. È un’esigenza di decentramento che viene posta a un soggetto che si presume cosciente di sé, in grado di registrare e riconoscere i propri processi cognitivi ed emozionali […]”6 . Per produrre integrazione nei servizi educativi, pertanto, vi è un lungo lavoro da compiere che parte dal potenziamento di quelle competenze relazionali che permettono ai soggetti di stabilire e mantenere rapporti significativi e soddisfacenti con altri soggetti e, in caso di difficoltà o di conflitto, di provvedere a una loro adeguata gestione. Se si chiede a educatori/trici di essere accettanti è necessario sostenerli adeguatamente con la formazione, la supervisione pedagogica e con occasioni di riflessività e di confronto, ma purtroppo nello scenario attuale la disponibilità di tali strumenti lascia a desiderare... Questa è, certamente, una contraddizione cui bisognerebbe porre urgentemente rimedio. Un tema particolare: nel 2010 Lei e la professoressa Contini avete affrontato l’argomento con il Seminario “Bambine e bambini con genitori omosessuali”; nel 2011 la pubblicazione del volume Maestra, ma Sara ha due mamme?… Come è nato questo campo di ricerca, ma soprattutto quali reazioni avete incontrato? Quale impatto nel trasferire situazioni di vita concreta, quotidiana, nel mondo della riflessione pedagogica, dell’educazione. L’accoglienza dei fi gli di genitori omosessuali nei servizi educativi e scolastici è un tema che ci ha molto interessate perché può essere considerato emblematico per misurare la reale capacità di integrazione e per far emergere se e come gli educatori pongano, consapevolmente o meno, un limite all’accettazione delle diversità; in altri termini ci è sembrato che l’idea “dell’omosessuale che fa il genitore” fosse in grado svelare “l’epistemologia inconscia” di educatori e insegnanti. Un sorta di prova del nove della reale capacità di accogliere le differenze. Il volume Maestra, ma Sara ha due mamme?, primo nel suo genere a occuparsi del tema dal punto di vista pedagogico, nasce anche con l’intento di colmare un “vuoto di conoscenza” e di offrire informazioni, punti di riferimento, parametri interpretativi, orientamenti e strumenti operativi per agire adeguatamente dal punto di vista educativo. Sembrava urgente occuparsene perché avevamo notato che insegnanti, educatori, dirigenti scolastici, pedagogisti a confronto con le “Famiglie Arcobaleno” spesso basavano il proprio atteggiamento su pregiudizi, fantasie e credenze individuali, non supportati né da dati scientifici né da esperienze concrete. Redatto con il contributo di pedagogisti, psicologi, sociologi, educatori, avvocati e genitori , questo non è un volume in cui si discute se essere a favore o contro la genitorialità omosessuale ma dove, piuttosto, si affronta il problema di come neutralizzare l’atteggiamento “ignorante ma giudicante” e la tendenza a valutare l’idoneità genitoriale a partire dai gusti affettivi e sessuali di madri e padri: un’operazione erronea, questa, perché gli elementi da valutare per stabilire se una famiglia funziona bene, o meno, sono di tutt’altra specie. Come pedagogisti e ricercatori crediamo, inoltre, che un educatore che incontra un/a bambino/a con genitori omosessuali, dato che è un suo preciso dovere deontologico accogliere adeguatamente tutte le diversità, non dovrà porsi il problema di “essere a favore o contro” ma dovrà, piuttosto, chiedersi se sta “facendo la cosa giusta”, se sta lavorando per e con questo alunno per facilitare il suo benessere, il suo inserimento scolastico, la sua crescita armonica. Associare l’omosessualità alla genitorialità è, nel nostro contesto, ancora un concetto limite ed è abbastanza scontato che in molti susciti un senso di “estraneità” che, in alcuni casi, dà luogo a una sana curiosità che spinge a volerne sapere di più, in altri casi invece provoca chiusure mentali, se non addirittura rifi uti, alquanto pericolosi in un contesto educativo dove l’omofobia dovrebbe essere combattuta e non alimentata. Credo, tuttavia, che dal 2010 ad oggi si siano fatti molti passi in avanti nella battaglia contro questi atteggiamenti, sia sul piano dell’opinione pubblica (in cui queste particolari famiglie hanno guadagnato sempre più visibilità) sia nell'ambito specifico della riflessione pedagogica: se ne parla di più e in modo più aperto, abbiamo prodotto dati e ricerche, si è fatta formazione, e si sono consolidati strategie e strumenti per integrare questi bambini. Tutto ciò grazie anche all’opera attiva e incessante proprio dei genitori omosessuali. Nel libro vengono citate delle esperienze, delle situazioni vissute che possono diventare “buone pratiche”, quali orientamenti emergono in questa direzione? Ovviamente nel volume non poteva mancare un riferimento agli aspetti operativi e alle pratiche finalizzate all’accoglienza, all’integrazione e alla lotta all’omofobia. Ad esempio, c’è il capitolo redatto da Cristina Chiari che si occupa di svelare come anche la modulistica, la documentazione, il linguaggio utilizzato nei nidi d’infanzia siano potenziali agenti di discriminazione; oppure, di grande utilità, è il saggio di Tina Scarano che espone alcuni passaggi de il Libro di Tommi ossia il manuale operativo che offre indicazioni su come facilitare la comunicazione, tra insegnanti, genitori, ragazzi su questo tema. Nel volume troviamo anche un “campionario” di esperienze di incontro tra genitori omosessuali e insegnanti, positive o meno, avvenute realmente a vari livelli scolastici. In ogni caso, quello che appare chiaro è che per produrre integrazione è necessario lavorare trasversalmente su tutte le dimensioni del setting scolastico. Non solo occasioni saltuarie, quindi, ma un lavoro continuativo sul clima relazionale, sull’apprendimento di competenze sociali di base, sull’assunzione di un impegno etico per potenziare al massimo le possibilità di sviluppo per sé e per gli altri, valori educativi basilari questi per ogni società democratica e reale investimento sociale per il futuro. E qual è l’impatto sulla professionalità delle educatrici? Quali le opportunità, le necessità, le caratteristiche di una formazione “effi cace”… I l rischio che educatori e insegnanti si trasformino in “agenti di discriminazione” può essere, ridotto incrementando le loro competenze per rapportarsi adeguatamente alle differenze. Questa considerazione è valida nel caso specifico delle famiglie omogenitoriali ma, ovviamente, riguarda tutte le forme familiari (persino quelle strutturate in modo tradizionale) che, come abbiamo più volte sottolineato, possono a vario titolo essere portatrici di differenze. Ma, oltre ad acquisire informazioni e strumenti operativi, si tratta di portare alla luce quei saperi che si stratificano inconsapevolmente negli educatori e che risentono dei loro non svelati pregiudizi, stereotipi, monologhi interiori. Un approccio formativo adeguato a rimuovere la patina che nasconde i saperi impliciti e l’arbitrio represso, quindi, dovrà poter mettere in gioco le persone per attivarle sul piano cognitivo ed emotivo: le tecniche e le metodologie adatte a questo scopo sono molte, come ad esempio le pratiche di scrittura autobiografica, i roleplay e le tecniche di Teatro dell’oppresso . Tuttavia, è bene sottolineare che le competenze degli educatori che si rivelano strategiche per produrre accoglienza e integrazione sono un elemento centrale ma non l’unico: una grande responsabilità in merito può essere attribuita anche a coloro che rivestono un ruolo di “regia” nei servizi educativi e scolastici, nonché agli altri attori della scena educativa. L’azione del singolo, seppur eccellente, scollegata dal contesto non può produrre gli effetti desiderati
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