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ARTICOLO SUL FASCISMO E CALAMANDREI DI SILVIA CALAMANDREI, Dispense di Storia Della Giustizia

Accuse a Calamandrei circa il suo operato nella redazione del nuovo c.p.c.

Tipologia: Dispense

2020/2021

Caricato il 15/05/2021

ale_sche
ale_sche 🇮🇹

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Scarica ARTICOLO SUL FASCISMO E CALAMANDREI DI SILVIA CALAMANDREI e più Dispense in PDF di Storia Della Giustizia solo su Docsity! ARTICOLO SU CALAMANDREI E IL FASCISMO In un famoso intervento su Repubblica, Silvia Calamandrei (nipote di Piero Calamandrei) ricorda che nel dibattito nato in seguito alla riedizione dell’opera di suo nonno: “Uomini e città della resistenza”, fu risollevata la vicenda circa la collaborazione di Piero Calamandrei alla redazione dei Codici, promossa nei primi anni 40’ dal Guardasigilli Dino Grandi. A tal proposito, il prof. Cipriani (un giurista), intervistato dal Corriere della Sera, ha definito il Codice di Procedura Civile redatto da Calamandrei: “codice fascista per eccellenza”, riprendendo alcuni argomenti già discussi nell’immediato dopoguerra, a cui lo stesso Calamandrei aveva già abbondantemente replicato. In virtù di ciò, Silvia reputa utile richiamare alcuni elementi, fornendo una documentazione inedita: una lettera dell’8 Agosto del 1943, custodita nell’archivio di famiglia, scritta da Dino Grandi a Piero Calamandrei. Nella commemorazione che Calamandrei fece in occasione del decennale della morte del suo maestro Chiovenda, nel descriverlo come uno di quei professori antifascisti, rimasti in cattedra sotto il regime con l’unico scopo di trovare una via per assicurare con dignità ed indipendenza la continuità del pensiero italiano, sembrava quasi parlare di se stesso. In questa commemorazione egli difende apertamente il proprio operato, in particolar modo circa la sua collaborazione con Grandi (dal 1939 al 1940) nell’elaborazione del Codice di Procedura Civile, insieme a Carnelutti e Redenti, tutti seguaci della scuola giuridica di Chiovenda e notoriamente antifascisti. Ampio materiale su questa collaborazione è offerto dallo stesso Calamandrei all’interno del suo “Diario” che va dal 1939 al 1945, mentre la versione di Grandi è stata pubblicata più tardi, nel 1983, e non è stata ancora oggetto di una lettura comparata. Il primo cenno nel “Diario alla cooperazione ai codici” è del 1939, poco dopo l'inizio della guerra. L’avv. Alessandro Levi racconta che quando qualcuno propose a Grandi di chiamarlo a cooperare al codice di procedura civile, avvertendo che quest'ultimo non avesse la tessera del regime, Grandi avrebbe asserito di non cercare tessere, ma cervelli. All'interno del Diario, Calamandrei (precisamente: il 22 Dicembre) commenta i quattro giorni passati a Roma nella Commissione per la riforma del Cod. Proc. Civ, in cui ha avuto una conversazione continua col ministro Grandi. Calamandrei ebbe di Grandi un'impressione favorevole, di un uomo civile e liberale, disposto a seguire i suggerimenti e desideroso di far bene: - Sul piano politico: egli nota che Grandi non gli fa il saluto romano e gli dà del lei, che è un ammiratore dell’Inghilterra, che si discosta dalla Germania, dicendo perfino una frase di simpatia per la Polonia. - Sul piano giuridico: egli nota che Grandi intende battersi contro l'inquinamento politico della giustizia, volendo tornare alle concezioni liberali. A questo punto, Silvia Calamandrei ritiene che sia opportuno ricordare che la versione del codice di procedura civile preparata dal precedente ministro Solmi, sbilanciata verso le concezioni germaniche del diritto, era stata criticata su diverse riviste giuridiche, proprio da Calamandrei, Redenti e Carnelutti, che lo stesso Grandi convoca per una revisione di tale approccio. Paolo Nello, biografo di Grandi, sostiene che lo stesso Duce si sarebbe servito di Grandi per completare in tempi utili l’opera di codificazione, badando bene di impedire qualsiasi rivincita dell’integralismo di partito o cooperativo, ribadendo (nel campo del diritto) la diversità del fascismo dal nazionalsocialismo. Nello continua dicendo che perfino il Re, che aveva definito Grandi: “la propria coscienza”, incitandolo a garantire quanto rimaneva dello Stato di diritto e dell'autonomia della magistratura dai continui assalti di chi reclamava una codificazione rivoluzionaria e totalitaria. Lo stesso Grandi, nel 1983, sottolinea le difficoltà incontrate nella “riforma dei codici” a causa dell'accordo sottoscritto tra governo nazista e governo fascista, che mirava ad una formulazione su basi comuni: del codice civile, del codice di procedura civile e del codice della navigazione; rivendicando anche la difesa del diritto romano. Grandi ricorda anche come nel lasciare l'Italia, il 18 agosto del 1943, avesse affidato a Calamandrei, con una lettera: “la difesa del Cod. Proc. Civ.”, che era in gran parte opera sua. Inoltre, egli sostiene che il codice in questione non è un codice fascista, bensì il “codice degli italiani”. 1 Un'altra lettera del 4 Agosto, custodita tra le carte di Calamandrei, ha un contenuto più o meno simile a quella precedente. Calamandrei, nel dopoguerra, circa la propria collaborazione nell’opera di riforma dei codici, sostenne che tale collaborazione fosse di “carattere strettamente tecnico”, confermando così quanto aveva scritto nel Diario il 14 Marzo del 1940, quando l'amico Policreti lo aveva “rimproverato” per la sua collaborazione a far fare bella figura al ministro fascista, precisando che la consulenza tecnica che egli aveva avuto con tale ministro, era necessaria per dare agli italiani un codice migliore e che quindi non avrebbe avuto senso non presenziare. Calamandrei, nelle due lettere del dopoguerra ricostruisce poi in modo particolarmente dettagliato la collaborazione col ministro fascista, sostenendo di aver accettato l'invito del 1939 ad una consulenza: “per il dovere di non rifiutare di prestare la propria opera ad una legge che non era espressione di un regime, ma di un cinquantennio di studi e che per questo si prevedeva destinata a sopravvivere al fascismo, ed anche un po' per il gusto polemico di sottolineare che il fascismo quando aveva bisogno di studiosi seri, doveva andare a mendicare tra gli antifascisti”. Tuttavia, nonostante tali chiarimenti, c’è stato comunque qualcuno che ha giudicato tale giustificazione della “collaborazione tecnica ai Codici”, particolarmente riduttiva. Ad ogni modo, questo commento non era nuovo per Calamandrei, poiché già se lo era sentito rivolgere da Leone Ginzburg (letterato antifascista) che, nel 1942, aveva esposto il proprio punto di vista, in relazione al “saggio sul nuovo processo civile e la scienza giuridica”, che Calamandrei aveva appena pubblicato sulla Rivista di diritto processuale civile. Ginzburg, a sua detta, volge a Calamandrei delle obiezioni di natura pratica, sostenendo che la “pura tecnica giuridica” si manifesta unicamente nel momento in cui viene applicata ai casi concreti e continua asserendo che “salendo a dei piani più alti” (si riferisce all’incontro con il ministro fascista), è inevitabile che l’atto tecnico perda effettivamente di tecnicità, colorandosi di altro. Tuttavia, Ginzburg non mette in dubbio il fatto che Calamandrei sia convinto della propria tesi, ma allo stesso tempo invita quest’ultimo a rivederla, così da poter scorgere l’affievolimento del “puro tecnicismo” tanto affermato dallo stesso Calamandrei. In virtù di ciò, Silvia Calamandrei crede che suo nonno, in realtà, tenesse ben presente queste parole di Ginzburg, quando difendeva nel dopoguerra la natura antitotalitaria del codice di procedura civile dalle obiezioni che gli venivano mosse. Ghisalberti, uno storico del diritto, in “La codificazione del diritto in Italia” del 1983, tenendo ben presente il dibattito apertosi dopo la caduta del fascismo, scrive che il Codice del 42’, grazie all'opera di Carnelutti, Redenti e Calamandrei, nel suo tecnicismo formalistico finiva con l'accentuare il contenuto pubblicistico del giudizio civile, elevando il ruolo del giudice e attribuendo maggiore spazio al pubblico ministero nelle sue diverse fasi, apparentemente a favore delle direttive statualistiche del regime ma, in realtà, nel tentativo di razionalizzare autoritativamente il processo, accelerandone i tempi di svolgimento e migliorandone le modalità. Tuttavia, è noto che ci sono state delle interpretazioni diverse espresse fin dal primo dopoguerra, che vengono oggi riprese nella prospettiva di revisione del codice; al riguardo, è opportuno ricordare quanto Calamandrei argomenta al riguardo nella “Commemorazione di Chiovenda”. Calamandrei definisce l'attuale codice di procedura civile come: “un codice antitotalitario”, non solo perché vi collaborarono studiosi antifascisti, ma soprattutto perché, a sua detta, la sostanza del codice era una reazione contro quello slittamento della giustizia verso una giurisdizione volontaria e verso l'illegalismo poliziesco e paternalistico che in quegli anni si compieva metodicamente in Germania. Per Calamandrei, il succo della concezione chiovendiana, rispecchiata nel codice, risiede nella reciprocità complementare tra l'idea individuale e l'idea sociale, tra il diritto soggettivo e l'esigenza collettiva di giustizia, che corrisponde ad una tendenza storica positiva, viva ed operante in tutte le legislazioni democratiche dell'Europa occidentale. Calamandrei spende delle parole anche riguardo all'ostilità dei settori dell'avvocatura che il rivendicarono nel dopoguerra il ritorno al codice del 1865, un ritorno a concezioni rigidamente individualistiche dell'economia che prevalevano in Italia quando furono redatti i vecchi codici del 1865, e all’assoluto agnosticismo dello Stato liberale, che nel campo del processo civile portava a considerare la giustizia come un affare privato e il giudice come uno spettatore inerte di un duello tra due campioni. 2
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