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battaglia di maratona, Guide, Progetti e Ricerche di Storia

La battaglia di Maratona (in greco antico: ἡ ἐν Μαραθῶνι μάχη, he en Marathôni máche[1]) fu combattuta nell'agosto o nel settembre 490 a.C. nell'ambito della prima guerra persiana e vide contrapposte le forze della polis di Atene, appoggiate da quelle di Platea e comandate dal polemarco Callimaco, a quelle dell'impero persiano, comandate dai generali Dati e Artaferne.c

Tipologia: Guide, Progetti e Ricerche

2017/2018

Caricato il 21/02/2018

chiamelis
chiamelis 🇮🇹

4.3

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Scarica battaglia di maratona e più Guide, Progetti e Ricerche in PDF di Storia solo su Docsity! Battaglia di Maratona 490 a.C. In una piccola piana affacciata sul mare si è svolta una delle battaglie simbolo della storia europea ed occidentale che rimarrà per sempre nella memoria collettiva. I personaggi Milziade Uomo politico e generale appartenente alla nobile gente ateniese dei Filaidi, nacque intorno al 540 a.C. Si trovava in Atene in buone relazioni coi Pisistratidi, quando, morto il fratello Stesagora, che dominava nel Chersoneso Tracio, dov'era succeduto al fondatore di quel principato ateniese, lo zio Milziade I, fratello uterino di Cimone Coalemo, fu inviato dai Pisistratidi con una trireme a prenderne il posto. La data è incerta. Sappiamo solo che fu posteriore non di molto alla morte di Pisistrato (527-26) e a quella di Cimone, e che questi vinse ancora nei giochi olimpici del 524. Milziade cominciò la sua signoria imprigionando tutti i signorotti del Chersoneso che erano venuti da lui per condolersi della morte del fratello, e dandosi una guardia di cinquecento mercenari. Probabilmente poco prima della spedizione scitica di Dario egli fece, come altri dinasti greci di quella regione e in particolare quello di Bisanzio, la sua sottomissione ai Persiani. Durante la spedizione scitica si narra ch'egli consigliasse ai suoi colleghi di rompere il ponte di navi, con cui Dario aveva allacciato le sponde del Danubio, e che il consiglio fosse respinto per l'opposizione di Istieo, tiranno di Mileto. Ma questa è probabilmente invenzione posteriore. Comunque, sappiamo da Erodoto che Milziade fuggì dal Chersoneso per la minaccia di un'incursione scitica e che vi tornò più tardi, ricondotto dagli indigeni Dolonici. La notizia in questi termini è sospetta, perché le incursioni scitiche difficilmente potevano mettere in pericolo le città fortificate della penisola. Milziade forse per la sua potenza divenne sospetto ai Persiani, come Istieo, o forse i Persiani lo costrinsero a liberare i "tirannelli" delle piccole città, e questi gli si ribellarono. Tornò probabilmente col favore dell'insurrezione ionica contro la Persia, e forse allora occupò Lemno e Imbro, che, popolate da barbari cui i Greci davano nome di Tirreni, erano state da Dario, dopo la spedizione scitica, incorporate al suo impero. Egli cacciò i barbari e popolò le due isole di coloni ateniesi. Questi coloni erano iscritti nelle tribù e nei demi dell'ordinamento clistenico, e ciò sembra dimostrare che la colonizzazione è posteriore alle riforme di Clistene, e non può quindi riferirsi che agli anni dell'insurrezione ionica. Dopo la sconfitta degli Ioni nella battaglia di Lade (494), l'appressarsi della flotta fenicia costrinse Milziade alla fuga. Egli abbandonò il Chersoneso, imbarcandosi con la famiglia e i tesori su 5 triremi; una di esse col figlio di primo letto, Metioco, cadde in mano dei barbari. Con le altre quattro Milziade si rifugiò in Atene, dove i partigiani degli Alcmeonidi, che allora dominavano e temevano in lui un rivale, lo trassero in giudizio dinnanzi al popolo sotto l'accusa di tirannide. L'accusa si riferiva alla sua condotta nel Chersoneso ed era destituita d'ogni fondamento giuridico. D'altronde la potenza degli Alcmeonidi declinava. A essi s'imputavano giustamente il mancato soccorso agli Ioni e i cattivi successi della guerra contro Egina. Forse con questo declinare della potenza degli Alcmeonidi si collega la tregua con Egina e l'adesione di Atene alla lega peloponnesiaca: vi si collega anche la nomina di Milziade a stratego per l'anno attico 490-89, dovuta alla fiducia che si aveva nella sua sagacia e nel suo valore, quando si seppe dei preparativi della Persia per una spedizione punitiva contro Eretria e Atene. La spedizione, grazie a Milziade e agli opliti ateniesi, terminò con la totale rotta degl'invasori a Maratona. Vinto, ma non disanimato, il comandante persiano Dati, imbarcato l'esercito e preso il largo con la flotta, doppiò il capo Sunio e navigò verso il Falero nella speranza di sorprendere Atene impreparata e indifesa. Milziade peraltro, presago del pericolo, immediatamente dopo la vittoria, aveva ricondotto i suoi opliti con una marcia forzata presso la città. Sicché, mancata la sorpresa, a Dati non rimase che riprendere la via dell'Asia. Milziade volle approfittare della vittoria per cacciare i Persiani dalle Cicladi, e, come aveva ottenuto dal popolo il famoso decreto per affrontare il nemico a Maratona, così ottenne d'essere messo a capo di una spedizione navale. Ma la spedizione non sortì buon esito: le forze navali degli Ateniesi erano scarse, l'arte degli assedi era allora assai imperfetta; Paro, che egli aveva cercato di occupare per sorpresa o per tradimento, resistette, ed egli, disperando di prenderla a forza, scarseggiando di mezzi ed essendo anche rimasto ferito, tornò senza aver ottenuto alcun successo. Di qui uno scoppio d'ira popolare contro di lui. Un partigiano degli Alcmeonidi, Santippo, il padre di Pericle, lo stesso che lo aveva accusato di tirannide, lo accusò ora di avere ingannato il popolo. Milziade fu condannato a un'ammenda di 50 talenti e morì poco dopo di cancrena senza averla potuta pagare. Lasciò, oltre il figlio Metioco, che era prigioniero in Persia, una figlia dello stesso letto Elpinice, e un altro figlio Cimone, natogli da una principessa tracia Egesipile, figlia di Oloro. La tradizione su Milziade è troppo scarsa e in parte alterata perché possiamo formarci della sua personalità un concetto così preciso e sicuro, come di quelle di Temistocle o di Pericle. Fu certo politico e stratego geniale e audace; collaborò come pochi alla grandezza di Atene. Le notizie sui motivi piccini della sua ultima campagna sono probabilmente fallaci. Ma certo egli non è degli uomini politici la cui vita s'inserisce interamente in quella della loro polis, come appunto Cimone o Pericle; e per questo lato, più che a essi è da raccostare ai suoi grandi contemporanei ionici, come Istieo o Aristagora. Callimaco di Afidna Polemarco ateniese dell'anno 490-89 a.C. Secondo Erodoto (VI, 109-111), sostanzialmente attendibile, nel consiglio di guerra tenuto prima della battaglia di Maratona (agosto 490), essendosi cinque dei dieci strateghi pronunziati contro la proposta di attaccare il nemico, fatta da Milziade, Callimaco, in un primo momento incerto sul da farsi poi persuaso dallo stesso Milziade, votò in suo favore, assicurandogli la maggioranza. Alcuni storici dubitano che il discorso di Milziade riferito da Erodoto corrisponda esattamente a quello pronunciato veramente, almeno in alcune sue parti, che sembrano aggiunte a beneficio del lettore. Nella battaglia, il polemarco tenne con la sua tribù il posto d'onore all'ala destra, combatté con grande coraggio e morì nel combattimento presso le navi persiane; secondo Plutarco l'avrebbero trafitto talmente tante lance che, pur morto, sarebbe rimasto ritto in piedi. In ricordo della sua morte eroica venne eretta una statua in suo onore detta Nike di Callimaco. La statua, situata accanto al Partenone (non il Partenone che possiamo vedere oggi, ma il vecchio Partenone distrutto dai persiani) sull'Acropoli di Atene e distrutta nel 480-479 a.C. durante il saccheggio persiano di Atene, consisteva in una colonna sormontata da una figura femminile alata, Iride o Nike. Ippia Figlio del tiranno Pisistrato. Se fosse primogenito Ippia o Ipparco, è questione controversa fin dal tempo di Tucidide. L'opinione allora comune, che Tucidide invano si sforza di combattere, è che Ipparco fosse il primogenito e dunque il successore del padre nel dominio; il poeta che, certo subito dopo la liberazione di Atene dai tiranni, compose la canzone in onore di Armodio designava Ipparco espressamente come ὁ τύραννος (ho týrannos - il tiranno). Parrebbe dunque che Ippia negli anni dal 527 (morte di Pisistrato) al 514 (assassinio d'Ipparco) avesse collaborato col fratello nel governo senza essere effettivamente tiranno. Tiranno di nome e di fatto sarebbe divenuto solo dopo la morte di lui. A spiegazione dell'uccisione d'Ipparco Tucidide adduce solo motivi personali: la rivalità amorosa, l'offesa recata da Ipparco alla sorella di Armodio. Ma certo è che, sebbene al momento un'insurrezione del popolo, sulla quale contavano i tirannicidi, non avvenisse, tuttavia l'opposizione ai Pisistratidi aveva troppo profonde radici per essere paga di un episodio personale; covava nel cuore degli esuli, molti e di famiglie cospicue. Fallì un primo tentativo di penetrare dal nord: i valorosi esuli accampati sulle pendici del Parnete, a Lepsidrio, caddero per tradimento. Ma poco dopo gli Alcmeonidi, con l'aiuto dell'oracolo delfico e le forze di un esercito spartano comandato dal re Cleomene, riuscirono a occupare Atene. Ippia, assediato nell'acropoli, capitolò dopo pochi giorni (510). Si ritirò nel suo possedimento di Sigeo sull'Ellesponto, dove dominò d'ora in poi come vassallo del re di Persia. Nel 490, vecchio ormai di settant'anni, Ippia seguì in Grecia le forze persiane, assistette alla battaglia di Maratona, sperò invano in una cooperazione che avrebbe forse dovuto ridargli l'antico dominio. Deluso ancora una volta, morì subito dopo, forse prima di far ritorno a Sigeo. Il campo di battaglia e il mito Nell'agosto/settembre dell'anno 490 a.C., in una piccola piana affacciata sul mare, nei pressi di un villaggio ad una quarantina di chilometri da Atene, si è svolta una delle battaglie simbolo della storia europea e occidentale. Il nome di quel villaggio è rimasto e rimarrà per sempre nella memoria collettiva di questo continente, anche molto al di là del valore reale che ebbero i fatti. Il nome di quel villaggio era Maratona. Fu lì, in quella piccola pianura, chiusa da un lato dalla spiaggia e dal mare Egeo e da tre lati dalle aspre colline dell'Attica, che un piccolo esercito di opliti ateniesi con un esiguo contingente di alleati plateesi sconfisse, fermandone l'espansione, l'esercito persiano del gran re Dario I, il quale aveva fatto varcare il mare alla sua flotta per punire l'arroganza di quelle fastidiose città greche. Come vedremo più avanti la battaglia in sé non fu una gran cosa, circa 11.000 elleni sconfissero in un'ora i circa 30.000 persiani, di varie etnie, come di consuetudine, sotto il comando del generale Artaferne. Che cosa rende allora così importante nella storia questa battaglia, al punto da farla ricordare come elemento comune dell'immaginario intellettuale di un continente? Certamente il mito del piccolo esercito di cittadini liberi - anche sull'idea di libertà nella stessa città di Atene ci sarebbe da discutere - che combatte contro un esercito più numeroso, al soldo di un tiranno, per difendere la libertà ha affascinato generazioni di uomini. E la retorica del piccolo gruppo disciplinato, che con la forza del coraggio sconfigge l'orda immensa, rappresenta un archetipo, sempre presente nella cultura, non solo militare, dell'Occidente. Forse il termine chiave di questa riflessione sta proprio nella parola Occidente, inteso nel senso delle cose che conosciamo, contrapposto ad un'altro, l'Oriente in questo caso, alieno e quindi pericoloso. Ed è probabilmente in questa occasione che la modalità di combattimento "d'urto" tipicamente occidentale, nacque. La formazione degli opliti, decisi a risolvere tutto in un'unica battaglia, che si lancia "correndo" contro i Persiani e impostando un tipo di combattimento, ravvicinato e risolutivo, che fa dire ai generali di Dario di aver avuto a che fare con degli Elleni pazzi; ciò rappresenterebbe dunque la nascita di quello schema ideologico e del tutto occidentale, che coniuga battaglia campale, guerra totale e momentum risolutivo, che diverrà nei secoli successivi la sovrastruttura fondante del successo militare europeo. Senza arrivare a generalizzazioni di questo tipo, probabilmente eccessive, resta fuor di dubbio che gli eventi del 490 - oi ópla parechómenoi, forniti di armi), acquistò anche il predominio nello stato, e si fondarono le democrazie. Questo processo fu naturalmente graduale e richiese un certo tempo: vi si accenna già in Omero ed esso si compì nelle città greche più progredite durante il VII secolo a.C. La famosa Olpe Chigi, con la rappresentazione di due falangi di opliti che muovono l'una contro l'altra, si può appunto datare verso la fine del VII secolo. La nuova "tattica degli opliti" si diffuse in tutti i paesi del Mediterraneo, che offrivano le condizioni economiche e sociali necessarie al suo sviluppo, cioè presso la maggior parte delle città greche e poi presso le città della penisola italiana, che più sentirono l'influenza della civiltà greca. I principi fondamentali di questa tattica sono la formazione dei guerrieri in ordine chiuso, in falange, e l'azione di massa. Questa richiedeva armonia nei movimenti e disciplina: quindi il divieto di uscire dalle file per combattere e l'obbligo di tenere il contatto con i commilitoni. La "tattica degli opliti" celebrò i suoi trionfi nelle guerre persiane contro gli arcieri e la cavalleria orientale. La misura della forza militare delle città greche era data dal numero di opliti che ciascuna di esse poteva armare e tutte tenevano una lista accurata dei cittadini che per il loro censo potevano essere chiamati a servire come opliti, κατάλογος τῶν ὁπλιτῶν (katálogos tón oplitón, lista oplita). In caso di necessità, lo stato forniva la panoplia ai cittadini che non avevano mezzi sufficienti per procurarsela. E per quanto nel V secolo a.C., per ragioni strategiche, Sparta e Atene avessero ricostituito la loro cavalleria, la forza militare terrestre delle due città e dei loro alleati era costituita prevalentemente dagli opliti; le truppe leggere, alle volte più numerose degli opliti, avevano scarsissima importanza. Gli opliti erano spesso seguiti da attendenti, che ne portavano la pesante armatura durante le marce e prestavano i servizi necessari: Erodoto (IX, 10) dice che a Platea per ogni Spartano vi erano sette attendenti iloti, cifra nella quale erano forse compresi tutti gli uomini addetti ai servizi di vettovagliamento. Alcuni stati, già dal V secolo, mantenevano corpi scelti di opliti (ἐπίλεκτοι - epílektoi), bene armati ed esercitati e pronti a entrare immediatamente in campagna. Il predominio degli opliti durò incontrastato sino alla soglia del IV secolo a.C. Ma l'esperienza della guerra del Peloponneso aveva mostrato i vantaggi che si potevano ricavare da un accorto impiego della cavalleria e delle truppe leggere, opportunamente armate e addestrate, contro le falangi di opliti. Il passo decisivo fu fatto da Ificrate, che nella guerra di Corinto, dei primi anni del IV secolo, diede ai suoi mercenari un armamento più leggero. Egli adottò dai Traci il leggero scudo di pelle (πέλτη - pélti, donde il nome di peltasti ai suoi soldati), sostituì la pesante corazza metallica con una corazza di tessuto, allungò la misura delle lance e delle spade e fornì i suoi uomini di giavellotti per la lotta da lontano. A Lecheo, nel 390, egli distrusse con i suoi peltasti gli opliti di una μόρα (móra) spartana; fatto che fece grande impressione e che era dovuto all'agilità di manovra dei peltasti. Anche in occidente, pare all'incirca alla stessa epoca, la tattica degli opliti veniva modificata e in Roma alla falange veniva sostituito l'ordinamento manipolare, basato più sull'azione individuale del soldato che sull'urto della massa; inoltre la fanteria romana veniva dotata di lance-giavellotti destinati al getto e non solo all'urto. L'armamento difensivo veniva alleggerito di poco. In Grecia le truppe mercenarie lasciarono l'armamento degli opliti per quello dei peltasti, ma le milizie cittadine, sia perché la tattica dei peltasti richiedeva un addestramento, che non si poteva dare a milizie cittadine, sia per influenza di una tradizione gloriosa, rimasero fedeli all'armamento e alla tattica degli opliti. I re macedoni cercarono invece di conciliare i due diversi sistemi. Una parte della fanteria macedone fu armata, pare, come peltasti; il grosso invece prese dai peltasti di Ificrate la lunga lancia (sarissa) e i piccoli scudi, ma mantenne degli opliti gli elmi e gli schinieri e soprattutto la formazione in falange. Gli opliti greci furono soverchiati dalla falange macedone, questa a sua volta dalla legione manipolare romana. L’arma principale degli opliti era il dory, una lancia che misurava tra 1,8 e 2,7 metri di lunghezza e circa cinque centimetri di diametro, e pesava tra uno e due chili. Era dotata di una punta letale in ferro e aveva nella parte inferiore un tallone appuntito, metallico, che dava all'asta un maggiore equilibrio e forniva a chi la portava un'altra arma con cui colpire. L'arma secondaria era lo xiphos, una spada di ferro, diritta e a doppio taglio, lunga da 60 a 90 centimetri, studiata espressamente per attaccare e ferire il nemico nel corpo a corpo. Ma i greci la utilizzavano solo se perdevano la lancia o se la falange si scomponeva, cosa che non accadeva spesso. Come equipaggiamento difensivo avevano un grande scudo circolare (hoplon) di legno ricoperto di bronzo, che pesava circa otto chili; l’impugnatura, ideata nel VI secolo a.C., si chiamava «impugnatura argiva» e rivoluzionò le tecniche di combattimento. Gli scudi più antichi erano dotati di una sola impugnatura situata al centro; lo scudo argivo aveva invece anche un passante di cuoio in cui il soldato infilava il braccio per afferrare un’impugnatura vicina al bordo, il che rendeva più facile fare leva. «Il soldato afferrava il bordo dello scudo e il braccio lo sosteneva al centro. Con uno scudo così si poteva applicare una forza maggiore» spiega lo storico militare Richard A. Gabriel. Gli opliti portavano un casco di bronzo, normalmente di tipo corinzio, che copriva non soltanto la testa ma tutto il viso; una corazza che poteva essere di bronzo e in quel caso imitava la forma dei muscoli del torso (thorax), ma che normalmente era composta da vari strati di tela robusta, uniti da un collante e rafforzati da placche o scaglie metalliche (linothorax); e schinieri di bronzo che li coprivano dalle caviglie alle ginocchia. In Grecia si iniziò a utilizzare il casco corinzio attorno al VII secolo a.C. Ricavato da un unico pezzo di bronzo, proteggeva molto efficacemente la testa degli opliti. C’era però un problema: era pesante, circa quattro chili e mezzo, e limitava la vista e l'udito. Tutto l'armamento, come detto, era chiamato panoplia, era abbastanza costoso (l'equivalente odierno del costo di una buona automobile) ed era a carico di chi lo deteneva; potevano quindi essere opliti solo i cittadini di classe media e alta. Tirteo descrive l'oplita spartano ideale A metà del VII secolo, quando gli spartani stavano lottando per superare i ribelli Messeni, il poeta spartano Tirteo compose canzoni per esortare i suoi concittadini a combattere. Nel seguente estratto (righe 21-38 del frammento 11) da una vivida descrizione della concezione militare per l'oplita greco, che si basava su coraggio e determinazione di fanti armati con un grande scudo e lancia. «Che ogni uomo stia fermo, con i piedi distanziati, di fronte al nemico, mordendosi il labbro, con le cosce, gli stinchi, il petto e le spalle coperte dall'ampia distesa del suo scudo. Lasci scuotere la sua lancia coraggiosamente con la mano destra, così come lo stemma del suo casco, annuendo ferocemente. Lo si lasci conoscere la guerra nel calore della battaglia, ove non dovrà tirarsi indietro per proteggersi dai dardi, ma lo si lasci muovere compatto, con la sua lancia e la sua spada, per colpire il suo nemico a fondo. Posizioni i suoi piedi contro i piedi del nemico, scudo contro scudo, casco contro casco, in modo che le creste siano intrappolate, e quindi combatta in piedi, petto contro petto, con la sua lunga lancia o la spada in mano. E voi, uomini armati alla leggera che trovate riparo dietro gli scudi, lanciate, con le vostre fionde, pietre e giavellotti contro il nemico, dando un buon supporto alla fanteria pesante» . Negli anni successivi queste poesie sono diventate d'ascolto obbligatorio per gli eserciti spartani. Gli antecedenti Dopo la repressione della rivolta in Ionia l’interesse della politica espansionistica persiana era fissato sulla Grecia continentale. Di fatti il gran re e imperatore Dario considerava ogni paese e ogni terra del mondo conosciuto come qualcosa che gli appartenesse di diritto, inoltre, considerando l’impero persiano come estensione terrena del dio del bene Ahura-Mazda, non riusciva a concepire una politica di parità e di dialogo. Per questo, confidando nella forza dell’impero e favorito dallo scenario strategico che si era configurato dopo la distruzione della flotta ionica e le conquiste in Tracia di Mardonio, Dario si dedicò all’organizzazione di una flotta che fosse in grado di garantire l’appoggio e il trasporto di un consistente corpo di spedizione. In realtà i Persiani sottovalutavano la forza delle città greche e non comprendevano la complessa dialettica politica interna alla polis e tra le poleis stesse che era alla base delle relazioni tra stati in Ellade. Dario, dopo aver ricostruito per la seconda volta la sua flotta, distrutta nel 492 da una grande tempesta nell’Egeo, aveva escogitato un piano semplice e aggressivo. Muovendo dalla Cilicia, le forze persiane avrebbero dovuto piombare sulle città di Eretria e di Atene e, una volta distrutte queste, sottomettere tutta la Grecia, facendone una satrapia europea del grande impero. Soprattutto per Atene Dario aveva una soluzione a portata di mano: Ippia, estromesso dal potere ed esiliato dagli Ateniesi, era a bordo della flotta persiana che muoveva guerra alla sua patria. Nel frattempo anche Atene si preparava allo scontro che si sapeva inevitabile. Nel 493 era stato eletto all’arcontato il nobile e democratico Temistocle che fece subito iniziare una serie di opere di fortificazione al porto del Pireo per dotarlo di solide difese e renderlo il porto militare della città. Temistocle, inoltre, avviò la costruzione di una flotta da guerra, il cui personale sarebbe stato costituito in larga parte dalle classi inferiori della società ateniese, i teti. La possibilità per questi ultimi, nella posizione di marinai della flotta, di avere maggior peso nelle decisioni politiche provocò la reazione dell’aristocrazia, la quale richiamò in patria Milziade, ex tiranno del Chersoneso, da dove era stato espulso dall’avanzata persiana in Tracia. Milziade divenne stratego nel 490 a.C., proprio nel momento in cui Dario faceva salpare la flotta persiana verso le rive della Grecia al comando del nipote Artaferne e del generale Dati. Privi di una vera e propria opposizione in mare, giacché la flotta ateniese era ancora in fase di allestimento, i Persiani riuscirono facilmente a sottomettere le isole dell’Egeo e sbarcarono in Eubea, davanti ad Eretria che fu messa sotto assedio da Artaferne. La piccola città non ebbe alcuna possibilità di resistere all’esercito imperiale, una volta presa fu rasa al suolo e tutti i suoi abitanti furono ridotti in schiavitù. Ripreso il mare, la flotta persiana attraversò il tratto tra Eubea e Attica e, doppiato il capo Sunio, approdò nella baia di Maratona, a circa quaranta chilometri da Atene. Gli Ateniesi erano terrorizzati. Secondo la tradizione quello stesso Fidippide che dopo la battaglia fece la famosa corsa per annunciare la vittoria alla città, fu mandato a Sparta per chiedere aiuto, ma gli Spartani temporeggiarono, dicendo di non potersi muovere prima della conclusione di una loro celebrazione religiosa. Intanto Milziade, arrivato a Maratona, fece disporre le proprie truppe sulle colline a ovest della pianura, col fianco destro poggiato al mare, per tagliare la via verso Atene ai Persiani. Le forze in campo Sul numero degli effettivi che i due eserciti ebbero a disposizione per la battaglia le fonti antiche sono da prendere con molta cautela, essendo l’esagerazione la regola degli storici antichi. Erodoto ci parla di 10.000 opliti ellenici e, in questo caso, la cifra non è probabilmente molto lontana dal vero. Infatti, secondo gli storici contemporanei, in quel periodo la struttura organizzativa dei demi ateniesi era in grado di mobilitare tra i 5.000 e gli 8.000 opliti e sembra ragionevole pensare che l’esercito di Milziade fosse composto da 6.000 o 7.000 opliti ateniesi e un migliaio di plateesi. A questi vanno aggiunti i non combattenti e le truppe leggere, che non ebbero alcun ruolo nella battaglia, per arrivare quindi a un massimo di 10.000 o 12.000 uomini. Più complicato è il discorso per l’armata persiana. Vanno scartate senz’altro le valutazioni degli scrittori antichi che ci parlano di un esercito composto da molte decine di migliaia di armati. Considerando le possibili dimensioni della flotta, si può stimare in circa 25.000 uomini la forza persiana complessiva. Questa cifra è però comprensiva dei marinai e dei rematori della flotta. Inoltre il piano di Artaferne consisteva nell’attaccare Atene dal mare dopo aver lasciato a terra le forze di Dati per trattenere Milziade a Maratona, ciò presuppone che una parte dei combattenti fossero ancora imbarcati. Valutando poi lo spazio fisico che la piana di Maratona consentiva agli eserciti e il modo di schierarsi in formazioni aperte dei Persiani, è possibile valutare correttamente in 8.000 o 9.000 fanti e circa 2.000 cavalieri la forza persiana realmente impegnata a Maratona. Questo farebbe cadere uno dei primi miti che hanno avvolto questo episodio, e cioè la vittoria dei pochi contro i tanti. La battaglia Gli eserciti si fronteggiarono accampati rinviando lo scontro per tre lunghe giornate, non successe in sostanza nulla. Questo probabilmente conferma un relativo equilibrio di effettivi sul campo e il piano di trattenere Milziade a Maratona mentre Artaferne, con la flotta, compiva un movimento aggirante verso Atene. Quando però giunse notizia di un esercito spartano già in marcia verso l’Attica, Dati decise di dare battaglia. Milziade, dal canto suo, decise di assumere l’iniziativa tattica e fece schierare la falange in linea di combattimento rinforzando però le due ali a discapito delle linee centrali che furono così ridotte a poche file, temeva, infatti, una manovra aggirante dei cavalieri persiani essendo lui sprovvisto di cavalleria, e attaccò decisamente lo schieramento nemico. Erodoto riferisce che gli opliti condussero l’attacco di corsa per otto stadi (circa 1.400 metri), ma la «tattica della corsa» va interpretata con discrezione. Infatti, data la pesantezza dell’equipaggiamento oplitico, non si capisce come gli Ateniesi, dopo un simile sforzo, avessero ancora la forza per combattere. È quindi più realistico pensare che i due schieramenti si siano mossi l’uno contro l’altro e che gli Ateniesi abbiano completato il movimento con una breve carica. Lo scontro fu comunque molto violento e i Persiani ne subirono le conseguenze, non essendo abituati alla lotta ravvicinata e dato che la loro tattica abituale consisteva principalmente nel lancio di frecce e giavellotti, poco efficace contro la pesante armatura degli opliti. Infatti, mentre il centro ateniese, essendo meno numeroso, cedeva lentamente agli avversari ma senza rompere le file, le ali adeguatamente rinforzate bloccavano le manovre della cavalleria nemica, e una volta sfondato lo schieramento persiano, iniziarono a chiudere sul grosso del nemico. A questo punto, sentendosi circondati e vicini alla disfatta, i Persiani ruppero lo schieramento e si dettero alla fuga verso le navi. La battaglia di Maratona - Schema battaglia Fu in quel momento, come spesso accadeva nelle battaglie dell’antichità, che lo scontro si trasformò in un massacro. I Greci si gettarono sui Persiani in fuga facendone strage, solo pochi riuscirono a prendere il mare verso la salvezza. Secondo gli Ateniesi 6.400 morti persiani furono raccolti sul campo, la cifra forse è un po’ esagerata ma probabilmente non molto lontana dal vero, visto l’evolversi della battaglia. Dal canto loro, gli Ateniesi contarono solo 192 morti, tra questi anche il polemarca Callimaco. Anche questa cifra può sembrare poco credibile ma poiché il grosso delle uccisioni avvenne dopo la rottura dello schieramento e durante la fuga dei Persiani, può considerarsi realistica. Secondo l’uso riservato agli eroi in Grecia, i cadaveri dei caduti furono cremati e, sul luogo stesso della battaglia, fu eretto un tumulo visibile ancora oggi. Alcuni scavi effettuati nella zona hanno evidenziato i resti di numerosi roghi. Quel che conta è che, per la prima volta, un’armata greca aveva sconfitto un esercito persiano in campo aperto. La vittoria era totale e la leggenda dice che Fidippide, oplita e messaggero, fu spedito ad Atene per annunciare la vittoria e dopo aver corso fino ad Atene cadde morto dopo il suo annuncio. Prendendo atto della sconfitta, Artaferne si riunì con i superstiti della battaglia, gli restava solo la speranza di doppiare rapidamente il capo Sunio e attaccare Atene di sorpresa mentre l’esercito degli opliti era ancora a Maratona. Ma Milziade, prevenendo i suoi piani, concedette ai propri soldati solo poche ore di riposo dopo la battaglia e si mosse subito con l’esercito verso la città. Raggiunta Atene dopo sole otto ore di marcia, Milziade schierò gli uomini sulle mura in modo da dissuadere ogni tentativo offensivo della flotta persiana. Le navi persiane, giunte in vista d’Atene, trovarono dunque l’esercito della polis pronto ad attenderle e non ebbero altra scelta se non quella di invertire la rotta. Le perdite Secondo Erodoto gli Ateniesi persero 192 uomini: tra i morti figurava il polemarco Callimaco caduto combattendo presso le navi, lo stratego Stesilao figlio di Trasilao, Cinegiro fratello di Eschilo, la cui vicenda fu poi romanzata da Marco Giuniano Giustino. Il computo delle perdite è generalmente accettato perché è noto che Pausania fu testimone oculare della lista dei caduti divisi per tribù. Per quanto riguarda i Persiani, invece, la cifra fornita da Erodoto di 6400 caduti è oggetto di dibattito: nonostante sia stato fatto notare che gli Ateniesi, essendosi impegnati con Artemide a sacrificarle una capra per ogni Persiano ucciso, avrebbero dovuto conteggiarli con molta precisione, bisogna ricordare che secondo Pausania gran parte degli aggressori annegarono nella Grande Palude e che quindi non poterono essere contati. Stimando i Persiani in 20000 o 30000 unità, le 6400 vittime, in percentuale, sono il 21,3% o il 32%. Tali numeri rapportati alle bassissime perdite ateniesi sono sembrati un po' alti; tuttavia più si analizzano battaglie recenti, come quelle ellenistiche o romane, e più le cifre relative a Maratona sembrano verosimili.
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