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BATTISTINI- DALLE ORIGINI AL SEICENTO- Letteratura italiana, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunto integrale del manuele di letteratura italiana di Andrea Battistini.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 12/05/2021

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Scarica BATTISTINI- DALLE ORIGINI AL SEICENTO- Letteratura italiana e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Capitolo I -Le origini della nuova lingua e letteratura italiana- Nel Duecento assistiamo alla fondazione della letteratura italiana: ciò non significa che assunse un ruolo egemone nel panorama culturale europeo, in quanto gli scritti in latino restano comunque predominanti e i “volgarizzamenti” (adattamenti in volgare di testi latini) attestano un senso di subordinazione verso il testo originario latino. In Inghilterra, il poema eroico “Beowulf” risale al 700 d.C. ; in Germania, il “Nibelungenlied” fu scritto nel 1100; in Spagna intorno al 1140 appare il “Cantare del mio Cid”; in Francia, tra l’ XI- XII secolo si afferma la lirica trobadorica e l’epica delle chansons de geste. E in Italia? Si continua a scrivere prevalentemente in latino. Non è molto facile dare una motivazione che giustifichi il ritardo della comparsa della letteratura italiana rispetto a quella delle altre nazioni europee: tuttavia, mentre in Francia l’aristocrazia (promotrice di valori cavallereschi) rielabora in chiave laica molti elementi della letteratura religiosa, diffondendoli in lingua d’oc (in area provenzale) e in lingua d’oïl (in area nord – Loira), nella penisola italiana urge l’uso del volgare per l’affermazione della civiltà comunale; inoltre in un’area geografica in prossimità di Roma è da porre una maggior forza di resistenza esercitata dal latino; ma soprattutto fondamentale è tener presente l’aspetto politico: la frammentazione della penisola è il più grande ostacolo per il raggiungimento di una lingua unitaria. Le prime tracce del volgare vanno collocate tra la fine dell’ VII e gli inizi del IX secolo: l’indovinello veronese, così chiamato perché uno sconosciuto scrivano inserisce in un codice liturgico spagnolo un indovinello: Se pareba boves, alba pratàlia aràba et albo versòrio teneba, et negro sèmen seminaba Teneva davanti a sé i buoi, arava i bianchi prati, ed un bianco aratro teneva ed un nero seme seminava La soluzione dell’indovinello sta nell’ atto di scrivere: i “buoi” sono le dita, i “bianchi prati” la pergamena, “l’aratro bianco” la penna, il “seme nero” l’inchiostro. Questo documento è una sorta d’impasto tra latino e volgare: ci si può chiedere se teneva e seminaba siano voci latine cui è caduta la desinenza (tenebat, seminabat), oppure se siano voci volgari latinizzate. Invece la prima testimonianza in cui il volgare italiano è totalmente contrapposto al latino è costituita dai Placiti di Capua (960-963), redatti nel principato longobardo di Capua e Benevento, in cui un giudice di Capua, per risolvere una controversia tra il monastero di Montecassino e un uomo di Aquino sul possesso di alcune terre , registra la dichiarazione di tre testimoni favorevoli al monastero, una sorta d’intervista inserita negli atti notarili in una formula in volgare. La testimonianza di questi tre testimoni confermava ciò che l’abate di Montecassino sosteneva, ossia che quelle terre erano utilizzate dal monastero da più di 30 anni e che quindi erano entrate nei loro domini per il diritto di usucapione (chi possiede ed utilizza senza contestazioni di alcuno un certo bene per trent’anni, ne diventa il proprietario effettivo). Altra testimonianza nell’ambito di una contesa giudiziaria è la Testimonianza di Travale (1158); i primi testi con ambizioni letterarie sono Ritmo laurenziano, Ritmo cassinese, Ritmo su Sant’Alessio. Tuttavia, per la fondazione della letteratura italiana fondamentale fu l’influsso esercitato dalla letteratura d’oltralpe:  ciclo carolingio: sono in lingua d’oïl le chansons de geste, incentrate sulla celebrazione di gesta eroiche. La più antica di esse è la Chanson de Roland, scritta poco dopo la prima crociata (1096-1099). L’autore si denomina Turoldo e celebra la resistenza di Carlo Magno e dei suoi paladini contro i Saraceni, battaglia che culminò con la rotta dell’esercito cristiano a Roncisvalle e con l’eroica morte di Rolando. Da ciò prenderà avvio il cosiddetto “ciclo carolingio”.  ciclo bretone: protagonisti di questi romanzi furono Re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda, dove l’eroismo guerresco convive (ed è subordinato spesso) con l’esperienza erotica. A dare lustro a questo cicli fu Chrétien de Troyes, il maggior poeta occidentale prima di Dante. Egli, attivo presso la corte di Champagne e di Fiandra, scrisse cinque romanzi avventurosi e fantastici, fra cui ricordiamo “Perceval”, in cui si delinea l’identità del cavaliere perfetto.  i “lais” e i “fabliaux”: questi sono due forme di narratio brevis, diffusesi in area francese. I lais sono poemetti amorosi elegiaci, tra cui i più poetici furono quelli scritti da Maria di Francia, vissuta nella seconda metà del XII secolo; invece i fabliaux sono “De Ierusalem celesti …”che ha per oggetto il Paradiso, la Gerusalemme celeste che appare come una città dotata di fondamenta di pietre preziose, porte di zaffiro, strade di oro di Ofir; la luce del giorno splende continuamente e gli angeli e i beati cantano le lodi della Madonna, di Cristo, di Dio. Del 1265, è l’altro poemetto dal titolo “De Babilonia civitate …” , incentrato sull’Inferno, descritta come un’immensa prigione chiusa dall’alto, avvampano le fiamme, alimentate da resina e zolfo, si diffonde una puzza insostenibile. Diavoli dal volto orribile percuotono i dannati con bastoni e spranghe: il re di questo regno è Belzebù, diavolo – cuoco che, agguantato il peccatore, lo mette ad arrostire sulle fiamme come se fosse un porco. Impegno morale e volontà didascalica sostengono il lavoro letterario del milanese Bonvesin de la Riva, il più autorevole tra gli scrittori didattici dell’Italia settentrionale: scrisse nel 1274 il “Libro delle tre scritture”. Le tre scritture sono la “negra e è de grand pagura”, dedicata all’Inferno; la “rossa”, rivolta alla passione di Cristo; la “doradha” che riguarda il Paradiso. Altri testi del Bonvesin sono il “De quinquaginta curialitatibus ad mensam”, un vero e proprio piccolo manuale sul bon ton conviviale. L’intenzione didattica di Bonvesin viene esplicitata nelle Disputationes, in cui l’autore affida alle personificazioni che mette in contrasto tra di loro un compito di insegnamento morale. Ma il vero capolavoro del Bonvesin, scritto in latino, si può considerare il “De magnalibus urbis Mediolani” (1288) in cui l’autore descrive gli aspetti urbanistici ed architettonici della Milano dei suoi tempi e definisce la situazione politica, sociale ed economica della città: un prezioso documento storiografico e un panegirico di Milano. Tra la fine del Duecento – inizi del Trecento, emerge a Genova una singolare figura di poeta di cui non si conosce l’identità e pertanto viene denominato “Anonimo genovese” : nel suo corpus di rime politiche il centro è rappresentato dalla città di Genova, di cui sono celebrate le vittoriose imprese militari contro Venezia nell’ultimo scorcio del Duecento, dopo che la battaglia della Meloria (1284) aveva garantito alla città la supremazia nei confronti di Pisa. Egli soprattutto si fa interprete dello spirito espansionistico della borghesia marinara e mercantile. Tuttavia, il testo di maggior rilievo agli albori della letteratura italiana è quello composto tra il 1224-1225 da San Francesco d’Assisi: il “Cantico delle creature”. Nato nel 1181-82 da una famiglia della ricca borghesia mercantile, dopo una giovinezza vissuta all’insegna dello studio, dei piaceri, della guerra, raggiunse la piena maturità nel momento in cui emerse il proprio travaglio interiore che si precisa nell’affermazione della propria vocazione religiosa. L’intensa attività di predicazione dei principi evangelici condotta da Francesco e dai suoi seguaci (frati minori) trova consenso anche presso il papato. Francesco fu un personaggio molto particolare, avvolto da un velo di misticismo: nel 1224 sul monte della Verna, ammalato e quasi cieco, riceve le stimmate. Il suo capolavoro fu il Cantico di frate Sole, per il quale ricorre al dialetto umbro e assume a modello i salmi biblici di David. Il Cantico parte da una premessa: all’uomo caduto nel peccato non è lecito nemmeno nominare Dio: ciò nonostante, gli è consentito di colmare questa distanza col Creatore lodando le sue creature e gli elementi costitutivi dell’universo, legato all’uomo da uno spirito di fratellanza, in quanto generati dallo stesso padre: “frate sole”, “sora luna”, “sor’acqua”. Con grande semplicità, vengono sottolineate le qualità positive del creato: le stelle sono “clarite et preziose et belle”, l’acqua è “multo utile et umile et preziosa et casta”, il fuoco è “bello et iucundo et robustoso et forte”. Dunque, le Laudes creaturarum si trasformano in lodi di Dio e ciò avviene perché l’universo con le sue bellezze si fa mediatore di lode al Creatore. Nella natura, l’uomo scopre il segno di Dio e il suo volto miracoloso e salvifico. L’attenzione si sposta dallo stupore ammirativo per il creato alla considerazione dei valori umani e spirituali. Il messaggio finale consegnato da san Francesco è molto esplicito: “solo colui che saprà perdonare e accettare il dolore, rimettendosi alla fede che preserva dalla morte secunda, (dannazione eterna) sarà salvo”. Nella seconda metà del secolo, prende campo il movimento dei Flagellanti. Spinti dall’autoflagellazione, gli aderenti alle confraternite accompagnavano le punizioni corporali con canti in volgare, le laude, rivolte a celebrare Dio, Madonna, Santi, oppure dirette ad esprimere l’orrore per i peccati. Larghissima fu la diffusione delle laude, forma espressiva in cui trova più adeguato adempimento letterario la spiritualità del francescano Iacopone da Todi, proprio dove è nato tra il 1230 – 1236. Non si sa quanto possano essere verosimili le circostanze drammatiche della morte della moglie per il crollo del pavimento durante una festa e al turbamento susseguente alla scoperta di un cilicio sul corpo della donna; fatto sta che decide di abbandonare la vita mondana: per un decennio tempra il suo spirito col duro esercizio del gir bizzocone , cioè dell’andare mendicando e nel 1278 entra a far parte dei frati minori. Iacopone era un convinto “spirituale”, che sostiene con calore la distinzione tra scienza terrena e sapienza divina e che con tenacia sostiene l’obbligo di osservare la regola dell’assoluta povertà. Nel frattempo segue con trepidazione l’ascesa al soglio pontificio dell’eremita Pietro da Morrone, che fu eletto papa nel 1294 col nome di Celestino V, ma abdicò e il trono papale fu occupato da Bonifacio VIII: l’avversione di Iacopone verso il neo papa si esplica su due fronti: su quello letterario ( “O papa Bonifazio, molt’ài iocato al mondo” ) e su quello politico con la sottoscrizione del “manifesto di Lunghezza! (1297) con cui si richiedeva di deporre il papa e indire un nuovo concilio. Catturato dalle milizie, fu condannato al carcere a vita scomunicato: ciò che lo turbò fu più che altro la scomunica, tanto da invocare la cancellazione di quest’ultima anche a prezzo dell’inasprimento della detenzione. Ma revoca della scomunica e scarcerazione li ottenne solo dal suo successore Benedetto XI (1303). Le laudes di Iacopone sono 92: la sua poesia presenta un costante scontro tra forze opposte: il vizio e la virtù, l’anima e il corpo, il peccato e la salvezza, il mondo e DIO. Nell’adozione di alcuni strumenti della retorica si ravvisa la sua conoscenza non solo di testi religiosi, ma anche di quelli della cultura laica, ma anche della letteratura didattica latina (anima VS corpo), debito con la poesia provenzale ( chansons de printemps ). Ma la più conosciuta della laude di Iacopone è “Il Pianto della Madonna” che ha per argomento la Passione di Cristo e presenta alcuni momenti affini allo stil novo nel delineare i tratti psicologici e i moduli allocutivi dei personaggi, mentre il dialogo tra la Madonna e il nunzio una drammatizzazione che tende a delineare l’identità umana di madre e di figlio. La sua è una poesia essenziale, all’insegna della brevitas, dalla sintassi ellittica, paratattica, irregolare. -La scuola siciliana In Sicilia, alla corte di Federico II di Svevia, imperatore del Sacro Romano Impero dal 1220 al 1250, all’interno della Magna Curia (circolo di filosofi, giuristi, scienziati) si colloca la creazione di una poesia in volgare che si propone solo finalità estetiche e letterarie. Durante la prima metà del sec. XIII il regno di Sicilia comprendeva tutta l'Italia meridionale e godeva di un periodo di particolare equilibrio politico-amministrativo e prosperità economica per merito di Federico II. Iniziative politiche e culturali significative furono la fondazione dell'università di Napoli (1224) e le Costituzioni Melfitane (1231), in cui veniva ribadita l'autorità del sovrano rispetto ai potentati feudali. Nella sua corte a Palermo si raccolsero le figure più rappresentative dell'epoca e si svilupparono numerosi interessi culturali: venne dato un notevole impulso alle conoscenze tecnico-scientifiche e agli studi di magia (per opera principalmente di Michele Scoto), alla letteratura filosofica araba, alla letteratura greco - bizantina, alla poesia tedesca (soprattutto alla lirica cortese d'amore del Minnesang) e alla poesia provenzale in lingua d'oc. Proprio da questa tradizione ebbe origine la "scuola siciliana", come fu definita da Dante nel De vulgari eloquentia. Di differente natura è lo statuto sociale dei poeti della Magna Curia rispetto ai trovatori provenzali: mentre costoro realizzarono nel rimare la loro professionalità, i poeti siciliani sono dei funzionari imperiali. Giuristi, notai, magistrati, burocrati per i quali la poesia è un momento di distacco dalle occupazioni civili: tant’è che nei loro versi viene rimossa qualsiasi implicazione politica (encomiastica o polemica). Il servizio all’imperatore si manifesta nella fondazione di una poesia che abbia il suo fine nella perfezione tecnica. Dominante in assoluto nei poeti siciliani la tematica d'amore sia dal punto di vista teorico (cos'è amore, come si manifesta, quali sono i suoi effetti), sia come omaggio "feudale" verso la donna amata, con la quale il poeta cerca di stabilire una comunicazione attraverso immagini e segnali che essa sola sa cogliere. Un’altra grande differenza con i trovatori, è che nei siciliani la poesia non si risolve in canto e dunque non è accompagnata dalla musica: la sua destinazione esclusiva è la lettura. Il divorzio fra musica e parole sollecita il poeta a perseguire una musica interna ai versi. Il riscontro più significativo dell’operazione formale si rivela nell’impiego di due strutture metriche, destinate a restare fondamentali nella letteratura italiana: la canzone e il sonetto. La canzone è modellata sulla canço provenzale: essa è l'espressione "alta" della poesia siciliana ed è utilizzata soprattutto per composizioni di carattere teorico e dottrinale (riprende il metro occitanico); la canzonetta, costituita da strofe di versi brevi, viene impiegata per testi più narrativi, come invocazioni d'amore, lamenti per l'amata lontana, manifestazioni della propria gioia e del proprio dolore; il sonetto è creazione autonoma e specifica della scuola ed è diventato il componimento lirico breve per eccellenza della poesia italiana, dovuto probabilmente al poeta più importante della Magna Curia, Giacomo da Lentini. Il carattere elitario di questa poesia dipende da due fattori: dalla promozione del volgare a lingua esclusiva della poesia e dall’esplicita intenzione di contrapporre alla lingua prestigiosa (il provenzale) un’altra lingua a cui i poeti federiciani sono chiamati a far ricorso, indipendentemente dalla loro origine: il siciliano illustre, ossia il dialetto siciliano parlato, ma corretto, aggiustato e ripulito grazie al contributo di provenzalismi e latinismi. Tuttavia, le testimonianze di questa lingua sono estremamente ridotte, in quanto la maggior parte dei testi della poetica siciliana è stata tramandata attraverso la trascrizione in codici toscani, nei quali la veste linguistica soggiace ad una quella scambiata dai provenzali Ugo Catola e Marcabruno negli anni 1134-1136, che dibattono sull'amore (sensuale da un lato, etico - religioso dall'altro). In Italia la tenzone fa uso perlopiù della forma sonetto. Sulla scia dell'esempio provenzale, la "tenzone" si diffonde anche alla corte di Federico II: la più famosa fu quella del 1241, tra Giacomo da Lentini e l’Abate di Tivoli, cui parteciparono anche Pier della Vigna e Jacopo Mostacci, una tenzone sulla natura dell’Amore. T1. Sollicitando un poco meo savere (di Jacopo Mostacci) -Parafrasi interpretativa Pensando tra me e me (interrogando il mio sapere, le mie conoscenze) per provarne diletto (il diletto nasce dal sapere cioè dalla conoscenza), nacque in me un dubbio che vi scrivo perché lo chiariate. Tutti dicono che l’amore abbia il potere di costringere i cuori ad amare ma io non sono d’accordo, perché l’amore nessuno l’ha mai visto nel passato né lo si vede adesso. E’ vero che si trova un amore che sembra nasca dal piacere, e si dice che questo sia l’amore. Io non so attribuirgli altre qualità, ma voglio che siate voi a dirmi in cosa consiste questo amore, e per questo ve ne faccio giudici. -Commento E’ un sonetto (due quartine e due terzine, endecasillabi) in cui J. Mostacci lancia l’input per una discussione, riguardante la natura dell’amore. I più sono concordi con l’idea di amore sociale di Andrea Cappellano (De amore ): la forza dell’amore passionale è tale che non consente ad una persona che sia davvero amata di non ricambiare il sentimento (“Ogn’omo dice ch’amor ha potere e li coraggi distringa ad amare”), un concetto che sarà poi ripreso da Dante: “Amor ch’ha nullo amato amar perdona” (v.103, V Inf.). Ma il Mostacci non è d’accordo, in quanto l’amore non ha un corpo, non ha una sostanza e pertanto non può essere cosi potente come molti ritengono. Per lui, l’amore è in realtà un’amorosità, non ha sostanza in quanto è un sentimento: nasce dal piacere. Di esso non conosce nessun’altra qualità (qualitas aristotelica, ossia una definizione). T2. Però ch’amore no si po’ vedere (di Pier della Vigna) -Parafrasi interpretativa Poiché l'amore non si può vedere e non si può toccare con mano molte persone giungono alla folle conclusione che l'amore non esista (non sia importante; non sia niente ). Ma dopo che l'amore si fa sentire (innamoramento), riesce a padroneggiare la gente dal cuore; e per riuscire a fare ciò deve avere un pregio (ricchezza; forza) maggiore che se fosse una cosa visibile (concreta). La forza con cui l'amore padroneggia la gente è come la forza della calamita che pur non essendo vista riesce ugualmente ad attirare irresistibilmente il ferro. E questa realtà conferma la mia convinzione che l'amore esista e la mia convinzione è rafforzata dal fatto che la gente creda tuttora che esista. -Commento Questo sonetto è la risposta di Pier della Vigna al sonetto e alla discussione lanciata da Mostacci. Della Vigna non solo ritiene che l’amore sia una forza, ma anche che sia la più nobile delle forze, proprio perché non ha un corpo e non si vede. Invece, proprio per la sua non corporalità, molti sono così folli da credere che amore non esista, sia niente. (“credon ch’amor sia niente”, v.4 ripreso dalla tenzone di G. da Lentini con l’abate di Tivoli). Dal momento che l’amore si fa sentire mentre signoreggia ciascuno di noi, dal cuore, dove ha la sua sede, esso deve avere un pregio, una forza maggiore che se fosse visibile (perché riesce a comandarci anche senza che noi lo vediamo). Noi non sappiamo come la calamita attiri, grazie alle sue proprietà, il ferro, eppure lo fa; allo stesso modo noi non sappiamo come accada l’innamoramento ma di sicuro l’amore esiste. E’ un amore che agisce come se esistesse davvero e vale di più perché non si vede: non a caso, la forma più alta di amare è verso Dio Padre. E’ il cosiddetto amor di lontano, l’amore per una donna mai vista, un amore qualificante. vv.124-129, XXX Purgatorio Sì tosto come in su la soglia fui di mia seconda etade e mutai vita, questi si tolse a me, e diessi altrui. Quando di carne a spirto era salita e bellezza e virtù cresciuta m’era, fu’ io a lui men cara e men gradita; T4. Amor è un desio che ven da core (di Giacomo da Lentini) -Parafrasi interpretativa Amore è un desiderio che viene dal cuore (dove evidentemente nasce) per il grande piacere; e gli occhi dapprima generano l’amore (il desiderio), e poi il cuore nutre l’amore. Accade, alcune volte, che si ami senza vedere l’oggetto del proprio innamoramento (amor di lontano), ma l’amore che lega con forza (che ti fa impazzire) nasce dalla vista degli occhi: perché di ogni cosa che vedono gli occhi rappresentano (trasmettono) al cuore sia il bello sia il brutto, insomma la sua forma reale; e il cuore, che accoglie le immagini che partono dagli occhi, le contempla (e le rielabora) e prova piacere nel desiderio amoroso: è questo l’amore che regna tra la gente. -Commento E’ la descrizione dell’ amor furoris, ossia la passione amorosa che nasce dagli occhi e che portano l’immagine dell’amata al cuore. Il cuore giudica l’immagine, lo prende in sé e riproduce l’immagine. -Conclusione della tenzone Le tesi sostenute dai tre poeti differiscono parecchio fra di loro, ma si può affermare che l’opposizione maggiore è tra Mostacci e Pier della Vigna, tutta basata sulla differenza fra "accidente" e "sostanza". Per Mostacci amore è una qualità, ovvero, un fatto accidentale, non una sostanza. Pier della Vigna dà invece al problema una risposta diametralmente opposta. Dovendo mettere in versi un'argomentazione, "il Mostacci si tiene stretto a modi discorsivi e colloquiali, seccamente logici avvalendosi di un linguaggio nudo e di un procedere sillogistico" (Quaglio). La risposta di Pier della Vigna, dal momento che assegna ad amore la dignità di "sostanza" deve sottolinearne la potenza: da ciò il ricorso ad elementi che sono tipici della lirica provenzale. Giacomo da Lentini parte dalla conclusione di Pier della Vigna, ma più che definire la natura di amore egli mira ad indagarne la genesi, il gioco di corrispondenze e i rapporti fra occhi e cuore, la componente di piacimento che tale sentimento comporta. In questo senso il suo sonetto si stacca dagli altri due (anche se l'ultimo verso riecheggia quello conclusivo di Pier della Vigna). E’ questo mero diletto? No, è una discussione che intende usare l’amore come pretesto per indagare sulla natura effettiva dell’uomo. Cos’è l’amore? E’ un qualcosa che passa, è un’amorosità, ma è anche una Confronto con l’originale provenzale Confrontando il primo verso del modello toscano e quello provenzale si possono scorgere notevoli differenze sotto molti punti di vista. A vos, midontç voill retrair’ en cantan Madonna, dir vo voglio È un decasyllàb, tipico bordò (verso) della poesia provenzale trobadorica: è un verso parisillabo. Dal decasillabo provenzale si passa al settenario, in quanto nel De vulgari eloquentia, Dante sostiene che non si possono fare delle poesie parisillabe, in quanto cantilenanti, ossia prive di grazia. Dunque si predilige il verso imparisillabo. Il primo verso comincia con un complemento di termine, “a vos”, ponendo il termine “midontç” (ossia, mia signora) quasi al centro del verso. Il primo verso comincia con un complemento vocativo, “Madonna”(mea domina), ponendo subito in evidenza l’oggetto d’amore. Infatti, nel manoscritto, MADONNA avrebbe avuto una maggiore evidenza grafica. Il verbo del verso è “voglio riferire cantando”. Infatti, Folquett è un trobador, ossia un poeta – cantante, un professionista della parola. verbo trobar (comporre, inventare) Qui, con la presenza del verbo “dir”, cambia il profilo del poeta. Giacomo da Lentini non è un trovatore, lui non canta. È un intellettuale, un poeta non di professione. Egli era un notaio presso la corte di Federico II. L’armonia e la musicalità (presente nella poetica provenzale) era affidata ad elementi interni alla poesia stessa: il ritmo, gli artefici retorici, la sequenza fonica, ma soprattutto la rima, grande assente della poesia provenzale. Il verbo “voill” che mostra l’intenzionalità del poeta è inglobato al centro del verso. Il verbo “voglio”, che mostra l’intenzionalità del poeta, è posto in chiusura del settenario. Tradizionalmente, nell’ambiente dei poeti siciliani viene inserito anche un testo che si distacca dagli altri per la sua caratterizzazione più bassa nell’affrontare la tematica amorosa: si tratta del contrasto “Rosa fresca aulentissima” , attribuita a Cielo d’Alcamo. Nelle strofe del contrasto trova animazione un colorito battibecco tra un corteggiatore che cerca di piegare ai suoi desideri una contadina e la contadina che, dopo aver rifiutato le avances del suo interlocutore, da ultimo cede. Questo testo, apparentemente di materia popolare, è un testo di accorta sapienza letteraria, modellato sull’esempio della “pastorella”, un genere della tradizione provenzale. Una letterarietà percepibile sia nell’intenzione caricaturale dell’argomento sia nelle forme espressive. -Approfondimento sulla “canzone” La canzone, dal provenzale "canso", è un genere metrico formato da un numero variabile di strofe dette stanze, di solito 5, 6 o 7 più eventualmente una stanza più piccola detta congedo/commiato, in cui il poeta si rivolge direttamente al lettore o al componimento stesso. Ciascuna strofa di una canzone è divisa in due parti, una detta fronte divisa in piedi con un numero identico di versi e con uguale disposizione di versi e presenza di rime incrociate (lo schema ritmico, invece, può variare); l'altra, chiamata coda o sirma (termine derivante dal greco σύρμα, strascico, talvolta anche sìrima), può rimanere indivisa oppure può dividersi in due parti chiamate volte, cioè periodi metrici strutturalmente identici come nel caso dei piedi e presentano rime baciate. Fronte e sirma sono di solito uniti da un verso chiamato chiave o concatenatio (dal latino "collegamento") . Alla fine della canzone, può trovarsi un congedo che consiste in una strofa più breve con una struttura metrica ripresa dalla sirma e che ha lo scopo di specificare il significato o fine della canzone. Generalmente i versi che compongono la canzone sono endecasillabi (lettere maiuscole) misti a settenari (lettere minuscole) e le rime di regola sono disposte in modo che la chiave (il primo verso della sirima, chiamato anche diesi), faccia rima con l'ultimo verso della fronte. La chanson viene considerata dai provenzali il genere lirico per eccellenza, infatti i trovatori provenzali, che erano abituati a comporre insieme le parole e la musica, consideravano inscindibile l'unità di vers e son, cioè di parola e di melodia, essendo abituati ad imparare in modo rigoroso sia a comporre in versi sia a comporre in musica. Già a partire dalla Scuola siciliana e in seguito nel Dolce Stil Novo, che si rifà alla tradizione provenzale, nel sistema dei generi romanzi la canzone è il metro per eccellenza e lo stesso Dante Alighieri, nel De vulgari eloquentia, colloca fra i generi metrici la canzone al primo posto. Le forme di canzone che costituiscono senza dubbio un modello duraturo nella tradizione italiana sono quelle di Dante e soprattutto di Petrarca, ma oltre alle canzoni petrarchesche, nell'evoluzione della canzone che va dal Duecento al Trecento, esistono altre due varietà di canzone: la canzone pindarica e la canzone libera o leopardiana. La canzone è strutturata come un vero e proprio ragionamento: presenta delle premesse e lo sviluppo del discorso. Le stanze sono inoltre pensieri autonomi. Viene definita da dante come “ il componimento più nobile ” [De volgari eloquentia]. L’endecasillabo è il verso più importante dell'intera poesia lirica italiana e il maggiormente usato in tutta la tradizione nazionale, dalle origini (con Dante Alighieri e Francesco Petrarca) fino alle soglie della versificazione libera novecentesca. Viene utilizzato per molte delle forme metriche, in particolar modo per quelle meglio consolidate e radicate nella storia letteraria: il sonetto (canonizzato sin dai tempi della scuola siciliana), la ballata, la canzone (codificata dalla lezione petrarchesca del Canzoniere), l'ottava (caratteristica dei poemi cavallereschi ed epici di Boiardo, Ariosto e Tasso) e la sestina lirica. Per endecasillabo si intende un verso, tendenzialmente di undici sillabe (il nome deriva dal greco éndeka, "undici"), che abbia come ultima sillaba tonica (e cioè, accentata) la decima. Numerose sono, tuttavia, le varietà formali, che si realizzano in base alla posizione delle altre sillabe toniche all’interno del verso, alle cesure (cioè le pause del ritmo all'interno del verso) e alle uscite dell'endecasillabo stesso. Due varianti sono le più importanti: la prima si realizza con la quarta sillaba accentata, dando vita così nella parte iniziale (o emistichio) dell'endecasillabo a un quinario, che risulta più breve della parte restante del verso, il quale viene pertanto detto a minore. La seconda possibilità si realizza quando è la sesta sillaba ad essere tonica, realizzando nella parte iniziale un settenario, cioè un emistichio più lungo della parte restante del verso, che quindi è chiamato nel suo complesso a maiore. I primi due versi del canto incipitario della Commedia di Dante sono appunto un endecasillabo a maiore e uno a minore: Nel | mez|zo | del | cam|mìn | di | nos|tra | vi|ta mi | ri|tro|vái | per | u|na | sel|va os|cú|ra Questi due modelli presentano al loro interno diversi soluzioni stilistiche. In particolare per l’a minore sono utilizzati per lo più due tipi, il primo con accenti sulla quarta, ottava e decima sillaba (come nel v. 2 citato sopra), il secondo con accentate la quarta, la settima e la decima; nell’a maiore generalmente viene accentata, oltre alla sesta e alla decima sillaba, almeno una delle sillabe che precedono la sesta, di solito la seconda, ma in certi casi anche la prima e la quarta. Se dobbiamo la canonizzazione metrica dell'endecasillabo alle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (e alla scuola del petrarchismo), non mancano naturalmente autori che nel corso dei secoli si sono discostati dalle "regole": l’endecasillabo non canonico (dove la quarta e la sesta sillaba sono atone) è comunque raro e viene usato soprattutto nella poesia delle origini o in autori particolari come Guittone D'Arezzo e Cino da Pistoia, riemergendo semmai in sperimentazioni metriche novecentesche, come in Eugenio Montale. migliorava e raffinava chi ne facesse esperienza. Semmai egli fa ricorso alla poesia per scopi prettamente utilitaristici: un gruppo di 24 sonetti vengono a costituire una sorta di manuale del libertino, istruzioni sull’arte della seduzione. Guittone era un poeta che amava molto la sperimentazione, che non soffocò il maturare di una profonda crisi interiore e i sintomi di quel risentimento morale che sfocerà nella conversione si affacciano in alcuni componimenti scritti tra il 1275-62: la famosa canzone per la rotta dei guelfi fiorentini a Montaperti “Ahi, lasso! Or è stagion de doler tanto”, un planh in cui l’infausta circostanza diventa pretesto per un’ampia riflessione storica. Firenze, che era destinata a diventare la Roma dei tempi moderni, paga la colpa di essere venuta meno all’appuntamento con la storia a causa delle lacerazioni tra le fazioni. Il Codice laurenziano 9 fu fondamentale per la ricostruzione del canzoniere di Guittone d'Arezzo e un supporto al Canzoniere Vaticano latino 3793 per lo studio dei componimenti della scuola siciliana di Federico II: un codice miniato dal valore inestimabile. Alcuni componimenti di cui non è pervenuta una testimonianza manoscritta sono noti attraverso la Giuntina di Rime antiche. Il codice Laurenziano conserva la nota corona di sonetti amorosi di Guittone, legati tra loro da uno sviluppo macrotestuale (che anticipa per alcuni aspetti la struttura del Canzoniere petrarchesco) e da elementi micro testuali, quali riprese rimiche, allitterazioni e altre figure retoriche, ereditate in gran parte dalla tradizione trobadorica. Il canzoniere di Guittone è particolarmente ricco; il corpus conta infatti 50 canzoni e 251 sonetti, conservati nei manoscritti italiani delle origini e di cui il codice Laurenziano1 Rediano 9, che riunisce rime d'amore e canzoni politiche, costituisce il testimone più importante. Alcuni componimenti di cui non è pervenuta una testimonianza manoscritta sono noti attraverso la Giuntina di Rime antiche, una raccolta di testi fatta nel Cinquecento a Firenze dall'editore Giunta. Celebre è il planh ("lamento") Ahi lasso, or è stagion de doler tanto sulla battaglia di Montaperti nel 1260. Il codice Laurenziano conserva la nota corona di sonetti amorosi di Guittone, legati tra loro a costituire una sorta di percorso, in uno sviluppo macrotestuale2 (che anticipa per alcuni aspetti la struttura del Canzoniere petrarchesco di quasi un secolo dopo) e da elementi micro testuali, quali riprese rimiche, allitterazioni e altre figure retoriche, ereditate in gran parte dalla tradizione trobadorica. Nella vasta opera di Guittone si contano anche circa 50 lettere di argomento civile e cortese. Guittone si colloca in un'ottica piuttosto critica nei confronti dell'eredità trobadorica e della siciliana, dovuta all'inconciliabilità fra la visione cortese dell'amore e la morale cristiana. A suo avviso, infatti, tutta la poetica amorosa provenzale era semplicemente un espediente per ottenere la soddisfazione del proprio desiderio sessuale. Fino alla sua entrata nell'ordine dei frati gaudenti, si può identificare un periodo "giovanile" nel quale la denuncia verso l'amor cortese assume toni sarcastici e dissacratori, e l'amore viene visto come una "malattia" dalla quale si può e si deve guarire (su questo scrive una serie di 12 sonetti sull'Ars amandi detto Trattato d'amore, sarcastico manuale sulla seduzione, come si capisce dal fatto che il titolo latino è lo stesso titolo di un'opera famosa del poeta latino Ovidio, di età augustea, che appunto trattava della seduzione, opera criticata e proibita nel medioevo). 1 Questo codice manoscritto, pare, fu composto da un amanuense pisano alla fine del XIII secolo. Perché si chiama Laurenziano Redinao? Perché si trova alla biblioteca Laurenziana medicea di Firenze, detta “laurenziana medicea” dal nome di Lorenzo de' Medici. Rediano perché era stato di proprietà di Francesco Redi, uno scienziato del XVII secolo, e dalla sua raccolta di libri e manoscritti giunse poi a far parte di tale biblioteca. 2 Nel senso che ogni testo non è leggibile soltanto in sé e per sé, ma fa parte di un testo più grande (= macrotesto) che una sua storia e una sua coesione, come fossero 'capitoli' di uno stesso libro. Nella sua fase più matura, Guittone, pur senza rinunciare alla sua animosità assume un contegno più moraleggiante, rivolto maggiormente alla catechesi e all'istruzione dell'uditorio. Le canzoni si fanno di tono più ascetico, e vengono composte anche delle laude. Dal punto di vista tecnico, Guittone è probabilmente il poeta duecentesco più influente in territorio toscano, costituendo probabilmente il punto di riferimento per molti altri poeti e rappresentando sicuramente la principale ispirazione anche dei primi tentativi poetici del giovane Dante Alighieri. I critici hanno parlato di una scuola guittoniana, o guittonismo, contrapposta alla fine del Duecento a una poetica più vicina all'eredità provenzale (quella che poi porterà allo Stilnovismo). Si tratta di uno stile sempre molto tecnico e difficile, caratterizzato da un certo trobar clus e da uno sperimentalismo molto spinto nella modifica delle forme metriche canoniche (principalmente canzoni dallo schema inusuale e sonetti rinterzati, raddoppiati, ritornellati, caudati. . . ). T6) Or parrà s’eo saverò cantare Centrale nella produzione di Guittone è questa canzone, da ritenersi come la canzone – manifesto della sua conversione, in cui il poeta annuncia il programma della sua nuova poesia. -Parafrasi “Ora si vedrà se saprò cantare e se varrò quanto prima solevo valere, poiché del tutto fuggo e ripudio Amore, che mi riesce odioso più di ogni altra cosa: infatti sento dire da un uomo reputato saggio che chi non è punto da Amore non può saper comporre canzoni, né vale nulla; però costui mi sembra lontano dal vero, se i suoi pensieri concordano con quanto dice, perché ovunque vi sia Amore regna la follia, anziché la saggezza: dunque come può valere o piacere in qualsivoglia modo ciò che diverge così radicalmente dal Creatore di ogni valore e somiglia invece in tutto e per tutto al suo contrario (cioè al demonio)? Ma chi vuole ben cantare e ben valere porrà come nocchiero della propria nave la rettitudine, al timone metterà l’onorata saggezza, la sua stella polare sarà Dio e nella lode veritiera riporrà la sua speranza.” Con questa fondamentale e fondante canzone Guittone si oppone al sillogismo difettivo, istituito per primo dal trovatore Bernart de Ventadorn (l’«om tenuto saggio») il cui primo termine afferma che il canto non ha valore se non viene dal cuore, il secondo che il canto non può muovere dal cuore se in esso non vi è Amore: quindi il canto, per avere valore, deve deve provenire da un cuore innamorato. Bernart de Ventadorn aveva inoltre sostenuto che l’eccellenza del proprio canto derivava dalla verità del sentimento amoroso. Guittone invece parte da premesse totalmente differenti: per lui l’Amore è assillabile alla Follia e non alla saggezza (e quindi l’«om tenuto saggio» sarà anch’egli un folle) e la Follia proviene dal Demonio, cioè l’entità opposta a Dio, da cui proviene ogni valore: tale premessa ha per conseguenza che il canto d’Amore è canto che non vale e Guittone è certo che avendo rifuggito Amore il suo canto avrà valore. Su questa linea, sostanzialmente negatoria di Amore e di Follia, Guittone si trova in posizione nettamente antitetica rispetto a Iacopone. Le ipostasi della nuova poetica guittoniana sono invece il Diritto (sarà cioè anche lui, a norma dantesca, «cantor rectitunis), la Saggezza, Dio e Loda veritiera, cioè la lode di Dio stesso. È troppo facile seguire il gusto della gente con le canzoni d’amore, ora invece si vedrà se io so cantare. E se io varrò quanto valevo già (soglio-imperfetto, forma che deriva dal provenzale suellj) perché dopo che ho rinunciato completamente all’amore ho il timore di tutto. Adesso siamo arrivati alla determinazione di quello che valgo davvero. Sento raccontare da un uomo ritenuto saggio che non saprebbe e non può assolutamente trovare ( fare poesia) se non si è punti d’amore (colpiti). Ma questo mi pare lontano dalla verità se il pensiero amoroso si adegua al parlare perché dovunque amor distringe, regna la follia al posto del sapere. (sonorità dissonante) dunque come può valere e piacere dal momento che diverge radicalmente dal creatore d’ogni valore (Dio) e sembra in tutto al contrario( il Demonio). Come può piacere una cosa che sembra nata dal demonio e non da dio? Ma chi vuole cantare e avere valore pone nella barca della sua vita un nocchiero che vada dritto e mette al timone un sapere onorato, fa della sua stella dio e rimettere in dio la sua speranza (lausor).L’io di ieri e l’io di oggi si radicalizza tra dio e demonio, tra amore e virtù. Dunque, viene abbandonato l’amore perché è irrazionalità e “follore”, ossia follia ed è liquidata la poesia d’amore. L’avversione verso la poesia è sollecitata da un radicale ostracismo a uno dei canoni fondanti dell’amor cortese, l’ extraconiugalità dell’esperienza amorosa. A questo si contrappone una poesia nutrita di valori etici e di spirito religioso. La poesia così diventa dottrinaria, poesia morale, della rettitudine. Il “savere” di Guittone poggia su solide certezze e non conosce la dialettica dei contrasti e la sospensione del dubbio. Il magistero guittoniano agisce per oltre un ventennio su un’intera generazione di poeti: verso di lui sono debitori Guinizzelli, Cavalcanti, lo stesso Dante, le cui prime rime risentono dell’impronta di Guittone. Egli esercitò un’influenza anche su altri poeti che aderirono ai suoi moduli e ne riproposero la maniera: sono i guittoniani, una folta schiera di compagni di viaggio, di epigoni, fra i quali meritano di essere ricordati Chiaro Davanzati, autore di una sessantina di canzoni e un centinaio di sonetti; Dante da Maiano, imitatore del guittonismo a Firenze; Monte Andrea da Firenze, che esaspera la tendenza alla sofisticazione verbale e all’artificiosità formale di Guittone, dando prova di un trobar clus fondato su figure etimologiche, richiami fonici, ripetizione della rima stessa. -La poesia comico – realista Guittone d’Arezzo e i suoi seguaci si cimentano in un arduo esercizio di scrittura anche perché immettono nell’alveo della poesia un alto tasso di concretezza e realismo, di impegno raziocinante e concettuale. Ma nel Duecento vi è un altro filone della poesia, definita “giocosa”, “burlesca, borghese”, ma passa alla tradizione come poesia comico – realista . Lo stile è quello comico, che i manuali di retorica contrapponevano al tragico come più adatto per una materia bassa e quotidiana dal lessico gergale; i contenuti invece sono realistici perché l’attenzione viene rivolta ad esigenze, desideri, obiettivi concreti, contrapponendo a vagheggiamenti spirituali e alle astrazioni concettuali. Molta parte degli argomenti che attirano i comico – realisti aveva già costituito materia dei canti goliardici, dei carmina amatoria , lusoria, potatoria, coblas derizorias provenzali, cantigas d’escarnio y de maldecir spagnoli, fabliaux e contes à rire francesi. I temi dominanti sono la misoginia esasperata, che apprezza la donna solo come corpo, avversione per i genitori, lode del denaro, esaltazione dei luoghi di perdizione, atteggiamento irridente verso la religione. Il primo tra i poeti comico – realisti fu Rustico di Filippo , il cui corpus conferma l’idea che quella del comico sia una scelta stilistica, in quanto i 58 sonetti che testimoniano la sua produzione sono bipartiti in 29 di argomento riconducibile all’amor cortese e in altri 29 ascrivibili alla maniera giocosa. In questi sonetti comici, l’attenzione del poeta è incentrata sul mondo comunale , con la vita quotidiana e la cronaca cittadina che costituiscono il vero tesoro Dunque, nella poetica del dolce stil novo il tema dell’amore è il polo di catalizzazione di problematiche di ordine culturale e sociale, che trascendono la stretta specificità della casistica sentimentale: e ciò spiega come mai in una società in evoluzione, in crescita economicamente, demograficamente, in travaglio politico, quella dell’amore sembra essere una questione così astratta e concettuale. Infatti, i dibattiti avvenuti intorno alla definizione di Amore scaturiscono dall’urgente necessità di rideterminare diverso da quello delle corti qual è quello del mondo comunale : una concezione che rifiuta la coincidenza fra gentilezza e nobiltà di sangue e respinge il principio dell’ereditarietà di quanto non è materiale ed è patrimonio esclusivamente personale. -Guido Guinizzelli Il dolce stil novo, che il suo epicentro a Firenze, ha origine a Bologna, dove nasce attorno al 1230 Guido Guinizzelli. Nel Purgatorio, Dante lo saluta come “ […] padre mio e dell’altri miei maggior che mai rime d’amor usar dolci e leggiadre” fissandone il ruolo di precursore dello stilnovo. La sua produzione non è copiosa: in tutto 25 poesie, frammenti e rime dubbie comprese. T7) Io voglio del ver la mia donna laudare Metro: sonetto con schema della rima regolare (ABAB, ABAB, CDE, CDE) -Parafrasi e commento Io voglio lodare la mia donna secondo verità e paragonare a lei la rosa e il giglio: splende e appare più bella della stella Venere e io paragono a lei ciò che è bello lassù [in cielo]. Paragono a lei una verde campagna e l'aria, tutti i colori dei fiori, il giallo e il rosso, l'oro e l'azzurro [i lapislazzuli] e gioielli tanto preziosi da poter essere donati: lo stesso Amore grazie a lei diviene più perfetto. Ella passa per strada così bella e così nobile che abbassa l'orgoglio di colui a cui dà il proprio saluto e lo fa diventare della nostra fede [cristiana], se non crede in essa; e non le si può avvicinare un uomo non nobile; vi dirò che ha una virtù ancora più grande: nessuno può pensare male finché la vede. Tipico sonetto che esprime la nuova maniera poetica inaugurata da Guinizzelli, in cui la lode della bellezza e della virtù della donna amata si accompagna al valore "salvifico" del suo saluto, che acquista l'importante significato religioso di convertire alla fede cristiana chi non crede in essa. L’iperbole della donna Il sonetto si divide in due parti simmetriche, poiché nelle quartine Guinizzelli si concentra sul motivo della lode della bellezza della donna, mentre nelle terzine l'attenzione si sposta sulle sue virtù "salvifiche", col dire che il suo saluto piega l'orgoglio di chi la vede per strada e lo converte addirittura alla fede cristiana se non è credente; la nobiltà della donna è un tutt'uno con la sua bellezza ed essa è sufficiente a tenere a distanza gli uomini "vili", non nobili di cuore, così come il suo atteggiamento impedisce di pensare male (il connubio nobiltà di cuore- amore è tipico della poesia di Guinizzelli e diventerà uno degli elementi costitutivi dello Stilnovo). La novità della "maniera" dell'autore consiste proprio nel valore religioso della figura femminile (la "donna-angelo" poi sviluppata da Dante e Cavalcanti), mentre l'amore per lei si qualifica come legame spiritualizzato, pur rientrando nella concezione dell'amore cortese. Nel lodare la donna Guinizzelli la paragona al giglio e alla rosa, vale a dire ai due fiori già simbolo di purezza e nobiltà nella poesia classica: c'è anche un riferimento al loro colore, poiché il bianco del giglio rimanda al colore della pelle e, forse, dei denti, mentre il rosso della rosa allude alla bocca e all'incarnato (tale simbologia verrà ampiamente ripresa dagli Stilnovisti e da Petrarca). Il paragone si arricchisce con altri elementi naturali, sia del mondo celeste (specie l'astro di Venere, detta "stella dïana" perché annuncia la venuta del giorno nelle prime ore del mattino), sia del paesaggio (una verde campagna, l'aria), sia del mondo minerale, con l'accostamento ai colori delle pietre preziose (l'oro, l'azzurro dei lapislazzuli, le gioie), secondo uno schema che si ripete spesso in Guinizzelli e negli Stilnovisti fiorentini. Al verso 11, la parola “fè” fino a un po’ di tempo fa era considerata un rimando ad una fede stilnovistica: in realtà oggi questa tesi è superata, in quanto la parola stilnovo è un’accezione dantesca e probabilmente i poeti stilnovisti non avevano nemmeno coscienza di esserlo. Essi erano sì fedeli all’amore, ma di certo non fedeli ad una sorta di massoneria. Qui si parla dunque proprio di fede religiosa: la donna è così bella che richiama la fede in Dio. L’effetto che fa è che non si può avvicinare a lei alcun uomo che sia vile, lei ha una virtus (potenza) e cioè che nessuno può fare un pensiero cattivo finché la vede (generatrice di buoni costumi e di buoni pensieri). 8) S’eo tale fosse ch’io potesse stare (risposta per le rime di Guittone d’Arezzo) Forse Guinizzelli scrive a Guittone per fargli controllare questo sonetto. Guittone risponde per le rime non precisamente ma viene ripresa la rima in are. Sono ripresi versi interi e ad un certo punto Guittone parla proprio di Guinizzelli. Guittone gli dice che forse si è bevuto il cervello. Atteggiamento filo-femminista di Guittone, Guinizzelli paragona le donne a degli oggetti inanimati. Le donne sono persone non puoi trattarle come cose. Se la colpa non fosse mia che l’ho messo a fare poesia, io lo farei vergognare, ma dovrei vergognarmi anche io che sono il suo maestro. (si riferisce a Guinizzelli). Tuttavia, fondamentale è la canzone Al cor gentile rempaira sempre amore, considerata il manifesto del dolce stilnovo, in quanto in esso viene formulato il principio della corrispondenza fra amore e cuore gentile, che dal punto di vista sociologico equivale alla rivalutazione della nobiltà del cuore contro la nobiltà di sangue, mentre la concezione della donna come figura che rappresenta la divinità emerge dalla stanza finale. T9) Al cor gentil rempaira sempre amore (di G. Guinizzelli) -Parafrasi commentata “Al cuore nobile ritorna sempre l’amore, come l’uccello nel bosco torna fra il verde; la natura non creò l’amore prima del cuore nobile, né il cuore nobile prima dell’amore: non appena fu creato il sole, subito lo splendore risplendette, e non risplendette prima della creazione del sole e l’amore prende posto nella nobiltà d’animo in modo così naturale come il calore nel chiarore del fuoco.” Nei primi versi della canzone, Guinizzelli vuole parlare di come l’amore sia spiegabile dal punto di vista fisico – filosofico: l’amore ritorna al cuore gentile come l’uccello nel bosco. Questa non è altro che l’esplicazione della teoria aristotelica del luogo naturale : ogni cosa ha un suo posto specifico nella natura. La fiamma sale perché è in alto che si trova la sfera del sole, così come l’acqua scende perché giù si trova il fondo del mare. Emblematico è il chiasmo che ritroviamo nel 3-4 verso: né fe’ amor anti che gentil core né gentil core anti ch’amor, natura Il chiasmo in questione pone i due termini (amore – cor gentile) in forma d’incrocio: dal punto di vista logico e dal punto di vista visivo, i due concetti chiave sono tra loro intrecciati, legati indissolubilmente: in questo modo ci fa vedere fisicamente il legame tra i due, una rappresentazione icastica. Inoltre, in questi primi 4 versi, vi è un ritorno ossessivo di queste due parole: ciò nonostante, i versi sono piacevoli all’udito. Questo grazie al ricorso della retorica, strumento per spiegare e convincere con il solo uso della parola: è certamente anch’essa una forma di conoscenza. Nella I stanza, troviamo un percorso scientifico sul rapporto fra amore – cuore gentile (nobile, da gens): l’amore è un fenomeno fisico, che ha un rapporto con il cuore nobile simile a quello tra Sole - Luce: una volta creato il Sole, la luce si diffuse. Prima il sole o prima la luce? Nessuno dei due, sono fenomeni contemporanei. Il calore è una proprietà del fuoco (propriamente > proprìetas aristotelica: “come una cosa è”) Come in natura i fenomeni sono governati da una legge di contemporaneità, così nell’uomo Amore e Cuore gentile. “Il fuoco dell’amore si accende nel cuore nobile come le proprietà positive in una pietra preziosa, in cui la proprietà non discende dalla stella prima che il sole la renda una cosa nobile; dopo che il sole ha tirato fuori, grazie alla sua forza, ciò che in lei è vile, la stella le dà valore: così, il cuore che è stato reso eletto dalla natura, puro e nobile, lo fa innamorare della donna, simile alla stella.” Il fuoco dell’amore si alimenta nel cuore gentile, come la virtù nella pietra preziosa: emerge la credenza dell’influsso delle stelle sull’azione dell’uomo. Tuttavia, diversa è la predisposizione a ricevere lì influsso: questa è la virtù. Una realtà virtuale, che potrebbe esserci potenzialmente. Dunque, secondo Guinizzelli, bisogna essere predisposti all’amore: ma non basta la predisposizione. E’ necessario purificarsi (come le pietre preziose) da ciò che è basso, vile, mondano, indegno all’amore. E’ un amore governato da quelle leggi naturali che governano i fenomeni fisici. “L’amore dimora nel cuore nobile per la stessa ragione per la quale il fuoco sta in cima alla torcia; lì, chiaro e sottile, splende a suo piacimento; non gli si adatterebbe un altro modo di essere, dal tanto che è indomabile. Così l’indole cattiva va contro l’amore, come fa l’acqua, essendo fredda, con il fuoco, che è caldo. L’amore prende dimora nel cuore nobile, come in un luogo che gli è simile, come il diamante nel minerale del ferro. Il sole colpisce il fango per tutto il giorno: eppure, esso resta vile e il sole non perde il suo calore; dice l’uomo superbo: “Sono nobile di stirpe”; lo paragono al fango, (paragono, con l’arco. Apparentemente è solo la lode di un discepolo al suo maestro. Eppure cosa si nasconde dietro la parola saver? Guittone era stato un uomo avaro, con una vita ambigua di frate coniugato. Infatti, Guittone, che subì innumerevoli critiche, polemizzò per difendersi da tante e tante accuse. Guinizzelli qui, ironicamente, critica duramente la cattiva fama di Guittone (vizio). Una critica molto acuta e mordace, propria di un sirventese morale? Il saver è chiaramente un fatto d’ipocrisia: Guittone, com’era tipico dei frati, sa come comportarsi per fare apparire ufficialmente una cosa e nasconderne un’altra del tutto differente. Nella prima terzina, Guinizzelli consiglia Guittone di accettare la canzone esposta al suo sapere, affinché la perfezioni e la ripulisca di ogni dato superfluo; soltanto lui che è un maestro lo potrà fare. Ma si tratta di un testo molto ironico, perché com’è possibile che l’elogio di un frate gaudente (Guittone) giunga proprio da un bolognese (Guinizzelli conosceva molto bene l’ambiguo atteggiamento degli emiliani gaudenti) che era laico e anche ghibellino? Il componimento possiede una doppia significazione: si presenta come una lode, ma in realtà è una critica. Il vizio (v.3) di Guittone, il suo savere (vv. 4, 10) sarebbero una forte critica alla sua condizione di frate della Milizia della Vergine, congregazione formata da troppi membri, sovralarchi (v. 8) che godono di eccessivi privilegi, gaudii (v. 8) e Guittone come il resto dei frati gaudenti se la spassa e ha molti soldi, à più via che Venezi’ à Marchi (v. 6). Si può trattare di una satira mordace che si adegua perfettamente al sirventese morale. T11) Figlio mio dilettoso, in faccia laude (di Guittone d’Arezzo) Guittone comprende perfettamente il senso del sonetto di Guinizzelli, il vero bersaglio dei versi del bolognese: leggendovi una dura critica al suo modo di poetare, e non potendo sperare nessuna lode, né nessun omaggio da parte sua, allora egli risponde allo stesso modo per continuare la polemica. Guittone replica alle accuse del poeta stilnovista con il sonetto Figlio mio dilettoso, in faccia laude che, nell’interpretazione tradizionale, viene letto come un rifiuto delicato di paternità, con il quale l’aretino vorrebbe chiudere una volta per tutte, ma in modo elegante, il discorso con il bolognese: ma non è così. Nella prima quartina, Guittone usa Figlio mio dilettoso in senso ironico (dilettoso, oltre a ‘diletto’, significa anche “che produce diletto” alludendo, forse, alla dimensione ludica del testo di Guinizzelli), ma in perfetta consonanza con Caro padre meo, e subito dopo gli risponde polemizzando più profondamente non solo con la forma utilizzando un lessico tagliente e deciso, ma anche con il contenuto. Infatti, Guittone rimprovera a Guinizzelli di avergli scagliato in piena faccia una saetta senza troppa discrezione, dicendogli, inoltre, di ricordare che solamente chi non è saggio (e lui non lo è per niente) ascolta volentieri la propria lode anche quando il bel lodatore (laudator giusto) colpisce il segno raggiungendo pienamente l’obiettivo. Nella seconda quartina l’aretino dice a Guinizzelli che lui non farà lo stesso, e non lo pagherà con la stessa moneta anche se lo merita: perciò il suo cuore non osa lodarlo con nessuna lode (laude) anche se lo merita. Infatti, se consideriamo le leggi del saggio, la lode divide l’uomo valoroso (de valor) e sapiente dallo stolto (marchi). Una bella e ironica maniera di chiamare Guinizzelli sciocco, stupido e poco intelligente. Infine, nella seconda terzina l’aretino afferma: ‘La grazia che mi fai chiamandomi padre, io l’accolgo contento di avere un figlio tale, a patto che tu, per quanto ti sia possibile (a·ppoder), coltivi la vera sapienza e non la stupidità’. -Guido Cavalcanti Il poeta che conduce alle estreme conseguenze i presupposti di aristocratica spiritualità impliciti nella poetica stilnovistica è Guido Cavalcanti che, nato a Firenze ed attivissimo guelfo bianco avverso a Corso Donati (capo dei Guelfi neri), nel 1300 viene condannato al confino per decisione dei priori, fra i quali vi era anche l’amico Dante Alighieri. Sdegnoso, ateo, iroso, materialisti ed appartato: così lo descriverà Boccaccio nel preambolo della nona novella della sesta giornata del Decameron. Ma i suoi tratti verranno presentati ai posteri dall’episodio dell’incontro di Dante col padre Cavalcante de’ Cavalcanti, tra gli avelli infuocati degli eresiarchi nel Canto X, Inferno. Emerge l’immagine di un Guido refrattario alla teologia/fede/spiritualità e interamente votato alla razionalità umana, all’altezza di ingegno. Tra i due però c’è stata una grande amicizia, testimoniata dall’incipit della Vita Nuova: il sonetto- visione “A ciascun’alma presa e gentil core”, con l’auspicio che Cavalcanti lo aiuti a decifrare l’oscura ed inquietante scena apparsagli nel sonno notturno e descritta nei versi della poesia: “Allegro mi sembrava Amor tenendo meo core in mano, e ne le braccia avea madonna involta in un drappo dormendo” Dante sogna Amore che tiene in braccio una fanciulla (Beatrice), avvolta in un drappo rosso (simbolo del martirio, del Cristo fustigato): una scena di antropofagia, in quanto la donna mangia un cuore (di Cristo) ardente. Secondo Cavalcanti, era una premonizione di morte: e così si rivelò essere, poco dopo Beatrice morì. Ma il vincolo di amicizia personale è palesemente dichiarato dal contenuto del sonetto dantesco “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”. T12) Guido, i’ vorrei che tu e Lippo ed io (Dante a Cavalcanti) Tre donne: Vanna, la donna amata da Cavalcanti, Alagia, la donna amata da Lapo, ovvero il notaio e poeta Lapo Gianni de’ Ricevuti, anche se per alcuni studiosi si tratta del poeta Lippo Pasci de’ Bardi, anch’egli in contatto con Dante. E poi la donna di Dante, quella che occupa il trentesimo posto, poiché Dante aveva scritto un’epistola in versi che elencava le sessanta donne più belle di Firenze. Non si sa chi fosse la trentesima, ma non era certo Beatrice, che occupava il nono posto. Abbiamo tre donne che sono oggetto di desiderio, ed è il desiderio d’amore ad essere l’argomento principale di questo sonetto. Il fatto che il tema amoroso sia il tema centrale ed esclusivo del componimento, è ciò che distingue nettamente la poesia degli Stilnovisti dalla precedente esperienza dei poeti siciliani e toscani. Ma ci sono anche altri tratti tipici dello Stilnovismo, come:  un’amicizia riservata a pochi spiriti eletti, volontariamente isolati dalla realtà storico- sociale che li circonda e che è fatta di guerre e sangue. E difatti, il riferimento “alla donna ch’è sul numer de le trenta”, è un riferimento quasi in codice, che è comprensibile soltanto a quei pochi amici che ne sono al corrente, e che sono isolati dal mondo esterno, come è ben espresso dal fatto che il luogo e il tempo della scena rappresentata nella poesia, sono indeterminati, atemporali: non a caso ricorre due volte l’avverbio «sempre», o lo spazio viene descritto come un mare quasi magico, non materiale, attraversato con un vascello che si muove per la forza di volontà e a dispetto degli agenti atmosferici.  l’amicizia si trasforma in una unità dei tre protagonisti che diventa superiore, spirituale, espressa bene dai versi: «al voler vostro e mio», o ancora: «vivendo sempre in un talento». In questo sonetto Dante si rifà al plazer dei poeti provenzali, un componimento in cui si era soliti elencare una serie di situazioni gradevoli che ci si augurava poi di vivere. Altra particolarità è che Dante riprende elementi dei romanzi di Re Artù, come il vascello che non è altro che la nave incantata di Merlino. T13) S’io fosse quelli che d’Amor fu degno (Cavalcanti a Dante) Al richiamo voluttuoso, ispirato al plazer provenzale, il Cavalcanti contrappone la propria tristezza di amante deluso, tutt'altro che incline a intraprendere lo smemorato vagabondaggio al quale l'invita l'amico. Non un vago sogno sollecita il poeta, bensì la rimembranza del passato, la memoria di una ferita inferta al suo cuore da un "prest'arcier " che par si compiaccia crudamente nel tormentarlo. Questa replica va disposta, piuttosto che su un piano ideologico diverso da quello dantesco (quasi un ritorno a principi di più stretta pertinenza occitanica di contro ad accenti di " romanzeria cavalleresca arturiana " [Contini]), entro il ben noto clima sentimentale di Guido, misto di angoscia e sbigottimento, forse occasionalmente incupito dalla proposta dantesca: il malinconico commento " assai mi piaceria sì fatto legno " (v. 4) lascia infatti intravedere, al di fuori della specifica circostanza, un'adesione di fondo alla progettata evasione fantastica nei regni d'amore e letizia; si ricordi in tal senso il sonetto Biltà di donna e di saccente core che pur in altra situazione si approssima, nelle quartine, al tono dei versi danteschi e può aver offerto a D., con l'immagine degli " adorni legni 'n mar forte correnti " (v. 4), l'idea del vasel, ch'ad ogni vento / per mare andasse. Da un punto di vista tecnico la risposta non è per le rime, salvo la rima in -ore e la ripresa della parola ‛ amore ', ma riproduce fedelmente la struttura delle terzine. -Il “traviamento” tra Dante e Cavalcanti Dopo il 1293-95, inizia il periodo del traviamento: l’amicizia tra Dante e Guido entra in crisi e i due si muovono in direzioni nettamente divergenti: Cavalcanti prosegue ed esaspera il suo solipsismo; Dante sostituisce alla poesia d’amore quella morale, della virtù e rettitudine. Guido è un loico, un razionale che nell’amore assiste al rivelarsi di un fenomeno irrazionale; e poiché, alla luce di un’analisi scientifica del fenomeno che poggia su di una rigorosa in seguito, ritornando a Firenze, dopo aver riflettuto alcuni giorni, cominciai una canzone con questo verso d’inizio, organizzata nella maniera che verrà spiegata più avanti.” Donne ch’avete intelletto d’amore Canzone di cinque stanze di endecasillabi; schema delle rime: ABBC ABBC (fronte); CDD, CEE (sirma). -Parafrasi della canzone O donne che sapete che cos'è l'amore, io voglio parlare con voi della mia donna, non perché creda di esaurire la sua lode, ma [perché voglio] parlare per sfogare la mia mente. Io dico che, pensando alla sua virtù, l'amore mi si fa sentire in modo così dolce che, se io allora non perdessi coraggio, farei innamorare la gente parlando. E non voglio parlare in modo così profondo da diventare per timore insicuro; ma tratterò della sua nobiltà in modo superficiale a paragone di lei, con voi, donne e fanciulle innamorate, poiché non è argomento di cui si possa parlare con altri. Un angelo si lamenta nella mente di Dio e dice: «O Signore, nel mondo si vede un miracolo incarnato che si manifesta in un'anima [Beatrice] e che risplende fin quassù». Il cielo, che non ha altro difetto se non che manca di lei, la chiede al suo Signore, e ogni santo ne chiede a gran voce la grazia. Solo la Pietà prende le nostre parti, in quanto Dio, riferendosi a madonna [Beatrice] parla così: «O miei amati, ora sopportate con pazienza che la vostra speranza [Beatrice] resti per il tempo che mi piace là [sulla Terra] dove c'è qualcuno che teme di perderla, e che dirà all'inferno: O dannati, io vidi la speranza dei beati». Madonna [Beatrice] è desiderata nel cielo più alto [l'Empireo, sede dei beati]: ora voglio farvi sapere della sua virtù. Dico che qualunque donna voglia sembrare nobile, deve andare con lei, che quando cammina per strada getta nei cuori non nobili un gelo, per cui ogni loro pensiero diventa di ghiaccio e muore; e chi sopportasse di starla a guardare diventerebbe nobile, oppure morirebbe. E quando lei trova qualcuno che sia degno di sostenere la sua vista, quello sperimenta la sua virtù, poiché tutto ciò che gli dona si trasforma in beatitudine, e lo rende umile a tal punto che dimentica ogni offesa. Dio le ha fornito anche una grazia superiore, poiché chi le ha parlato non può perdersi nella dannazione. Amore dice di lei: «Come può una creatura terrena essere così bella e pura?». Poi la osserva e giura tra sé e sé che Dio intende fare di lei qualcosa di straordinario. [Beatrice] ha la pelle di colore simile alla perla, nella giusta misura che si conviene a una donna, non eccessivamente: essa rappresenta quanto di bello può produrre la natura; si misura la bellezza usando lei come metro di paragone. Dai suoi occhi, a seconda di come li muova, escono spiriti infiammati d'amore, che colpiscono gli occhi a chiunque la guardi in quel momento, e passano [per gli occhi di chi guarda] in modo tale che ciascuno di essi ritrova il cuore: voi le vedete Amore dipinto nel viso, là dove nessuno può fissarla con lo sguardo. Canzone, io so che tu andrai a parlare a molte donne, quando ti avrò resa pubblica. Ora ti ammonisco, poiché ti ho allevata come una figlia d'Amore giovane e affabile, che dove tu arrivi dica pregando: «Indicatemi la strada, poiché io sono mandata a colei delle cui lodi sono adornata». E se non vuoi muoverti inutilmente, non restare dove ci sia gente non nobile: ingegnati, se puoi, di mostrarti solo a donne o a un uomo cortese, che ti condurranno là [da Beatrice] per la via più breve. Tu troverai Amore insieme a lei; raccomandami a lui come tu devi fare. -Commento La canzone è un perfetto esempio di testo stilnovista, con ripresa di vari temi tratti da Guinizzelli e Cavalcanti, tuttavia è anche un momento di svolta nella poesia giovanile di Dante, il quale, dopo che Beatrice gli ha tolto il saluto a causa dell'equivoco delle "donne-schermo", ripone tutta la sua felicità nelle rime di lode e non si aspetta più un riscontro da parte dell'amata; la lirica costituisce perciò il superamento della concezione cortese della poesia quale "servizio" d'amore in cambio del quale deve corrispondere un "beneficio", poiché l'amore qui diventa pura contemplazione della persona amata e il legame si spiritualizza sino a diventare un'esperienza quasi mistica, come più avanti nel sonetto Tanto gentile del cap. XXVI. Il testo riprende, ampliandoli, alcuni motivi di Guinizzelli e Cavalcanti, a cominciare dalla dichiarazione di incapacità di esprimere pienamente la lode di Beatrice (vv. 9-14) che si rifà al tema dell'ineffabilità della bellezza della donna, a sua volta affine alla poesia religiosa, mentre la scelta di rivolgersi a un pubblico selezionato di donne che sanno cos'è l'amore è un altro tema tipicamente cavalcantiano; la stanza 2, in cui si dice che i beati reclamano Beatrice, la cui presenza renderebbe il Paradiso più perfetto, richiama il congedo della canzone- manifesto Al cor gentil di Guinizzelli come dallo stesso autore è tratta la lode di Beatrice che fa diventare nobile o respinge l'uomo scortese che la vede per strada (vv. 31-42), al pari dalla virtù a lei attribuita di condurre alla salvezza tutti quelli che ne sostengono la. La descrizione della bellezza fisica di Beatrice riprende inoltre il canone della bellezza classica cui solitamente si rifanno le descrizioni femminili della lirica cortese, specie il colore della pelle che è paragonato a quello delle perle ma che, si dice, non dev'essere "for misura" (v. 48), cioè troppo pallido, mentre l'immagine degli spiriti d'amore infuocati che escono dai suoi occhi e colpiscono quelli di chi guarda, raggiungendo facilmente il cuore e innamorandolo, è di nuovo tipica di Cavalcanti. Nella stanza finale di congedo l'autore si rivolge direttamente al componimento e lo invita a recarsi dalla donna amata con cortesia, secondo uno schema tipico già nella poesia provenzale e siciliana, inoltre Dante raccomanda alla canzone di non mostrarsi a "gente villana" (v. 65) che non capirebbe il senso, proprio come faceva Cavalcanti nella sua "ballatetta"La dichiarazione del poeta si ricollega a quella iniziale che individuava il pubblico nelle donne che hanno "intelletto d'amore" e tale ripresa dà una struttura circolare alla lirica, con le stanze centrali che si concentrano sulla lode disinteressata della donna. Tale struttura è chiaramente spiegata dallo stesso Dante nella prosa esplicativa (razo) che segue il testo nel cap. XIX, dove si dice che la poesia è "divisa" (spiegata) "più artificiosamente che l'altre cose di sopra". Capitolo V -La prosa dal Duecento al Trecento- -Trattati di retorica ed epistolari Le prime testimonianze in prosa della letteratura volgare sono riconducibili a Bologna, dove studi giuridici e di retorica andavano uniti nell’insegnamento universitario e dove intensa era l’attività notarile e giuridico – cancelleresca. Dal 1195 al 1215, docente di grammatica e retorica a Bologna fu Boncompagno da Signa, il cui testo più importante fu “Rhetorica antiqua” , in cui proponeva un tipo di retorica semplificata secondo la forma e l’uso della Chiesa, vedendo la retorica come una dottrina necessaria per collegare le arti liberali e il diritto. A Guido Faba si deve invece la Gemma Purpurea, un trattatello di retorica epistolografica che istituisce un rapporto di parità tra latino e volgare; di qualche anno dopo sono i Parlamenta et epistole (parlamentum: argomento, tema): ogni parlamentum viene esposto prima in volgare e poi sottoposto a tre traduzioni in latino per differente stile (maior, minor, minima), al fine di presentare dei modelli di discorso o di lettera da utilizzare secondo le circostanze. Nel 1260 circa, Brunetto Latini scrive Rhetorica, contenente la traduzione dei primi 17 capitoli del De invenzione di Cicerone con l’aggiunta di un ampio commento. Secondo Brunetto, due sono le specifiche competenze della retorica: stabilire le norme del “dire” (riguardante l’oratoria, utile sì nei processi ma anche presso i consigli dei signori e delle comunanze) e del “dittare“ (riferite ai componimenti letterari, in prosa e in poesia). Il primo significativo epistolario della letteratura italiana è costituito dalle Lettere di Guittone d’Arezzo, indirizzate ai confratelli gaudenti su problemi religiosi e questioni morali. Riflessioni personali però dallo stile elevato, sostenuto, rispettoso delle regole del cursus (andamento ritmico della prosa codificato da alcune precise norme). -I volgarizzamenti In questo periodo molto fervida è l’attività di volgarizzamento, tanto che si può affermare che quasi tutta la produzione letteraria prosastica nel Duecento possa essere considerata come frutto di volgarizzamento. Spicca la figura di Bono Giamboni, fiorentino cui è stato attribuito anche il volgarizzamento del Tresor brunettiano. Numerosi sono i suoi volgarizzamenti in cui si cimenta con autorevoli scrittori medievali. Suoi sono i volgarizzamenti delle “Historiae ad versus Paganos” di Paolo Orosio; il “Della miseria dell’uomo”, rielaborazione del “De miseria humanae conditionis” di Lotario Diacono (futuro papa Innocenzo III). Al canone delle sue opere va ascritto anche un testo originale di impianto allegorico – narrativo “Il libro dei Vizi e delle Virtudi”, che mostra il combattimento tra vizi e virtù, non senza rifarsi a precedenti latini (“Psycomachia” di Prudenzio, “De conflictu vitiorum et virtutum” di San Bernardo, l’ “Anticladianus” e il “De planctu Naturae”). Numerosi furono anche i volgarizzamenti da testi francesi: la leggenda di Troia ha il suo testo più rappresentativo nel “Roman de Troie” di Benoît de Sainte – Maure, tenuto presente dal Boccaccio per il Filostrato. Dalla stessa fonte francese sono ricavati anche l’ “Istorietta troiana”. L’interesse di un pubblico curioso di conoscere personaggi e vicende del apssato -Il racconto di viaggio Capolavoro indiscutibile della letteratura di viaggio è il Milione di Marco Polo, il cui titolo rimanda proprio al soprannome dell’autore veneziano (Emilione). Una motivazione economica e commerciale è all’origine del lungo viaggio che Marco Polo (insieme al padre Niccolò e lo zio Matteo) compie dal 1271-1295 nel regno dell’imperatore mongolo Kublai Khan. Catturato dai genovesi dopo la sconfitta di Venezia nella battaglia navale sull’isola di Curzola (1298), Marco Polo detta i suoi ricordi di viaggio al compagno di prigionia Rustichello da Pisa, che scriveva in franco – italiano e che era un letterato di mestiere. Il suo proposito è quello di raccontare ciò che ha visto direttamente o udito da attendibili testimonianze durante il lungo periodo trascorso in Oriente, gratificato dalla stima del Gran Khan; descrivere puntualmente luoghi geografici, riportare nomi e dati, descrivere luoghi delle regioni visitate. Di fronte all’esploratore che si entusiasma nell’arricchire le proprie conoscenze si spalanca un universo sorprendente e fantastico. Se il racconto dà l’impressione di irrompere nel territorio del meraviglioso è perché il meraviglioso è nella realtà stessa, nelle cose e nelle persone. Capitolo VI - Dante Alighieri – Dante Alighieri (maggio/giugno 1265 – 13/14 settembre 1321) nacque a Firenze, da padre Alighiero, figura del declino del ruolo della piccola nobiltà: fu un uomo d’affari che consentì al figlio adolescente di ricevere una buona istruzione nella grammatica e nella logica e di seguire, tra l’86-87, lezioni di diritto, filosofia e anche medicina presso l’Università di Bologna. Nel 1289 partecipa tra le fila della parte guelfa ai combattimenti contro i ghibellini di Arezzo, nella vittoriosa battaglia di Campaldino e nello scontro della Caprona contro Pisa. L’altro evento indicativo avvenuto tra l’adolescenza e la giovinezza fu l’amore per Beatrice, figlia di Folco Portinari e sposata con Simone Bardi. -La “Vita nova” Il primo libro di Dante, la “Vita nova”, scritto dopo la morte di Beatrice tra il 1293-95, è la testimonianza lirica e il ripensamento idealisticamente trasfigurato dell’esperienza amorosa della giovinezza. Beatrice è colei che conduce il poeta al suo rinnovamento: di qui il senso di vita nuova. Si tratta di un duplice percorso di perfezionamento: uno di natura interiore, psicologica e spirituale (che produce un raffinamento umano e morale) e un altro di natura letteraria, che consente il superamento di schemi formali logori in nome di un’originale dolcezza di stile. La stretta connessione fra vicenda d’amore e maturazione letteraria governa il disegno della Vita nova, in cui il vissuto è accettato solo per essere riordinato dalla scrittura. Il corpus della Vita nova comprende 31 componimenti:  25 sonetti;  4 canzoni;  1 ballata;  1 stanza di canzone. Le poesie sono collegate tra di loro mediante la prosa, che funziona sia come tessuto narrativo (in quanto introduce e giustifica la circostanza da cui le poesie hanno tratto origine) sia volta a spiegare gli aspetti retorici e formali delle liriche. Per tale struttura il libello dantesco è denominabile come un prosimetro, sul modello del “De consolazione Philosophiae” di Severino Boezio. In queste pagine si può individuare l’ideale tragitto percorso dal poeta nella progressiva acquisizione di una salvezza concessagli dal disvelamento della natura angelica della donna amata: dunque il protagonista del libello non è Beatrice, bensì Dante (che racconta la sua giovinezza alla luce delle determinante esperienza d’amore che l’ha caratterizzata). È una vita giovanile nel senso di vita rinnovata. -Il contenuto dell’opera: Dante riferisce della prima volta in cui gli appare Beatrice a 9 anni e di quando la rivede 9 anni dopo (numero “nove”: perfezione, essendo multiplo di 3, indicativo della Santissima Trinità). Si passa poi al saluto che la donna rivolge al poeta (saluto < salus = salvezza; lo stesso nome di Beatrice significa “portatrice di beatitudine”). Il saluto di Beatrice dispone Dante all’amore, determinandone anche i contegni, perché Amore esige discrezione e segretezza, secondo le regole dell’amore cortese, cui il poeta si attiene nella prima fase della sua esperienza. Dante mette in atto una strategia di gesti e di atti che possano celare la vera identità della donna amata, simulando e facendo credere che ad altra donna sia indirizzato il suo interessamento: una gentile donna schermo, che gli consente di mantenere il segreto. Quando però la donna schermo si allontana da Firenze, il poeta rivolge il suo amore fittizio ad un’altra donna schermo: questi comportamenti giungono alle orecchie di Beatrice la quale lo punisce e gli nega il saluto. Il poeta raggiunge il suo culmine di frustrazione quando, invitato ad una festa di nozze a cui partecipa anche Beatrice, nell’accorgersi della presenza di lei trema e impallidisce. Questo non solo non suscita compassione in Beatrice, ma diventa oggetto di derisione e di scherno, di “gabbo” da parte di lei e delle sue amiche. Dante supera la condizione che lo fa soffrire quando si rende consapevole che non è il saluto della donna o altre sciocchezze simili a rendere felice l’animo di un uomo, ma in quelle parole che celebrano e contemplano la donna: per questo si ha un’assolutizzazione del proprio sentimento con il proposito di riporre la beatitudine in quello che “non gli puote venir meno”. Si determina dunque una “svolta poetica”, attraverso cui Dante individua una “materia nova” e con l’opzione per un nuovo stile, “lo stile de la loda”, il poeta liquida la dominante concezione secondo cui l’omaggio della donna era sollecitato dalla speranza di un riscontro (come il saluto). Su questi presupposti si fonda la canzone-manifesto dello Stilnovismo dantesco, “Donne ch’avete intelletto d’amore”, che si contrappone alla canzone guinizzelliana Al cor gentile rempaira sempre amore, dove mentre per Guinizzelli la donna sembra un angelo (figura dell’ donna-angelo), per Dante la donna è un angelo (figura dell’ angelo-donna). Dante non racconta la morte di Beatrice: la preannuncia (attraverso una visione avuta durante il sonno) e la comunica quando avviene. Questo non modifica la sostanza di un amore che non necessita della presenza della donna, perché si esalta della sua spiritualità e della sua trascendenza. Tuttavia, nonostante che l’animo di Dante sia rivolto interamente alla donna ormai scomparsa, i desideri della carne si lasciano rapire dalle tentazioni carnali e in uno stato di sconforto si lascia attrarre da una gentile giovane e molto bella, la quale insidia nella sua mente la memoria di Beatrice: a questa donna dedica quattro sonetti. Il rischio di un cedimento alla possibilità di un nuovo amore viene superato da un sogno che imprime una sterzata risolutiva alla storia: l’apparizione di Beatrice aiuta Dante a rimuovere la sua viltà. Scacciato il malvagio desiderio, torna col pensiero alla gentilissima Beatrice che gli si rivela nella gloria celeste. La conclusione del libello rende azzardato dire che con la promessa finale ( “ di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei”) Dante riveli di aver almeno una embrionale idea della Commedia, con cui Dante porterà a compimento il percorso di una teoria dell’amore che, incentrata nei poeti della scuola siciliana, era dominata dalla passione e dalle pulsioni, ora diventa un patrimonio dell’intelletto e forma di conoscenza per accedere alla sfera del sovrannaturale e del divino. La Firenze in cui Dante consuma la sua breve carriera politica è fortemente lacerata da contrasti tra la famiglia guelfa dei Cerchi (mercanti arricchiti, sostenuti da ex ghibellini e popolani  diventeranno i “guelfi Bianchi”) e la famiglia dei Donati ( aristocratici, sostenuti dall’aristocrazia  diventeranno i “guelfi Neri”). Dante, dopo un momento di neutralità, finirà per aderire alla parte dei bianchi, senza punte di fanatismo, ma con l’allarme per una situazione di soprusi e violenze. L’anno decisivo, in cui culmina e si conclude la carriera politica di Dante, è il 1300 quando viene nominato priore per il bimestre 15 giugno-agosto: una settimana dopo il suo insediamento a causa di una violenta rissa si ritrova a dover firmare per il confino a Perugia di 7 capi di parte nera e per il confino a La Spezia di 7 capi di parte bianca (tra cui il grande amico Guido Cavalcanti). Nel 1301, Dante insieme ad altri due ambasciatori si recano a Roma presso il papa Bonifacio VIII per dissuaderlo dal far giungere a Firenze Carlo di Valois come paciere tra le fazioni dei Bianchi e dei Neri. Congedati gli altri due, il papa trattiene Dante proprio quando Carlo di Valois fa il suo ingresso a Firenze, favorendo l’ascesa al potere dei Neri. Dopo sommari processi fatti ai Bianchi, Dante viene accusato di baratteria, di opposizione al papa e all’imperatore: viene condannato in contumacia e ad una multa. Non essendosi presentato entro i 3 giorni per il pagamento dell’ammenda, viene condannato a morte in contumacia (confisca dei beni): per evitare di essere messo al rogo, Dante sceglie l’esilio. Ci furono tentativi di sovvertire il potere dei Neri, come quello attraverso la Lega di Bianchi e ghibellini che però non ebbe alcun successo: nel frattempo la condanna a morte fu estesa anche ai suoi figli non appena compiuto il 14° anno di età. Dante può sperare solo in un’amnistia. Trova ospitalità a Treviso (presso Gherardo da Camino), in Lunigiana (presso i Malaspina), nel Casentino (presso Guido di Battifolle). Nel frattempo, Dante può sperare in un cambiamento quando Arrigo VII di Lussemburgo eletto imperatore, decide di scendere in Italia per essere ufficialmente incoronato a Roma (1310). Il suo arrivo fu visto da Dante come l’occasione per un suo rientro a Firenze, ma soprattutto l’opportunità di una possibile realizzazione della sua utopia politica che prevedeva una netta divisione tra potere papale e potere imperiale. Tuttavia, nonostante le lettere inviate ai principi italiani, fiorentini e allo stesso imperatore, Dante ancora una volta rimane con l’amaro in bocca di fronte al deludente comportamento di Arrigo VII, la cui avventura si chiude con l’improvvisa e prematura morte nel 1313. A quel punto Dante aveva come unica possibilità, per essere graziato, quella di riconoscersi pubblicamente colpevole, cosa che però non fece: inevitabile fu la conferma della condanna a morte sua e dei suoi figli. Nel 1320 si trasferisce a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta: ma Dante si ammala nell’attraversare le paludi di Comacchio. Una volta rientrato a Ravenna, tra il 13-14 settembre del 1321 muore e il suo corpo viene sepolto presso la chiesa di San Pier Maggiore, oggi Chiesa di San Francesco. -Il “Convivio” Si noti come Dante, dopo il fallimento dei tentativi di cambiare la situazione politica, abbia dato una svolta alla sua produzione letteraria, dedicandosi alla meditazione filosofica: il risultato fu la stesura di due trattati, il “Convivio” e il “De vulgari eloquentia”, scritti con la speranza di ottenere un contributo dottrinale, il riconoscimento di meriti culturali atto a rimuovere l’ostilità nei suoi confronti da parte di chi reggeva il governo di Firenze. Nonostante siano state scritte in circostanze molto diverse, un filo di collegamento corre tra la Vita Nova e il Convivio: se nella Vita Nova Dante aveva rivisitato attraverso la memoria lirica i suoi anni giovanili, esaltando l’esperienza amorosa per Beatrice, ora, nel Convivio, ricostruisce la propria identità collocando al centro dell’interessa la maturazione avvenuta dopo la scomparsa dell’amata. Il progetto culturale che anima lo scrittore è implicito nel titolo stesso del libro: Dante denomina il suo trattato Convivio in quanto, alla luce del significato della parola latina convivium, cioè “banchetto”, egli intende allestire una “beata mensa” di sapere a beneficio dei non letterati, dotati di cuore gentile e animati da un desiderio di conoscenza che solo con difficoltà riescono ad appagare: non a caso il pubblico a cui si rivolge è di “principi, baroni, cavalieri e molt’altra nobile gente, maschi e femmine”. La lingua in cui scrive Dante è il volgare, in quanto era considerato più opportuno per l’esposizione di contenuti filosofici e scientifici. Dante, infatti, pur riconoscendo l’inferiorità del volgare rispetto al latino, giustifica la sua scelta fondandola su almeno tre buone ragioni: 1. sarebbe stato sconveniente commentare in una lingua più nobile (il latino) delle poesie scritte in volgare; 2. solo attraverso il volgare si sarebbe provata la generosità nell’elargire al maggior numero possibile di persone il bene del sapere; 3. il volgare è destinato a raggiungere la perfezione del latino e soppiantarlo. Il Convivio, inizialmente progettato come costituito in 15 trattati di cui il primo introduttivo e gli altri quattordici a commento di altrettante canzoni, è costituito da soli 4 trattati, restando incompiuto probabilmente perché l’alta fantasia della Commedia sottrae Dante al lavoro della divulgazione filosofica ed enciclopedica. Oltre al primo trattato introduttivo, altri tre sono i trattati :  secondo trattato: a commento della canzone “Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete” in cui vengono affrontati due argomenti: il primo è di natura metodologica e riguarda i quattro sensi secondo cui vanno interpretate le Scritture: - ‹‹ letterale ››, attento alla realtà storica; - ‹‹ allegorico ››, attento alla verità nascosta; - ‹‹ morale ››, che racchiude un insegnamento; - ‹‹ anagogico ››, indicativo del significato spirituale. L’altro argomento è la descrizione dei cieli e delle intelligenze angeliche.  terzo trattato: a commento della canzone “Amor, che ne la mente mi ragiona”, in cui la filosofia viene celebrata in quanto l’intelligenza e il sapere avvicinano gli uomini a Dio e agli angeli.  quarto trattato: a commento della canzone “Le dolci rime d’amor ch’io solia” che chiarisce l’antefatto di un mutamento degli obiettivi del poeta_ le difficoltà incontrate negli studi filosofici consigliano il poeta di sospendere l’esperienze delle rime allegoriche e di orientarsi verso una tematica etica e civile. Dante affronta il tema della vera nobiltà, tema importante in una società in cui l’ascesa di nuove classi sociali esigeva una ridefinizione del concetto di nobiltà e dei valori ad essa pertinenti. Ogni trattato era costruito in due parti: una pars destruens (15 capitoli) dell’argomentazione dialettica, una pars construens (15 capitolo). Il retroterra culturale del Convivio è molto vasto ed eterogeneo: Virgilio, Seneca, i padri della Chiesa, le Confessioni di S. Agostino, Boezio, San Tommaso ed Aristotele. -Il “De vulgari eloquentia” Il De vulgari eloquentia è un trattato progettato in quattro libri, anch’esso rimasto interrotto al II libro: con quest’opera, Dante si prefigge l’obiettivo di analizzare i problemi della lingua e giustificare la dignità del volgare. Dante scrive l’opera in latino, proprio perché i destinatari del suo intervento dovevano essere i dotti, che nutrivano forti dubbi sulle possibilità d’impiego del volgare.  I libro: argomenti di linguistica generale e storica. Il frazionamento linguistico (risalente alla punizione divina per l’atto di superbia della costruzione della torre di Babele) ha portato alla suddivisione delle lingue europee in tre famiglie: la germanica, la greca, la neolatina (divisa in lingua d’oc, lingua d’oï𝑙 e lingua del sì, ossia il volgare). Impostando un’esplorazione minuziosa di tutte le sue varietà dialettali, allo scopo di costruire la nuova grammatica che sostituisca il latino, Dante cerca di fissare una lingua convenzionale che s’imponga con la stabilità delle sue regole generali. Alla ricerca del volgare illustre, Dante procede attraverso una rassegna di 14 varietà di parlate regionali, per constatare che nessuna delle parlate regionali possiede i requisiti necessari ad imporsi sulle altre. Peraltro, Dante è persuaso che sia possibile fondare una lingua comune e, in questa prospettiva, la riflessione stilistica si lega a considerazioni storiche e politiche. I doctores illustres, scavalcando i confini regionali, si sono espressi in un volgare sovra municipale unitario. L’italia (pensabile sia geograficamente sia dal punto di vista giuridico-politica) necessita di una lingua che sia: - illustre, perché perfetta e nobilitante; - cardinale, perché punto di riferimento; - aulica, perché tale lingua sarebbe quella parlata nel palazzo reale qualora gli italiani avessero una reggia; - curiale, perché degna del tribunale supremo se esso esistesse in un’istituzione politica.  II libro: Dante si preoccupa di chiarire le forme e i modi che conferiscono dignità alla lingua nell’ambito della poesia. Il De vulgari assume la fisionomia di un manuale di retorica e stilistica, nel quale dapprima Dante si occupa dei contenuti degni del volgare illustre. Questi magnalia (argomenti eccelsi) sono distribuiti in tre categorie: - salus, a cui corrispondono i poemi epici (assai diffusi in Francia); - venus, a cui corrisponde la lirica amorosa (praticati sia dai trobador sia dagli stilnovisti); - virtus, cui corrisponde la poesia della rettitudine, che ha nelle canzoni morali e Perché ‹‹ commedia ››? Nell’epistola a Cangrande, Dante distingue lo svolgimento della tragedia da quello della commedia, perché mentre la tragedia comincia bene e finisce male, la commedia comincia male e finisce bene: non a caso, l’opera inizia in modo terribile (Dante si ritrova in una selva oscura che apre le porte dell’Inferno) e si conclude in maniera gaudiosa (Dante termina con la visione di Dio). Per quanto riguarda il modus loquendi, ossia lo stile, Dante è favorevole per uno stile piano ed umile: non sempre però, in quanto a volte punta verso l’alto, verso la raffinatezza e la preziosità espressiva: e l’esempio di ‹‹ alta tragedìa ›› segnalato per il capolavoro virgiliano non sembra congruente con quanto affermato nell’ Epistola a Cangrande dal momento che il poema virgiliano ha il percorso da commedia. Ciò dimostra la difficoltà nel determinare un genere del tutto nuovo (non a caso il termine commedia appaia solo in due circostanze nell’Inferno, mentre nel Paradiso Dante nomina la sua opera “poema sacro”, sulla scorta del ‹‹sacratum poema›› attribuito all’ Eneide di Virgilio da Macrobio. Inoltre, la generica ed emblematica visione con cui si chiudeva la Vita Nuova si adempie nella pienezza di contenuto della visione della Commedia, col ritorno di Beatrice che promuove, guida e conduce alla conclusione celeste il viaggio ultraterreno del poeta. Tuttavia, la piattaforma religiosa, morale, letteraria su cui Dante getta le basi per l’edificazione della sua Commedia è molto vasta:  il tema della “visione” è ripreso dalla visione di S. Giovanni Apostolo nell’ Apocalisse, la “visio Pauli” risalente al V secolo dopo Cristo;  il tema della discesa negli Inferi è un topos del poema epico (vedi Odissea), ma viene ripreso soprattutto la discesa di Enea nei Campi Elisi e la discesa nell’Averno raccontata da Ovidio nelle Metamorfosi e il racconto della maga Erittone nel sesto libro della Pharsalia di Lucano.  mentre invece la struttura allegorico-didattica è ripresa dall’ “Anticlaudianus” di Alano da Lilla, dal “Roman de la rose” di Guillaume de Lorris e Jean de Meung, il “Tesoretto” di Brunetto Latini. Importante è anche l’aspetto numerico del poema. I versi della commedia sono 14'223, distribuiti in cento canti di differente misura (min. 115, max 160 vv). A loro volta, i 100 canti sono ripartiti in tre cantiche di 33 canti (tranne la cantica dell’ Inferno, costituita da 34 canti, di cui il primo funge da proemio). L’equilibrio dell’insieme si fonda su di una serie di corrispondenze strutturali che si manifestano nel ritornare dei numeri 3 e 10 e dei loro multipli: la terzina incatenata è lo strumento metrico di scansione degli endecasillabi e al numero 3 e al multiplo di 3, il 9, con a volte l’aggiunta di una unità per formare il 10:  9 sono le parti dei 3 regni ultraterreni e in ciascun regno le anime sono distribuite secondo un criterio di tripartizione;  Inferno, costituito da un vestibolo e 9 cerchi (1 + 9), è il luogo della dannazione eterna;  Purgatorio, distribuito in 9 parti (la spiaggia, l’antipurgatorio, 7 cornici e Paradiso Terrestre, 9+1), è il luogo in cui le anime si purgano dei peccati commessi nella loro vita.  Paradiso, costituito dai 9 cieli più l’Empireo (9+1), è il luogo dove le anime si presentano al poeta secondo le loro attitudini virtuose (spiriti secolari, attivi e contemplativi).+ Ordinamento strutturale e ripartizione morale si dispongono in rapporto di equilibrata corrispondenza: in tutt’e tre le cantiche, il canto VI è il canto di argomento politico (Firenze, Italia, Impero); il vero inizio degli incontri con i personaggi collocati nei tre regni ultraterreni avviene nel canto III di ciascuna cantica; l’ultima parola che chiude le 3 cantiche è ‹‹ stelle ››. Inoltre, i due canti centrali dell’opera, ossia il 50°-51° (corrispondenti al XVI-XVII del Purgatorio) affrontano i fondamentali problemi del libero arbitrio e della dottrina dell’amore, nuclei concettuali del pensiero dantesco. Dunque, la ricerca di corrispondenze, simmetrie, parallelismi conferisce compattezza e proporzione ad una summa poetica che si adegua alla concezione propriamente medievale di ‹‹ libro ››. -Viaggio nei tre regni ultraterreni L’Inferno. Dante immagina di compiere il suo viaggio ultraterreno quando è giunto al culmine della sua parabola esistenziale, a 35 anni, nel 1300 (Anno del Giubileo). Il suo viaggio si svolge in sette giorni (lo stesso numero dei giorni impiegati da Dio nella creazione) a cominciare dal 7 aprile (cioè il Venerdì Santo) oppure, secondo un’altra ipotesi, dal 25 marzo (creazione di Adamo, concepimento e morte di Gesù Cristo). Dante, smarrito in una ‹‹ selva oscura ›› (il peccato), pensa di poter trovare salvezza dirigendosi verso un monte che vede illuminato dai raggi del sole: il suo cammino è però ostacolato da tre bestie, ossia la lonza (invidia / lussuria) , leone (superbia) e una lupa (cupidigia). Gli viene in soccorso un’ombra: quella del poeta latino Virgilio, inviatogli in suo aiuto da Beatrice e dalla Vergine. La salvezza però può avvenire solo dopo che avrà percorso i regni della dannazione e della purificazione. Dante rappresenta l’ Inferno come una profonda voragine a forma di cono, aperta sotto Gerusalemme da Lucifero quando fu cacciato dall’ Empireo assieme agli altri angeli ribelli e fu mandato a conficcarsi al centro della terra. I dannati sono distribuiti in cerchi degradanti secondo un criterio di valutazione delle colpe che si rifà all’Etica Nicomachea e alla Fisica di Aristotele: man mano che si scende nell’Inferno e ci si allontana da Dio e ci si avvicina a Lucifero, cresce la gravità del peccato. Tutti i dannati sottostanno alla legge del contrappasso, che istituisce una correlazione tra colpa e pena: le punizioni infernali trovano una corrispondenza per analogia e contrapposizione col peccato commesso. Una volta superato l’Antinferno, Virgilio e Dante, condotti dal traghettatore di anime Caronte, attraversano il fiume Acheronte ed entrano nel:  Primo cerchio: il Limbo, ove si trovano le anime di bambini/adulti non battezzati. Qui si trova anche un ‹‹ nobile castello ››, che ospita gli spiriti magni dei sapienti, eroi, poeti antichi che sono vissuti prima di Cristo e la cui colpa è stata quella di non aver creduto in un Cristo venturo (Omero, Ovidio, Orazio, Lucano, Ettore, Enea, Cesare, Socrate, Platone, Aristotele e lo stesso Virgilio);  Secondo cerchio: i “lussuriosi”, che furono peccatori carnali (Paolo Malatesta e Francesca da Rimini);  Terzo cerchio: i “golosi” (Ciacco, che predice le sventure che si abbatteranno su Firenze in seguito allo scontro fra Bianchi e Neri);  Quarto cerchio: gli “avari” (papi, cardinali, uomini di chiesa);  Quinto cerchio: gli “iracondi” (Filippo Argenti) e gli “accidiosi”;  Sesto cerchio: è la pianura popolata dai sepolcri infuocati degli “eretici”, fra i quali spiccano gli epicurei, che non hanno creduto nell’immortalità dell’anima e promotori di una visione materialistica della vita (il ghibellino Farinata degli Uberti e Cavalcante Cavalcanti, padre di Guido C.);  Settimo cerchio: i “violenti” ripartiti in tre gironi concentrici a seconda dell’oggetto di violenza: “contro il prossimo” (tiranni, omicidi, guastatori, predoni), “contro se stessi” (suicidi tra i quali il segretario Pier della Vigna) e “contro Dio” (bestemmiatori, sodomiti, usurai).  Ottavo cerchio: il mostro infernale Gerione si carica sulla schiena Virgilio e Dante e li cala nell’ottavo cerchio, sede dei “fraudolenti” contro chi non aveva motivi di fidarsi di loro (ruffiani, seduttori, adulatori, simoniaci, tra cui Bonifacio VIII, indovini, truffatori, ipocriti, ladri, consiglieri tra cui Ulisse e Diomede, avvolti in due fiamme).  Nono cerchio: sono puniti i “fraudolenti” contro chi aveva motivi di fidarsi di loro: sono i traditori che Dante vede conficcati nel ghiaccio del lago Cocito (ripartito in 4 zone: la Caina, traditori dei parenti; l’Antenora, traditori politici; la Tolomea, traditori degli ospiti; la Giudecca, traditori dei benefattori). Nella parte estrema dell’Inferno trova posto il traditore sommo, il traditore di Dio: LUCIFERO, che ha tre facce (centrale: vermiglia, due laterali: bianca/gialla e nera) Nelle tre bocche si trovano i tre traditori per eccellenza: Bruto e Cassio (cesaricidi e quindi traditori dell’Impero) e Giuda (traditore di Cristo che ha portato al deicidio). fra la giustizia umana e quella divina: è decreto di giustizia divina che Paolo e Francesca siano condannati nel girone dei lussuriosi, ma è riflesso di umana partecipazione lo svenimento di Dante. Una netta separazione fra il piano umano e il piano divino. Esattamente come si desume dall’incontro con Ulisse, posto tra i fraudolenti: mentre a Dante (che temeva che il suo viaggio nell’aldilà potesse essere considerato ‹‹ folle ››) è consentito di varcare i confini umani perché il suo viaggio è voluto per intercessione celeste e grazia divina, per Ulisse il traguardo del ‹‹ folle volo ›› è il naufragio, perché ha voluto sfidare i confini imposti da Dio alla conoscenza umana. Inoltre numerose sono le questioni politiche affrontate nell’inferno: impennate violente e rabbiose delle invettive contro Pistoia, contro Pisa e contro Genova, o i toni irridenti dell’apostrofe contro Firenze. È sempre l’interesse per la politica che spalanca lo scenario di orrore delle lotte e delle cruente ritorsioni tra le fazioni, come nel caso di quella rappresentazione di un supplizio ferocemente infernale sperimentato in vita dal conte Ugolino. Attacchi feroci che non risparmiano nemmeno esponenti della Chiesa: Dante ricorre all’escamotage della profezia post eventum per cacciare nel buco infernale ben tre papi: uno morto (Niccolò III) e due ancora viventi (Bonifacio VIII e Clemente V).  Il Purgatorio è dominato da una dimensione della temporalità del tutto estranea agli altri due regni: le anime sono preoccupate di farsi ricordare ai vivi, affinché il loro cammino venga reso più rapido dalle preghiere. È una dimensione dominata dalla nostalgia, dall’attesa, dalla mestizia e dalla speranza, che generano un colloquio affabile e intriso di pietas fra Dante e l’anima. Una dimensione che dimostra la parte più sensibile e delicata della personalità dantesca: il rimpianto di una società di bei costumi andati perduti e il culto dell’amicizia e della memoria dei poeti/poesia di cui si è nutrita la sua giovinezza. Per questo la cantica si configura come la più UMANA, la più vicina alle nostre categorie di percezione del reale.  Il Paradiso, dimostrando la difficoltà nel essere descritto, può essere illustrato solo grazie ad una intuizione di Dante di non rappresentare i beati nella staticità della loro collocazione ultima, ma movimentando la struttura col fare scendere coloro che hanno ricevuto il premio eterno incontro a lui e a Beatrice e col distribuirgli lungo i nove cieli della cosmologia tolemaica. In questo modo riesce a conferire una certa simmetria con tutte le altre cantiche. A caratterizzare questa terza ed ultima dimensione sono la luce e la musica, che riflettono la crescita ascensionale di un amore inteso come caritas. La metafisica della luce e l’itinerario d’amore non soffocano l’impegno militante del poeta, poiché nel suo Paradiso costantemente si proiettano, con la loro urgenza, i problemi umani, civili, storici: le passioni personali, la città, le forze di potere, l’esilio, la rovina del mondo. Dante dunque non si astiene dall’alzare la voce quando è necessario anche qui, dando sfogo alla sua indignazione. -La Commedia come ‹‹ poema totale ›› La Commedia assume la configurazione di un poema totale perché in essa convergono e si integrano le esperienze cruciali di Dante e le sue idee fondamentali: si riscontrano tanto l’amore come eros quanto l’amore come sublimazione; si registra il sapere popolano espresso dai proverbi e si affidano ai versi gli argomenti della filosofia speculativa e della teologia. Dante è di volta in volta lirico, drammatico, epico, polemico, ironico, sarcastico, profetico. Un poema in cui si mescolano cronaca e utopia, realismo e misticismo, narrativa e lirica, cultura medioevale e prefigurazioni umanistiche. L’asse di equilibrio poggia sul dinamico rapporto tra il soggettivismo del personaggio-poeta e l’oggettività delle anime e degli incontri. Dante è protagonista in prima persona del viaggio nell’aldilà e, ad un tempo, è anche l’autore-scrittore, lo sceneggiatore e il regista dell’avventura oltremondana. La Commedia costituisce senza alcun dubbio il libro definitivo e assoluto del poeta, quello che riassume la sua attività di scrittore e la sua vicenda umana. L’apice di un percorso che conduce il poeta dal ‹‹ libello ›› della giovanile vicenda amorosa (Vita Nova), attraverso il libro della conoscenza filosofica e della divulgazione del sapere (il Convivio), alla summa risolutiva del poema che tutto dal passato recupera per trasferirlo nell’orizzonte più alto in cui si integrano vissuto e profezia, cultura e invenzione, ragione e fede. Quindi la Commedia, nel momento stesso in cui poeticamente ripercorre l’itinerario di salvezza del poeta, diventa anche testimone delle tappe di evoluzione e di superamento della sua avventura intellettuale e della sua formazione di poeta. Inoltre, la Commedia manifesta interessa per la vita terrena, in modo particolare per la politica. La passione politica è dato centrale in un poema che assegna a se stesso un obiettivo finale, avente per mira un radicale rinnovamento da attuarsi dentro la storia degli uomini. Dante, di fronte ad un quadro tanto desolante, non si arrende: anzi, è sorretto dall’utopia di una palingenesi della società e delle istituzioni che la governano. Utopia che si concretizza e si visualizza nelle identità profetiche del Veltro e del DUX (alias Arrigo VII). L’ideale dantesco è il recupero delle grandi istituzioni medioevali dell’ Impero e del Papato, in collaborazione reciproca, ma con rispetto delle singole autonomie. Alcuni versi del Paradiso sono molto eloquenti nell’affermare la specifica natura dell’impegno di Dante: nel canto XXV, Dante auspica che il poema sacro vinca la crudeltà. Una battaglia etica e civile per sconfiggere l’ingiustizia. Ciò che si propone di far Dante è la propensione alla critica e allo sforzo di rinnovamento: è questo il senso della missione di poeta che gli viene assegnata da Cacciaguida: il poema sacro avrà la funzione di far conoscere il male del mondo e servirà da guida verso il bene. Il suo canto è un grido: si canta per celebrare e consacrare un passato, per confermare quanto esiste; si grida per irritazione, per indignazione, per scuotere e sommuovere. A pieno titolo, Dante merita di essere riconosciuto come il ‹‹ padre della lingua italiana ››. Il linguaggio della Commedia, infatti, è un linguaggio totale: la base è il fiorentino non municipale, entro il quale il poeta innesta un repertorio lessicale di differente provenienza, che conduce alla realizzazione di un plurilinguismo vario e mobilissimo. Vocaboli dialettali possono essere utili a caratterizzare i personaggi: rispetto alle opere giovanili, risulta più ridotta l’utilizzazione di gallicismi, nonostante comunque si riscontrano numerosi provenzalismi. Invece il numero dei latinismi è vastissimo (sia di derivazione classica sia di derivazione medioevale) e l’adesione al latino s’incrementa con l’infittirsi delle discussioni dottrinali e teoretiche e pertanto è più assidua nel Paradiso (in particolar modo, sul latino s’improntano l’eloquio di Giustiniano e di San Tomaso). Sembra delinearsi una sorta di progressione lungo le tre cantiche, che può essere percepita nel passaggio dal termine ‹‹ vecchio ››, proprio del parlato, che designa Caronte nell’ Inferno, al provenzale ‹‹ veglio ›› , che nel Purgatorio determina Catone, al latinismo puro ‹‹ sene ›› che nel Paradiso indica San Bernardo. Notevolmente più ridotto è il ricorso a parole di origine greca, mentre davvero rilevanti sono quelle voci che sembrano inventate sul fondamento di una modulazione fonica. Ma Dante è anche creatore di neologismi e di grandissimo rilievo sono le originali coniazioni dantesche (trasumanar, imparadisare, spoltrire). Nei versi danteschi coabitano vocaboli dialettali e lessico dell’uso lirico, parole da trivio e termini aulici, lessico quotidiano e neologismi. Resta ancora da dire dello straordinario lavoro metrico che Dante realizza nel poema: il poeta sfrutta a pieno le potenzialità della terzina. Lo schema ABA/BCB/CDC … rende evidente la particolarità del meccanismo della terzina, secondo cui il discorso si snoda e si collega strettamente perché dal cuore di una terzina ne nasce un’altra: il verso centrale della prima diventa il verso iniziale della successiva. A sostenere la terzina è una moltitudine diversa di rime: rime sdrucciole, tronche, siciliane, composte, aspre e chiocce. epistole. Il progetto di organizzare in volume il materiale epistolografico rimonta fino alla giovinezza del poeta, prima di ricevere l’avallo definitivo dai modelli della letteratura classica (lettere di Seneca a Lucilio o le ciceroniane “Epistolae ad Atticum” da lui scoperte a Verona nel 1345).  “Familiarium rerum libri XXIV” è la silloge fondamentale delle lettere petrarchesche, che comprende 350 epistole in latino (scritte tra il 1325-66): alla comunicazione epistolografica Petrarca si affida per scrutare la propria interiorità e un’esemplare analisi delle proprie contraddizioni emerge dalla prima lettera del IV libro delle Familiari, inviata a Dionigi di Borgo San Sepolcro. Il poeta racconta dell’ascesa al monte Ventoux fatta da lui e dal fratello Gherardo, un episodio raccontato in maniera allegorica: il fratello procede spedito verso l’alto (sospinto da u n convinto slancio di fede), mentre il poeta è lento e sembra essere trascinato verso il basso (impossibilitato all’ascesi spirituale perché imbrigliato dai lacci mondani).  “Sine nomine” (1342-1358) silloge costituita da 19 lettere, in cui sono stati omessi i destinatari per prudenza, dato che si trattava di lettere di contenuto politico e ideologico.  “Seniles”, silloge costituita da 120 epistole distribuite in 17 libri, scritte fra il 1361- 1374. Avrebbe dovuto far parte di questa silloge una lettera molto particolare “Posteritati” (il cui nucleo originario risale a prima del 1367), rimasta però inconclusa, in cui Petrarca fa un autoritratto: racconta la sua vita biografica dalla nascita al 1351, raccontando le proprie origini, il suo temperamento, i suoi traviamenti giovanili, la sua fisionomia esteriore, il suo disprezzo per il lusso e il denaro, omettendo però alcuni episodi salienti della sua politica e ideologica (la partecipazione al moto di Di Rienzo). Dunque, l’immagine che Petrarca vuole dare di sé è quella del letterato che, giunto a conciliare il patrimonio culturale classico con quello cristiano, si stacca dal contingente, non si contamina con la storia contemporanea ma si esprime in modo compiuto, nel latino che riscoperto dal suo momento aureo, deve costituire la lingua d’elezione del vero umanista e della nuova cultura. Gli scritti polemici. Petrarca si segnala anche per alcuni interventi veementi, per il piglio dell’invettiva: a tal proposito, ricordiamo i 4 libri delle “Invective contra medicum quendam” (1352-55), in cui a un tipo di attività lavorativa destinata al guadagno (quella del medico), Petrarca contrappone quella disinteressata consolazione che gratifica chi coltiva le humanae litterae. In risposta a quattro giovani averroisti veneziani che, irritati per la sua avversione all’aristotelismo, l’avevano giudicato ignorante, Petrarca scrive il “De sui ipsius et multortum ignorantia” , in cui Petrarca impone un cambio nella gerarchia delle auctoritates filosofiche da seguire: tocca al più moderno Platone, filosofo preoccupato del miglioramento morale dell’uomo, prendere il posto del “medievale” Aristotele, il cui razionalismo dottrinario patisce il limite dell’insufficiente elevatezza morale con cui sostenere il cammino dell’uomo verso la verità e la felicità. Degne di nota sono altre due invettive:  “Invectiva contra quendam magni status nomine sed nullius scientie aut virtutis”, scritta nel marzo- agosto 1355 contro il card. Jean de Caraman che aveva definito Petrarca un uomo di scarsa cultura e riprovevole, sia per aver fatto un plagio degli scrittori antichi, sia per essersi fatto proteggere da tiranni come i fratelli Visconti. A quest’accusa, Petrarca risponde con un’apologia della propria decisione di porsi sotto la protezione dei signori di Milano.  “Invectiva contra eum qui maledixit Italie” , (1373) in cui Petrarca replica ad un libello di Jean Hesdin che aveva difeso la gallicana pars dopo che Urbano V aveva riportato la sede papale a Roma. Nell’intervento, il poeta avanza la denigrazione della barbara Gallia, contrapposta ad una magnificazione di Roma, città dei Cesari e dei Papi. Le opere latine in versi. In versi latini, Petrarca scrive 66 epistole in esametri (1333-54), raccolte nei tre libri delle “Epistole metrice”, una sorta di sede di appunti di un diario privato, con notazioni che rendono questi testi assai preziosi per i dati documentari che offrono per la presenza di alcuni indugi riflessivi prossimi alla materia. In latino e in esametri scrive anche le 12 egloghe d’impronta virgiliana (1346-48) che costituiscono il “Bucolicum carmen” , in quanto il genere bucolico appare al poeta il ‹‹ poematis genus ambiguum ››, intendendo per ambiguità quella specifica convenzionalità del genere che impone il travestimento pastorale dei personaggi e che carica di significazioni allegoriche i contenuti. Le opere storiografiche e il manualetto storico-geografico. Nella sua prima redazione del De viris, Petrarca rivela il suo metodo storiografico: egli attinge ad una pluralità di fonti non certo per accumulare disordinatamente le notizie (Livio, Svetonio, Floro, Giustino), ma per mettere a confronto e sottoporre a vaglio critico le informazioni. Il Petrarca storiografo si rivela attratto dalle grandi figure del passato perché solo in esse è possibile riscoprire le virtù scomparse, da riproporre ai contemporanei. La sua storiografia è una storiografia di ritratti, di medaglioni, di biografie, di vite costruite per enucleare il significato morale di un protagonista della storia. Non portati a compimento sono i “Rerum memorandarum libri” (1343-45), con cui Petrarca (sulla scia dei Factorum et dictorum di Valerio Massimo) intendeva allestire una raccolta di aneddoti e avvenimenti esemplari, ripartendoli secondo categorie corrispondenti alle 4 virtù cardinali, cui avrebbe dovuto seguire una sezione imperniata sui vizi opposti. Il progetto ha una realizzazione parziale, perché non va oltre i 4 libri che portano gli esempi della sola virtù della Prudenza. Esperienze personali di viaggiatore e nozioni libresche ed erudite, conoscenze storiche e geografiche si uniscono in quella singolare operetta che è l’ “Itinerarium syriacum”, scritto nel giro di tre giorni nel marzo 1358 e inviato a Giovanni Mandelli, nobile comasco imparentato coi Visconti che stava per partire per un pellegrinaggio in Terra Santa, a cui aveva anche invitato lo stesso Petrarca. (fonti bibliche e letterarie, studi cartografici personali). Le opere morali. Al decennio 1345-55, risale la prima stesura di alcuni trattati morali:  “De vita solitaria” (1346), in cui, in due libri, lo scrittore elogia uno dei suoi miti esistenziali più profondamente avvertiti: quello della vita solitaria;  “De otio religioso” (1347), testo il cui tema è quello della celebrazione dell’ideale monastico;  “De remediis utriusque fortune” (1366), silloge delle sue riflessioni morali: un libro incentrato sui due volti della Fortuna, sulla buona e sulla cattiva sorte. Nella prima parte si prendono in considerazione le gioie e i piaceri della vita; nella seconda parte si prendono in rassegna tutte le occasioni di pena. Entro una struttura compromessa con la tradizione medievale, ha tuttavia modo di imporsi la vera novità del libro, che consiste nel particolare punto di vista dello scrittore. Dunque, il sapere filosofico e letterario è messo al servizio di una moralità che riconosce la tristezza della condizione umana, ammette gli affanni dell’esistenza, ma commuta il pessimismo in fede nell’agire umano e si dirige a scoprire dove sia la felicità. -Il ‹‹ Secretum ›› La più analitica indagine retrospettiva tesa a mettere a nudo i contrasti interiori che lacerano l’anima del poeta è condotta nel “De secretu conflictu curarum mearum” , noto anche semplicemente come il Secretum. Tre sono le fasi di redazione: 1347, 1349, 1353, anche se l’autore fissa il dialogo in coincidenza con il 16° anno dopo l’incontro con Laura (dunque lo fa risalire a qualche anno prima, nel 1342-43), data fittizia mediante la quale Petrarca intendeva ricondurre ai quarant’anni della sua vita la svolta che lo indirizzava verso la matura stagione della riflessione e devozione. Lo svolgimento dialogico, ripartito in tre libri, è sostenuto da una cornice immaginaria: al poeta appare una donna, la Verità, accompagnata da un vecchio, Sant’Agostino, che per tre giorni lo sottoporrà ad esame. Si instaura una dialettica in cui Sant’Agostino svolge il ruolo del confessore, Petrarca quello del penitente, tutto alla presenza muta della Verità. - I libro: Agostino accusa Petrarca della debolezza della sua volontà, una volontà malata perché su di essa non opera l’antidoto nell’aver coscienza della morte e della sua immanenza, non per temerla e trarne sgomento, ma per vivere nell’avvertenza dei limiti dell’esistere. Certo, la meditatio mortis rivela sia l’avvertenza della miseria umana, sia sollecita l’appello alla misericordia divina: tutto questo lo condanna all’incessante supplizio di aspirare ad una vita più degna, ma di non saperla né volerla attuare per incapacità di decidere. Al pari delle sembianze esteriori della donna, anche la natura è sottoposta ad un processo di stilizzazione: ricorre il topos letterario del locus amoenus, e in diverse occasioni la mitologia viene ad affiancare i momenti descrittivi od evocativi. Inoltre, la predilezione di Petrarca va per i luoghi solitari, perché ritenuti possibili vie di fuga dall’incombente assillo dell’amore. Luoghi solitari che possono essere esterni e naturali (“Solo et pensoso nei più deserti campi”), oppure anche ambienti interni, chiusi: la cameretta (“O cameretta che già fosti un porto”). Tuttavia, questi due sonetti ribadiscono l’impossibilità del poeta di trovare riparo dal tormento inflittogli dalla presenza costante ed irremovibile del pensiero dominante che è il pensiero amorosa. La solitudine rappresenta lo scenario più adatto per chi nell’amore non cerca tanto l’appagamento della vista, quanto la spinta al rimpianto. L’amore di Petrarca, indirizzato verso una creatura che non ha concretezza, è un amore che non vive della presenza: un amore che si nutre di memoria o sogno. Una caratterizzazione dell’esperienza amorosa così concepita viene illuminata da una delle più famose canzoni della raccolta, “Chiare, fresche et dolci acque” che, entro una cornice di idillio, prospetta una duplice presenza di Laura, differentemente collocata nel tempo: Laura evocata in un’apparizione nel passato e Laura sognata in un futuro, pietosa sulla sepoltura del poeta. Dunque, la cancellazione dei tratti fisionomici della figura femminile non prelude al trasferimento dell’identità della donna in simbolo o allegoria, perché la reale consistenza di Laura poggia sulla sua realtà fantasmatica che fa di lei una creatura presente nell’essere assente. Punto terminale del desiderio sempre destinato all’inattingibilità: così Laura viene a configurarsi nel celebre sonetto “Movesi il vecchierel canuto e bianco”, che ha un procedimento del tutto singolare, per l’innesto della soggettività lirica solo a conclusione di un insolito andamento narrativo. Dunque, il Canzoniere è il libro poetico che agisce da catalizzatore di quel regno delle contraddizioni che è l’universo psicologico del Petrarca: l’amore per Laura, che riflette l’instabile condizione di una patologia psichica, diventa l’occasione strumentale attorno alla quale si aggrega la costellazione di temi e motivi che sono fondamentali nell’interesse del poeta, autentico protagonista dell’opera. Se Laura, col suo stesso nome, richiama per via allusiva, attraverso una rete di affinità (laurea, lauro, ecc.) l’altro grande desiderio mondano, altro peccato di cui Petrarca si sente colpevole, (l’aspirazione alla gloria), il ‹‹ giovanile errore ›› della passione amorosa suscita un processo di immersione nell’interiorità che tocca una serie di problemi tali da spingere il poeta oltre la semplice registrazione dell’avventura sentimentale. Attraverso la figura di Laura, Petrarca fronteggia i temi profondi del timore e del desiderio della morte, della vanità delle cose umane e della vita (“Quanto più m’avvicino al giorno estremo”), della precarietà delle passioni, della labilità dell’esistere e della fuga del tempo (“La vita fugge e non s’arresta un’ora”). L’esigenza di un’autoanalisi si fa più stringente nella seconda sezione del Canzoniere: la scomparsa della donna non è d’incentivo per la modulazione di inni celebrativi (come avvenne con Dante nella Vita Nova). Questa soluzione “stilnovistica” è del tutto estranea alla sensibilità del Petrarca perché egli, dopo la morte di Laura, sconta più acutamente la dinamica contrastiva tra il destino di beatitudine celeste additatogli dalla donna e la fiacchezza della volontà. La poesia conclusiva del Canzoniere è la canzone “Vergine bella, che di sol vestita”, l’invocazione alla Vergine che è stata messa in rapporto con la preghiera di intercessione nnei confronti di Dante, formulata da san Bernardo nell’ultimo canto del Paradiso. Petrarca si rivolge alla Vergine non con la tensione mistica di chi annega nel suo grembo i propri affanni, ma con l’umiltà supplice di chi, consapevole di dover convivere, invoca la pace: e “pace” è la parola conclusiva dell’intero Canzoniere, con l’appello del poeta alla Vergine di farsi mediatrice in suo favore a Cristo, affinché accolga in pace il suo ultimo spirito. E questo stesso termine conclude un altro testo di Petrarca, “Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno”, canzone politica per eccellenza del poeta. Le opzioni di Petrarca nell’ambito del patrimonio lessicale sono governate da un criterio di selettività severa, da giustificarsi col rifiuto di accogliere quanto appartiene alla sfera della concretezza e della realtà quotidiana, allontanandolo di molto da Dante. La diversissima natura dei due massimi poeti è confermata dalla netta differenza del repertorio verbale: a fronte del cospicuo vocabolario dantesco, definito “plurilinguistico”, si contrappone lo smilzo vocabolarietto petrarchesco, frutto di un restringimento dell’area di attenzione all’ ‹‹ io ››, cui si applica una lingua chiusa e selezionata, un ‹‹ unilinguismo ›› (basti pensare che Dante nella Commedia ha utilizzato circa 27'700 lemmi, Petrarca solo 3'275). Tuttavia, indiscutibile è la ricerca di eleganza e compostezza classica, che giustifica l’abbondanza dei latinismi (compresi i latinismi grafici e i nomi della terza declinazione usati nella forma non tronca); più ridotta è la presenza di gallicismi e provenzalismi. Notevole è l’impiego del sonetto, che si rivela come la configurazione metrica più consona ad accogliere la dialettica contrastiva dell’analisi psicologica del poeta e a racchiuderla in una compagine di perfetto equilibrio formale. Notevole fortuna hanno le “dittologie sinonimiche”, ossia l’accoppiamento di termini dello stesso significato, tanto per gli aggettivi (“canuto e bianco”), tanto per i sostantivi (“rime et versi”) quanto per i verbi (“monta e cresce”). Se Petrarca procede per dittologie, parallelismi, simmetrie, disgiunzioni e dicotomia degli endecasillabi, questo avviene perché gli espedienti retorici e metrici rendono visibile i risultati di un metodo analitico che nel sistema delle corrispondenze e delle antitesi individua lo strumento più adatto ad indagare i contrasti della psiche e a riprodurlo per via di scrittura. I ‹‹ Triumphi ››. Petrarca non raggiunge il bersaglio quando tenta di imporre dall’esterno un involucro strutturale al suo discorso: prova della sua inadeguatezza nella costruzione di un poema è data dall’altro testo che compone la sua produzione in volgare, i “Triumphi”, un poema che sta sullo scrittoio di Petrarca per più di trent’anni (1339-1374). L’opera rivela una tormentata storia esterna, che dichiara a chiare lettere l’insoddisfazione dell’autore per esiti di strutturazione non corrispondenti alla sua ambizione di cimentarsi con le misure di un poema. Il retroterra letterario: “Roman de la rose” , “Commedia” (per l’uso della terzina) e l’ “Amorosa visione” del Boccaccio. Petrarca sviluppa la dinamica del suo poema lungo la sequenza di sei quadri che presentano sei successivi “trionfi” allineati in senso ascensionale, poiché quello successivo indica superamento di quello precedente. 1. Triumphus Cupidinis, (trionfo dell’amore), ove tra le vittime d’amore rinchiuse in un carcere figura lo stesso Petrarca; 2. Triumphus Pudicitie, (trionfo della castità), ove i prigionieri sono liberati da Laura; 3. Triumphus Mortis, (trionfo della morte), ove Laura viene sconfitta dalla Morte; 4. Triumphus Fame, (trionfo della fama) ove all’allontanarsi della Morte avanza un’imponente regina, la Fama che precede tre cortei, due di insigni uomini d’armi, uno di illustri letterati e filosofi; 5. Triumphus Temporis, (trionfo del tempo), ove la Fama viene vinta dal Tempo, che copre di oblio gli eventi umani; 6. Triumphus Eternitatis, (trionfo dell’eternità), ove sul tempo trionfa l’eternità e si celebra il trionfo della gloria di Dio. [Destinatarie dell’opera saranno dunque le persone più soggette alle pene d’amore, ossia (come subito dopo si dirà) le donne.] E chi negherà che questo conforto, quale che sia il suo valore (quantunque egli si sia), sidebba (co venirsi, costruzione latineggiante della proposizione oggettiva con il verbo all’infinito) donare molto più alle belle (vaghe) donne che agli uomini? Esse, con timore e vergogna (temendo e vergognando), tengono nascoste nei loro delicati cuori (petti, sineddoche) le passioni amorose (l’amorose fiamme), di cui coloro che le hanno provate sanno (il sanno; il pronome è pleonastico) quanto siano più forti di quelle palesi (quanto più di forza abbian che le palesi); ed oltre a questo, essendo costrette (ristrette) dalla volontà, dai piaceri, dagli ordini (comandamenti) dei padri, delle madri, dei fratelli e dei mariti, vivono (dimorano) la maggior parte (il più) del <loro> tempo chiuse (racchiuse) nel ristretto spazio (piccolo circuito) delle loro camere, e <lo fanno> quasi sedendo in ozio, desiderando e non desiderando al tempo stesso (in una medesima ora) e rimuginando tra sé (seco rivolgendo) diversi pensieri, i quali non è probabile che siano sempre allegri. [La necessità di celare la propria passione per le costrizioni che la donna subisce dall’esterno è un tema che tornerà spesso nel Decameron.] E se a causa di <questi> pensieri (per quegli) qualche sensazione triste (alcuna malinconia), mossa da un desiderio acceso (focoso), sopraggiunge nelle loro menti, è d’obbligo (conviene) che lì persista (si dimori) con un grande dolore (noia), se non è allontanata (rimossa) da nuovi pensieri (ragionamenti): a parte il fatto che (senza che) le donne (elle) sono molto più deboli nel sopportare (a sostenere) <le pene> rispetto agli uomini; e ciò (il che) non avviene negli uomini innamorati, così come noi possiamo apertamente constatare (vedere). Essi, se li affligge qualche sensazione triste o qualche pensiero spiacevole (gravezza di pensieri) hanno molte possibilità (modi) per alleviare (alleggiare) o far passare tutto ciò (quello), poiché a loro, se lo vogliono (volendo essi) non manca <la possibilità di> muoversi (l’andare attorno), ascoltare e vedere molte cose, andare a caccia di uccelli (uccellare), andare a caccia <di altri animali>, andare a pesca, a cavallo, giocare o occuparsi del commercio (mercatare).e grazie a questi mezzi (de’ quali modi) ciascuno ha la forza di riprendere possesso, in tutto o in parte, del proprio animo (trarre … l’animo a sé) e di allontanarlo (rimuoverlo) almeno per un po’ (per alcuno spazio) di tempo dallo spiacevole (noioso) pensiero, dopodiché (appresso il quale), con un mezzo o con un altro, o ci si consola o <almeno> diminuisce il dispiacere. Dunque, affinché (acciò che) per opera mia (per me, latinismo) si rimedi alla colpa (s’amendi il peccato) della fortuna, la quale, dove vi era minor forza <d’animo>, come noi abbiamo constatato (veggiamo) <che avviene> nelle donne fragili (dilicate), qui fu più avara di aiuto (sostegno), per <offrire> soccorso e rifugio a coloro che amano, poiché per le altre sono sufficienti (è assai) l’ago e il fuso e l’arcolaio (cioè gli strumenti della tessitura e del ricamo), intendo raccontare cento novelle, o favole o parabole o narrazioni storiche se così vogliamo chiamarle (che dire le vogliamo), raccontate in dieci giorni da una nobile (onesta) brigata <composta> da sette donne e tre giovani, costituitasi (fatta) nel periodo dell’ultima epidemia di peste (nel pistelenzioso tempo della passata mortalità), e <intendo riferire> alcune canzonette cantate a loro piacere (diletto) dalle predette donne. [Il Proemio distingue tra «novelle» (narrazioni di argomento vario), «favole» (modellate sui fabliaux dei francesi), «parabole» (racconti di argomento morale) e «istorie» (narrazioni a sfondo storico).] E in queste novelle (Nelle quali novelle ) si vedranno piacevoli e tragici (aspri) casi d’amore e altri avvenimenti avventurosi (fortunati) accaduti nei tempi moderni come in quelli antichi. E da esse (delle quali) le suddette donne che le (queste, complemento oggetto) leggeranno, potranno trarre allo stesso modo (parimente) diletto per le piacevoli vicende (delle sollazzevoli cose) in esse narrate (mostrate) e utile ammaestramento, in quanto potranno conoscere ciò che sia da evitare e E chi negherà che questo conforto, quale che sia il suo valore (quantunque egli si sia), siciò che sia allo st sso modo <un esempio> da seguire (seguitare); cose entrambe che credo non possano accadere (intervenire) senza sollievo degli affanni (passamento di noia ). E se questo avviene, e Dio voglia che sia così, ringrazino Amore il quale, liberandomi dai suoi legami, mi ha permesso (conceduto) di potere (il potere ) occuparmi dei loro svaghi (attendere a’ lor piaceri). semplice oggetto dell’amore e del sentimento lirico, ma soggetto della propria avventura esistenziale – risalta anche dalla cornice in cui sono inserite le novelle. Queste ultime saranno narrate dai dieci giovani di una «onesta brigata», in cui l’elemento femminile è dominante. Di queste novelle, Boccaccio annuncia qui l’estrema varietà, qualificandole con diversi termini desunti dalla tradizione precedente: i modelli andranno di volta ricercati nel Novellino (le «novelle» propriamente dette), nei favolelli o fabliaux in versi francesi (le «favole»), negli exempla tipici della letteratura religiosa in latino del Medioevo (le «parabole») o nelle narrazioni a sfondo storico (le «istorie»). Interessante anche il fatto che i tempi in cui sono ambientate le novelle sono sia quelli moderni che quelli antichi. Se si aggiunge il fatto – non accennato nel Proemio, ma desumibile dalla lettura dell’opera – che anche lo spazio geografico di ambientazione delle novelle è molto vasto, si può avere un’idea della ricchezza e complessità del mondo boccacciano. Attraverso questa varia e ricca narrazione si affermano i diritti alla vita e al piacere di una «onesta brigata»; se questa è la cornice in cui andranno inserite le novelle, il Proemio non dimentica di delineare lo sfondo storico in cui l’opera si situa: esso accenna infatti alla peste, che si abbatté sull’Italia nel 1348, determinando uno stravolgimento di ordine naturale sociale e morale, cui l’elemento positivo e vitale della brigata si contrappone con un contrasto fortemente rilevato. Boccaccio non è un poeta, ma un uomo di mercatura (dedito agli affari). Vi è una concezione diversa dell’amore: l’Amore deve essere tenuto a bada. È una concezione de – divinizzata dell’amore: se non è regolata, la passione d’amore devia. L’amore, essendo un fatto terreno, è destinato a perire: non può che essere un mero ricordo (visione laica dell’amore), un piacevole ricordo. È un affanno quando ti colpisce, piacevole quando è smorzato ed appannato dall’oblio. È un affanno di cui liberarsi il prima possibile: una volta cessato l’amore, rimane il beneficio del sollievo ricevuto dagli amici. Oltre che dall’inserimento in un’unica cornice, la continuità con la novella precedente è garantita dal fatto che, come gia è avvenuto con Abraam [I12], il protagonista di questa storia è un mercante ebreo. Nella premessa che sintetizza la “morale” del suo racconto, Filomena specifica di voler celebrare le persone “savie” che, grazie alle loro qualità intellettuali, sanno sottrarsi a disgrazie e pericoli. La narratrice ricorre spesso a una sintassi abbastanza complessa, caratterizzata dal frequente ricorso a proposizioni subordinate che servono a spiegare i nessi logici tra i fatti. Abbondano i gerundi, spesso con significato causale: particolare attenzione è riservata, infatti, ai motivi per cui si verificano gli eventi narrati. Ciascuno dei protagonisti della novella ha una ben definita personalità. Il Saladino è esponente del potere politico: Boccaccio lo presenta come protagonista di un’ascesa sociale che lo ha condotto, da umili origini, addirittura a divenire sultano. Poco importa rilevare come questa ricostruzione della sua figura sia storicamente inesatta; interessa invece il fatto che il Saladino debba il suo potere al proprio «valore» (come accadrebbe a ogni borghese che deve a se stesso la propria fortuna) e spenda il suo denaro in «magnificenze» (secondo un ideale di vita raffinata e cortese proprio dell’aristocrazia). Per Melchisedech vengono utilizzati aggettivi come «savio» e «valente», che ne sottolineano soprattutto la finezza intellettuale. Nessuno dei due personaggi è moralmente perfetto: all’inizio della novella il Saladino escogita un inganno per costringere l’ebreo a fornirgli del denaro; Melchisedech, da parte sua, esercita un’attività, il prestito a usura, guardata da tutti con sospetto. Motore della vicenda sono le qualità intellettuali dell’ebreo, che si manifestano nella sua capacità di sottrarsi alla trappola tesagli dal Saladino. Quest’ultimo vuol costringerlo a pronunciarsi su quale sia – tra la cristiana, la giudaica e la musulmana – la vera fede; Melchisedech sa tuttavia che qualunque risposta lo metterebbe in difficoltà e darebbe al sovrano il pretesto per tenerlo sotto scacco e imporgli condizioni inique. L’apologo degli anelli L’intelligenza e la parola consentono tuttavia a Melchisedech di prospettare una risposta diversa da quelle previste come possibili dal Saladino. Egli narra un apologo in cui le tre religioni sono paragonate a tre bellissimi anelli, donati dal padre a tre figli ugualmente amati. Solo uno di essi è l’originale, ma gli altri due sono imitazioni talmente perfette che è impossibile distinguerle da quello vero. In altre parole, un unico Dio è all’origine delle tre religioni, come unico è il padre che lascia in eredità ai figli i tre anelli. Si può essere indotti a leggere in questa novella, data la relazione di equivalenza tra i tre anelli, un messaggio di tolleranza religiosa (o perfino un affermazione di scetticismo). Ma questa lettura – a parte il rischio di sovrapporre al testo una sensibilità ideologica che appartiene a un’epoca successiva2 – coglierebbe solo un aspetto della novella, quello appunto riconducibile all’apologo. La stessa premessa di Filomena, d’altra parte, avverte che al centro della narrazione sono qui gli «avvenimenti» e gli «atti degli uomini», poiché «di Dio e della verità della nostra fede è assai bene stato detto» nelle novelle precedenti [2]. I personaggi dopo l’apologo Tutto ciò induce a considerare significativo anche il contesto entro cui l’apologo si inserisce. Nel personaggio di Melchisedech viene celebrata una delle virtù fondamentali del Decameron, ossia l’intelligenza; e tale virtù si manifesta nell’uso accorto della parola, altro tema centrale nell’opera boccacciana. Grazie alle virtù di Melchisedech, al termine della novella, il Saladino risulta ingentilito e rinuncia al sopruso inizialmente progettato. Egli rimane tanto colpito dalla finezza intellettuale di Melchisedech che lo ricolma di «grandissimi doni» [13] ed instaura con lui un rapporto di amicizia. L’usuraio, da parte sua, si dispone spontaneamente a sovvenzionarlo con la somma che gli è necessaria, somma che poi sarà restituita dal Saladino «interamente». Il sovrano insomma, dopo avere ascoltato l’apologo, non approfitterà della sua posizione di potere, e il contratto con Melchisedech si concluderà su basi di reciproca correttezza. La gentilezza mercantile Attraverso intelligenza e parola, dunque, Melchisedech sfugge al rischio di essere coinvolto in un rapporto di scambio asimmetrico (in cui il Saladino, profittando del proprio potere, ottenga più di quanto possa legittimamente chiedere); si instaura invece un rapporto improntato alla libera volontà delle parti e al senso di equità, e che alla fine risulterà vantaggioso per entrambe le parti. Nonostante il proprio mestiere di usuraio, insomma, anche Melchisedech sembra rientrare in quella classe mercantile idealizzata che Boccaccio crede capace di elevati valori morali: non siamo più nel mondo di ser Ciappelletto e ci muoviamo invece, sebbene a un gradino un po’ più basso, in un ambiente simile a quello in cui operano Abraam Giudeo e Giannotto di Civignì [I12]. Il ‹‹ Ninfale d’Ameto ››. L’ Ameto è un prosimetro, ossia un componimento misto di prosa e poesia che impiega la terzina dantesca e che svolge un motivo centrale della poetica stilnovista: la forza purificatrice dell’amore. Protagonista è il rozzo pastore Ameto il quale, a seguito dell’incontro con sette ninfe che rappresentano le virtù cardinali e teologali, abbandona la sua condizione di brutalità animalesca e conquista la piena umanità, al punto che gli è concessa l’opportunità di attingere alla massima felicità spirituale, la contemplazione divina. La parabola percorsa da Ameto è molto lineare, ma lo stesso non si può dire per il percorso in sé: Boccaccio mostra un certo impaccio nel disporre organicamente i generi differenti recuperati e accostati in un rischioso gioco combinatorio: l’egloga pastorale, il poemetto allegorico, la novellistica. L’ ‹‹ Amorosa Visione ›› È un poema di cinquanta canti in terzine, in cui Boccaccio si prefigge di seguire le orme di Dante non solo nella scelta metrica, ma anche nella concezione generale dell’opera come mirabile visione. L’esordio è palesemente dantesco: un poeta smarrito in un lido deserto incontra una donna gentile che lo conduce in un nobile castello, dentro cui il poeta visita due sale le cui pareti sono istoriate: spunto per una riflessione sui valori della vita umana. La vera originalità del poema è costituita dal ricco patrimonio figurativo offerto dalla descrizione delle pareti dipinte, di cui saprà fare tesoro Petrarca per i suoi Triumphi. L’ ‹‹ Elegia di madonna Fiammetta ››. Tra il 1343-44, Boccaccio scrive l’ “Elegia di madonna Fiammetta”, narrazione in prosa in cui la protagonista, Fiammetta, si rivolge alle donne innamorate per raccontare loro la storia del suo amore extraconiugale (essendo lei sposata) con Panfilo. L’incontro, la felicità della corresponsione, la malinconia per la partenza di Panfilo, la sofferenza per il mancato ritorno dell’amato, la gelosia a seguito della falsa notizia che Panfilo si è sposato, il tentato suicidio dopo la notizia vera di un nuovo amore di Panfilo, l’illusione fallace del suo ritorno: su questa trama si articolano i nove capitoli dell’Elegia, sviluppando le vicende di una tormentata avventura sentimentale. Il retroterra letterario in cui l’opera affonda le proprie radici è rappresentato dalle Heroides di Ovidio, da Virgilio, da Lucano, dal Seneca tragico (“Medea” e “Fedra”). Il comportamento della protagonista permette una rideterminazione del significato di ‹‹ elegia ››, rispetto a come Dante l’aveva concepito nel De vulgari eloquentia, definendola come “stilum miserorum” e l’aveva collocata sul piano stilistico più basso, indicando ad essa appropriato il volgare “solum humile”. Nella Fiammetta, Boccaccio da una parte accetta e conduce a pratica realizzazione l’indicazione del contenuto dell’elegia come genere letterario adatto a storie d’amore dolorose, misere, pietose, mentre respinge la connotazione “umile” tanto nella scelta dei personaggi (Fiammetta è un’aristocratica) quanto nei livelli stilistici che puntano verso l’altezza espressiva e la perfezione retorica. L’opera rientra nel genere dell’elegia anche per la presenza di una trama non risolta in modo definitivo né positivamente né negativamente, come rispettivamente avviene nella commedia e nella tragedia. -Il ‹‹ Ninfale fiesolano ›› Del 1344-45 è il “Ninfale fiesolano”, un poemetto eziologico di 473 ottave sulle origini di Fiesole, alle quali si risale attraverso la storia di due giovanetti innamorati (il pastore Africo e la ninfa Mensola). La ninfa, sedotta dal pastore, infrange l’obbligo di castità dovuto a diana e, dopo aver dato alla luce un bimbo, subisce la vendetta della dea, che la tramuta nel fiume che porterà il suo nome, mentre anche lo specchio d’acqua in cui era avvenuto l’incontro con Mensola aveva preso il nome di Africo, avendo lì il giovane trovato la morte. Il bimbo superstite, Pruneo, viene assistito dai genitori di Africo. Cresciuto, diventa siniscalco di Attalante, fondatore di Fiesole e portatore di una nuova civiltà, avversa ai costumi rozzi e alle leggi incivili imposti da Diana e fautrice dell’amore consacrato dalle nozze. Il Boccaccio ripropone l’ambientazione pastorale che aveva sostenuto il disegno allegorico – morale dell’ Ameto, per costruire un poemetto eziologico in cui la componente mitico – leggendaria funziona da punto di vista privilegiato per osservare i sentimenti naturali degli uomini, primo fra tutti l’amore. -Il ‹‹ Decameron ›› La struttura. Il capolavoro della narrativa (in forme brevi) è il “Decameron”, scritto da Boccaccio tra il 1349-51. Il titolo del libro richiama ancora una volta una parola di origine greca, ed è ricalcato sull’Hexameron (“sei giorni”) di Sant’Ambrogio. Il contenuto consta di 100 novelle, raccontate da una brigata di 10 giovani (7 donne e 3 uomini) che si allontana da Firenze per evitare il contagio della peste scoppiata nel 1348. Le cento novelle sono ripartite in 10 giornate e ogni giornata è formata da 10 novelle, raccontate a turno dai componenti della brigata. Sempre a turno, uno dei giovani è nominato re/regina della giornata e ha il compito di indicare l’argomento al quale i narratori dovranno attenersi. L’opera è preceduta da un Proemio, in cui l’autore indica come destinatarie le donne, giustificando il sottotitolo del libro, ‹‹ chiamato Decameron e cognominato principe Galeotto ››: come Galeotto si era rivelato disposto a favorire l’amore di Lancillotto, così Boccaccio si augura di poter compiacere alle donne innamorate col suo libro, scritto a fini di diletto; inoltre nel Proemio afferma che la sua opera conterrà cento novelle o favole o parabole o istorie, insomma anticipa la materia mista. Oltre al Proemio, Boccaccio aggiunge un’Introduzione, in cui si descrive l’occasione storica (la peste) che funge da pretesto per il racconto delle novelle. E infine è aggiunta anche una Conclusione, in cui Boccaccio traccia alcuni punti della sua poetica, relativi soprattutto al linguaggio. Quella del Decameron è una struttura ‹‹ a cornice ››, che corrisponde all’insieme di questi luoghi di strutturazione del materiale narrativo (comprese introduzioni e conclusioni delle singole giornate). Boccaccio dichiara di dover dare inizio alla sua narrazione, quasi costretto dalla necessità, partendo proprio da quell’ ‹‹ orrido cominciamento ›› della rappresentazione di Firenze, devastata dalla peste: solo dalla drammatica registrazione del contesto della peste si può giustificare l’ingresso sulla scena di quella brigata di dieci giovani che decidono di allontanarsi dalla città e trascorrere nella letizia del narrare il tempo funesto. Dunque, ad un’immagine di mondo in distruzione viene contrapposta l’immagine di un mondo che si salva, caratterizzato dalla giovinezza, bellezza, decoro, agiatezza economica. La brigata, contro il disordine, la sregolatezza, l’immoralità, ripropone l’ordine, l’equilibrio, la regola morale, attenendosi alla ragione come metodo normativo della loro convivenza. La piacevolezza conviviale del soggiorno è frutto della ricerca di diletto e di conveniente sollazzo, in un creativo scambio dialogico in cui i giovani sono sia produttori sia fruitori di letteratura: sono infatti, a turno, sia creatori di novelle e sempre il pubblico, l’uditorio. Ora, la definizione delle norme basilari da seguire nella tecnica del racconto, viene esposta nella prima novella della sesta giornata (esattamente il centro dell’opera), attraverso il racconto di “Madama Oretta” , grazie a cui vengono fissate alcune regole fondamentali della narratologia: un’esposizione disordinata ed insicura rovina una novella, che in sé può essere bellissima. Anziché procurare piacere, la sua narrazione provoca sofferenza in chi lo ascolta e i riscontri psicosomatici del disagio fisico di madonna Oretta sono evidenti. Si tratta di una meta novella in quanto costituisce una riflessione sul narrare e che fa capire come si debba raccontare: è istruttiva per almeno dure ragioni. 1. Il fine delle novelle non è pedagogico o esemplare, bensì solamente ludico: il racconto deve suscitare piacere; 2. Il piacere viene raggiunto non attraverso il contenuto del racconto, ma grazie alla forma. Le dieci giornate del “Decameron”. 1. Prima giornata: la regina Pampinea, mostrandosi in un atteggiamento di piena libertà, lascia la tematica libera, ragionando su quello che più piace a ciascuno di loro. La tematica libera serve a proporre e a rimuovere immediatamente un problema scottante: quello inerente alla fede, con la figura del primo personaggio memorabile, “ser Cepparello”, definito come il peggiore uomo che potesse mai nascere, il quale si confessò in punto di morte sul filo della menzogna e dopo questo fu venerato addirittura come santo. Il tema dunque è la riprovazione dei mali insiti nella religione e i limiti etici presenti nel mondo laico. 2. Seconda giornata: iniziano le giornate con un tema specifico. Argomento della seconda giornata è chi, grazie alla fortuna, è riuscito a risolvere situazioni complicate. Rilevante è il caso della notte napoletana, conclusasi a lieto fine, di “Andreuccio da Perugia”, colpito da tre gravi incidenti. 3. Terza giornata: argomento riguarda tutti coloro i quali, grazie al loro ingegno, hanno acquistato una cosa tanto desiderata o recuperato una cosa perduta. Non la fortuna, ma l’ingegno determina lo svolgimento e gli esiti delle azioni. Il predominante obiettivo del desiderio è quello della conquista amorosa e della soddisfazione erotica. La giornata è aperta e chiusa da due delle novelle che in modo più netto hanno contribuito alla identificazione del termine ‹‹ boccaccesco ›› con “osceno”, essendo novelle che si fondano su metafore a sfondo sessuale. ‹‹ Novella delle papere ››: la nuova decade narrativa è preceduta da un intervento dell’autore che in prima persona difende le trenta novelle precedenti dalle critiche Le fonti. Assai ampio è il bacino delle fonti alle quali Boccaccio attinge: Apuleio, letteratura romanza, i lais di Maria di Francia, vidas e razos dei poeti provenzali, fabliaux (fonti estere); Novellino, da cui vengono riprese diverse novelle tra cui la 3°novella della I giornata (quella dei tre anelli rappresentativi le tre religioni principali, la cattolica/ebraica/musulmana), ma anche lo stesso Filocolo. Tuttavia, la tradizione letteraria non viene solamente ripresa, ma è oggetto di un procedimento di ionizzazione e parodizzazione, ossia un ribaltamento comico di precedenti fonti:  Parodia delle confessioni e delle buone morti in Ser Ciappelletto (I, 1);  Parodia della tradizione dell’ exemplum per Nastagio degli Onesti (V, 8). Tuttavia, bisogna riconoscere che l’atteggiamento di Boccaccio nei confronti della realtà appartiene alla mentalità di un laico che si accosta al mondo esterno, con l’intenzione di giudicare volta per volta i fatti, senza pregiudizi e preconcetti. In questo consiste il “vero realismo” del Boccaccio, da intendersi come apertura ad un giudizio non precostituito sulle cose e sull’agire degli uomini, come capacità di esporre gli avvenimenti presentandoli quali problemi e non esempi. Ammirabile è lo straordinario lavoro linguistico – stilistico orientato verso una restituzione realistica delle novelle, attraverso la puntualizzazione dei nomi propri, indicazione di toponimi, dinamica dei dialoghi, adozione di un plurilinguismo: abilità di ambientare le sue novelle anche per via linguistica, adottando un determinato accento e/o dialetto in base al luogo in cui si svolge la novella. Il vertice del divertimento linguistico viene raggiunto quando la forza seducente della parola stravolta e deformata si dispiega per distorcere il senso reale e produrre una comunicazione falsata e arbitraria. -Dopo il “Decameron” Le opere in latino. Incontro fondamentale per Boccaccio fu quello con Petrarca, che conobbe a Firenze, nel 1350; dopo un momento di crisi (a seguito della decisione di Petrarca di stabilirsi alla corte dei Visconti), i rapporti si rinsaldano, nonostante il poeta aretino mostri continuamente un atteggiamento di superiorità, che si risolve nel considerare il suo interlocutore come a lui subalterno (deride il lavoro dell’amico, traducendo in latino la novella del Marchese di Saluzzo, “De fide uxoria”). Nonostante questo, Petrarca diventa per Boccaccio un modello di vita e di letterato: da lui, infatti, riprende il genere bucolico per una propria autobiografia, scrivendo anch’egli il “Buccolicum Carmen” (da citare è Olympia, rievocazione della figlia Violante, morta prematuramente), costituito da 16 egloghe a carattere allegorico. Ad emulazione di Petrarca, Boccaccio scrive anche opere a carattere storiografico: è il caso del “De casibus virorum illustrium” (terminato nel 1373), che ricalca il De viris di Petrarca, a differenza del quale si sofferma più sugli avvenimenti che sui personaggi. Di questo offre anche una versione al femminile, il “De claris mulieribus” (terminato nel ’62), consta di 106 capitoli in cui la rassegna delle donne celebri prende in considerazione non solo personaggi virtuosi, ma anche chi ha acquistato fama per atti nefandi. Ed infine, ultima opera in latino è il “Genealogie deorum gentilium”, una summa enciclopedica del vasto materiale dei miti della letteratura classica. Le opere in volgare. Ne “Il libello misogino: il ‹‹ Corbaccio ››”, l’autore racconta come, sotto forma di visione, a lui, innamoratosi di una vedova, compaia l’ex marito dell’amata che passa in rassegna tutti i vizi delle donne e che lo esorta a dedicarsi non all’amore, bensì agli studi più convenienti alla sua età. Definito come il Secretum boccacciano, il titolo dell’opera potrebbe derivare dal latino corba, vocabolo osceno sinonimo di ‹‹ nicchio ›› (organo genitale femminile); potrebbe derivare dal latino corbo › corvo, ossia l’uccello del malaugurio che, nei bestiari medievali, era identificato con la passione amorosa che come un corvo su di un cadavere prima becca gli occhi e poi il cervello, così l’amore prima rende ciechi e poi folli; oppure dal termine corvo si potrebbe risalire al ‹‹ colore nero ›› della veste della vedova, protagonista dell’opera. In seguito alla fase del Decameron, si può notare una svolta nella produzione letteraria del Boccaccio: abbandono della tematica amorosa, distacco dalla letteratura erotica, congedo dal pubblico femminile: dall’altra parte, però, si verifica l’apertura dello scrittore verso una cultura seria, destinata ad un pubblico di dotti ai quali far pervenire i risultati della meditazione sui valori morali e i frutti di studi profondi. Dalla conclusione del Decameron alla sua morte, l’ammirazione per Dante trova il suo riscontro in un assiduo impegno di celebrazione dell’esponente più prestigioso della nuova letteratura in volgare:  “Trattatello in laude di Dante”: (tre redazioni, dal 1351), si tratta di un trattatello encomiastico nel quale il progetto di restituire un’immagine di Dante nell’identità di poeta – teologo, agevola l’inserimento di elementi favolistici e visionari.  “Esposizioni sopra la Commedia”, si tratta di appunti per le letture pubbliche del poema dantesco avviate a partire dall’ottobre 1373, nella chiesa di Santo Stefano di Badia. Tuttavia il sopraggiungere della malattia che condurrà Boccaccio alla morte (21- 12- 1375) impone l’interruzione delle letture l’anno prima. Una vera e propria rilettura in chiave umanistica del poema dantesco che porta il Boccaccio a soffermarsi sugli aspetti retorici e indugia delucidazioni erudite su fatti storici/figure mitologiche, mentre viene lasciato in ombra il significato profondo delle situazioni dantesche. 1413, nell’isola di Chio, codici di Sofocle, Euripide, testi di Tucidide, Omero, Diogene Laerzio; nel 1421, egli acquistò 238 codici tra cui opere di Aristofane, Aristotele, Callimaco, Demostene, Erodoto, Eschilo, Luciano, Platone, Strabone; Guarino Veronese, che effettuò numerosi viaggi in Oriente, per impadronirsi della lingua e della cultura ellenica, perseguendo una lunga carriera di ellenista a Firenze, Siena, Milano, Pavia. Terza fase: gli studi greci non furono riattivati solo dal movimento dei nostri umanisti italiani verso l’Oriente, ma anche dal movimento inverso, di dotti bizantini che dalla Grecia si mossero verso la nostra penisola, recandovi la loro competenza linguistica. Tutto ciò fu favorito dal “Concilio di Ferrara e Firenze”, che sancì una serie di missioni diplomatiche tra la Chiesa d’Occidente e quella Bizantina, portando l’afflusso di maestri greci soprattutto dopo la presa di Costantinopoli dei Turchi ottomani nel 1453, sancendo la fine dell’Impero Romano d’Oriente. Si ricordano Gemisto Pletone e del suo allievo Bessarione, vescovo di Nicea. La nuova filologia. Accertare la verità dei testi poteva significare accertare la verità della storia , intervenendo in modo decisivo anche in ambito politico ed ideologico. Quest’applicazione militante della nuova filologia trova un formidabile campione in Lorenzo Valla, il più grande filologo e grammatico (insieme a Poliziano).  Egli dimostrò nella sua orazione “De falsa et ementita Costantini donatione” che la famosa “donazione” di Costantino, con cui l’imperatore avrebbe concesso potere temporale sul territorio della Chiesa, era un falso compilato nel Medioevo. Valla era allora al servizio di Alfonso d’Aragona, che si opponeva alle pretese del papa Eugenio IV sul regno di Napoli.  Non meno rilevante è l’applicazione della filologia nelle Annotazioni al Nuovo Testamento dello stesso Valla, che sottopongono il testo della Sacra Scrittura ad un’analisi testuale, confrontando il testo latino corrente con la più antica traduzione di san Girolamo. La Sacra Scrittura sembrava intoccabile: Lorenzo Valla analizza invece la Bibbia come un testo qualsiasi, approcciandosi in maniera laica ai testi sacri. Tuttavia, non si deve pensare che l’atteggiamento di ripresa dell’antico si traducesse in una mera e passiva imitazione del testo: già Petrarca, in una lettera al Boccaccio, più che di imitazione parlava di immedesimazione: autori come Virgilio, Orazio, Cicerone sono stati profondamente assimilati da essere divenuti ormai parte di una memoria personale. Per spiegare l’ imitazione degli umanisti, si serviva di una particolare metafora, quella dell’ ape, che succhia il dolce da ogni fiore, ma lo trasforma in qualcosa di diverso (cera o miele). Ma il problema restava: chi e come imitare?  Poliziano difende la libertà di imitare attingendo alla lezione dei più vari autori, facendosi promotore di un classicismo eclettico (trova il suo emblema nella famosa metafora dell’ape);  Paolo Cortesi sostiene la necessità di tenersi stretto ad un solo autore da imitare: nel suo caso, Cicerone (modello esemplare di prosa) e Virgilio (modello esemplare di poesia). Un secolo bilingue. Nel ‘400, la lingua latina fu sottoposta ad un processo di depurazione dalle corruttele subite durante l’età medievale: così facendo, il latino diventò sempre più una lingua di nicchia, per pochi, rendendolo inutilizzabile per fini pratici, per i quali veniva impiegato di preferenza per il volgare. Quest’ultimo beneficiò del nuovo prestigio formale del latino, del quale assimilò elementi lessicali e forme sintattiche. Dunque, il Quattrocento si presenta dominato da una cultura bilingue, secondo un doppio binario latino-volgare, presente anche nella produzione di uno stesso autore. Vi erano alcuni, però, che sostenevano pari dignità del volgare rispetto al latino, come Leon Battista Alberti, autore del “Grammatichetta” della lingua toscana, che costituisce la prima grammatica della lingua italiana e allo stesso tempo prima grammatica umanistica di una lingua volgare moderna. La sua attività di promozione del volgare culminò nel 1441, con l’istituzione del Certame coronario, gara poetica nella quale i partecipanti dovevano affrontarsi attraverso componimenti in volgare su un tema prefissato: il tema proposto per il primo concorso fu la ‹‹ vera amicizia ››. Con questo, Alberti esprimeva che la lingua volgare era in grado di esprimere anche alti concetti purché vi fosse stato qualcuno capace di usarla in modo degno e accurato. Tuttavia, i giudici che avrebbero dovuto decretare il vincitore avrebbero fatto fallire intenzionalmente il Certame perché irritati dal fatto che una lingua come l’italiano avesse preteso di gareggiare con il latino. I nuovi centri di diffusione culturale Se al centro della cultura medievale c’erano state la Chiesa e le grandi università, la nuova cultura umanistica si crea ambiti educativi diversi e alternativi: spazi privati, scuole che si impongono per il prestigio dei propri maestri: Pietro Paolo Vergerio (Italia, Germania, Boemia, Ungheria), Gasparino Barzizza (Padova). Guarino Veronese (Ferrara), Vittorino da Feltre (Mantova), che forniranno le basi dell’educazione liberale in tutta Europa. Da Feltre proponeva una scuola che fosse aperta a ragazzi di diversa estrazione sociale (figli di borghesi e popolani), purché mostrassero spiccate attitudini allo studio. In questa casa della gioia, era previsto un percorso scolastico basato sulle arti del Trivio (grammatica, oratoria dialettica e retorica) e del Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica). Inoltre vennero fondati centri in cui un maestro dialogava con i propri seguaci di discipline umanistiche: nascono le accademie, che ebbe diffusione anche nei secoli successivi. Ricordiamo l’ Accademia Platonica di Marsilio Ficino, fondata nel 1463 a Firenze e l’ Accademia Romana, di Pomponio Leto, accusata di epicureismo, miscredenza anticristiana e libertinismo. Fra le istituzioni culturali che l’Umanesimo muta in profondità c’è anche la biblioteca umanistica: la prima fu dovuta all’iniziativa di Cosimo Il Vecchio (de’ Medici) che, fra il 1437- 44 fece costruire una biblioteca all’interno del convento di San Marco. Successivamente, Lorenzo il Magnifico fece costruire la Biblioteca Laurenziana nella Basilica di san Lorenzo da Michelangelo Buonarroti. Altra grande fu la Biblioteca Vaticana, arricchita dall’umanista Tommaso Parentuccelli, divenuto poi papa Niccolò V, che fece diventare (con +1500 unità) quella romana la biblioteca più grande d’Europa. Il libro conservato nelle biblioteche del ‘400 è ancora un libro manoscritto, grazie all’opera di religiosi o spazi laici come le botteghe artigianali. Erano dei veri e propri capolavori artistici, che rimanevano tuttavia rari, costosi, lenti, elitari. Dunque, l’invenzione della stampa a caratteri mobili fu una vera e propria rivoluzione: il libro era disponibile in grandi quantità, a poco prezzo e poteva diffondersi in maniera più repentina, diventando un fattore potente di alfabetizzazione. Artefice di questa rivoluzione fu l’orefice di Magonza, Johann Gutenberg che, nel 1455-56, pubblicò, con il sistema della stampa a caratteri mobili, il primo libro stampato al mondo. L’invenzione dilagò in tutta Europa, radicandosi in particolare dove erano disponibili corsi d’acqua e mulini (necessari per la lavorazione degli stracci di stoffa da cui si ricava la carta). Tuttavia, molte furono le critiche mosse contro la divulgazione di libri, che erano molto meno estetici (signore di Urbino emanò il divieto di divulgazione di libri). Dal seno di questa letteratura dal gusto popolareggiante nascerà il “Morgante” di Luigi Pulci,ma anche i “sonetti del Burchiello”, le “novelle spicciolate”, i cantari cavallereschi in ottave. Lo stesso Lorenzo scrisse la “Nencia da Barberino”, poemetto parodistico di ambientazione villereccia: segno di una convivenza tra gusto popolareggiante (comico e burlesco) e inclinazione di studi severamente classicistica. -Lorenzo il Magnifico La prima educazione e gli esordi letterari. Lorenzo de’Medici nasce il 1 gennaio 1449, da Piero de’ Medici e da Lucrezia Tornabuoni , quando la guida della famiglia è ancora saldamente nelle mani del nonno Cosimo il Vecchio e i medici sono al culmine della loro fortuna e del loro magnifico mecenatismo. Egli apprende il greco seguendo lezioni del docente Argiropulo e di Ficino nell’ Accademia platonica a Careggi e del professore di poetica e di eloquenza Cristoforo Landino. Il latino, greco, poesia, filosofia, musica non escludono un’educazione mondana e cortese intonata all’altissima posizione sociale di Lorenzo. Così, il 7 febbraio 1469, all’età di vent’anni, viene nominato vincitore in una giostra combattuta in piazza Santa Croce, alla presenza dell’aristocrazia fiorentina e di tutta la città, dedicando la vittoria a Lucrezia Donati. Nello stesso anno, il 4 giugno sposa Clarice Orsini, figlia di una delle più nobili famiglie dell’aristocrazia romana. Nel frattempo, 5 anni dopo la morte del nonno, muore anche Piero de’ Medici costringendo il ventunenne Lorenzo ad avere sulle spalle il peso dello ‹‹ Stato ››. La formazione culturale del Magnifico era da inserire all’interno di due grandi prospettive molto diverse: da un lato c’era il nonno Cosimo, propugnatore del nuovo Umanesimo greco - latino, protettore di Ficino (fautore del neoplatonismo) e che di questa nuova cultura aveva fatto una vera e propria bandiera di famiglia. Dall’altra parte, c’era la madre di Lorenzo (Lucrezia), rappresentante del gusto popolareggiante, semicolto, in vogare, coltivato dalla vecchia oligarchia ottimatizia fiorentina. Nonostante la sua formazione umanistica, il giovane Lorenzo appartiene al versante materno, il che lo avvicina molto ai fratelli Pulci: opere di questa fase giovanile popolareggiante sono “Corinto”, “Apollo e Pan”, “Simposio”, “Uccellagione di starne”, “Nencia da Barberino” (testi nenciali costituiscono la lode parodistica delle bellezze della contadina Nencia, risolvendosi in un rovesciamento comico, rusticale della lunga tradizione cortese della “lode di Madonna”). La conversione finiciana Nel 1473, con la composizione del “ De summo bono”, Lorenzo cambia bruscamente registro: l’opera mette in scena l’immaginario dialogo fra Lauro (Lorenzo) e Marsilio (Marsilio Ficino), testimonianza del profondo rapporto di amicizia fra i due. Questo avvicinamento provoca l’allontanamento con i Pulci, che hanno dissapori con alcuni membri della brigata medicea. Lorenzo dunque riallaccia la cultura medicea con quello che era stato il suo programma originario, propugnato dal vecchio Cosimo. Segno di questa svolta letteraria è rilevabile anche nella lirica di ispirazione amorosa. Lorenzo de’ Medici comincia a scrivere poesie d’amore tra il 1464-65; continua seguendo un personale itinerario lirico e sentimentale, fino agli anni ’80, senza dare mai al suo canzoniere una forma compiuta. Ne risulta quasi un diario poetico, costituito da 108 sonetti, 8 canzoni, 5 sestine e 1 ballata, segno di evoluzione della poesia, dell’esperienza amorosa, del pensiero di Lorenzo. A questo si affianca la composizione del “Comento”, un prosimetro in cui raccoglie alcuni sonetti (dalle 41 “Rime”) e li commenta in prosa. È notevole che nell’ultima fase della sua poesie, Lorenzo risalga all’indietro lungo la genealogia della poesia amorosa toscana e riscopra non solo Dante, ma anche lo stilnovo, Cavalcanti. Lorenzo finisce col rintracciare e ridefinire la fisionomia di una tradizione culturale, letteraria e poetica in volgare. La congiura de’ Pazzi La signoria di Lorenzo conobbe il suo momento più critico nel 1478, con la congiura de’ Pazzi: il 26 aprile i congiurati decidono di attaccare Lorenzo e il fratello Giuliano durante la messa in Santa Maria del Fiore. Giuliano muore assassinato, Lorenzo invece riuscì a salvarsi barricandosi nella sacrestia con pochi amici. Questa congiura ottenne il risultato opposto a quello sperato dai Pazzi: il popolo fiorentino si solleva in difesa dei Medici, dando inizia ad un linciaggio dei congiurati. A quel punto, Lorenzo si reca di persona dal re di Napoli, massimo rappresentante dello schieramento antimediceo, e decise di negoziare la fine delle ostilità. La pericolosa missione napoletana si traduce in un trionfo personale di Lorenzo: d’ora in poi, la sua sapienza diplomatica ed abilità mediatrice gli guadagnano la fama di “ago della bilancia” della politica italiana. A questo difficile frangente napoletano si lega il documento più impegnativo della politica culturale di Lorenzo: la cosiddetta “Raccolta aragonese”, l’antologia di rime antiche che Lorenzo fece allestire tra il 1476-77 per il giovane Federico d’Aragona: una raccolta che conteneva 449 testi (Dante, Guinizzelli, Guittone, Cavalcanti, Cino da Pistoia, Giacomo da Lentini e lo stesso Lorenzo). L’assenza di Petrarca è dovuta o ad una indiscussa notorietà che non aveva bisogno di essere rimarcata o alla dimostrazione che la tradizione lirica italiana non è soltanto Petrarca, ma esiste un canone di autori. Trionfi e canti carnascialeschi Un aspetto dell’opera e della politica culturale di Lorenzo consiste nel suo personale coinvolgimento nelle feste fiorentine, occasione per eccellenza interclassista. Lorenzo lascia il suo segno, all’interno di questa produzione con un cospicuo numero di canzoni destinate ad accompagnare le mascherate di Carasciale oppure ad essere eseguite su carri trionfali. Il “canto carnascialesco” è propriamente una canzone cantata da un gruppo di figuranti che impersonano arti, mestieri, gruppi sociali, personaggi della cronaca cittadina e della storia contemporanea. I canti sono tutti testi a doppio senso osceno: letteralmente, sono descrizioni accuratissime di una particolare arte/mestiere/condizione umana. A livello del doppio senso, ogni oggetto/gesto del mestiere allude a pratiche e circostanze sessuali, secondo un codice difficile anche da decifrare. I Trionfi (fra i quali rientra il “Trionfo di Bacco e Arianna”) sono carri allegorici, ispirati alla mitologica classica che sfilavano in occasioni festive varie, ma specie per Carnevale. La fine di Lorenzo Al trionfo pubblico del Magnifico fanno riscontro però molti lutti e dolori privati: la disgraziata congiura de Pazzi si è portata via l’amatissimo fratello Giuliano (1478); nel 1482 muore la madre Lucrezia e nel 1488 muore la moglie Clarice. Nel frattempo, man mano che si allontana dal suo ruolo pubblico, Lorenzo cerca rifugio nella spiritualità, lontana dal neoplatonismo e più vicina alla devozione popolare (9 laude e “Rappresentazione di S. Giovanni e Paolo). Lorenzo, dopo aver portato a termine il progetto della Biblioteca Laurenziana, muore, circondato dai suoi amici, nel 1492. -Luigi Pulci Nella cerchia dei Medici. Luigi Pulci (1432-1484) nasce da una famiglia, di nobili origini, che però versava in condizioni alquanto precarie: alla morte del padre, si avvicina ai Medici. La sua cultura non è particolarmente raffinata: la sua formazione risente della frequenza alle lezioni fiorentine del dotto umanista Bartolomeo Scala, ma di fatto le sue conoscenze si limitano a rudimenti del latino e le sue letture riguardano Dante, Petrarca e Boccaccio. Nel 1461, il Pulci è ormai assiduo frequentatore del palazzo mediceo: Lorenzo e Luigi, ancora molto giovani, stringono una forte amicizia, soprattutto tra Luigi e la madre di Lorenzo (Lucrezia Tornabuoni), la quale avrebbe spinto Luigi alla composizione del “Morgante”. Una lettera del 4-12- 1470 sembra alludere ad un più ampio programma di rifacimento e riscrittura dei titoli più diffusi delle saghe cavalleresche francesi (il Danese e il Rinaldo). La prima edizione del Morgante (23 canti) uscì a stampa nel 1478, cui seguirono l’edizione di Ripoli (1481) e di Venezia (1482). Una diffusione a sé ebbe l’episodio di Morgante e Margutte. A questo primo Morgante in ventitré canti se ne aggiunsero poi altri 5 cantari, nell’edizione del “Morgante maggiore” (1483), che conclude la materia già nota con la storia del tradimento di Gano di Maganza e della morte di Orlando a Roncisvalle. Il Morgante. La trama dell’opera appare variegata e frammentaria, in conseguenza dei molti episodi che la compongono. Orlando, calunniato presso Carlo Magno da Gano, paladino malvagio e traditore, è costretto a partire per l’Asia. Fermatosi in un convento, scopre che i monaci sono oppressi da tre giganti. Il paladino si offre di liberare i monaci da questo tormento, e uccide infatti due dei giganti. Il terzo, Morgante, viene convertito e trasformato nello scudiero di Orlando. Il poeta riporta diverse avventure e incontri (come quello con Margutte, mezzo-gigante astuto e furbo, controparte perfetta dell’ingenuo Morgante). Giungono in Oriente altri cavalieri di Carlo Magno, di cui vengono ripercorse le imprese. Ma il malvagio Gano convince il re pagano Marsilio ad attaccare il regno di Francia. I paladini tornano così in Occidente. Orlando, nella retroguardia, viene sorpreso a Roncisvalle, dove i nemici avevano teso una trappola, e viene ucciso nel combattimento, non prima di aver suonato il suo corno, che attira l’attenzione dell’esercito di Carlo Magno, che accorre in suo aiuto, sbaragliando l’esercito pagano.
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