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bellavista controlli tecnologici, Dispense di Diritto del Lavoro

articolo del prof bellavista

Tipologia: Dispense

2013/2014

Caricato il 09/07/2014

giampaolo2
giampaolo2 🇮🇹

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Scarica bellavista controlli tecnologici e più Dispense in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI VENEZIA DIPARTIMENTO DI SCIENZE GIURIDICHE Corso di Laurea in Consulenti del Lavoro e delle Relazioni Sindacali CENTRO STUDI DI DIRITTO DEL LAVORO "DOMENICO NAPOLETANO" SEZIONE VENETO RELAZIONE CHE IL PROF. ALESSANDRO BELLAVISTA (professore straordinario di diritto del lavoro nell'Università di Palermo) HA PREPARATO PER IL CONVEGNO DI VENEZIA DEL 12 APRILE 2002 CON TEMA: "I poteri dell'imprenditore e la privacy del lavoratore" Sommario: 1. Premessa.- 2. La legge n. 675/1996 e la disciplina speciale del diritto del lavoro.- 3. I controlli tecnologici e l'art. 4 St. lav.- 4. Controlli tecnologici e misure di garanzia. 5. Alcuni casi di controllo tecnologico.- 6. Ipotesi e limiti del controllo occulto.- 7. Profili del trattamento dei dati personali dei lavoratori nel rapporto di lavoro pubblico.- 8. Il controllo tecnologico nel lavoro pubblico.- 9. Principio di finalità, sistema del diritto del lavoro e uso dei dati personali.- 10. Autoregolamentazione e disciplina di settore per il trattamento dei dati personali dei lavoratori.- 11. Azione sindacale e contrattazione collettiva. 1. Premessa. L'evoluzione tecnologica e i mutamenti delle forme organizzative delle imprese contribuiscono a creare sempre nuovi momenti di tensione in relazione all'assetto tra il legittimo esercizio dei poteri del datore e i contrapposti diritti dei prestatori di lavoro subordinato1. Particolarmente significativa è la vicenda che riguarda il potere del datore di raccogliere informazioni sui dipendenti e di controllarne l'operato. La questione è strettamente connessa al codice genetico del rapporto di lavoro, perché tale relazione contrattuale è dominata da un permanente flusso informativo tra le due parti e inoltre la funzionalità della stessa sarebbe compromessa se il datore non potesse controllare alcune manifestazioni del comportamento del lavoratore2. Pertanto, resta acceso il dibattito vertente 1 Cfr. Carinci, Rivoluzione tecnologica e diritto del lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1985, p. 203 ss.; Veneziani, Nuove tecnologie e contratto di lavoro: profili di diritto comparato, ivi, 1987, p. 1 ss.; Giugni, Lavoro leggi contratti, Il Mulino, Bologna, 1989, p. 121 ss.; Perulli, Il potere direttivo dell'imprenditore, Giuffrè, Milano, 1992; Bonazzi, Il tubo di cristallo, Il Mulino, Bologna, 1993; Revelli, Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, in Appuntamenti di fine secolo, a cura di Ingrao-Rossanda, Manifestolibri, Roma, 1995, p. 161 ss.; Bronzini, Dall'habeas corpus all' habeas mentem. Soft law e autoregolazione nel lavoro postfordista, in Dem. dir., 1996, p. 215 ss.; Zoli, Subordinazione e poteri dell'imprenditore tra organizzazione, contratto e contropotere, in Lav. dir., 1997, p. 252 ss. 2 Per tutti cfr. Simitis, Reconsidering the premises of labour law: prolegomena to an Eu-regulation on the protection of the employees' personal data, in Scritti in onore di Gino Giugni, tomo II, Cacucci, Bari, 1999, p. 1584 ss.; Däubler, Arbeitnehmerdatenschutz - ein Problem der EG?, in Informationsgesellschaft und Rechtskultur in Europa, a cura di Tinnenfeld-Philipps-Heil, Nomos, Baden-Baden, 1995, p. 11 ss.; Ghezzi-Romagnoli, Il rapporto di lavoro, 3° ed., Zanichelli, Bologna, 1995, p. 217 ss. 1 sull'individuazione dei limiti del potere del datore di controllare i dipendenti nonché di trattare le informazioni che li riguardano. Negli ultimi tempi, specie nel contesto italiano, s'è assistito ad una intensificazione dell'interesse su tali questioni; e che quindi meritano d'essere analizzate, almeno con riferimento a quegli aspetti su cui sembra al momento concentrarsi l'attenzione degli addetti ai lavori e soprattutto degli attori del mondo del lavoro. Infatti, nuove applicazioni delle tecnologie informatiche permettono il ricorso a forme di raccolta d'informazioni e di sorveglianza estremamente ampie e dettagliate, di fronte alle quali è indubitabile l'esigenza di porre un argine a tutela dei diritti e delle libertà fondamentali del lavoratore, tra cui il cosiddetto diritto all'autodeterminazione informativa ovvero il diritto alla privacy che concerne il diritto del singolo di controllare l'uso e la circolazione dei propri dati personali3 e quindi di mantenere il controllo sulle informazioni che lo riguardano4. Peraltro, il sistema giuridico italiano è caratterizzato dall'esistenza di regole generali e speciali applicabili all'attività del datore volta a sorvegliare l'operato del lavoratore e trattare le relative informazioni. Senonché, propria questa materia è contraddistinta da una permanente dialettica tra sistema normativo e progresso tecnologico e quindi propone un "tipico tema di armonizzazione strutturale del diritto alla società"5. E cioè, la realtà effettuale si presenta densa di casi e ipotesi di controllo a volte difficilmente afferrabili da fattispecie giuridiche coniate avendo presenti differenti contesti tecnologici ovvero in apparenza rese obsolete dalle continue novità tecnologiche. In effetti, i progressi scientifici e tecnologici sono in grado di rendere disponibili metodi di sorveglianza e di raccolta d'informazioni personali capaci di travolgere e di rendere inefficaci anche regole elaborate in tempi recenti, ma plasmate in funzione di un certo stadio di sviluppo tecnologico. Tutto ciò dimostra l'importanza, da un lato, di concepire meccanismi di garanzia non rigidi, ma il più possibile adattabili, grazie all'opera degli interpreti, alle innumerevoli sfaccettature dell'uso delle forme di sorveglianza; e, dall'altro, di accettare l'idea che la disciplina del trattamento delle informazioni personali e delle tecniche di sorveglianza non possa essere immutabile (o meglio destinata ad una lunga vita), ma anzi che debba essere costruita in modo tale da essere facilmente integrabile ovvero sostituibile mediante nuovi interventi regolativi, quando ciò fosse reso necessario dal mutamento del contesto tecnologico sulla cui base la medesima disciplina è stata elaborata6. 3 Cfr. Rodotà', Tecnologie e diritti, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 101; Stenico, Il trattamento dei dati personali del lavoratore subordinato: dalla segretezza al controllo, in La tutela della privacy del lavoratore, in Quad. dir. lav. rel.ind., n. 24, 2000, p. 124 ss. 4 Diritto questo che ora trova esplicita affermazione (non solo nelle leggi nazionali sulla protezione dei dati personali, come quella italiana, ma anche) nell'art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea: cfr. il commento di Donati, in L'Europa dei diritti, a cura di Bifulco-Cartabia- Celotto, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 83 ss. 5 Cfr. Giugni, Lavoro leggi contratti, cit., p. 355. 6 Cfr. Simitis, Arbeitnehmerdatenschutzgesetz - Realistische Erwartung oder Lippenbekenntnis?, in Arbeit und Recht, 2001, p. 432 ss. ; Rodotà, Diritto, diritti, globalizzazione, in Riv. giur. lav., 2000, p. 776 s. 2 di taluni dati personali". Ciò significa che le norme generali della legge n. 675/1996 vanno applicate in quanto compatibili con le norme speciali dello Statuto dei lavoratori (comprensive dei principi da esse ricavati in via ermeneutica: e cioè del diritto vivente) nonché con tutte le altre che, nel campo lavoristico, stabiliscono in materia di trattamento di dati personali, "divieti e limiti più restrittivi" rispetto a quelle della legge n. 675/1996. Così, tutte queste disposizioni, in caso di insanabile contrasto con quelle della legge n. 675/1996, prevarranno su di esse10. Sicché, il datore di lavoro, nel trattare dati sul conto dei lavoratori, resta obbligato all'osservanza delle regole e dei principi del sistema dogmatico del diritto del lavoro, come plasmato dalla combinazione dei contributi della legislazione, della dottrina e della giurisprudenza: e in particolare al rispetto degli artt. 2, 3, 4, 5, 6, e 8 dello Statuto dei lavoratori nonché degli artt. 5 (come risultante dalla lettura offerta dalla Corte costituzionale a seguito della sentenza n. 218/1994) e 6 della legge n. 135/1990. Tutte queste norme circoscrivono in modo più o meno esteso la possibilità del datore di raccogliere (e quindi trattare) alcune categorie di dati riguardanti i lavoratori o quantomeno limitano la facoltà di utilizzare alcune modalità di raccolta di dati, la cui conoscenza da parte del datore è di per sé lecita11. A questo punto, emerge chiaramente il ruolo cardine svolto dall'art. 8 St.lav. Sicché, tale norma continua ad individuare, in funzione della specifiche caratteristiche di ogni rapporto di lavoro, categorie di dati "supersensibili" dei quali è vietato ogni momento del trattamento12. Peraltro, nella prassi applicativa la disposizione ha assunto il valore di limite generale ai poteri del datore di lavoro, indipendentemente dall'integrazione della fattispecie penale da essa descritta. E questo perché si afferma che essa non solo vieta un'attività positiva d'indagine da parte del datore di lavoro sui fatti del lavoratore estranei al fine della valutazione dell'attitudine professionale, e cioè che non presentino alcuna correlazione funzionale con le mansioni da svolgere e quindi con l'esecuzione del contratto di lavoro, ma sancisce l'ulteriore principio (avente ovviamente rilievo meramente civilistico) secondo cui sarebbe illegittimo che si tenga conto nell'ambito del rapporto di lavoro di tale fatti comunque siano stati conosciuti13. Sicché, tale norma ha dimostrato di essere in grado di "varcare la soglia che ne delimita l'operatività all'area dei comportamenti illecitamente diretti ad acquisire notizie 'protette' per spingersi a sanzionare anche l'utilizzazione che il 10 Sul punto cfr. Buttarelli, Banche dati e tutela della riservatezza, cit., p. 555; e AIMO, I "lavoratori di vetro", cit., p. 106 ss. 11 Cfr., ampiamente, Aimo, I "lavoratori di vetro", cit. p. 49 ss.; Lambertucci, Trattamento dei dati personali e rapporto di lavoro, in La disciplina del trattamento dei dati personali, a cura di Cuffaro-Ricciuto, Giappichelli, Torino, 1997, p. 423 ss.; Chieco, Il diritto alla riservatezza del lavoratore, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1998, p. 1 ss.; nonché, volendo, Bellavista, Il controllo sui lavoratori, Giappichelli, Torino, 1995. 12 Cfr. Lambertucci, Svolgimento del rapporto di lavoro e tutela dei dati personali, in La tutela della privacy del lavoratore, cit. p. 71 ss. 13 Cfr. Cass. sez. un., 23 luglio 1981, n. 5736, in Foro. it, 1982, I, 111; Cass. sez. un., 11 dicembre 1979, n. 6452, ivi, 1980, I, 322; Brollo, Il rilievo del comportamento "privato" del lavoratore nel "pubblico" del rapporto di lavoro, in Giur. it., 1987, I, sez. I, c. 317 ss. 5 datore di lavoro faccia di tali notizie nella gestione del contratto di lavoro"14. In altre parole, è evidente come tale principio desumibile dall'art. 8 St.lav. contribuisca a precisare le condizioni di liceità dell'intero trattamento e di legittimità degli scopi da esso perseguiti. Beninteso, va precisato che questo principio generale, ricavato dall'art. 8 St.lav. (o, eventualmente, se si vuole, dallo Statuto nel suo complesso ovvero in particolare dalla combinazione degli artt. 1, 8 e 15 St.lav.:), non può assumere un atteggiamento "integralista", nel senso di imporre al datore di utilizzare, nel corso della fase di selezione e nell'amministrazione del rapporto, solo le informazioni strettamente pertinenti alla valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore. A parte il fatto che il concetto di attitudine professionale, proprio per temperare l'apparente rigidità della norma statutaria, è stato dilatato e reso abbastanza elastico dalle letture più diffuse, è logico ritenere che il suddetto principio generale (in modo coerente alla struttura di tali particolari componenti del sistema giuridico15) debba assumere, nella fase di concreta applicazione, contorni alquanto flessibili, mirando però ad assicurare in via tendenziale uno stretto collegamento tra le informazioni acquisibili sui lavoratori e la struttura del concreto rapporto di lavoro: e cioè di imporre che i suddetti dati, per potere essere legittimamente utilizzati, devono essere oggettivamente (alla stregua di standard e parametri di tipicità sociale) rilevanti ai fini della gestione dello specifico rapporto di lavoro che viene in questione e che l'uso di essi deve essere necessario per assicurare la funzionalità del medesimo rapporto16. Comunque, tutto ciò comporta che l'applicazione delle regole di cui agli art. 11, 12, 20 e 22 della legge n. 675/1996, per il trattamento dei dati ordinari e sensibili nel rapporto di lavoro privato, presuppone il preventivo accertamento della liceità della raccolta e dell'uso dei suddetti dati ordinari e sensibili ai sensi dell'interpretazione prevalente dell'art. 8 St.lav. Una volta fatto ciò, va valutata la legittimità del trattamento alla stregua delle appena citate regole della legge n. 675/1996. Ciò è stato confermato dalla prassi, perché, ogni volta che il Garante per la protezione dei dati personali s'è occupato di trattamenti di dati personali nell'area dei rapporti di lavoro, ha fatto esplicito richiamo alla necessità del rispetto delle disposizioni dello Statuto dei lavoratori, tra cui in particolare l'art. 8 St.lav. Peraltro, si consideri che il trattamento dei dati sensibili di cui all'art. 22 della legge n. 675/1996, è ammesso dal comma 1 di questa disposizione solo in presenza del consenso scritto dell'interessato e dell'autorizzazione del Garante. Beninteso, l'autorizzazione n.1/2002 (già n. 1/2000, n. 1/1999, n. 1/1998 e n.1/1997) del Garante al trattamento dei dati sensibili nei rapporti di lavoro privati, e l'autorizzazione n.5/2002 (e già n. 5/2000, n. 5/1999, n. 5/1998 e n. 5/1997) nella parte relativa all'attività di selezione del personale svolta da soggetti terzi rispetto alle parti del futuro rapporto, nell'individuare gruppi di dati sensibili di cui, a determinate condizioni, è lecito il trattamento nel rapporto di lavoro e nella fase di selezione del personale da assumere, hanno anche, seppure in via indiretta, fornito un utile contributo per meglio circoscrivere e definire l'ambito di operatività del divieto dell'art. 8 St.lav. e del principio da esso ricavato nei vari settori da esse considerati. 14 Chieco, Il diritto alla riservatezza, cit., p. 25. 15 Cfr. Guastini, voce Principi di diritto, in Digesto IV, Disc. priv., Sez. civ., vol. XIV, 1996, p. 341 ss; Mengoni, I principi generali del diritto e la scienza giuridica, in Dir. lav., 1992, I, p. 3 ss. 16 Cfr. Romagnoli, Sub. art. 8, in Ghezzi-Mancini-Montuschi-Romagnoli, Statuto dei diritti dei lavoratori, 2° ed., Zanichelli-Il Foro italiano, Bologna-Roma, 1979, p. 143 ss.; Trojsi, Sfera privata del lavoratore e contratto di lavoro, in La tutela della privacy del lavoratore, cit., p. 195 ss. 6 Più in generale, i requisiti di liceità del trattamento e di legittimità degli scopi da esso perseguiti, di cui all'art. 9 della legge n. 675/1996, vanno individuati e concretati in funzione dello specifico contesto del rapporto di lavoro, proprio in base alla direttiva dell'art. 8 St.lav. E inoltre tali requisiti influenzano anche i margini operativi dei cosiddetti presupposti di ammissibilità del trattamento. Ciò equivale a dire che - né grazie al consenso dell'interessato né mediante gli altri presupposti ad esso equipollenti - si può estendere lo spettro del trattamento a dati o scopi che non risultano coerenti con i predetti requisiti di liceità e legittimità. In sostanza, la disciplina speciale del diritto del lavoro fissa una soglia (pur flessibile, ma non arbitraria) al di là della quale non può spingersi il trattamento dei dati personali del lavoratore. Più precisamente, questa disciplina speciale ribadisce che, nel rapporto di lavoro, vi è un grappolo di beni del lavoratore intangibili dal datore e indisponibili dal medesimo prestatore di lavoro mediante il proprio consenso17. E tale conclusione trova una forte conferma nella analoga e consolidata interpretazione della normativa tedesca (già BDSG 1990 e ora BDSG 2001), laddove parimenti i principi e le regole del diritto del lavoro condizionano la concretizzazione delle clausole generali contenute nella legge sulla protezione dei dati e quindi disegnano i confini della possibilità del datore di raccogliere dati sui lavoratori, di procedere al trattamento dei medesimi nonché l'ambito di efficacia del consenso del lavoratore al trattamento dei propri dati18. Analoga impostazione è adottata dai documenti internazionali attualmente più rilevanti nell'area del trattamento dei dati personali dei lavoratori. La raccomandazione No. R(89) 2 del Consiglio d'Europa del 18 gennaio 1989 sulla protezione dei dati personali utilizzati per finalità di lavoro e il codice di condotta (Code of practice) dell'Ufficio internazionale del lavoro del 1996 sulla protezione dei dati personali dei lavoratori scelgono entrambe un criterio generale secondo cui la conditio sine qua non per il trattamento dei dati personali dei lavoratori è costituita dalla diretta connessione di ogni singolo dato con lo specifico rapporto di lavoro in questione19. Di conseguenza, il consenso del lavoratore, quando è previsto, non rappresenta mai l'unico (e quindi sufficiente) presupposto di legittimità del trattamento, ma (soprattutto nel codice dell'Ufficio internazionale del lavoro) viene accompagnato da condizioni e procedure volte a garantire lo stretto ancoraggio tra singole tipologie di dati raccolti e usati e oggettive finalità di gestione del rapporto di lavoro. A tal punto che viene sancito il divieto di trattamento di alcune categorie di dati, anche qualora vi fosse il consenso del lavoratore, e viene esclusa la possibilità che costui possa rinunciare all'esercizio dei propri diritti nei confronti del titolare del trattamento. 3. I controlli tecnologici e l'art. 4 St. lav. 17 Cfr. Chieco, Il diritto alla riservatezza, cit., p. 26. 18 Cfr. Däubler, Das Arbeitsrecht 2, 11 ed., Rowohlt, Reinbek bei Hamburg, 1998, p. 317 ss.; Wedde, Sub § 28, in Däubler-Klebe-Wedde, Bundesdatenschutzgesetz, Basiskommentar, Bund, Köln, 1996, p. 214 ss.; Fitting e altri, Betriebsverfassungsgesetz, 17 ed., Vahlen, München, 1992, p. 1071; Däubler, Das neue Bundesdatenschutz-gesetz und seine Auswirkungen im Arbeitsrecht, in Neue Zeitschrift für Arbeitsrecht, 2001, p. 876 s. 19 Cfr. il principio 6.1. della raccomandazione del Consiglio d'Europa, nonché i punti 47 ss. della relazione che accompagna la medesima raccomandazione; nonché i principi 5.1. ss. del codice dell'Ufficio internazionale del lavoro e pag. 23 ss. del commento allegato: ILO, Protection of workers' personal data, Geneva, 1997. 7 controllo informatico opportunamente limitate all’esclusivo perseguimento di giustificati interessi dell’azienda, e sottoposte al vaglio sindacale come previsto dal comma 2 dell’art. 4 St.lav., possano ottenere un giudizio positivo da parte di future pronunce della giurisprudenza. D'altra parte, esaminando attentamente la numerosa giurisprudenza sull'art. 4 St.lav., è rintracciabile in essa l'opzione prevalente per una interpretazione meno rigida della disposizione volta ad ammettere l'installazione di apparecchiature direttamente destinate a controllare l'attività del lavoratore, purché sia accertata la presenza di rigorose e oggettive condizioni di tipo organizzativo, produttivo e di sicurezza del lavoro, e sia rispettata la procedura di codeterminazione di cui al comma 2 dell'art. 4 St. lav.25. Un ulteriore argomento a sostegno della lettura della disposizione qui suggerita può essere ricavato dalla disposizione contenuta nel paragrafo 3 dell’allegato VII al d.lgs. n. 626/1994 (integrato e modificato con le correzioni apportate dall’art. 29 del d.lgs. n. 242/1996) che fissa “prescrizioni minime” costituenti parte integrante del titolo VI del d.lgs. n. 626/1994 in materia di “uso di attrezzature munite di videoterminali”. Proprio nel citato paragrafo 3 dell’allegato VII – nella parte relativa all’interfaccia elaboratore/uomo – si trova la disposizione secondo cui “all’atto dell’elaborazione, della scelta, dell’acquisto del software, o allorché questo viene modificato... il datore terrà conto” che “nessun dispositivo o controllo quantitativo o qualitativo può essere utilizzato all’insaputa dei lavoratori” e che “il software deve essere adeguato alla mansione da svolgere”. In effetti, se la disposizione del paragrafo 3 dell’allegato VII esclude la possibilità del controllo informatico all’insaputa dei lavoratori, si potrebbe ritenere che essa presupponga l’ammissibilità del controllo informatico quando sia svolto in modo palese o quantomeno avendo preventivamente avvertito i lavoratori della possibilità del controllo. E se questa disposizione presuppone l’ammissibilità di un tipo di controllo informatico, ciò significa che essa accoglie l’idea della legittimità del medesimo controllo alla stregua della norma base del sistema: vale a dire dell’art. 4 St.lav. In altri termini, la disposizione va coordinata con l’enunciato di cui al comma 1 e con la procedura di cui al comma 2 dell’art. 4 St.lav. e da ciò si può ricavare che essa ammetta una lettura più flessibile dell’art. 4 St.lav., ma al tempo stesso stabilisce ben precisi limiti all’uso dei software dotati di potenzialità di controllo e applicabili “alle attività lavorative che comportano l’uso di attrezzature munite di videoterminale” alla stregua dell’art. 50 del d.lgs. n. 626/1994. Questo fa sì che una volta decisa l’ammissibilità del controllo soprattutto in base all’art. 4 St.lav. (e anche della legge n. 675/1996) bisognerà osservare le condizioni poste dal paragrafo 3 dell’allegato VII al d.lgs. n. 626/1994: condizioni che impongono la preventiva informazione del lavoratore della possibilità del controllo. 4. Controlli tecnologici e misure di garanzia. Va subito detto che un'interpretazione flessibile dell'art. 4 St.lav., volta ad ammettere la possibilità di controlli diretti sull'attività dei lavoratori, svolti mediante apparecchiature tecniche, è ancorata all'adozione di un metodo esegetico assai prudente e che tenga conto di vari elementi. Anzitutto, non va trascurato che nell'art. 4 St.lav., come dimostrano la genesi della disposizione e la sua lunga vicenda applicativa, v'è il ripudio di controlli svolti tramite 25 Cfr. Cass. 17 giugno 2000, n. 8250, in Not. giur. lav., 2000, p. 711; Stenico, La tutela della riservatezza del lavoratore nell'esercizio della prestazione, in La tutela della privacy del lavoratore, cit., p. 169 ss.; Chieco, Telelavoro, cit., p. 11 ss.; e Bellavista, Il controllo, cit., p. 106 ss. 10 apparecchiature tecniche che vadano oltre una "dimensione umana" e cioè siano totalizzanti e capaci di afferrare ogni momento dell'attività dei lavoratori. Poi, dovrebbe essere chiaro che l'art. 4 St.lav., proprio nel regolare una forma di controllo sui lavoratori, non fa altro che fissare dei limiti all'esercizio di un potere contrattuale del datore che interferisce con la libertà e la dignità del lavoratori: e quindi la disposizione interviene in un'area in cui vengono in gioco diritti fondamentali della persona umana, che, com'è noto, possono subire delle restrizioni in determinati contesti, in funzione della tutela di altri interessi ritenuti prevalenti, ma mai essere completamente annullati. D'altra parte sono troppo noti gli effetti devastanti, proprio a danno della libertà e dei diritti fondamentali del singolo, che possono essere provocati dall'uso indiscriminato delle forme di controllo e di trattamento dei dati personali rese possibili dalle nuove tecnologie26. Tutto ciò spinge ad utilizzare come chiave di lettura dell'enunciato normativo alcuni principi tipici cui si fa ricorso quando si tratta di vagliare la legittimità delle restrizioni ai diritti fondamentali27: e cioè i principi di indispensabilità e di proporzionalità28. Beninteso, il controllo tecnologico può apparire legittimo, solo quando esso sia indispensabile, vale a dire quando non esiste alcuna altra possibilità, meno restrittiva per la libertà e la dignità del lavoratore, per il perseguimento di uno scopo del datore ritenuto nel caso concreto meritevole di tutela. Quindi, va preliminarmente vagliata la presenza di un interesse del datore, ritenuto meritevole di apprezzamento e quindi di soddisfazione. Poi, come s'è già accennato, va accertato che per la garanzia di tale interesse sia indispensabile l'attivazione del controllo tecnico. E così, il parametro dell'indispensabilità induce a ritenere ammissibile il controllo tecnologico solo in via di extrema ratio. Inoltre, anche se il controllo è così valutato legittimo, esso deve comunque svolgersi nel modo che consenta di ridurre al minimo la lesione dei contrapposti interessi del lavoratore, pur realizzando lo scopo meritevole di tutela perseguito dal datore. Principi del genere non costituiscono una novità, ma anzi trovano significativo riscontro nell'esperienza comparata. Ad esempio, in Francia, il principio di proporzionalità è affermato esplicitamente, in via legislativa, come criterio base di verifica della legittimità delle restrizioni apportate ai diritti della persona e alle libertà individuali e collettive in funzione dell'esercizio dei poteri del datore. Sicché, facendo 26 Cfr. Simitis, Developments in the protection of workers' personal data, in ILO, Workers' privacy, Protection of personal data, n. 2/1991, Geneva, 1992, p. 10 ss.; Lyon, L'occhio elettronico, Feltrinelli, Milano, 1997, spec. p. 100 ss. e p. 171 ss. 27 L'impostazione esegetica prescelta nel testo si collega alle osservazioni già svolte in Bellavista, Il controllo, cit., p. 65 ss. e p. 99. Sulla stessa lunghezza d'onda, anche se con argomentazioni diverse, cfr. Chieco, Telelavoro, cit., p. 9 ss.; Stenico, La tutela, cit., p. 176 ss.; Ghezzi e Liso, Computer e controllo dei lavoratori, cit., rispett. p. 365 s. e p. 378 ss. 28 Il fondamento dogmatico di tali principi può essere rintracciato nel ruolo primario assegnato alla tutela della persona nel sistema costituzionale, alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza e dell'art. 9 della legge n. 675/1996. Per suggestive indicazioni cfr. Rodotà', Persona, cit., p. 583 ss.; Perulli, La buona fede nel diritto del lavoro, in Riv. giur. lav., 2002, I, p. 3 ss.; nonché Montuschi, Ancora sulla rilevanza della buona fede nel rapporto di lavoro, in Arg. dir. lav., 1999, p. 723 ss.; Zachert, Ein Mosaik von Arbeitnehmergrundrechten im Grundgesetz, in Betriebs- Berater, 1998, p. 1310 ss.; Tullini, Clausole generali e rapporto di lavoro, Maggioli, Rimini, 1990; Zoli, La tutela delle posizioni "strumentali" del lavoratore, Giuffrè, Milano, 1988. 11 ricorso a tale principio, e ad altre regole generali, s'è mosso il Garante per la protezione dei dati francese (la CNIL) proprio nel valutare l'ammissibilità di forme di controllo informatico in azienda29. E soprattutto va ricordata l'esperienza tedesca. Qui esiste una disposizione legale, il § 87 del BetrVG che si limita a sancire la necessità della codeterminazione del Betriebsrat quando il datore intenda installare apparecchiature destinate a controllare il comportamento o il rendimento del lavoratore30. Ma tale disposizione non stabilisce che, una volta rispettata la procedura di codeterminazione, sia sempre lecita tale installazione. Anzi, la liceità dell'installazione di apparecchiature di controllo dipende, alla stregua di un costante orientamento della giurisprudenza e della dottrina, da una valutazione volta a bilanciare nel caso concreto l'interesse perseguito dal datore e le singole manifestazioni del diritto generale della personalità del lavoratore che vengono coinvolte dalla specifica forma di sorveglianza. E questa valutazione viene operata con molta prudenza, considerando e distinguendo le varie ipotesi che si possono presentare, cercando di ridurre al minimo l'intromissione nella sfera della personalità del lavoratore, pur consentendo la soddisfazione del legittimo interesse datoriale. Sicché, gli attori della procedura codeterminativa possono regolare in concreto l'uso della specifica forma di sorveglianza, ma devono tenere in conto l'esigenza di garantire il diritto generale della personalità del lavoratore: e quindi il loro potere regolativo non è illimitato, bensì orientato dall'esigenza di rispettare il diritto citato dalle cui specifiche manifestazioni sono desumibili articolati confini all'utilizzazione di ogni singolo mezzo di controllo31. Un approccio così accorto alla problematica della sorveglianza tecnologica ha trovato concretizzazione nel codice di condotta sulla protezione dei dati personali dei lavoratori del 1996, elaborato in seno all'Ufficio internazionale del lavoro. Benché il codice non abbia alcuna forza vincolante, l'autorevolezza dell'organo da cui promana lo rende degno della massima attenzione sia da parte degli attori individuali e collettivi sia degli stessi legislatori nazionali. In primo luogo, il codice adotta un concetto di sorveglianza estremamente ampio. Infatti si dice che il termine "monitoring" (e quindi controllo o sorveglianza) "comprende (ma non è limitato a) l'uso di apparecchiature, come computer, macchine fotografiche, impianti audiovisivi, registratori di suoni, telefoni e altri mezzi di comunicazione, vari metodi per stabilire l'identità e la posizione, o ogni altro metodo di sorveglianza". E' evidente che una nozione così aperta del concetto di controllo è formulata proprio per evitare il problema che la disciplina sostanziale sia resa inapplicabile dall'affacciarsi di una nuova forma di sorveglianza (si pensi alle tecniche biometriche oggi sempre più diffuse) che 29 Cfr. Commission nationale de l'informatique et des libertés (da ora CNIL), La cybersurveillance sur les lieux de travail, 5 febbraio 2002, reperibile sul sito Internet della Commissione. 30 Per un quadro completo dei presupposti normativi che, nel sistema tedesco, consentono alla rappresentanza dei lavoratori di partecipare, con varie forme di intensità, alle decisioni del datore, privato e pubblico, di raccogliere e trattare dati personali dei lavoratori cfr. Simitis, Zur Mitbestimung bei der Verarbeitung von Arbeitnehmerdaten - eine Zwischenbilanz, in Recht der Datenverarbeitung, 1989, p. 49 ss. 31 Cfr. Lindemann-Simon, Betriebsvereinbarungen zur E-Mail-, Internet und Intranet-Nutzung, in Betriebs-Berater, 2001, spec. p. 1953 ss.; Balke-Müller, Arbeitsrechtliche Aspekte beim betrieblichen Einsatz von e-mails, in Der Betrieb, 1997, p. 327 ss.; Simitis, Mitbestimmung als Regulativ einer technisierten Kontrolle von Arbeitnehmern, in Neue Juristische Wochenschrift, 1985, p. 403. 12 perché, nel caso in cui non si raggiungesse l'accordo, il datore potrebbe sempre ottenere un provvedimento sostitutivo da parte dell'autorità amministrativa, ovviamente qualora quest'ultime ritenesse giustificata la richiesta datoriale. Altro caso di controllo su cui di recente s'è concentrata particolare attenzione, è quello effettuato sull'uso dei collegamenti Internet e della posta elettronica da parte dei lavoratori, per fini diversi da quelli ammessi dalla direzione aziendale34. Per quanto concerne l'uso di Internet, dalla parte delle aziende si sostiene la necessità di tale controllo per evitare che i dipendenti, durante l'orario di lavoro, si dedichino ad attività diverse da quelle corrispondenti al rispetto degli obblighi contrattuali (per esempio trascorrendo un notevole arco di tempo con collegamenti alle cosiddette chat-line o ai forum di discussione telematici), oppure per impedire che, grazie alle enormi potenzialità di tale forma di circolazione delle informazioni, i lavoratori provochino danni all'impresa, per esempio collegandosi a siti cosiddetti a pagamento (come quelli pornografici, o quelli che distribuiscono musica e altri giochi), con l'effetto che i relativi costi appunto vengano addossati all'azienda. A questo riguardo va preliminarmente detto (e l'osservazione vale in generale per i rapporti tra tecnologia e diritti della persona) che il fatto che lo sviluppo tecnologico consente certe forme di sorveglianza, ciò non significa che il loro uso sia lecito alla stregua dei principi del sistema giuridico35. Se si pensasse così verrebbero travolte le ragioni che hanno rappresentato la base della nascita e della permanenza di quel settore dell'esperienza giuridica che è costituito dal diritto del lavoro: il quale è permeato dallo sforzo di realizzare un costante bilanciamento tra le esigenze dell'impresa e i diritti della persona che lavora36. Beninteso, va poi messo in evidenza che la moderna tecnologia consente di evitare i rischi poc'anzi citati. In effetti, con costi irrisori i sistemi informatici aziendali potrebbero essere dotati di meccanismi (di cosiddetto filtraggio) tali da bloccare l'accesso, via Internet, a siti non autorizzati o non ritenuti utili ai fini lavorativi. In questo modo con semplici accorgimenti tecnici, non vi sarebbe nemmeno l'esigenza di effettuare controlli in quanto il comportamento indesiderato non potrebbe a priori essere realizzato. E pertanto, in questa ipotesi, è difficile realizzare l'integrazione del principio di indispensabilità del controllo tecnologico, che, come s'è visto in precedenza, rappresenta una delle tappe del percorso volto ad accertarne la legittimità. Sicché, se un datore ritenesse di dovere attivare una forma di controllo del genere, senza prima verificare la possibilità di utilizzare tecniche in grado di evitare la stessa necessità del controllo, porrebbe in essere una violazione dell'art. 4 St.lav. e anche della stessa legge n. 675/1996. In effetti, tale controllo realizzerebbe un trattamento non necessario alla stregua della lettera b) del comma 1, dell'art. 12 della legge n. 675/1996, oppure violerebbe il principio della pertinenza e della non eccedenza dei dati di cui alla lettera d) del comma 1 dell'art. 9 della medesima legge e quindi sarebbe del tutto illecito. Non va trascurato che, come ammette lo stesso Garante per la protezione dei dati personali francese "un divieto generale e assoluto di utilizzare Internet per fini diversi da quelli professionali non sembra realistico in una società dell'informazione e della 34 Cfr. ampiamente CNIL, La cybersurveillance sur les lieux de travail, cit., p. 2 ss.; Däubler, Internet und Arbeitsrecht, Bund, Frankfurt am Main, 2001. 35 Cfr. Rodotà, Tecnologie e diritti, cit., p. 114 ss. e p. 143 ss. 36 Per tutti, cfr. Mengoni, Diritto e valori, Il Mulino, Bologna, 1985, p. 127 ss. 15 comunicazione". E quindi "un uso ragionevole, non suscettibile di ridurre le condizioni d'uso a fini professionali e che non comprometta la produttività, appare generalmente e socialmente ammissibile nelle maggior parte delle imprese e delle amministrazioni pubbliche"37. Orbene, potrebbe verificarsi il caso in cui la particolare attività del lavoratore rende necessario che egli abbia un completo accesso a Internet oppure che la stessa impresa, per libera scelta diretta a creare un tranquillo clima aziendale, voglia consentire ai propri dipendenti, nei momenti di pausa, la possibilità di utilizzare la rete per motivi personali. Ma al tempo stesso sorge l'esigenza di evitare che si verifichino abusi e quindi uno sfruttamento abnorme del sistema telematico. Anche in questi casi, è possibile adottare soluzioni volte a restringere il controllo allo stretto indispensabile. Nell'ipotesi di lavoratori la cui particolarità della mansione rende necessario l'accesso libero ad Internet, potrebbero essere effettuati dei controlli congiunti tra azienda e sindacato per accertare se l'uso di Internet sia andato verso siti assolutamente non corrispondenti alle esigenze lavorative. I dati relativi alle varie connessioni andrebbero registrati, controllati a campione e successivamente cancellati38. Oppure, qualora l'impresa conceda ai lavoratori l'uso di Internet per motivi personali, durante le pause di lavoro o in altri spazi discrezionalmente individuati, l'uso abnorme potrebbe essere evitato ricorrendo ai meccanismi di filtraggio di cui s'è detto. Si tratterebbe di bloccare del tutto l'accesso a determinate tipologie di indirizzi ritenuti "deprecabili" e consentire la navigazione verso tutti quelli restanti: in effetti, è ben diverso il caso del collegamento ad un sito a pagamento (da cui si può scaricare musica, programmi per giochi elettronici, immagini pornografiche) o generalmente riprovevole, come quelli che espongono idee politiche, razziali e sessuali estreme, rispetto al caso del lavoratore che usi Internet per effettuare una prenotazione di un viaggio, si informi sull'orario di apertura di un museo, o si legga un documento sindacale. Altra soluzione potrebbe essere quella di accollare i costi del collegamento verso i siti non autorizzati per motivi di servizio, e pertanto non riconosciuti dal sistema informatico aziendale, direttamente in capo al lavoratore, e quindi in questo modo verrebbe indirettamente disincentivata la connessione a siti a pagamento (che, com'è noto, sono alquanto costosi). Resta l'ipotesi in cui v'è l'esigenza di evitare che l'uso di Internet distragga il lavoratore dallo svolgimento della prestazione lavorativa, ovvero di impedire che il dipendente ricorra ad Internet per motivi personali anche al di fuori dei momenti autorizzati dall'azienda. Per soddisfare questa ragionevole esigenza andrebbero introdotti meccanismi in grado di individuare il ricorso alla rete telematica che superi l'arco temporale eventualmente consentito. Per esempio, se si assegnano tot minuti di collegamento libero durante l'arco della giornata, il sistema informatico inizierebbe a registrare i collegamenti che sforano la durata così stabilita e quindi si potrebbero accertare i comportamenti scorretti. Sicché, il dipendente, avendo conoscenza di non potere abusare delle facoltà concesse, sarà inevitabilmente portato a limitare i collegamenti per il tempo assegnato. Ovviamente, le possibili forme di controllo qui brevemente suggerite andrebbero attivate rispettando la procedura codeterminativa di cui all'art. 4 St.lav., in modo tale da modellare le modalità di verifica alle specifiche esigenze concrete di ogni realtà aziendale. 37 CNIL, La cybersurveillance sur les lieux de travail, cit., p. 10. 38 Cfr. le indicazioni di Lindemann-Simon, Betriebsvereinbarungen, cit., p. 1955. 16 Alla luce delle considerazioni svolte, desta notevoli perplessità la recente decisione di un giudice che ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa di una lavoratrice, perché, invece di svolgere i propri compiti, avrebbe trascorso lunghi periodi di tempo collegandosi ad Internet, proprio in assenza di effettive necessità lavorative. La prova di tale comportamento illecito viene ottenuto non solo facendo ricorso alle testimonianze dei colleghi, ma anche alle registrazione dei collegamenti operate dal fornitore del servizio Internet39. Ciò che lascia sorpresi del percorso argomentativo del giudice è che non vi sia stata alcuna verifica della legittimità del controllo tecnico così svolto alla stregua dell'art. 4 St.lav.: come se appunto tale disposizione non fissasse limiti all'utilizzo del controllo tecnologico. Riguardo all'utilizzazione della posta elettronica, oltre a tenere presente quanto già detto, vanno svolte ulteriori osservazioni. Anzitutto, la posta elettronica - sia che corre su linee esterne come Internet sia quella che circola sulle linee interne alle aziende: come Intranet - spesso rappresenta un indispensabile strumento di lavoro. Il datore di lavoro può avere la necessità di verificare il contenuto della posta elettronica per accertare che i dipendenti svolgano correttamente i propri compiti lavorativi. Poi sorge l'esigenza di evitare che i lavoratori usino la posta elettronica per motivi personali, distraendosi dai compiti contrattuali oppure di impedire che tramite la posta elettronica vengano rivelate informazioni aziendali riservate o segrete o vengano commessi gravi comportamenti illeciti, come la diffusione di messaggi diffamatori, la realizzazione di molestie sessuali, di forme di mobbing e così via. Tuttavia, pare possibile ritenere che, attraverso un approccio ragionevole ed equilibrato, queste condivisibili esigenze aziendali possano trovare adeguata soddisfazione. Certo, non va trascurato di ricordare che qui si apre la questione se la posta elettronica sia assimilabile ad una forma di comunicazione e quindi goda della relativa tutela civile e penale. La risposta non può che essere positiva, anche alla luce delle indicazioni che provengono dal quadro legislativo (cfr. la legge 23 dicembre 1993, n. 547) e dalla pronunce del Garante italiano per la protezione dei dati personali40. Però, nulla esclude che il controllo sulla posta elettronica possa essere giustificato in presenza di motivi particolarmente validi. D'altra parte, è noto come la portata dei diritti fondamentali possa atteggiarsi in modo differente a seconda del contesto in cui essi si esplicano. E che nel rapporto di lavoro, stante l'implicazione della persona del lavoratore nello svolgimento dello stesso, si assiste ad un continuo bilanciamento tra pretese datoriali e diritti dei prestatori di lavoro41. Pertanto, se la posta elettronica rappresenta realmente un indispensabile strumento di lavoro, da cui possa evincersi il corretto adempimento dell'obbligazione lavorativa, il 39 T. Milano 8 giugno 2001, in D & L, 2001, p. 1067 ss. 40 Cfr. il comunicato stampa del Garante del 12 luglio 1999, in Cittadini e società dell'informazione, Bollettino, n. 9, 1999, p. 96 s. Sulla tutela penale delle comunicazioni informatiche o telematiche cfr. Dolcini-Marinucci, Codice penale commentato, Ipsoa, Milano, 2000, p. 3248 ss.; Pecorella, Il diritto penale dell'informatica, Cedam, Padova, 2000, p. 281 ss. 41 Cfr. Del Rey Guanter, Diritti fondamentali della persona e contratto di lavoro: appunti per una teoria generale, e Magnani, Diritti della persona e contratto di lavoro: l'esperienza italiana, entrambi in Diritti della persona e contratto di lavoro, in Quad. dir. lav. rel. ind., n. 15, 1994, rispett. p. 9 ss. e p. 47 ss.; Valdés Dal-Ré, I poteri dell'imprenditore e la persona del lavoratore, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1991, p. 45 ss. 17 periodi di assenza dal lavoro46. D’altra parte, l’avviso preventivo della possibilità di forme di controllo (anche occulto) potrebbe rientrare nell’informativa che viene fornita all’atto della nascita del rapporto, senza che sia necessario ripetere l’informativa ogni volta che si faccia scattare la vigilanza. E un argomento a sostegno di questa lettura può essere rintracciato nella già citata disposizione contenuta nel paragrafo 3 dell’allegato VII al d.lgs. n. 626/1994, secondo cui “all’atto dell’elaborazione, della scelta, dell’acquisto del software, o allorché questo viene modificato... il datore terrà conto” che “nessun dispositivo o controllo quantitativo o qualitativo può essere utilizzato all’insaputa dei lavoratori”. Ciò significa che una volta decisa l’ammissibilità del controllo, soprattutto in base all’art. 4 St.lav. e delle citate disposizioni della legge n. 675/1996 (artt. 9 e 12), bisognerà osservare le condizioni poste dal paragrafo 3 dell’allegato VII al d.lgs. n. 626/1994: condizioni che impongono la preventiva informazione del lavoratore della possibilità del controllo, ma permettono l'attivazione di specifici controlli occulti in casi particolarmente gravi, come, per esempio, quelli menzionati dal codice di condotta dell'Ufficio internazionale del lavoro. Tutte le misure qui suggerite dovrebbero essere contenute, e ovviamente concretate in modo dettagliato, negli accordi o nei provvedimenti scaturenti dalla procedura codeterminativa di cui al comma 2 dell'art. 4 St.lav., che comunque costituirebbero la sede idonea per bilanciare le contrapposte esigenze in campo. Va sottolineato che il rispetto di siffatta procedura codeterminativa rappresenta solo uno dei tasselli per la legittimità dell'attivazione del controllo, perché devono essere sempre presenti anche le condizioni sostanziali di cui al comma 2 dell'art. 4 St.lav. (le esigenze organizzative, produtive e di sicurezza del lavoro, come qui interpretate) che giustificano il controllo: e quindi un accordo o un provvedimento amministrativo che ammettessero forme di sorveglianza in mancanza delle suddette condizioni sostanziali potrebbero essere impugnati dal dipendente dissenziente per ottenere una declaratoria di illegittimità. 7. Profili del trattamento dei dati personali dei lavoratori nel rapporto di lavoro pubblico. Come s'è già accennato, un fatto estremamente importante è che la legge n. 675/1996 contiene un regime differenziato tra trattamento effettuato da soggetti privati (e da enti pubblici economici) e da soggetti pubblici: i primi possono trattare i dati ordinari o comuni alla stregua degli artt. 11 ss. e 20 e i dati sensibili rispettando l'art. 22, commi 1 e 2, della legge n. 675/1996 (nonché le autorizzazione emanate in forza di tale ultima prescrizione e dell'art. 41, comma 7, della legge); i secondi (cioè i datori di lavoro pubblici), i dati ordinari o comuni ai sensi dell'art. 27, e i dati sensibili osservando l'art. 22, comma 3 (che è stato novellato dall'art. 5, comma 2, del dlgs. n. 135/1999). La diversità delle norme di riferimento non ha solo rilievo formale, ma si esprime anche in una radicale divergenza della disciplina del trattamento dei dati personali nei due settori. E, a seguito di ciò, sarebbe anche diversa la disciplina del trattamento dei dati personali tra lavoro privato e pubblico. Fin dall'entrata i vigore della legge n. 675/1996 non è sembrato possibile colmare tale ingiustificata disparità di trattamento tra lavoro pubblico e privato attraverso una calibrata interpretazione della normativa esistente. Ciò perché, pur nella loro notevole generalità ed astrattezza, gli artt. 27 e 22, comma 3, sono chiaramente diretti a regolare ogni "trattamento 46 Cfr. la Newsletter 8-14 gennaio 2001, nel sito Internet del Garante: Garanteprivacy.it. 20 da parte di soggetti pubblici" e quindi anche quello che riguarda i dati dei dipendenti dei medesimi soggetti. Le due fonti di diritto internazionale attualmente più rilevanti in ordine al trattamento dei dati personali dei lavoratori, la raccomandazione del Consiglio d'Europa del 1989 (sui dati utilizzati per finalità di lavoro), e il Codice dell'Ufficio internazionale del lavoro dettano principi comuni ai trattamenti dei dati dei lavoratori dei due settori ed ammettono deroghe solo per alcuni frammenti dell'area pubblica stricto sensu (come la sicurezza dello Stato o la pubblica sicurezza e la lotta alla criminalità) ed esclusivamente in presenza di condizioni alquanto rigide; ma esse non sono giuridicamente vincolanti. Certo, il Governo italiano, se avesse esercitato quella parte della delega di cui alla legge n. 676/1996 che lo impegnava a varare una normativa specifica per il trattamento dei dati personali nel rapporto di lavoro, avrebbe dovuto tenere conto di tale indicazione della raccomandazione del Consiglio d'Europa. Si ricorda infatti che la suddetta raccomandazione era richiamata espressamente tra i principi e criteri direttivi che avrebbero dovuto guidare il Governo nell'esercizio della delega di cui alla legge n. 676/1996. Tuttavia, stante che la delega (più volte prorogata) è scaduta, la raccomandazione al momento potrebbe solo aiutare nell'interpretazione di disposizioni nazionali che abbiano un certo margine di elasticità semantica: cosa che non si verifica in questo frangente in cui è evidente il significato delle citate regole italiane. Semmai, alla stregua del diritto positivo, può essere prospettata una questione di legittimità costituzionale, per violazione dell'art. 3 Cost., degli artt. 27 e 22, comma 3, della legge n. 675/1996 in quanto applicabili in toto anche a tutti i rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni: e il risultato più probabile è che la Corte costituzionale possa limitarsi a trovare ragionevole tale regime separato solo per alcuni specifici rapporti di pubblico impiego, in cui il rapporto di lavoro è massimamente permeato dal perseguimento dell'interesse pubblico o da motivi di sicurezza pubblica o di ordine pubblico (alla stregua delle indicazioni della citata raccomandazione del Consiglio d'Europa e anche del codice dell'Ufficio internazionale del lavoro). Né un decisivo aiuto può provenire dalla direttiva comunitaria 95/46/Ce - che ha costituito la molla definitiva per il varo della legge n. 675/1996 - la quale detta prescrizioni tendenzialmente comuni ai trattamenti che avvengono nei due settori. Ma, a ben vedere, tale omogeneità delle regole è appunto solo tendenziale, perché vengono fatte salve ampie possibilità di deroga - giustificate "dall'esercizio di pubblici poteri" o da "un compito di interesse pubblico" - alle norme comuni e va tenuto conto che molti trattamenti posti in essere dai soggetti pubblici sfuggono ab origine alla competenza del legislatore comunitario: cfr., per esempio, il considerando 13 e gli artt. 7, 8, 13 della direttiva. Ma il punto centrale della questione è un altro: in considerazione della storia della legislazione della protezione dei dati personali, la preoccupazione maggiore della direttiva è stata quella di spingere gli Stati membri a garantire la tutela dei cittadini nei confronti dei trattamenti posti in essere da soggetti privati. Ciò perché la direttiva ha sullo sfondo i deficit di tutela delle legislazioni dei Paesi europei che sono nate per regolare i trattamenti in ambito pubblico (all'origine della problematica della protezione dei dati ritenuti i più pericolosi per le persone) e, mirando a realizzare questo obiettivo primario, solo a fatica e non sempre, sono state estese (e in genere in modo meno garantista) a toccare i trattamenti operati dai soggetti privati. Infatti, in Germania, dove - alla stregua della precedente legge federale sulla protezione dei dati personali del 1990 - il trattamento da parte di soggetti pubblici era assoggettato a regole più rigide di quelle operanti nell'area privata (e la stessa differenza si ripercuoteva sui trattamenti dei lavoratori dei due settori), la direttiva comunitaria è stata 21 vista come una ghiotta occasione per potere innalzare il livello di tutela nel settore privato47. Eppure, in Italia, la direttiva potrebbe essere invocata dai lavoratori pubblici (in forza della teoria dell'efficacia diretta solo verticale delle direttive qualora il regime del trattamento dei loro dati personali fosse inferiore agli standard comunitari - a questo riguardo non rileva che la tutela dei lavoratori pubblici sia meno forte di quella di cui godono i lavoratori privati - e qualora questo gap di tutela non potesse godere delle esenzioni consentite dalla normativa comunitaria; così, attraverso tale verifica si potrebbe pervenire alla eventuale disapplicazione della disciplina italiana. Comunque, il Governo italiano ha con pervicacia confermato l'esistenza di un regime differenziato del trattamento tra lavoro pubblico e privato, quando, con il d.lgs. 11 maggio 1999, n. 135, emanato sulla base della legge delega n. 676/1996, ha definito "i principi generali in base ai quali i soggetti pubblici... sono autorizzati a trattare dati sensibili o attinenti a particolari provvedimenti giudiziari ai sensi degli artt. 22, comma 3 e 24" della legge n. 675/1996"; inoltre, ha individuato "alcune rilevanti finalità di interesse pubblico, per il cui perseguimento è consentito detto trattamento, nonché le operazioni eseguibili e i tipi di dati che possono essere trattati"; infine, ha dettato "alcune disposizioni integrative" della legge n. 675/199648. In particolare, l'art. 9 del d.lgs. n. 135/1999 afferma che "ai sensi dell'art. 1, si considerano di rilevante interesse pubblico le attività dirette all''instaurazione ed alla gestione di rapporti di lavoro di qualunque tipo, dipendente o autonomo, anche non retribuito o onorario o a tempo parziale o temporaneo, e di altre forme di impiego che non comportano la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato". Poi, il comma 2, dell'art. 9 del d.lgs. n. 135/1999 procede ad individuare tutta una serie di trattamenti che si intendono effettuati "per le finalità di cui al comma 1"; come "quelli svolti al fine di: a) applicare la normativa in materia di collocamento obbligatorio e assumere personale anche appartenente a categorie protette". In questo modo, attraverso l'enucleazione di un'ampia e articolata tipologia di trattamenti consentiti, i soggetti pubblici vengono messi in condizione di continuare a trattare tutti i dati sensibili pertinenti alla gestione dei rapporti di lavoro. Va sottolineato che l'elencazione contenuta nel comma 2, dell'art. 9, del d.lgs. n 135/1999 appare meramente esemplificativa, poiché è introdotta dall'espressione "tra i trattamenti effettuati per le finalità di cui al comma 1, si intendono ricompresi, in particolare, quelli svolti al fine di". Quello che conta è che il trattamento debba trovare giustificazione nel perseguimento della finalità di cui al comma 1 dell'art. 9 del d.lgs. n. 135/1999. Ovviamente, tutto ciò fa sì che la disciplina "speciale" del d.lgs. n. 135/1999 si applichi anche ai lavoratori pubblici. Non è questa la sede per un'analisi dettagliata del d.lgs. n. 135/1999, ma va detto che sicuramente tale decreto assicura una dignitosa protezione ai dati di cui agli artt. 22 e 24 della legge n. 675/1996 dei dipendenti pubblici. Ciò che ancora non è condivisibile è la scelta di regolare con blocchi normativi differenti il trattamento dei dati dei lavoratori 47 Cfr. Simitis, Die EU-Datenschutzrichtlinie - Stillstand oder Anreiz?, in Neue Juristische Wochenschrift, 1997, p. 287; Id., Datenschutz - Rückschritt oder Neubeginn?, ivi, 1998, p. 2474. Sulla nuova legge federale (BDSG 2001) del 2001 cfr. Däubler, Das neue Bundesdatenschutzgesetz, cit., p. 874 ss. 48 Per una approfondita analisi cfr. Chieco, Privacy e lavoro, cit., p. 233 ss.; Gragnoli, L'applicazione della legge n. 675 del 1996 al lavoro pubblico, in La tutela della privacy del lavoratore, cit., p. 103 ss. 22 libertà dei lavoratori che scaturiscono soprattutto (ma non solo) dall'elaborazione automatica dei dati personali. Infatti, quando sono erette barriere normative che proibiscono o che quantomeno riducono, per quanto logicamente e realisticamente ammissibile, usi ulteriori dei dati rispetto a quelli per cui essi sono stati originariamente raccolti o registrati, si creano le precondizioni per evitare l'uso di siffatti dati per gli scopi più disparati. E' noto che il cosiddetto uso multifunzionale dei dati (vale a dire proprio l'uso dei dati per tutti gli scopi di volta in volta ritenuti utili e diversi da quelli per cui sono stati in origine raccolti) aumenta il rischio non solo della moltiplicazione illimitata degli effetti pregiudizievoli causati da dati inesatti o incompleti, ma anche quello di una decontestualizzazione di dati in partenza esatti e quindi della distorsione dell'informazione così veicolata. Beninteso, l'ancoraggio al principio di finalità e agli altri principi di base della legge n. 675/1996 e del diritto del lavoro dissolve la pretesa del datore di considerare il rapporto di lavoro come un unico collettore di informazioni e lo frantuma in una molteplicità di contesti informativi non comunicanti tra loro o comunicanti solo a certe condizioni. La decontestualizzazione è tendenzialmente evitata fissando limiti a sconfinate elaborazioni dei dati personali ed imponendo che questi dati, proprio per rispettare il principio di finalità e gli altri principi di base, vadano utilizzati mantenendo uno stretto collegamento con il loro contesto originario di riferimento. Attenzione: l'unico modo certo per escludere del tutto i pericoli citati è rappresentato dal vietare l'uso dei dati per scopi diversi e ulteriori (oppure soprattutto per altri specifici scopi ritenuti assai pericolosi) rispetto a quelli che ne hanno legittimato la raccolta, la registrazione e l'uso originario, ovvero dalla tassativa e preventiva descrizione degli scopi leciti del trattamento. Disposizioni del genere si incontrano in particolare nella normativa varata dai singoli Länder tedeschi in relazione al trattamento dei dati personali dei lavoratori dipendenti da tali entità50. Tuttavia, tale impostazione può essere adottata solo quando viene coniata una normativa di settore che appunto contiene disposizioni assai dettagliate riguardo al trattamento dei dati personali dei soggetti coinvolti in ogni specifico ambito. Però, già da altre disposizioni del sistema italiano di protezione dei dati personali sono rintracciabili altre indicazioni che confermano l'idea della necessità di una rigorosa interpretazione del principio di finalità. In primo luogo, il d.lgs. 28 luglio 1997, n. 255 che tra l'altro ha introdotto - nell'originaria struttura dell'art. 7 della legge n. 675/1996 - ipotesi di trattamento per cui sono possibili forme di notificazione semplificata e per giunta l'esonero dall'obbligo della preventiva notificazione al Garante, ha stabilito che i trattamenti che godono di queste agevolazioni sono non solo tassativamente individuati in relazione ai fini da essi perseguiti, ma il beneficio opera nella misura in cui il trattamento resti strettamente vincolato agli scopi così fissati e, inoltre, sia quindi effettuato limitatamente alle categorie di dati, di interessati e di destinatari della comunicazione e diffusione, e al periodo di conservazione dei dati necessari per il perseguimento delle medesime finalità (cfr. l'art. 7, commi 5-bis, 5-ter e 5- quater, della legge n. 675/1996: ora in via d'abrogazione a seguito della radicale riforma del sistema della notificazione del trattamento operata dall'art. 3 del d.lgs. 28 dicembre 2001, n. 467). Poi, il Garante - con le autorizzazioni al trattamento dei dati sensibili rispettivamente nei rapporti di lavoro e nell'ambito dell'attività di ricerca e selezione del personale svolta da soggetti esterni alle parti dell'eventuale rapporto - ha non solo individuato con accurata precisione le finalità che giustificano il trattamento dei dati 50 Cfr. Simitis, Reconsidering, cit., p. 1594. 25 sensibili di volta in volta considerati, ma ha anche stabilito che "il trattamento dei dati sensibili deve essere effettuato unicamente con logiche e forme di organizzazione dei dati strettamente correlate alle finalità" originarie che ne giustificano appunto il trattamento. E sicuramente tale regola, pur se dettata per i dati sensibili, proprio perché concreta, nello specifico settore dei rapporti di lavoro, il generale principio di finalità di cui all'art. 9 della legge n. 675/1996, non può non influenzare anche il trattamento dei dati cosiddetti ordinari o comuni51. Inoltre, il d.lgs. n. 135/1999, varato sulla base della legge delega n. 676/1996, contiene le disposizioni dei commi 5 e 6 dell'art.3 (che sono applicabili all'area dei rapporti di lavoro pubblici) secondo cui "i dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale sono conservati separatamente da ogni altro dato personale trattato per finalità che non richiedano il loro utilizzo" e che i dati sensibili "non possono essere trattati nell'ambito dei test psico-attitudinali volti a definire il profilo o la personalità dell'interessato". A questo punto, sorge la necessità di chiarire l'esatto significato della condizione, fissata dall'art. 9, lett. b) della legge n. 675/1996, secondo cui i dati personali possono essere "utilizzati in altre operazioni del trattamento in termini non incompatibili" con gli scopi (determinati, espliciti e legittimi) fissati all'atto della raccolta e della registrazione dei medesimi dati. E' evidente che più sono flessibili i criteri di misura della compatibilità tra gli scopi della raccolta o della registrazione dei dati e i cosiddetti "termini" in cui vengono successivamente utilizzati gli stessi dati nelle altre operazioni del trattamento, più è probabile il rischio che il principio di finalità affermato dalla prima parte di tale norma diventi un mero simulacro. Dal punto di vista letterale e grammaticale, "compatibile" equivale a conciliabile e tale aggettivo definisce l'idea secondo cui due elementi sono riconducibili "ad una sostanziale affinità qualitativa e di intenti" ovvero "adattabili"52. Perciò, nel particolare contesto del trattamento dei dati personali, la compatibilità pare debba essere valutata tenendo conto del risultato finale cui tende l'obiettivo originario (della raccolta e della registrazione) e quello successivamente perseguito nonché delle modalità attraverso cui si svolgono le operazioni del trattamento posteriori alla raccolta e alla registrazione. Pertanto, le "altre operazioni del trattamento" non saranno compatibili con lo scopo originario della raccolta e della registrazione quando produrranno un risultato finale abnorme rispetto a quello preventivabile al momento della raccolta e della registrazione ovvero si svolgeranno con modalità tali da compromettere i diritti della personalità e le libertà fondamentali dell'interessato protetti dalla stessa legge (arg. ex art. 1, della legge n. 675/1996). Sul ruolo portante del principio di finalità pongono l'accento sia la raccomandazione del Consiglio d'Europa sia il codice dell'Ufficio internazionale del lavoro. In particolare, il codice sottolinea che "i dati personali dovrebbero, in via di principio, essere usati soltanto per gli scopi per cui sono stati in origine raccolti". Questa prescrizione appunto persegue l'obbiettivo di evitare il pericolo di un uso illimitato dei dati raccolti e quindi il dissolvimento del medesimo principio di finalità. Ciò significa che il datore non può appellarsi a generiche motivazioni e unificare tutti i dati raccolti - per obiettivi diversi, ma sempre ricadenti nell'area della gestione del rapporto - sul conto del lavoratore per sottoporli ad altre fasi del trattamento. Invece, lo specifico fine della raccolta condiziona e limita la legittimità di ogni altra operazione sugli stessi dati. Inoltre, esclusivamente in via 51 Cfr. Chieco, Il diritto alla riservatezza, cit., p. 40. 52 Devoto-Oli, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze, 1990. 26 di eccezione, il codice consente al datore, e solo a certe condizioni, di utilizzare i dati già raccolti per scopi differenti da quelle per le quali sono stati in origine raccolti i medesimi dati. In primo luogo, la nuova utilizzazione deve essere compatibile con lo scopo originario ed inoltre devono essere adottate le misure necessarie per evitare false interpretazioni dei dati nel nuovo contesto in cui vengono ad essere utilizzati. Il memorandum che accompagna il codice sottolinea che il concetto di trattamento compatibile con lo scopo originario determina la necessità di effettuare una comparazione tra la finalità primordiale e quella successiva e quindi il principio di finalità sarà rispettato solo se lo scopo successivo rientra nell'ambito di quello in origine perseguito. Sicché, "è perfettamente compatibile con lo scopo originario l'uso di dati riguardanti la qualificazione o il rendimento dei lavoratori nelle decisioni per assegnare nuovi benefici economici"; mentre l'uso dei dati raccolti allo scopo di governare i rapporti finanziari con i clienti dell'azienda è incompatibile con quello di emanare provvedimenti disciplinari a carico dei lavoratori in funzione del loro rendimento53. 10. Autoregolamentazione e disciplina di settore per il trattamento dei dati personali dei lavoratori. L’art. 1, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 127, ha differito, entro il 31 dicembre 2001, il termine per l’esercizio della delega prevista dalla legge 31 dicembre 1996, n. 676, in materia di trattamento dei dati personali. Così, il Governo avrebbe potuto emanare norme legislative sia integrative sia correttive della disciplina generale contenuta nella legge 31 dicembre 1996, n. 675 (e nelle normative collegate come il d.lgs. 13 maggio 1998, n. 171), sulla base dei principi e criteri direttivi indicati nella legge n. 676/1996. Sicché, in forza della delega contenuta nell’art. 1, comma 1, della legge n. 127/2001, il Governo ha recentemente varato il d.lgs. 28 dicembre 2001, n. 467 dal titolo “disposizioni correttive ed integrative della normativa in materia di protezione dei dati personali”. Il d.lgs. n. 467/2001 ha apportato significative modifiche alla legge n. 675/199654. Va qui concentrata l'attenzione sul capo II del decreto che ha come titolo “attuazione dei principi di protezione dei dati in determinati settori” e si compone di un’unica (ma lunga e di fondamentale importanza) disposizione, l’art. 20, la cui denominazione è “codici di deontologia e di buona condotta”. Per il comma 1, dell’art. 20, “al fine di garantire la piena attuazione dei principi previsti dalla disciplina in materia di trattamento dei dati personali, ai sensi dell’articolo 31, comma 1, lett. h), della legge n. 675/1996, il Garante promuove entro il 30 giugno 2002 la sottoscrizione di codici di deontologia e di buona condotta per i soggetti pubblici e privati interessati al trattamento dei dati personali nei settori indicati al comma 2, tenendo conto della specificità dei trattamenti nei diversi ambiti, nonché dei criteri direttivi 53 Previsioni sostanzialmente analoghe a quelle del codice dell'Ufficio internazionale del lavoro contiene il principio 6.2. della raccomandazione del Consiglio d'Europa. Per un approfondimento delle questioni esaminate nel testo cfr. i memorandum esplicativi allegati alla raccomandazione del Consiglio d'Europa e al codice dell'Ufficio internazionale del lavoro; nonché, Simitis, Reconsidering, cit., p. 1593 ss.; Aimo, I "lavoratori di vetro", cit., p. 106 ss.; Chieco, Privacy e lavoro, cit., p. 91 ss.; Bellavista, La disciplina della tutela dei dati personali e il rapporto di lavoro: due anni dopo, in CNEL, Diritto alla riservatezza e rapporto di lavoro, Roma, 1999, p. 25 ss. 54 Sulle quali cfr. Busia, Restyling per la tutela dei dati personali, in Guida al diritto, 2002. n. 5, p. 34 ss.; Bellavista, Novità per la protezione dei dati personali, in Dir. prat. lav., 2002, n. 5, p. 318 ss. 27 Beninteso, è evidente la necessità che il codice di deontologia e buona condotta abbia un’efficacia estesa a tutti i soggetti appartenenti alla categoria di riferimento, perché, se non fosse così, si avrebbe il paradosso di una differenziazione delle regole vigenti per lo stesso tipo di trattamento e i soggetti non aderenti al codice avrebbero l’indubbio vantaggio di potere operare con meno limiti di chi invece abbia deciso di aderire al codice. Ma se si concorda con l’idea che il codice di cui all’art. 20 del d.lgs. n. 467/2001 abbia efficacia generale, sorge l’esigenza di garantire che al processo di formazione dello stesso partecipino associazioni, enti e istituzioni ampiamente rappresentativi della categoria di riferimento: ciò avrebbe l’utile risultato di ridurre al minimo i casi di dissenso e di dare a tutti i soggetti interessati la ragionevole certezza che il codice non costituisca un’imposizione esterna, ma il frutto di un processo nel corso del quale, grazie alla presenza degli enti più rappresentativi della categoria, vi sia stata l’effettiva possibilità di tenere conto delle aspettative e delle istanze dei singoli operatori del settore. Come s'è visto, nel sistema della legge n. 675/1996, il Garante ha un forte potere d'influenza sul procedimento di redazione del codice e quindi non dovrebbe sussistere il pericolo che le disposizioni in esso contenute siano alquanto labili, proprio perché l'autoregolamentazione delle categorie interessate (e cioè dei datori di lavoro) si dovrebbe svolgere con l'assistenza e sotto la sorveglianza del Garante. Anzi, non è escluso che il Garante, proprio facendo uso del suo potere d'influenza, possa persuadere gli esponenti della categoria datoriale dell'opportunità e della convenienza di avviare momenti di consultazione con le organizzazioni rappresentative dei lavoratori. In questo modo, si potrebbe arrivare al varo di un codice, formalmente frutto dell'autoregolamentazione dei soggetti datoriali che trattano dati relativi ai lavoratori, ma che in sostanza rappresenti il prodotto di una procedura partecipativa anche culminante in un vero e proprio accordo collettivo. Orbene, va rimarcato che la scelta legislativa a favore dei codici deontologici, per l'area dei rapporti di lavoro, costituisce senza dubbio, nell’immediato, un ripiego provvisorio e, per il futuro, una soluzione residuale che non può fare dimenticare la necessità del varo di un quadro di regole legali sufficientemente dettagliate all’interno delle quali l’autoregolamentazione avrebbe per giunta maggiore efficacia56. Purtroppo, la base giuridica per questo auspicabile intervento legislativo è venuta meno a seguito dello scadere della delega di cui all’art. 1, comma 1, della legge n. 127/2001 e non sembra rintracciabile nell’ulteriore delega contenuta nel comma 4, dell’art. 1 della stessa legge. Infatti, questa disposizione dice che “il Governo emana, entro dodici mesi dallo scadere del termine di cui al comma 12 – che era il 31 dicembre 2001 – “e previa acquisizione dei pareri previsti nel comma 2, da esprimersi entro sessanta giorni dalla richiesta, un testo unico delle disposizioni in materia di tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali e delle disposizioni connesse, coordinandovi le norme vigenti ed apportando alle medesime le integrazioni e modificazioni necessarie al predetto coordinamento o per assicurarne la miglio attuazione”. Come si vede, qui l’affidamento al Governo del potere legislativo è ben circoscritto, e non può essere inteso nel senso che il Governo abbia la facoltà di emanare discipline innovative – come sarebbero quelle di settore – rispetto alle disposizioni vigenti. E pertanto, per raggiungere l’obiettivo indicato bisogna aspettare un rinnovo della delega ovvero un diretto intervento del Parlamento. 11. Azione sindacale e contrattazione collettiva. 56 Cfr., ampiamente, Simitis, Il contesto giuridico e politico della tutela della privacy, in Riv. crit. dir. priv., 1997, p. 569 ss. 30 Stante che il progresso tecnologico influenza necessariamente le modalità dell'azione sindacale e della contrattazione collettiva, anche in Italia, da tempo ci si interroga sull'individuazione degli spazi per il soggetto collettivo per agire efficacemente a tutela dei diritti individuali, nell'area della raccolta e del trattamento dei dati personali dei lavoratori57. Va chiaramente sottolineato che le tesi favorevoli ad assegnare un forte ruolo all'organizzazione dei lavoratori in questa materia e quindi volte ad ampliare l'ambito di applicabilità di disposizioni esistenti (come l'art. 4 St.lav.) o a suggerirne l'introduzione di nuove, non sembrano muoversi in controtendenza rispetto alle opinioni e alle tendenze diffuse anche al di fuori dei confini nazionali58. Peraltro, sia la raccomandazione del Consiglio d'Europa sia il Codice di condotta dell'Ufficio internazionale del lavoro - che attualmente costituiscono i due modelli base per la costruzione di una disciplina specifica del trattamento dei dati personali dei lavoratori - depongono chiaramente verso la costruzione di momenti di forte partecipazione del soggetto collettivo alle scelte datoriali di introdurre e utilizzare strumenti per la raccolta e il trattamento dei dati personali dei lavoratori59. Come si legge nella relazione che accompagna il Codice di condotta dellUfficio internazionale del lavoro "la protezione dei lavoratori nei confronti dei rischi provocati dal trattamento dei loro dati personali e la capacità di difenderne gli interessi con successo, dipende in misura decisiva dall'esistenza di diritti collettivi". La stessa esperienza italiana dimostra con nettezza che le forme di intervento più rilevanti sulle scelte aziendali di controllare con strumenti tecnici i dipendenti, sono state attuate nel settore dei rapporti di lavoro grazie all'azione del soggetto sindacale: infatti, grazie alla connessione tra gli artt. 4, 8 e 28 St.lav., il sindacato ha fatto ricorso all'azione per la repressione della condotta antisindacale per ricorrere al giudice nel caso di pericolose utilizzazioni (per i diritti individuali e collettivi) di apparecchiature informatiche. Peraltro, l'emersione di tecniche e di poteri di controllo collettivo sul trattamento dei dati personali sembra anche trovare adeguato sostegno sul piano del diritto positivo. Infatti, nulla sembra escludere la fondatezza della tesi secondo cui la procedura codeterminativa del comma 2 dell'art. 4 St.lav. vada estesa anche ad ogni attività di raccolta e trattamento dei dati personali dei lavoratori svolta per mezzo di apparecchiature informatiche (e non solo)60. E quindi il soggetto collettivo avrebbe a disposizione un formidabile strumento per influenzare le scelte aziendali dirette all'introduzione di innovazioni e a escogitare forme di trattamento dei dati dei lavoratori. Certo, non va trascurato che, in Italia (e non solo), a tutela del corretto trattamento dei dati personali, vigila l'organo pubblico di controllo istituito dalla legge n. 675/1996 e cioè il Garante per la protezione dei dati personali. E va anche detto che, in questi primi anni di attività, il Garante è più volte intervenuto, proprio nell'area dei rapporti di lavoro, proprio 57 Cfr. Lassandari, Diritti della persona nel contratto di lavoro: le fonti e gli attori, in Diritti della persona e contratto di lavoro, cit., p. 133 ss.; Douglas Scotti, Alcune osservazioni in merito alla tutela del lavoratore subordinato di fronte al trattamento informatico dei dati personali, in Dir. rel. ind., 1993, p. 237 ss.; Garilli, Tutela della persona, cit., p. 338 ss. 58 Cfr. Simitis, Reconsidering, cit., p. 1600 s.; Däubler, Internet und Arbeitsrecht, cit.; CNIL, La cybersurveillance sur les lieux de travail, cit., p. 7 ss. 59 Cfr. Simitis, Verarbeitung von Arbeitnehmerdaten, in Computer und Recht, 1991, p. 169 ss. 60 Così Chieco, Privacy e lavoro, cit., p. 334; Aimo, I "lavoratori di vetro", cit., p. 132; Bellavista, Società della sorveglianza e protezione dei dati personali, in Contratto e impresa, 1996, p. 75 ss. 31 per fissare paletti e condizioni al trattamento dei dati personali dei lavoratori. Per giunta, il Garante ha dimostrato una particolare sensibilità nei confronti dell'esigenza di garantire il rispetto dei diritti scaturenti dalla legge n. 675/1996 anche sul luogo di lavoro61: e ciò fa sicuramente ben sperare per il futuro. Tuttavia, risultati molto più pregnanti sul piano dell'effettività potrebbero essere raggiunti se su tali tematiche si sviluppasse una appropriata strategia del movimento sindacale, anche caratterizzata da innovativi momenti di collaborazione con l'autorità pubblica di vigilanza. In effetti, solo l'organizzazione sindacale sarebbe in grado di radicarsi sul luogo di lavoro e di svolgere una costante attività a presidio dei diritti dei lavoratori coinvolti dai processi aziendali di trattamento delle informazioni personali. D'altra parte, l'azione sindacale e contrattuale, quantomeno come obiettivo minimo, dovrebbe avere la possibilità di conformarsi alla struttura organizzativa della nuova impresa telematica. Significative indicazioni in questa direzione provengono dagli accordi collettivi relativi all'introduzione di forme di telelavoro o anche da esperienze sviluppate in contesti aziendali più tradizionali, laddove all'introduzione di modalità di comunicazione e di esercizio dei poteri datoriali in via telematica, corrisponde la correlativa attribuzione all'organizzazione sindacale di contrapposti poteri di "agibilità telematica" nonché di utilizzazione dei sistemi aziendali di comunicazione per raggiungere i lavoratori più dispersi e per cercare di sviluppare gli indispensabili presupposti per la formazione di identità collettive62. Pur in un contesto in cui il potere aziendale tende a delocalizzarsi e a rendersi meno afferrabile e individuabile, ma non certo meno intenso rispetto al passato, la stessa tecnologia è in grado di consentire lo sviluppo di inedite forme di contropotere collettivo e quindi canali relazionali basati sulla dimensione sindacale e sulla rigenerazione degli spazi di comunicazione e dei rapporti di solidarietà tra i lavoratori63. Tuttavia, ancora più importante è che l'attore collettivo cerchi di evitare di muoversi soltanto su un piano difensivo e a posteriori rispetto a decisioni già adottate. Qui si pone il problema di come si possa influenzare l'adozione delle tecniche raccolta e di trattamento dei dati personali dei lavoratori. A questo proposito, è necessario che si diffonda la consapevolezza che la scelta di una determinata tecnologia non è mai neutra rispetto ai conseguenti effetti che si producono sui soggetti che la utilizzano. In altri termini, per assicurare un'adeguata tutela ai diritti dei lavoratori, è imprescindibile che le modalità della 61 Cfr. la ricca ricerca di Trojsi, Gli interventi del Garante per la protezione dei dati personali in materia di lavoro, in La tutela della privacy del lavoratore, cit., p. 233 ss. 62 Cfr. Nogler, Qualificazione e disciplina del telelavoro, in Subordinazione e autonomia: vecchi e nuovi modelli, in Quad. dir. lav. rel. ind., n. 21, 1998, p. 129 s. 63 Cfr. Bronzini, Dall'habes corpus all'habeas mentem, cit., p. 224.; Klebe-Wedde, Gewerkschaftsrechte auch per E-Mail und Intranet?, in Arbeit und Recht, 2000, p. 401 ss. A questo riguardo, s'è discusso s'è il diritto d'affissione di cui all'art. 25 St .lav. possa essere esercitato con modalità adeguate alla nuova realtà informatica, per esempio attraverso apposite "bacheche elettroniche": in senso favorevole cfr. P. Milano, 3 aprile 1995, in Riv. it. dir. lav., 1995, II, p. 758; di diverso avviso pare T. Foggia, 10 luglio 2000, in Not. giur. lav., 2000, p. 560. Analogo problema s'è posto in Germania riguardo all'interpretazione del § 40, del BetrVG, dando luogo a valutazioni contrastanti; ma la recente riforma del Betriebsverfassunggesetz dovrebbe avere risolto la questione in senso positivo: cfr. Däubler, Die veränderte Betriebsverfassung, in Arbeit und Recht, 2001, p. 285. 32
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