Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

BISANZIO E L'OCCIDENTE MEDIEVALE, Sintesi del corso di Storia Medievale

esame storia medievale paola galetti

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
In offerta
30 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 01/04/2020

pietro-aiello-1
pietro-aiello-1 🇮🇹

4.3

(22)

15 documenti

1 / 59

Toggle sidebar
Discount

In offerta

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica BISANZIO E L'OCCIDENTE MEDIEVALE e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! 1) LA CADUTA DELL’IMPERO D’OCCIDENTE ROMANO La caduta dell’impero romano d’Occidente è datata nel 476. Non ne sappiamo molto in realtà, perché le fonti per l’epoca sono assenti. Di quello che era stato l’impero di Roma era rimasta la sola penisola italiana, insieme a qualche altro frammento di territorio. Morto Valentiniano III nel 455, ultimo esponente della dinastia teodosiana, il trono era stato conteso da avventurieri di varia origine, non all’altezza del ruolo e condizionati dai generali barbari. Subito dopo Valentiniano divenne imperatore Petronio Massimo, un senatore romano. Insediatosi il 17 marzo del 455, morì un mese e mezzo più tardi, quando i vandali provenienti dall’Africa andarono ad assediare Roma, approfittando del vuoto di potere che si era creato. Roma venne messa a sacco dai barbari (seconda volta dopo la conquista visigota del 410) finché ad Arles, in Gallia, fu eletto un generale di nome Flavio Eparchio Avito. Egli venne proposto dalla nobiltà locale; la designazione fu però resa possibile dall’appoggio di Teodorico II, re dei visigoti. Avito si diede da fare senza grande successo e commise l’imprudenza di nominare generale dell’impero il barbaro Flavio Recimero, discendente di uno svevo e di una figlia del re visigoto Vallia. Recimero era animato da un’ambizione smodata e subito si adoperò per togliere di mezzo il suo imperatore insieme al suo comes domesticorum Maggiorano, un altro aristocratico di origine gallica che comandava un reparto della guardia palatina. Il risultato fu una guerra civile combattuta in Italia: il 17 settembre del 456 il patrizio Remisto, fedele all’imperatore, venne tolto di mezzo a Classe e un mese più tardi fu la volta di Avito sconfitto a Piacenza. Il trono fu quindi di Maggiorano, o piuttosto di Recimero: essendo un barbaro, non poteva pretendere di diventare imperatore, secondo la mentalità del tempo, e si servì di docili prestanome. Ottenne successivamente il rango di patrizio, mentre Maggiorano fu proclamato imperatore delle truppe ed eletto al senato romano. Il nuovo imperatore cercò di essere all’altezza del suo ruolo e con alcune buone leggi si adoperò per ristabilire le fortune di Roma e in seguito ebbe l’idea di riconquistare l’africa, sottratta prima dai vandali. Mise insieme un grande esercito composto perlopiù da mercenari barbari, e dall’Italia raggiunse la Spagna, dove, a Cartagena, doveva attenderlo la flotta. Il re vandalo Genserico fu più abile di lui e fece naufragare i suoi sogni, sconfiggendolo. Maggiorano dunque rientrò in Italia, ma trovò sul suo cammino Recimero, che nell’agosto del 461 lo catturò all’altezza di Tortona per farlo uccidere. Questa serie di eventi sembrava abbastanza paradossale: l’impero era ancora in grado di riesumare energie imprevedibili. L’effettiva capacità di esercitare il potere si era però spostata dai romani ai barbari e, se anche l’esercito di barbari del sovrano sembra essere stato fedele, non altrettanto lo fu il suo generale, che voleva far valere la sua sete di dominio. Recimero era così diventato il padrone dell’Occidente e, il 19 novembre del 461 fece eleggere a Ravenna il senatore Libio Severo, che morì di morte naturale il 14 novembre del 465 senza nulla aver fatto. Dopo di lui fu la volta del senatore Antemio, che Recimero dovette digerire nonostante lo detestasse. Fu proclamato imperatore in prossimità di Roma il 12 aprile del 467. Nel 471 si arrivò a una nuova guerra civile conclusasi l’anno dopo con la sconfitta del sovrano in carica e la sua sostituzione con Olibrio. Nel frangente Roma venne messa a sacco dalle soldatesche di Recimero e Antemio fu ucciso dalla folla mentre cercava di fuggire dall’Urbe travestito da mendicante. Recimero e Olibrio ebbero il buon gusto di morire entrambi di lì a poco, anche se l’imperatore Olibrio nominò patrizio il principe burgundo Gundobad, nipote e successore di Recimero nel controllo dello stato. Gundobad fece innalzare al trono il comes domesticorum Glicerio, che venne spodestato nella primavera dell’anno seguente dal magister militum dalmatiae Giulio Nepote, che attaccò l’Italia con la flotta. Ma neanche questo sovrano riuscì a consolidare il proprio potere: il suo magister militum Oreste il 28 Agosto del 475 si ribellò a Ravenna e lo costrinse a fuggire in Dalmazia. Anziché farsi proclamare imperatore, costui preferì che fosse incoronato il proprio figlio Romolo, il quale sul trono assunse anche il nome di Augusto (Augustolo- storpiatura per la tenera età). Oreste aveva il governo effettivo, ma si trovò a contenderlo con un generale barbaro Odoacre, messosi a capo dei mercenari stranieri di stanza in Italia. Questi chiesero per sé un terzo delle terre italiche e, di fronte al rifiuto di Oreste, si ammutinarono a Pavia il 23 Agosto del 476 proclamando Odoacre loro re. Oreste si rifugiò a Pavia, ben presto espugnata dai ribelli; riparò a Piacenza dove le sue poche truppe vennero sbaragliate, e venne messo a morte. In seguito Odoacre si impadronì di Ravenna uccidendo Paolo, il fratello di Oreste, facendo prigioniero Romolo Augustolo, che fu deposto il 4 settembre del 476. Romolo ebbe un trattamento di favore: gli fu concessa una sostanziosa pensione annua e visse verosimilmente in una prigionia dorata. Era forse ancora in vita nel 511. Odoacre era probabilmente uno sciro, ossia un germano orientale, e all’epoca in cui assunse il potere doveva avere all’incirca quarantatré anni. A differenza dei barbari suoi predecessori, rinunciò alla farsa di farsi eleggere un sovrano fantoccio e rimandò le insegne imperiali a Costantinopoli, chiedendo a Zenone la dignità di patrizio e l’autorizzazione a governare per conto suo l’Italia. L’impero romano, malgrado la divisione delle due parti fosse divenuta permanente dall’anno 395, era formalmente ritenuto unico. I romani di Oriente non erano stati a guardare di fronte all’agonia dell’altra metà dell’impero e nel corso del V secolo avevano in alcune occasioni fatto sentire la loro voce. Nel 409 un contingente di quattromila uomini era stato inviato a Ravenna per dare un aiuto a Onorio minacciato dai visigoti e, di nuovo, nel 475 truppe bizantine erano arrivate in Italia per deporre l’usurpatore Giovanni e portare al potere il giovane Valentiniano III. I Bizantini di erano litati a inviare perlopiù rinforzi militari al patrizio Ezio, il generale a capo dell’Occidente romano, impegnato nel 452 a contrastare l’attacco di Attila in Italia. Gli ultimi imperatori non presero iniziative così dirette, ma non di meno intervennero nella loro designazione. Costantinopoli non riconobbe gli imperatori sgraditi o, come nel caso di Maggiorano nel 457, ne ritardò a lungo il riconoscimento. In due casi invece si intromise con maggiore determinazione: nel 475 fu imposto Antemio Procopio, che Recimero fu costretto a subire soltanto perché bisognoso dell’appoggio bizantino per far fronte ai Vandali, e nel 474 Leone I da Costantinopoli designò come imperatore Giulio Nepote in antagonismo a Glicerio, elevato al trono da Gundobad. Dopo la sconfitta di quest’ultimo Gundobad abbandonò il campo. Recandosi in Gallia dove fu acclamato re di parte dei Burgundi. Oreste a sua volta non ottenne l’assenso di Costantinopoli, e dopo aver atteso un paio di mesi, alla fine proclamò imperatore Romolo Augustolo, che quindi dal punto di vista bizantino era un sovrano illegale. L’autorità di Zenone, era essa stessa alquanto traballante, visto che nel settembre del 476 aveva da poco recuperato il trono dopo esserne stato rimosso da un usurpatore l’anno precedente. Zenone rispose infatti all’ambasceria di Odoacre che la concessione era di competenza di Giulio Nepote. Odoacre, sostenuto tra l’altro dal senato di Roma, riconobbe formalmente l’autorità di Nepote e fece coniare monete in suo nome. Lo stesso Zenone di adeguò alla nuova situazione e, scrivendo a Odoacre, lo chiamò con il titolo di patrizio. La deposizione di Romolo Augustolo è comunemente ritenuta la fine dell’ impero romano d’ Occidente, ma a ben guardare significò soltanto l’interruzione della successione imperiale: Odoacre, salito al potere con la forza come altri suoi predecessori, avrebbe potuto nominare un sovrano prestanome ma non lo fece, perché la presenza di un sovrano poteva suscitare come in passato guerre civili pericolose per il proprio personale potere. Per quanto a noi possa sembrare strano, inoltre, nella mentalità dei contemporanei l’impero continuava ad esistere nella persona di Zenone. Gli stessi contemporanei non avvertirono la frattura e il cambio di governo. Il comes Marcellino, autore di un Chronicon è molto preciso in merito: <<l’impero romano perì con questo Augustolo e da quel momento in poi Roma sarebbe stata governata dai goti>>. Odoacre fu un buon governante e si adoperò per rispettare le tre principali istituzioni dell’epoca: l’impero di Costantinopoli, il senato di Roma e la chiesa cattolica. Fu l’inizio della sua fine: nel 488 il sovrano bizantino offrì a Teodorico l’Amalo, re degli Ostrogoti, di insediarsi in Italia se fosse riuscito a rimuovere Odoacre. Teodorico era a capo di genti germaniche insediate nell’impero di Oriente. Nei periodi in cui l’alleanza con Odoacre era stata solida, Zenone lo aveva insignito del rango di patrizio e della carica di generale, concedendogli perfino nel 484 l’elevatissima dignità di console. Teodorico e i suoi Goti erano comunque un peso per l’impero e, con una notevole accortezza, tipica peraltro della diplomazia dell’Oriente romano, Zenone pensò di sbarazzarsi in un colpo dell’incomodo alleato e di Odoacre. Nell’autunno del 488 lo spedì in Italia con tutto il suo popolo. Teodorico, una volta in Italia, vinse Odoacre in battaglia e lo costrinse a chiudersi a Ravenna, dove si arrese nel 493 dopo tre anni di assedio: il vincitore gli aveva promesso di risparmiargli la vita, ma lo uccise subito dopo. Teodorico governò l’Italia come re degli Ostrogoti e questa sua qualifica fu riconosciuta da Costantinopoli: l’imperatore Anastasio I gli trasmise nel 497 le insegne imperiali, che Odoacre aveva inviato a Zenone. Il governo di del 540 il presidio si arrese, dopo aver trattato con Belisario, che si disse disponibile a divenire imperatore di Occidente, Belisario non rispetto l’accordo preso con gli Ostrogoti, ma fu subito dopo richiamato a Costantinopoli da Giustiniano per essere mandato in guerra contro i Persiani, dai quali era stata violata la pace del 532. Il generale partì alla volta della capitale portando con sé il tesoro degli Ostrogoti, il re Vitige con la moglie Matasunta e altri prigionieri. Al di là delle apparenze, la conquista di Ravenna nono rappresentò la fine della guerra e i goti rimasti in armi nell’ Italia del nord non occupata dai bizantini elessero un nuovo re a Pavia, apprestandosi a proseguire le lotte. Nel corso del 540 i bizantini subirono una grave sconfitta presso Treviso e l’anno successivo, quando fu eletto re Totila, le fortune dei Goti cambiarono. A differenza di Vitige, Totila si dimostrò infatti un generale capace e un politico accorto. Rinunciò all’ostinazione mostrata dal predecessore nell’assalire le città fortificate, e preferì ottenerne la resa con trattative; una volta conquistata la piazzaforte, ne abbatteva le mura per evitare che gli imperiali potessero nuovamente servirsene. Cercò inoltre di ovviare a un altro punto debole dei Goti, e mise in campo una flotta in grado di intercettare le navi nemiche e di condurre azioni di pirateria nelle zone costiere dell’impero: nella prima fase del conflitto, a parte un intervento in Dalmazia, la flotta ostrogota era stata infatti assente dal teatro operativo, consentendo a Bisanzio il dominio del mare e la conseguente sicurezza dei rifornimenti. Come politico evitò il più possibile la brutalità, che di norma si accompagnava alle operazioni militari, e al contrario si sforzò di alleviare i disagi delle popolazioni civili. Rendendosi conto, inoltre, che i peggiori nemici dei Goti erano gli aristocratici romani, naturali alleati di Bisanzio, concepì un progetto per stroncarne il potere con una nuova politica agraria volta all’esproprio dei latifondi, che costituivano la principale base economica dell’aristocrazia. Nei territori riconquistati dai Goti, passarono al fisco regio non solo le imposte ordinarie ma anche le rendite dei latifondi e, per di più, i servi vennero sistematicamente affrancati per entrare nell’esercito ostrogoto. Totila sconfisse gli imperiali nel 542 a Faenza e, di nuovo, nella valle del Mugello. Le forza bizantine, mal guidate dopo la partenza di Belisario, si sbandarono e i superstiti si rifugiarono nelle città fortificate. Il re Goto, nell’estate dello stesso anno, superò l’appennino e si impossessò di Benevento, le cui mura furono abbattute. Di qui andò ad assediare Napoli, presidiata da un migliaio di soldati imperiali: l’assedio si protrasse per qualche mese, fino alla resa per fame nella primavera del 543, e nel frattempo i Goti costruirono la loro flotta e occuparono gran parte dell’Italia meridionale. Giustiniano non prese molto sul serio la rivolta dei Goti, forse perché distratto dalla nuova guerra sul fronte persiano, e si limitò a destinare nuovamente Belisario al comando supremo in Italia, ma senza concedergli i mezzi sufficienti per porre fine al conflitto. Una flotta imperiale riuscì a liberare Otranto, assediato dai nemici, e verso la fine dell’anno Belisario si recò a Ravenna. Non fu in grado però di impedire ulteriori successi dei Goti e, a fine 545, Totila andò a mettere l’assedio a Roma, difesa dal magister militum Bessa con tremila uomini. Belisario andò in soccorso dell’Urbe, ma non riuscì a liberarla e, il 17 dicembre del 546, dopo un anno di assedio, la città cadde per tradimento di alcuni soldati imperiali. Bessa e la maggior parte dei suoi fuggirono. Totila aveva deciso in un primo tempo di distruggerla, ma poi si limitò ad abbatterne le porte e parte delle mura; si allontanò quindi dalla città per recarsi in Italia meridionale a combattere i Bizantini. L’assenza del re giti diede modo a Belisario di riprendere Roma nell’aprile del 547. Ne rimise in sesto alla meglio le mura e, poco più tardi, fu in grado di sostenere l’assedio di Totila, che tentò di venirne di nuovo in possesso con la forza, abbandonando la prudenza con la quale aveva agito fino a quel momento e rinunciò presto all’impresa. Le operazioni militari proseguirono fino all’anno successivo senza fatti di rilievo e, all’inizio del 549, Belisario abbandonò l’Italia per tornare a Costantinopoli, dove era stato richiamato da Giustiniano. La partenza del generalissimo causò il tracollo dell’armata italiana. Nel gennaio del 540 Roma cadde di nuovo in mano ai Goti e, nel corso dello stesso anno, Totila invase la Sicilia. Giustiniano, a questo punto, avvertì tutta la gravità del pericolo che fino a quel momento aveva sottovalutato: la regione più fertile d’Italia cadeva in mano nemica e la presenza imperiale si era ridotta a poche piazzeforti. L’esercito, privo di paga e senza alcuna voglia di combattere, era sul punto di dissolversi. Affidò pertanto al cugino Germano il compito di costituire un’armata per farla finita con Totila e, questa volta, non lesinò sui mezzi come aveva fatto fino a quel momento. Germano morì durante i preparativi, nell’autunno del 550, e il comando della spedizione passò all’eunuco Narsete. Si trattava di una scelta rivoluzionaria: Narsete era un eunuco e un dignitario di corte privo di esperienza militare, anche se affiancato da generali capaci. Metterlo a capo di un esercito rappresentava una grande novità; era però la migliore garanzia che il sovrano potesse avere per scongiurare i tentativi autonomistici attraverso una restaurazione dell’impero d’Occidente. Già Belisario sembrava essersi mosso in questa direzione ma, con Narsete questa cosa non sarebbe stata possibile in quanto, secondo la consolidata mentalità del tempo un uomo comunque mutilato nel fisico non poteva aspirare alla somma carica di uno stato. Narsete ebbe i pieni poteri di generalissimo e un’ampia disponibilità di denaro per saldare gli arretrati della paga all’armata italiana. La condotta delle operazioni fu del tutto opposta a quella di Belisario, che si muoveva con grande prudenza, poiché Narsete puntò allo scontro risolutore con l’avversario. Raggiunse l’Italia via terra, passò lungo la costa veneta e arrivò fino a Ravenna all’inizio di giugno; di qui, senza curarsi di assediare Rimini e altre piazze in mano ai Goti, proseguì incontro a Totila. Il re goto si mosse da Roma verso il nemico e lo scontro ebbe luogo a Busta Gallorum (o Tagina), in prossimità di Gualdo Tadino, terminando con la completa disfatta dei Goti. I barbari furono messi in fuga, con il loro stesso re, che venne raggiunto e ucciso da un ufficiale bizantino. La vittoria imperiale non comportò tuttavia la resa dei Goti e i superstiti elessero a Pavia un nuovo re nella persona di Teia, il quale scese a sud per combattere Narsete, che nel frattempo aveva ripreso Roma, ma venne sconfitto e ucciso nel corso dello stesso anno ai monti Lattari; con la sua morte ebbe fine il regno ostrogoto. Nell’estate del 553 un forte esercito di Franchi e Alamanni calò in Italia raggiungendo la valle del Po e inoltrandosi poi nel Centro della Penisola. Quando arrivarono nel Sannio si divisero in due gruppi: il primo condotto da un capo di nome Butilin, si spinse fino allo stretto di Messina; l’altro con a capo il fratello, Leutharis, raggiunse Otranto e di questi prese di nuovo la via del nord. I bizantini in un primo momento si fecero cogliere alla sprovvista; poi Narsete affrontò Butilin in prossimità di Capua e nell’autunno del 554 ne distrusse completamente le forze. Sorte non migliore toccò alle truppe del fratello Leutharis. I barbari riuscirono a proseguire fino al Veneto, ma qui furono decimati da un’epidemia. Terminavano così le grandi operazioni della campagna italiana, ma Narsete dovette impiegare ancora qualche anno per riportare la pace. Le ultime operazioni ebbero luogo nel 561, con la conquista di Brescia e di Verona e la sottomissione della penisola fino alle Alpi. Nel 554, comunque, la guerra era di fatto terminata e il 13 agosto di quell’anno Giustiniano emanò la Prammatica Sanzione, con la quale ristabiliva legalmente il dominio imperiale in Italia. Con questo testo di legge, tra l’altro, venivano cancellati tutti i provvedimenti adottati dal tiranno Totila: i proprietari recuperarono i diritti di cui erano stati privati, gli schiavi tornarono ai loro padroni e i servi della gleba alle terre. Narsete restò in Italia con i poteri straordinari di cui i poteri straordinari di cui era stato investito e si occupò della ricostruzione. L’amministrazione civile non subì sostanziali variazioni rispetto al periodo precedente: continuarono a esserci un prefetto del pretorio d’Italia, un prefetto e un vicario di Roma e probabilmente venne anche restaurato il vicariato. Il territorio italiano fu però notevolmente ridotto, perché ne furono staccate la Sicilia, con un pretore dipendente da Costantinopoli, la Dalmazia, annessa alla prefettura di Illirico, la Sardegna e la Corsica, che passarono sotto l’Africa. Mentre infatti sotto i Goti il prefetto del pretorio era un romano, ora divenne regolarmente un funzionario bizantino; allo stesso modo, inoltre la burocrazia statale venne formata per lo più con elementi di provenienza orientale. La riorganizzazione militare comportò la creazione di una linea i frontiera alpina, con una serie di comandi militari per proteggere le vie di invasione. A differenza di quanto era avvenuto in Africa, non fu istituito un comando generale dell’armata e l’incarico continuò a essere svolto dallo stesso Narsete. Il generalissimo bizantino provvide anche alla riedificazione delle città distrutte. Le grandi opere storiche sulla guerra gotica terminano infatti con il 554 e gli avvenimenti successivi possono essere ricostruiti soltanto con poche e frammentarie notizie. La situazione italiana, comunque era sicuramente miserevole dopo una guerra lunga e devastante come fu il conflitto greco-gotico. Per molti anni dopo la riconquista Roma dovette apparire come una città spopolata e parzialmente in rovina. Le dimore dell’aristocrazia senatoria erano in gran parte in rovina e spogliate degli arredi. Molti senatori, inoltre mancano all’appello, perché fuggiti in oriente o caduti vittime della furia vendicatrice dei Goti. Alcuni edifici monumentali probabilmente cadono in rovina e, da questi erano verosimilmente prelevati i materiali per le costruzioni pubbliche o private. Il collasso demografico, a seguito di guerra, carestia ed epidemie, doveva infine avere assunto una dimensione massiccia e gli stessi Ostrogoti avevano subito un ridimensionamento tale che nell’arco di pochi anni scomparvero come componente demica. Il volto dell’Italia romana, mantenutosi brillante fino all’inizio della guerra soprattutto grazie all’opera di Teodorico, si era modificato irreparabilmente. L’Italia fu la tappa più sanguinosa e nello stesso tempo più ambiziosa della riconquista giustinianea; quando però stava ormai per concludersi, i bizantini comparvero anche nella spagna visigota, dove si impossessarono di una sia pur limitata porzione di territorio. Il re visigoto Agila nel 551 aveva infatti suscitato una ribellione dei suoi sudditi e contro di lui si era sollevato anche un pretendente al trono, Atanagildo, che aveva chiesto aiuto all’impero. Giustiniano non l’occasione e l’anno seguente inviò un esercito al comando dell’anziano patrizio romano Liberio. Poco si conosce sullo svolgimento delle operazioni, ma è certo che gli imperiali occuparono senza fatica una parte della Spagna meridionale. La guerra civile terminò nel 555 con l’uccisione di Agila e la vittoria di Atanagildo, che divenne re dei Visigoti, ma i bizantini non mostrarono alcuna intenzione di ritirarsi e il nuovo re riuscì soltanto a farsi cedere una parte del territorio occupato. In questo modo la dominazione imperiale fu estesa a una porzione della Spagna, che comprendeva le città di Cartagena, Malaga e Cordova. Il nuovo dominio, troppo esiguo per formare una prefettura autonoma, entrò senza dubbio a far parte della prefettura africana. A differenza dell’Italia, la dominazione imperiale in Spagna non fu molto duratura e già alla fine del VI secolo la parte della regione in mano ai bizantini era molto diminuita, finchè verso il 624 la controffensiva visigota non li espulse del tutto. L’ITALIA ESARCALE 1) L’INVASIONE LONGOBARDA -Giustiniano morì nel 565. Ma per chi dovette subentrargli al governo le cose furono meno semplici. I suoi sogni di gloria avevano si portato alla riconquista più o meno di un terzo dell’ex impero di Occidente, ma le devastazioni erano state imponenti e, soprattutto, la forza militare di Bisanzio, perennemente in crisi, si rivelava insufficiente a coprire un territorio così ampliato. I nemici erano in agguato e gli attacchi all’impero furono concentrici. La prima grande guerra si accese con i Persiani, a causa della politica sconsiderata del successore di Giustiniano, il nipote Giustino II, che nel 572 li attaccò infrangendo la pace stipulata dieci anni prima. L’esito, dopo qualche successo iniziale, fu disastroso e il conflitto si trascinò per un ventennio. Altrove furono invece i Bizantini a essere attaccati e a doversi difendere. In Spagna la controffensiva visigota mise in difficoltà l’impero, che continuò a perdere terreno finché negli anni Venti del VII secolo dovette abbandonare la regione. L’africa andò interamente perduta con l’irruzione degli Arabi e la conquista islamica di Cartagine nel 698. Ancora peggio, subito dopo Giustiniano, andarono le cose nella penisola balcanica, saccheggiata a più riprese dai barbari che vivevano al di là del Danubio. Alle occasionali incursioni di età giustinianea, nella seconda metà del VI secolo si sostituì l’occupazione permanente da parte degli Slavi. A partire dal 581 la penisola venne ripetutamente devastata da incursioni di Avari e di Slavi, che raggiunsero l’apice nei primi anni del VII secolo. Gli Avari, una popolazione mongolica affine agli Unni, avevano creato nella seconda metà del VI secolo, un vasto impero, retto da un khan, con epicentro nella pianura ungherese. La loro spinta aggressiva contro Bisanzio fu particolarmente intensa per circa sessant’anni, ma si esaurì con la sconfitta subita all’assedio di Costantinopoli nel 626. Gli Slavi in seguito, sotto la spinta degli Avari o in alleanza con questi, avevano iniziato il vasto movimento migratorio che li portò a insediarsi all’interno dell’impero. La loro espansione, a differenza di quella degli Avari, fu contraddistinta dalla tendenza stabilirsi nelle regioni conquistate e a formare qui i propri domini. La conquista slava diede origine a un fenomeno storico del tutto nuovo, che ebbe come aspetti caratteristici l’insediamento stabile di popolazioni nemiche in territorio imperiale, e la slavizzazione della penisola balcanica. Molti territori vennero sottratti al dominio imperiale, formando zone di dominazione slava (le longobardo di sei mesi per poi arrendersi e riparare a Ravenna. Si tratta a ogni modo di una testimonianza importante sulla sopravvivenza di domini militari bizantini all’interno di territori longobardi, dovuta soprattutto alla scarsa dimestichezza di questi ultimi con l’arte degli assedi. La relativa sicurezza offerta dall’isola è d’altronde testimoniata dal fatto che vi erano state ammassate molte ricchezze provenienti dai centri vicini. Un fenomeno analogo ebbe luogo a Segusium (Susa) dove nel 574-575 era di stanza il magister militum imperiale Sisinnio, che potrebbe essere stato anch’egli un ufficiale di Narsete. All’età giustinianea è inoltre da attribuire il presidio di Albingaunum ( Albenga), ricordato dall’epigrafe funeraria di Onorata, morta nel 568, moglie del comes et tribunus Tzittane, che doveva esserne il comandante. Più incetta è l’esistenza a quest’epoca dei felices Laeti, un reparto di stanza a Genova nel 591 e passato quindi a Ravenna, verosimilmente a seguito della caduta della Liguria bizantina in mano longobarda. In un caso o nell’altro, tuttavia non è da escludere che si sia trattato di numeri costituiti in età giustinianea e sospinti verso la costa ligure al momento dell’invasione longobarda, che secondo Paolo Diacono, dopo la caduta di Milano risparmiò soltanto le città poste sul litorale. La morte di Alboino fu seguita dall’elezione del re Clefi e, dopo l’assassinio di questo nel 574, da un decennio di anarchia in cui i Longobardi non elessero re, ma furono governati dai loro duchi. L’anarchia non rallentò tuttavia la conquista, che si svolse in più direzioni e penetrò al centro e al sud. L’intero tentò una controffensiva verso il 575 a opera di Baduario, genero dell’imperatore Giustino II, ma il generale bizantino fu sconfitto e morì poco più tardi, forse a seguito delle ferite riportate in battaglia. La situazione dell’Italia era disastrosa dopo l’invasione e lo stato di guerra pressoché continuo. La timida ripresa succeduta alla fine della guerra gotica era stata cancellata. Già Clefi si era reso responsabile della falcidia di ciò che restava del ceto dirigente romano e i duchi, si mostrarono rapaci nei confronti dei vinti: secondo Paolo Diacono, essi uccisero molti nobili romani per cupidigia, e resero tributaria l’intera popolazione. Là dove si estendeva la loro conquista le chiese erano spogliate, i sacerdoti uccisi, le città rovinate e le popolazioni decimate. Il terrore che incutevano era determinato dalla loro ferocia, dall’incompatibilità religiosa con i Romani: erano infatti pagani o al massimo cristiani di fede ariana. I bizantini erano presi da altri problemi più immediati in particolare la guerra con la Persia, e stavano a guardare impotenti o al massimo prendevano iniziative di modesto spessore, perlopiù a carattere diplomatico. Del prefetto Longino, ancora in carica tra 574 e 575, si ricorda soltanto un rafforzamento delle fortificazioni di Classe, mentre più efficace fu la sua partecipazione all’assassinio di Alboino e, forse, anche di Clefi. Il fallimento della campagna di Baduario fu poi seguito dal disastro. I duchi ripresero vigore e di fronte a loro dovevano esistere soltanto sparute guarnigioni imperiali, demoralizzate dalle sconfitte subite. Dalla pianura padana alcuni di loro aggredirono i territori imperiali del Veneto e dell’Emilia, impadronendosi di Altino e probabilmente anche di Concordia, longobarda nel 591 e in seguito tornata ai bizantini per qualche tempo. La conquista fu poi estesa a Mantova, alle città lungo la via Emilia da Piacenza a Modena, a parte della Tuscia e si spinse fino al centro e al sud, dove vennero costituiti i grandi ducati di Spoleto e di Benevento. Sotto il regno di Tiberio I, cioè tra il 578 e il 582, il primo duca di Spoleto, Faroaldo, riuscì a occupare Classe, il porto militare di Ravenna, e <<lasciò la florida città nuda, spogliata di ogni ricchezza>>. Le popolazioni continuavano a subire la violenza dei conquistatori: il duca di Benevento, Zotto, si impadronì di Aquino nel 577 e tutti gli abitanti perirono o per mano dei nemici o per le epidemie, tanto che a qualche anno di distanza per la città desolata non era possibile trovare un vescovo, né un popolo per un vescovo. Nel 581 fu poi la volta di Napoli, assediata per qualche dai Longobardi di Benevento. Ai tempi di papa Benedetto I (575-579) le devastazioni raggiunsero il territorio romano e il suo biografo ricorda desolato come <<il popolo dei Longobardi invase tutta l’Italia e, nello stesso tempo, vi fu una fame in modo che anche un gran numero di castelli i consegnò ai longobardi per poter sopperire alla mancanza di cibo>>. Roma, stretta dai nemici, soffriva una volta in più per la carestia, con la conseguente mortalità; così il sovrano di Costantinopoli inviò navi dall’Egitto per rifornirla di frumento. La situazione continuava tuttavia a peggiorare e il nuovo papa, Pelagio II, venne consacrato il 26 novembre del 579 senza ricevere la tradizionale ratifica imperiale, perché la città eterna era sotto assedio, probabilmente dalla metà dello stesso anno. Roma non fu presa e i nemici finirono non si sa quando per togliere l’assedio, ma la minaccia longobarda aveva rappresentato un pericolo gravissimo. Mentre si svolgeva l’assedio, osserva il biografo del papa, i Longobardi operavano grandi devastazioni in Italia; gli fa eco un’altra fonte, che osserva come la gens Langobardorum invadesse tutta la penisola portandosi dietro fame e mortalità. Lo stesso Pelagio II sottolineava con toni drammatici i tormenti del suo popolo e il pericolo che sovrastava la chiesa: <<mentre tanto sangue di innocenti viene sparso, allo stesso modo sono violati i sacri altari e la fede cattolica è insultata dagli idolatri>>. La sconfitta di Baduario sembra aver avuto come conseguenza anche una crisi dell’autorità centrale in Italia, almeno a giudicare dal fatto che per alcuni non sono ricordati nuovi governatori imperiali. Il probabile vuoto di potere pare essere stato in parte colmato dal senato romano e dalla chiesa. Nel 578 il senato inviò a Costantinopoli in cerca di aiuto un’ambasceria guidata dal patrizio Panfronio, che doveva essere il caput senatus. Panfronio, un aristocratico illustre, aveva probabilmente assolto l’ufficio di praefectus urbis Romae sotto Narsete, per il quale era stato anche in missione diplomatica al tempo della conquista del nord dell’Italia. Non sappiamo se all’epoca avesse una funzione ufficiale nel governo italiano, ma certamente doveva essere una personalità eminente, tanto da venire scelto per una missione così importante. Panfronio portò con sé tremila libbre d’oro da consegnare all’imperatore, come tradizionale contributo per celebrarne l’incoronazione, e gli chiese i rinforzi necessari per far fronte alla minaccia nemica. L’impegno preminente sul fronte persiano, dove la guerra era ripresa, impedì al sovrano di esaudire la richiesta romana. Tiberio I, non poté di conseguenza fare altro che restituire il denaro perché fosse usato per corrompere i duchi longobardi e farli passare al servizio dell’imperatore, oppure, se rifiutavano, per comprare contro di loro l’aiuto dei Franchi. L’anno successivo, una nuova legazione romana composta da senatori e sacerdoti prese la via di Costantinopoli. Questa volta l’imperatore fu in grado di inviare un piccolo rinforzo, utilizzando le truppe e rinnovò nello stesso tempo l’invito a far conto sulla diplomazia. Qualche dux longobardo passò al servizio di Bisanzio, ma i risultati non furono decisivi, così come senza risultati pratici fu anche la richiesta fatta da Pelagio II al vescovo di Auxerre di adoperarsi per un intervento franco in Italia. I longobardi nel 580 attaccarono il Piceno impossessandosi di Fermo, Osimo, Monte Cassino, i cui monaci ripararono a Roma portando con sé il codice della regola di san Benedetto. Le stragi indiscriminate proseguivano e si ha una memoria nei Dialoghi di san Gregorio Magno. 2) L’ESARCATO IN ITALIA I bizantini non avevano alcuna intenzione di lasciare l’Italia al proprio destino. Il nuovo imperatore Maurizio, subentrato a Tiberio nel 582, era tuttavia un organizzatore capace e pensò alle due soluzioni possibili per tamponare almeno la situazione: la prima consisteva nel rafforzare la struttura amministrativa della lontana provincia, così da poter tenere testa ai nemici con le proprie forze; la seconda nel ricorrere all’alleanza militare con i Franchi in modo da supplire alla debolezza dello schieramento militare in Italia. La riforma amministrativa fu attuata attraverso l’introduzione di un nuovo funzionario, con sede a Ravenna, che aveva il titolo di esarca. L’esarca ripristinava infatti la figura dello strategos autokrator creata nel 535 da Giustiniano al fine di conferire a Belisario la suprema autorità per la riconquista dell’Italia; la novità consisteva semmai nel fatto che la carica diveniva permanente, da provvisoria quale era nata, e che l’esarca si trovava ora in una situazione ben diversa, con i nemici insediati stabilmente in Italia. L’esarca era essenzialmente un governatore militare che esercitava un potere molto ampio anche nelle competenze civili, per cui aveva il regno e il principato dell’Italia intera. L’autorità civile assunse un ruolo sempre più secondario di fronte all’elemento militare, la cui importanza andò crescendo nel corso del tempo fino a divenire predominante. Il prefetto d’Italia, si mantenne fino almeno alla metà del VII secolo e, accanto a lui, si hanno isolate testimonianza sul funzionamento delle vecchie strutture dell’amministrazione civile. La preminenza delle necessità difensive, in un’Italia che di fatto si era trasformata in una cittadella assediata, rovesciò tuttavia le tradizionali divisioni di competenze, in linea d’altronde con un generale processo di militarizzazione che in seguito si sarebbe esteso a tutto l’impero. Le autorità civili si trovarono in una posizione subordinata rispetto ai capi militari, che esercitavano il loro potere in tutti i rami dell’amministrazione pubblica. I nuovi governatori ravennati furono per circa centosessanta anni le figure più eminenti dell’Italia bizantina. Non erano necessariamente gente di guerra e, anzi, spesso si trattava di eunuchi che, come già Narsete, godevano della fiducia del loro sovrano senza poter aspirare, in quanto tali, a sostituirlo. Venivano scelti direttamente fra i più alti dignitari palatini e al titolo di funzione univano regolarmente la dignità di patrizio, che li collocava ai vertici della gerarchia nobiliare e al di sopra degli altri magistrati imperiali presenti in Italia. La denominazione ufficiale della carica doveva essere patricius et exarchus Italiae ma si trovavano molti altri epiteti (es: excellentia da parte dei pontefici). Le nostre informazioni sui governatori della provincia imperiale sono assai scarse, allo stato attuale della ricerca non è possibile stabilire una lista sicura né fissarne con esattezza la cronologia. Potrebbero essere stati ventiquattro, distribuiti cronologicamente tra il 584 e il 751. Non si può dire neppure quando abbiano governato. Secondo alcuni storici il primo esarca ravennate fu il patrizio Decio, in carica nel 584. Il suo nome compare nella lettera scritta da papa Pelagio II al diacono Gregorio, suo rappresentante a Costantinopoli e futuro pontefice, in cui lamentava la situazione tragica di Roma minacciata dai Longobardi e lo invitava a chiedere l’aiuto dell’imperatore Maurizio prima che >>l’esercito dei nefandissimi barbari>> riuscisse a occupare le località ancora libere. Nella stessa lettera si menziona un <<gloriosissimus domnus patricius>> di nome Decio e compare per la prima volta il termine di esarca riferito al supremo funzionario presente a Ravenna. Il papa si era rivolto a lui perché venisse in soccorso di Roma, ma questi gli aveva risposto di essere a malapena in grado di difendere la sua regione. Agli ordini dell’esarca si venne progressivamente costituendo una serie di nuovi comandi regionali, retti da duces o magistri militum, che sostituirono i precedenti ducati travolti dall’invasione longobarda. La continua minaccia nemica obbligò poi il governo esarcale a stabilire presidi nelle singole città o nei castelli più importanti. Lo sforzo militare di Bisanzio fu poi rivolto a coinvolgere le popolazioni nella difesa, obbligandole a far parte di milizie locali per rafforzare l’esercito professionale. La presenza di soldati regolari di Bisanzio, sia pure in modo frammentario, è ricordata dai nomi di una ventina di reparti presi in Italia, che potrebbero dare l’indice di un totale di diecimila uomini. Alcuni numeri, come i già ricordati Persoiustiniani o i Cadisiani di Grado, provenivano dall’Oriente e restarono acquartierati in Italia; altri al contrario erano stati direttamente costituiti in Italia e fra questi ultimi sono da collocare i Tarvisiani, i Veronenses e i Mediolanenses di Grado e Ravenna. La progressiva erosione del territorio italiano aveva portato i Longobardi a incunearsi nei domini imperiali: dopo la fase caotica della prima conquista, i Bizantini finirono per attestarsi su confini relativamente stabili, per lo più gravitanti sulle città costiere, organizzando un complesso sistema di difesa che garantì la sopravvivenza dei loro residui possedimenti. A Rimini, nel 591, vi era un dux permanente, la cui autorità doveva estendersi alla regione compresa fra Rimini e Ancona, inclusiva dei centri di Urbino, Fossombrone, Iesi, Cagli e Gubbio, che in seguito si trova indicata tramite le fonti come Pentapoli. Nel 599 compare un magister militum responsabile dell’Istria, mentre a Roma, nel 584, mancava ancora un comando stabile. Nel 592 papa Gregorio I chiese all’esarca di nominare un dux a Napoli e inviò un ufficiale inferiore per assumere il comando; nel 598 vi si trovava però in carica già un magister militim, e un dux due anni più tardi. Un ducato a Perugia, dove nel 592 era attivo un magister militum. A questi comandi si sarebbero poi aggiunti nel VII secolo i ducati di Ferrara, Venezia e Calabria, il primo dei quali fu legato alla fondazione della nuova città, mentre la regione della Venetia ebbe almeno occasionalmente un comando separato da quello dell’Istria: forse attestato come tale nel 639, con ogni probabilità questo comando divenne permanente nel 697 con l’istituzione del primo dux nelle isole della laguna. Sempre per i primi anni dell’esarcato abbiamo tribuni o comites al comando dei numeri. Li troviamo in attività in diversi centri, fra cui Civitavecchia, nel castello di Miseno, Napoli, Siponto e Otranto, Teramo e Terracina alle dipendenze di comites. L’esarcato comprendeva più o meno un terzo dell’Italia peninsulare, con possedimenti talvolta staccati gli uni dagli altri e raggiungibili via mare o con un fragile sistema di comunicazione terrestre. Nel nord-est della penisola restavano a Bisanzio le zone residue dell’antica provincia di Venetia et Histria, con i centri principali di Trieste e Grado in Istria e, in Veneto, le località della costa assieme a un modesto entroterra. Bizantina era anche la Liguria costiera, protetta sui valichi appenninici da una serie di castelli, e non si mosse da Ravenna e la città fu difesa alla meglio dalle poche forze presenti; ancora una volta però l’onere maggiore ricadde sul papa, che convinse il re a ritirarsi al prezzo di 500 libbre d’oro per mettere fine alle devastazioni. Perugia tornò all’impero, ma verso il 594 fu la volta di Capua, presa dai longobardi meridionali, il cui clero riparò a Napoli. Era troppo per il papa e questi si adoperò per arrivare a un accomodamento con gli invasori. L’esarca Romano venne a miti consigli chiedendo nel 595 un armistizio ad Agilulfo e le trattative andarono avanti nonostante i nuovi attacchi che colpirono la Campania e la Calabria, dove fu presa Crotone. Romano morì mentre era in carica nel 596-597 e il suo successore, Callinico, si mostrò più disponibile: si arrivò quindi a concludere un armistizio biennale, dovuto soprattutto agli sforzi del papa e della regina Teodolinda, che aveva messo in atto una delle rare controffensive nel Piceno longobardo riconquistando una porzione di territorio che si estendeva fino a Osimo.(appunti pagina 55) Alla scadenza dell’accordo Callinico cercò forse di approfittare dell’insurrezione dei duchi del Friuli e di Torino e, per assicurarsi una porzione di forza nel rinnovo delle trattative, catturò a Parma la figlia di Agilulfo insieme al marito, ai figli e a tutti i loro beni, portandoli a Ravenna. Fu un errore: Agilulfo portò l’assedio a Padova, conquistata e distrutta nel 601 insieme al catello di Monselice, che cadde l’anno successivo. Callinico venne rimosso dall’incarico per la seconda volta, che nulla poté fare per opporsi all’attacco longobardo: il 21 agosto 603 cadde Cremona e più tardi fu la volta di Mantova. Smaragdo dovette cedere: restituì i prigionieri illustri e concluse una breve tregua destinata a durare dal settembre del 603 all’aprile del 605, durante la quale il papa morì. Si infrangevano così i suoi sogni di arrivare a una pace duratura. Nell’estate del 605 i longobardi occuparono Orvieto e Bagnoregio, e in novembre Smaragdo concluse una nuova tregua di un anno al prezzo di dodicimila solidi; la tregua fu rinnovata poi per altri tre anni e di nuovo verso il 609, per durare quindi con altri rinnovi fino al 616. Alla relativa tranquillità esterna fece riscontro una forte instabilità interna, indice del crescente allentamento dell’autorità bizantina in Italia, anche a Costantinopoli, il governo centrale era fortemente indebolito. Verso il 615 infatti l’esarca Giovanni venne ucciso a Ravenna insieme ai suoi funzionari. Un certo Giovanni di Conza s’impadronì di Napoli, di cui si proclamò signore. L’imperatore allora in carica, Eraclio, reagì inviando come nuovo esarca d’Italia l’eunuco Eleuterio, che tolse di mezzo Giovanni di Conza e proseguì per Ravenna. Approfittando poi della morte di Agilulfo, nel maggio 616, e della debolezza del successore, Eleuterio attaccò i nemici uscendone però ripetutamente sconfitto. A questo punto gli passò per la mente una strana idea e pensò di farsi proclamare imperatore di Occidente, nonostante fosse un eunuco: il disegno però fallì ed Eleuterio venne ucciso dai soldati lealisti mentre si reca a Roma per essere incoronato dal papa. I longobardi ripresero l’espansione su larga scala con l’avvento al trono del re Rotari nel 636, di fronte al quale per alcuni anni si trovò l’esarca Isacio. Come prima mossa Rotari liquidò gli ultimi possedimenti bizantini nella terraferma veneta, che caddero intorno al 639 costringendo gli imperiali a ripiegare verso le lagune. Nel 643 inoltre Rotari lanciò un attacco all’esarcato al fine di impossessarsi di Ravenna per essere però arrestato, pare, lungo le rive del Panaro in uno scontro sanguinoso. Fu quindi la volta della Liguria, sottomessa interamente dal confine occidentale con il regno dei Franchi fino a Luni. Caddero così in mano longobarda Genova, Albenga, Varigotti, Savona e la stessa Luni. Più o meno nello stesso periodo, inoltre, i longobardi di Benevento si impossessarono di Salerno e devastarono la vicina Nocera. Seguì un ventennio di calma finché, nel 663, l’imperatore Costante II sbarcò a sorpresa a Taranto con un grande esercito proveniente dall’Oriente. Sta di fatto che andò ad aggredire il ducato di Benevento, prese Lucera e si recò ad assediare la capitale. Il duca Romualdo resistette coraggiosamente e nello stesso tempo chiese aiuto al padre, il re Grimoaldo. Costante II preferì evitare lo scontro e, venuto a patti con Romualdo, ripiegò su Napoli: durante la marcia, a quanto sembra, il suo esercito subì una sconfitta a opera dei Longobardi i Capua e, una parte delle forze imperiali uscite da Napoli furono messe in fuga da Romualdo a Forino, l’imperatore rinunciò ad affrontare di nuovo i nemici: visitò Roma, dove si trattenne per alcuni giorni, tornò quindi a Napoli e infine prese la via di Siracusa in cui stabilì la propria residenza per restarvi fino al 668, quando venne assassinato. Il re longobardo per parte sua riprese la via del ritorno e durante il suo cammino distrusse Forlimpopoli, rea di aver ostacolato la sua marcia verso sud. Lo stesso trattamento toccò a Oderzo, tornata probabilmente nell’aera imperiale dopo essere stata presa da Rotari, il cui territorio fu spartito fra le città vicine. Non si registrano altri fatti militari negli anni seguenti. Verso il 680 intervenne un nuovo fatto: un trattato di pace fra Bisanzio e il regno longobardo, con il quale per la prima volta l’impero riconosceva ai longobardi il possesso del territorio conquistato al fine di stabilire una pacifica convivenza sulla base delle rispettive giurisdizioni. Si realizzava così, dopo parecchi decenni, il sogno di san Gregorio Magno. I longobardi già dal tempo di Agilulfo si erano avvicinati alla civiltà romana e nello stesso tempo il forte impulso alle conversioni al cattolicesimo nella seconda metà del VII secolo a opera del re Perarito, sul trono dal 671 al 688, ne facevano ora una potenza rispettabile e non più i persecutori violenti delle origini. A guadagnarne era soprattutto la chiesa romana, la cui strisciante ostilità al dominio bizantino in Italia non era venuta mai meno e che ora ne era la più forte antagonista. A parte una furiosa repressione ordinata a Ravenna da Giustiniano II nel 710, non si ebbero grandi fatti di sangue. Il potere degli esarchi però si indeboliva di continuo e il controllo dell’Italia imperiale sfuggiva sempre di più dalle loro mani. Verso il 687 il duca Romualdo attaccò i possedimenti imperiali in Puglia impossessandosi di Taranto e Brindisi con la regione circostante. Restavano ai bizantini soltanto l’estremità della penisola salentina, con Otranto e Gallipoli e la Calabria meridionale. E ancora attorno al 702 Gisulfo I duca di Benevento investì il ducato romano prendendo Sora, Arpino e Arce, spingendosi poi, in una successiva incursione, fino a poca distanza da Roma. Il papa terrorizzato gli inviò i sacerdoti con ricchi doni per riscattare i prigionieri e convincerlo a rientrare nelle sue terre: Roma fu così salva, ma le tre località restarono in mano longobarda. Dopo la morte di Giustiniano II, nel 711, il duca di Spoleto Faroaldo II fra 712 e 713 fece la sua parte conquistando Classe e mettendo così in pericolo la stessa sopravvivenza della capitale dell’esarcato. L’esarca ravennate a quanto pare non fece nulla; intervenne però il re Liutprando, che ingiunse al duca di restituire la città all’esarcato. I tempi non erano ancora maturi per un attacco a fondo ai possedimenti bizantini e Liutprando non intendeva guatare i buoni rapporti fra il regno e l’impero. L’occasione arrivò nel 717. Il nuovo sovrano di Bisanzio, Leone III, era impegnato a fondo con gli Arabi e lasciò abbandonata a sé stessa la provincia italiana: Liutprando non rimase a guardare e concordò con i titolari dei due principali ducati un’azione iniziata nel 717 con la presa del castello di Cuma da parte del duca di Benevento. Papa Gregorio II, pesantemente coinvolto nelle vicende politiche, fece pressione sui beneventani perché lo restituissero ma, non avendo raggiunto lo scopo, ottenne l’aiuto del duca di Napoli che, assieme a truppe da lui inviate, recuperò Cuma. Il re Liutprando fede la sua parte sferrando un attacco al cuore dell’esarcato: assediò per un po’ Ravenna e prese Classe. Si ritirò dopo poco tempo, ma era suonato per Bisanzio un pericoloso campanello di allarme che annunciava la disgregazione dei domini italiani. Le popolazioni italiano, almeno del centro e nel nord, erano in gran parte insofferenti al dominio di Bisanzio e la goccia che fece traboccare il vado fu l’introduzione della nuova dottrina iconoclasta, che vietava il culto delle immagini. Probabilmente nel 727 gli eserciti della Pentapoli e della Venezia insorsero contro Bisanzio in nome dell’ortodossia religiosa e qualche tempo dopo a Ravenna fu ucciso l’esarca Paolo. Per vendicare la sua morte, i bizantini inviarono una spedizione punitiva dalla Sicilia, ma questa venne intercettata e distrutta dai Ravennati in prossimità di Classe. Nel 727 entrò in carica l’ultimo esarca di Ravenna, l’eunuco Eutichio. Di fatto Eutichio non aveva però nulla da governare, il potere reale era passato ai papi e ai capi dell’aristocrazia, da cui dipendevano le milizie locali. Fin dal VI-VII secolo, infatti, il reclutamento dei soldati era stato fatto in Italia e questi soldati si riconoscevano nei loro comandanti, la cui fedeltà a Bisanzio era molto labile. Ai papi, per parte loro, premeva soprattutto difendere Roma, ma né Gregorio II né i suoi immediati ebbero intenzione di accettare come nuovi padroni i longobardi e cercarono con ogni mezzo di mantenere in vita il dominio imperiale, nonostante i contrasti dottrinali con Bisanzio. Si ebbe così una situazione di estrema confusione, durata per 24 anni, in cui tutti i protagonisti si muovevano sulla scena senza che vi fosse più un controllo centrale. Eutichio fu un capo senza eserciti e senza potere. I padroni della scena erano ormai i longobardi, con Liutprando che aspirava a tenere a bada i suoi duchi riottosi e a sottomettere l’intera Italia, e il ducato di Roma, ossia il papa, che divenne un soggetto politico e non una semplice circoscrizione dell’Italia imperiale. Nella confusione generale si formarono anche alleanze innaturali come quella fra l’esarca e il re longobardo, che permise al re di riportare all’obbedienza Spoleto e Benevento e all’altro di entrare in Roma, da cui il papa lo escludeva. La situazione militare continuava però a precipitare. Nel 727 i longobardi si annessero alcuni castelli a Ovest di Bologna e una parte della Pentapoli con la città di Osimo; poco dopo, o forse allo stesso momento, fu presa Bologna. Ancora in quell’anno o nel successivo fu poi la volta del castello di Sutri, appartenente al ducato romano. Gregorio II scrisse più volte a Liutprando esortandolo a restituirlo e, dopo 140 giorni di occupazione, a prezzo di un consistente riscatto il re lo rese, non senza averlo prima depredato di ogni ricchezza. Eutichio con l’aiuto di truppe romane domò, nella Tuscia romana la ribellione di un certo Tiberio Petasio, poi si insediò a Ravenna, che a sua volta finì nell’occhio del ciclone. Mentre il re era impegnato nel ducato di Benevento, suo nipote Ildeprando, insieme al duca di Vicenza Peredeo, si impadronì di Ravenna, costringendo l’esarca a fuggire nelle lagune veneziane e a chiedere l’aiuto militare del duc Orso. Il nuovo papa Gregorio III, a sua volta scrisse allo stesso duca e al patriarca di Grado, Antonino, affinché appoggiassero l’esarca; una flotta veneta mosse così alla volta della città, riprendendola con una dura lotta, che nel corso della quale Peredeo fu ucciso, mentre Ildeprando cadde prigioniero per essere rilasciato qualche tempo più tardi. Probabilmente a seguito di questa vittoria i bizantini tentarono un controattacco per riconquistare Bologna, ma l’esercito condotto dal duca di Perugia Agatone fu affrontato e sconfitto dai tre comandanti longobardi che la presidiavano. Nel 739 Liutprando assediò senza successo Roma, rea ai suoi occhi di aver sostenuto il duca ribelle di Spoleto, che aveva costretto a fuggire, e ritornando verso Pavia prese i centri di Amelia, Orte, Polimarzo e Blera, interrompendo così di nuovi il corridoio bizantino. Eutichio non era in grado di intervenire e la restituzione dei centri laziale ricadde sul papa: Gregorio III, seguendo un pano concordato con Ravenna, offrì aiuto militare al duca di Spoleto per farlo rientrare nella sua città e nello stesso tempo sostenne a Benevento una fazione autonomista nemica del re. Liutprando non restò a guardare e nel 740 aggredì di nuovo la regione ravennate e fede i preparativi per un attacco a Roma. Il successore di Gregorio III, Zaccaria, di fronte al pericolo eminente cambiò fazione, abbandonando l’alleanza con il duca di Spoleto, e rinnovò le trattative con il re. Nel 742 Liutprando riprese il controllo di Spoleto e di Benevento e restituì i quattro centri insieme al patrimonio della chiesa passato sotto il controllo longobardo. Per arrivare allo scopo papa Zaccaria lo aveva incontrato a Terni stipulando una pace ventennale con il ducato romano. Nel 744 Liutprando si sentì abbastanza forte per fare il colpo definitivo all’esarcato: ne superò i confini occupando Cesena e apprestandosi ad assediare Ravenna. Eutichio, chiese aiuto al papa poiché era impotente, e Zaccaria andò personalmente a incontrare il re a Pavia, ottenendo di far cessare le ostilità in attesa che l’intera questione fosse trattata a Costantinopoli. Ma era solo una breve tregua: il successore di Liutprando, Ratchis, nonostante la pace conclusa con il papa, nel 749, attaccò la Pentapoli. Il papa intervenne e Ratchis, che era un buon cristiano, lo ascoltò; il fratello e successore Astolfo ebbe però meno scrupoli e nel 750 si impadronì di Ferrara, di Comacchio e dell’Istria. Nell’estate del 751, se non prima, si ebbe l’epilogo anche se non si sa in che modo avvenne. Sappiamo soltanto che il 4 luglio di quell’anno nel palazzo di Ravenna che già era stato dell’esarca, il re vincitore emise un diploma a favore dell’abbazia laziale di Farfa. Era così finito in sordina l’esarcato d’Italia. 4) I CONTRASTI CON LA CHIESA DI ROMA L’antagonismo fra la chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, aveva radici profonde e si manifestò in tutta la sua virulenza durante il dominio bizantino. Nelle grandi controversie teologiche del V secolo Roma si era schierata contro Costantinopoli sulla questione del nestorianesimo, la dottrina secondo cui in Cristo vi sarebbe stata solo la natura umana, e lo stesso fede poco più tardi sul monofisismo, per cui al contrario in Cristo vi sarebbe esistita soltanto la natura divina. Nestorianesimo e Monofisismo vennero sconfitti rispettivamente al concilio di Efeso nel 431 e a quello di Calcedonia del 451 e la cosa per il momento finì lì. L’imperatore Zenone pubblicò l’henotikon, un editto in materia di fede, che cercava una conciliazione fra ortodossi ed eretici, ma Roma si oppose e si arrivò a uno scisma fra le due sedi episcopali che fu detto scisma di Acacio, dal nome del patriarca di Costantinopoli, e che durò fino al 519, quando venne ricomposto da Giustino I. Nel 537 papa Silverio venne deposto con l’accusa di essere dalla parte degli Ostrogoti che assediavano Roma. Il successore, Vigilio, messo sul trono da Belisario, si trovò suo malgrado impelagato ricorse all’alleanza con i Franchi contro i Longobardi che minacciavano i suoi domini. Nel 572arrivò a Roma un’ambasceria imperiale per intimare al papa e al re Astolfo di restituire i territori usurpati. Stefano II, forse stupito da tanta mancanza di realismo, fece proseguire l’ambasciatore fino a Ravenna. Astolfo a sua volta non aderì e lo rimandò a Costantinopoli. Il papa supplicò Costantino V di liberare Roma e l’Italia, ma di fronte all’inerzia di Costantinopoli maturò un progetto rivoluzionario, prendendo contatto con il re dei Franchi Pipino il Breve e chiedendo il suo aiuto contro i Longobardi che premevano su Roma. La sua determinazione fu rafforzata dal ritorno dell’ambasceria di Costantinopoli con l’ordine per il papa di recarsi presso il re longobardo e ottenere la restituzione di Ravenna. Dopo il fallimento dell’incontro con Astolfo, proseguì per la Francia, dove all’inizio del 754 ebbe con Pipino il famoso incontro di Ponthion, in cui riconobbe il regno da lui stabilito in Francia in cambio dell’impegno del re a intervenire in Italia e a consegnare ampi territori alla sede romana. BISANZIO NELL’ITALIA MERIDIONALE – 1) LA DISSOLUZIONE DEI DOMINI IMPERIALI La fine dell’esarcato ebbe come conseguenza la dissoluzione di gran parte dei domini bizantini in Italia. Nel nord dell’impero manteneva il controllo su Venezia, mentre l’Istria era caduta nelle mani dei longobardi ma fu recuperata nel 774 per poi essere perduta di nuovo a vantaggio dei Franchi alcuni anni dopo. Scendendo al centro-sud, il ducato di Roma sotto il dominio dei papi, a differenza di quello di Napoli che restò ancora a lungo nell’orbita dell’impero. Al momento della caduta di Ravenna era al potere un duca lealista e tali furono anche i suoi immediati successori. Il processo di diversificazione da Costantinopoli era comunque in atto e come sarebbe accaduto a Venezia, il distacco fu graduale e senza scosse violente. Dopo l’827, quando gli Arabi invasero la Sicilia, la città si emancipò sempre di più adottando anche una propria politica estera, talvolta in contrasto con l’impero. Si svincolarono progressivamente dal ducato napoletano i centri di Amalfi e di Gaeta, che si diedero governi autonomi. In questi anni prese corpo lo stato della chiesa creato territorialmente sulle rovine di ciò che era stato bizantino e con il braccio armato dei re franchi che sconfissero i longobardi. L’accordo di Ponthion fra papa Stefano II e re Pipino aveva segnato di fatto l’inizio della fine del regno longobardo ed ebbe ripercussioni anche sul residuo domino bizantino. Nel corso dello stesso anno Pipino intervenne in Italia costringendo Astolfo a venire a patti ma, di fronte all’inaffidabilità dei Longobardi, due anni più tardi il re scese di nuovo in Italia sconfiggendo il rivale e imponendogli più dure condizioni di pace, fra cui la cessione <<a san Pietro e alla chiesa romana >> di numerose città già bizantine, probabilmente le conquiste fatte da Astolfo al momento della liquidazione dell’esarcato. Il tutto fu fatto a dispetto dei Bizantini. Quando il re Franco era già in marcia per l’Italia arrivarono a Roma due ambasciatori di Costantinopoli, uno dei quali raggiunse in seguito Pipino presso Pavia per ricordargli i diritti del suo impero e promettendo un consistente donativo se il re avesse restituito Ravenna e altre città. Pipino non si lasciò convincere. L’epilogo della vicenda si ebbe nel 774 allorché Carlo Magno rispondendo all’appello di papa Adriano, scese in Italia per combattere i Longobardi he di nuovo si erano fatti minacciosi in spregio ai trattati sottoscritti. I longobardi furono sconfitti e il re Desiderio fu fatto prigioniero, mentre il figlio di Adelchi fuggiva a Costantinopoli. Finiva così il loro regno. Nel 774 a Roma, Carlo Magno depose solennemente sulla tomba di san Pietro un diploma di donazione di località italiane, che ampliava quella già fatta da suo padre Pipino: anche se nella pratica parte dei territori concessi non finì sotto il dominio dei papi, ciò che era stato bizantino nel centro e nel nord della penisola passava definitivamente sotto il controllo della chiesa romana. Il dominio imperiale sull’estremo Sud, si era ridotto verso il 751 alla regione montana del centro e del sud della Calabria e a un residuo territorio in terra d’Otranto ristretto soltanto a Gallipoli, cui però nel 758 si aggiunse Otranto. Diversa fu la sorte delle isole maggiori. L’emancipazione progressiva e indolore da Bisanzio fu un fenomeno presente anche in Sardegna. L’isola aveva avuto una duplice amministrazione civile e militare, con un praeses a Cagliari e un dix di stanza a Forum Traiani, l’attuale Fordongianus, da dove poteva facilmente controllare i Barbaricini, le popolazioni ribelli che vivevano sui monti. L’istituzione dell’esarcato africano aveva portato come nella provincia italiana a una progressiva affermazione dell’autorità militare, senza però far scomparire le istituzioni civili, e per un certo periodo tutta l’isola fu oggetto delle mire dei longobardi, che nel 599 saccheggiarono la costa cagliaritana. Dopo la caduta dell’esarcato d’Africa, nel 698, la Sardegna fu probabilmente aggregata assieme alla Corsica all’amministrazione italiana e, negli anni successivi, si trovò a fronteggiare ripetute incursioni arabe verso il 703-704e proseguite poi con frequenza. In seguito al manifestarsi del nuovo pericolo arabo, per meglio garantire la difesa fu operata una modifica nel sistema di governo con l’adozione di un comando unico rappresentato dallo iudex provinciae, che aveva sede probabilmente a Cagliari. La riforma ebbe luogo nell’ambito del dominio bizantino, ma maturò nel secolo successivo come altrove un processo strisciante di indipendenza, di fatto se non di diritto, dal governo di Costantinopoli che non era in grado di garantire la sicurezza della lontana provincia. Tale processa era arrivato a compimento nella seconda metà del IX secolo, quando in Sardegna si erano costituiti stati locali autonomi, i giudicati senza più alcun vincolo con l’impero. La Sicilia ebbe una sorte del tutto differente. L’isola, già sede sotto Giustiniano di un governo autonomo, sotto Giustiniano II fu elevata al rango di TEMA, comandato da uno stratego con sede a Siracusa. Le nuove circoscrizioni amministrative, introdotte in tutto l’impero a partire dal VII secolo, in cui autorità civile e militare erano riunificate nelle mani di un capo militare, lo stratego nominato dal governo centrale. Questa riforma aveva messo fine alla tradizionale divisione fra potere militare e civile tipica della tarda romanità, in ragione delle preminenti esigenze difensive. Al nuovo sistema dei temi, si legava poi l’istituzione dei soldati-coloni, tenuti a prestare servizio militare in cambio delle concessioni di terre demaniali da coltivare. Dallo stratego di Sicilia dipendevano l’intera isola e residui di possedimenti in Puglia e in Calabria. La Sicilia imperiale non ebbe particolari problemi per parecchi anni; nell’ 827 però entrò nell’occhio del ciclone quando gli Arabi provenienti dalla Tunisia sbarcarono in giugno a Mazara. L’emiro Ziyadat Allah aveva dato seguito alle richieste di un losco ufficiale bizantino, il turmarca Eufemio, che mirava a costituirsi un dominio personale con l’appoggio degli Arabi, e aveva inviato un corpo di spedizione di 10mila uomini nonostante i trattati di pace che legavano gli Aghlabiti a Bisanzio. Un mese più tardi gli invasori si scontrarono con i bizantini probabilmente a ovest di Corleone e li misero in fuga. Dopo un fallito assedio a Siracusa, gli Arabi si riversarono all’interno conquistando numerosi centri; andarono poi ad assediare Palermo che capitolò nel settembre dell’831 e divenne la loro capitale. Dopo alcuni anni di relativa inattività, ripresero l’offensiva, arrivando nell’839 a dominare l’intera parte occidentale dell’isola. Le operazioni proseguirono con l’assedio e la conquista di Messina, fra 842-843, di Modica nell’845 e di Ragusa nell’848. Fu poi la volta di Enna che fu presa dopo 25 tentativi nell’859. I bizantini reagirono all’invasione dell’isola inviando a più riprese corpi di spedizione. La macchina bellica degli Arabi si rimise in moto nell’864 con la conquista di Noto e di Scicli, e nell’877 fu la volta di Siracusa, costretta a capitolare il 21 maggio dell’878 dopo nove mesi di assedio. A questo punto tre quarti dell’isola erano in mano agli islamici, anche se i bizantini continuavano a fare grandi sforzi per ricacciarli. L’imperatore Basilio I mise in campo una grande flotta affidandone il comando all’ammiraglio Nasar e questi nell’880 ottenne un grande successo sugli Arabi siciliani nelle acque di Milazzo, reso però vano da un’altrettanta catastrofica sconfitta della flotta imperiale in quelle stesse acque otto anni dopo. Nel 901 però il comandante arabo Abu Ishaq Ibrahim II ottenne un vistoso successo impossessandosi di Reggio, per ritirarsi quindi in Sicilia e qui disperdere una flotta imperiale giunta a Messina. Il destino dell’isola, a questo punto, era ormai segnato e si consumò con la presa di Taormina nel 902, che segnò anche il destino dei pochi centri ancora rimasti in mano all’impero. 2) BISANZIO NEL SUD DELLA PENISOLA Una volta liquidato il regno longobardo, le ambizioni di Carlo Magno si estesero anche al ducato di Benevento. Il duca Arechi II, che dopo la caduta del regno longobardo aveva assunto il titolo di principe, cercò di destreggiarsi fra i bizantini, i franchi e la chiesa: così, quando Carlo Magno gli impose la propria sovranità, si rivolse a Bisanzio in cerca di aiuto. A Costantinopoli regnava allora il giovane Costantino VI, ma di fatto il governo reale era nelle mani della madre Irene, che alcuni anni più tardi si sarebbe sbarazzata del figlio facendolo accecare e diventando così prima delle tre imperatrici bizantine. Irene aveva seguito inizialmente una politica di amicizia con i Franchi acconsentendo al fidanzamento di Costantino VI con Rotrude, figlia di Carlo Magno, ma in seguito si risolse a intervenire in favore di Arechi II avviando le trattative che prevedeva di riportare con le armi sul trono di Pavia Adelchi, figlio di Desiderio e cognato dello stesso Arechi, in cambio del riconoscimento della sovranità imperiale: per parte sua Arechi avrebbe ottenuto la dignità di patrizio e il ducato di Napoli. Quando però nel 787 giunse a Benevento un’ambasceria imperiale, Arechi II era già morto e, il figlio e successore di Grimoaldo III dovette adeguarsi alla politica di Carlo Magno, del quale era ostaggio. Di conseguenza, la spedizione promessa da Irene, non poté più contare sull’appoggio dei longobardi di Benevento. Le forze imperiali, pur rinforzate dai contingenti messi a disposizione dallo stratego di Sicilia, furono affrontate nel 788 da Longobardi e Franchi coalizzati e subirono una grave sconfitta perdendo in battaglia anche il loro comandante. Sebbene fosse stato costretto al vincolo di vassallaggio, Grimoaldo III si allontanò presto da Carlo Magno, riuscendo a mantenere l’indipendenza del principato, malgrado anche i tentativi del figlio di Carlo di sottometterlo. Carlo Magno, nell’802, tentò un’impossibile riconciliazione con Bisanzio chiedendo in sposa l’imperatrice Irene, ma le trattative si arenarono per l’improvvisa destituzione di questa e il successore Niceforo I adottò una line politica di chiusura ai Franchi, il cui esito fu il conflitto combattuto nelle lagune veneziane. La pace di Aquisgrana, conclusa nell’812, durante il regno di Michele I, e il riconoscimento seppur parziale del nuovo impero franco allentarono tuttavia le tensioni e le conseguenze si fecero avvertire anche in Meridione portando un periodo di stabilità. Il sud della penisola cominciò però a essere minacciato dalle incursioni degli Arabi, spesso coinvolti nelle vicende italiane nelle combutte dei signori locali, da cui erano utilizzati come mercenari nelle guerre che li contrapponevano gli uni agli altri. Gli Arabi colsero al volo l’opportunità che si offriva e ne approfittarono per devastare i territori di chi li aveva presi a servizio e crearsi domini territoriali propri nelle regioni contese dai belligeranti. Si insediarono così nei principali centri costieri dell’Adriatico o del Tirreno, da cui fecero partire incursioni (pirateria). Fecero la loro comparsa nel’835 al servizio del duca di Napoli, in lotta con Benevento. La loro aggressività preoccupò anche l’imperatore Teofilo, salito al trono nell’ 829: non avendo egli forze sufficienti per contrastarli, inviò un’ambasceria al sovrano di Occidente Ludovico il Pio per concordare un intervento comune. Si rivolse quindi al califfato omayyade di Cordova, andando incontro a un nuovo fallimento, e nell’840 inviò una missione diplomatia a Venezia per chiedere aiuto al doge Pietro Tradonico. I Veneziani fecero partire una flotta di 60 navi, che furono intercettate dagli Arabi e distrutte intere. La vittoria offrì a questi ultimi l’opportunità per un’audace azione di pirateria, saccheggiando quindi Ancona e spingendosi fino alla foce del Po. Al ritorno sorpresero le navi superstiti della flotta veneziana e le catturarono tutte. Nell’841 un capo berbero di nome Khalfun, al servizio del gastaldo longobardo di Bari, si impossessò con i suoi della città costringendo in seguito il principe di Benevento, impotente ad allontanarlo. Qui sarebbe poi stato costruito un emirato indipendente, destinato a durare per circa un quarto di secolo. Teofilo nell’842 spedì una nuova mabasceria in Occidente, questa volta presso Lotario I, ma le difficoltà interne dell’impero carolingio resero impossibile ogni azione comune. Nel frattempo gli arabi raggiunsero il golfo di Salerno, occupando l’isola di Ponza e, più a nord, la punta Miseno nel golfo di Napoli, mentre altre scorrerie avevano luogo in terraferma. Nell’agosto dell’846 la loro audacia si spinse fino a un attacco a Roma, quando una flotta venuta dall’Africa risalì il Tevere mettendo a sacco le basiliche di San Pietro e San Paolo. Il ducato napoletano abbandono dopo l’840 la politica filoaraba seguita fino a quel momento, schierandosi apertamente in difesa della cristianità. L’assalto condotto a Roma, che aveva suscitato orrore fra i cristiani, convinse l’imperatore Lotario I della necessità di intervenire e, nell’848, questi inviò al sud il figlio del re d’Italia Ludovico II per combattere i Saraceni. Ludovico II liberò Benevento dalla guarnigione saracena facendone decapitare i capi in sua presenza, e costrinse nell’849 i due contendenti per la signoria sul principato a venire a patti spartendosi il dominio. Anziché mettere fine alle contese, il trattato dell’849 suscitò tuttavia nuove divisioni fra i longobardi. L’intervento franco non aveva risolto neppure il probema arabo e nell’866 Ludovico II, nl frattempo diventato imperatore, decise di intervenire nell’Italia meridionale. La campagna si trascinò senza risultati definitivi. Il carolingio chiese a Costantinopoli l’aiuto di Basilio I per avere ragione su Bari, attaccandola per terra e per mare. Concluso l’accordo, una flotta di 400 navi orientali comparve nell’869 Bovino e a ritirarsi nuovamente al nord. Le trattative diplomatiche andarono a buon fine e, nell’agosto del 972, ebbe luogo l’agognato matrimonio fra Ottone il giovane e la bizantina Teofano, anche se questa non pare essere stata un’appartenente alla famiglia imperiale, bensì una parente dell’usurpatore Giovanni Zimisce. Sul piano politico ,inoltre, si stabilì che Capua e Benevento sarebbero rimaste nell’orbita dell’impero di Occidente, mentre per parte sua Ottone I rinunciava a ogni pretesa sul Meridione d’Italia. A conti fatti quindi il vero vincitore era il sovrano di Costantinopoli, che era riuscito a tener testa alle forze militari del collega occidentale, obbligandolo alla fine a rinunciare ai suoi ambiziosi progetti di conquista. Il Meridione continuò a subire le ormai tradizionali incursioni arabe, ma nel 982 Ottone II, seguendo l’esempio del padre, attaccò le regioni bizantine con il pretesto di difendere dagli Arabi le terre cristiane. I bizantini fecero resistenza passiva chiudendosi nelle loro imprendibili città fortificate e lo lasciarono scendere fino in Calabria dove in prossimità di Crotone, il 2 luglio 982, subì una rovinosa sconfitta perdendo gran parte del suo esercito e i migliori comandanti. Lo stesso imperatore fu preso a bordo di una nave bizantina che lo condusse a Rossano. I marinai, volevano portarlo a Costantinopoli ma, con uno stratagemma, l’imperatore sfuggì dalle loro mani gettandosi in mare in prossimità della spiaggia e raggiungendo a nuovo la riva. Qui vi ritrovò la moglie, il vescovo di Metz e altri nobili che vi aveva lasciato e con questi abbandonò rapidamente l’Italia meridionale per morire ancor giovane a Roma alcuni mesi più tardi. La disfatta di Ottone II avvantaggiò il governo bizantino nel secolare confronto con gli Arabi. La morte dell’emiro nella stessa battaglia in cui fu sconfitto l’imperatore germanico, e il conseguente ritiro in Sicilia delle forze arabe, concessero infatti qualche anno di respiro ai temi italiani. Già nel 986 ripresero le incursioni, la più clamorosa delle quali si ebbe nel 1002 con l’assedio di Bari per terra e per mare da parte di un consistente esercito musulmano. L’assedio durò dai primi giorni di maggio al 20 settembre, quando arrivò una flotta veneziana comandata dal doge Pietro II Orseolo, che rifornì la popolazione affamata e in pochi giorni contribuì a liberare la città. Oltre ai vantaggi politici che Venezia ne ricavò dalla sconfitta degli Arabi, infatti, la città lagunare venne ricompensata con un importante matrimonio diplomatico e la dignità nobiliare di patrizio per Giovanni Orseolo, figlio del doge in carica e da lui associato al potere. Anche questa vittoria non mise tuttavia fine agli attacchi saraceni, che ebbero ritorni offensivi in grande stile. A questi si aggiunsero le usuali turbolenze dei sudditi, derivanti perlopiù da contrasti interni alle aristocrazie locali, spesso degenerate in aperti tentativi di ribellione. La più grave di queste ebbe luogo nel 1009, sotto la reggenza del catepano Giovanni Kurkuas, a opera di un nobile barese di nome Melo. La storiografia ha voluto vedere in Melo un campione dell’indipendenza italiana contro l’oppressore, ma in realtà gli interessi erano puramente locali. La rivolta di Melo ebbe una conseguenza di grande rilievo, sia per gli sconvolgimenti che portò, sia perché il nobile barese introdusse in Italia meridionale i Normanni, come mercenari al suo soldo: proprio loro sarebbero in seguito arrivati in numero sempre maggiore fino a cacciare i bizantini dall’Italia. Bari si sollevò sotto la guida di Melo e la rivolta si propagò fino a Trani; fu domata a fatica dagli imperiali e si trascinò fino all’ottobre del 1018, quando il catepano Basilio Boioannes, arrivato in Italia con numerosi rinforzi, riuscì a domare i nemici in una battaglia combattuta presso Canne. I Normanni che componevano i contingenti mercenari del ribelle si sbandarono in varie direzioni e Melo riuscì a fuggire per raggiungere la Germania, con l’intenzione di spingere l’imperatore Enrico II a intervenire in Italia meridionale. Il sovrano germanico lo accolse e gli concesse il titolo di duca di Puglia ma, nell’aprile del 1020, Melo morì a Bamberga. La fine della rivolta di Melo portò a un consolidamento dell’autorità imperiale nell’Italia meridionale. Basilio Boioannes, il vincitore dei Normanni e una delle principali figure tra i governatori italiani. Sulla scia dei risultati ottenuti con la vittoria di Canne, Boioannes riuscì a riportare ancora una volta nell’orbita bizantina i principati longobardi. Per proteggere il territorio imperiale vennero poi costruiti o restaurati alcuni centri fortificati, di cui il più importante fu la cittadina di Troia, dove venne insediata una colonia di Normanni. Il successo maggiore ottenuto dal Catepano, anche se effimero, fu comunque l’estensione della sovranità sul principato di Capua, che portò i bizantini fino alle soglie dello stato pontificio. Il prestigio dell’impero in Italia ne guadagnò notevolmente, ma nello stesso tempo si ebbe una reazione contraria da parte delle potenze minacciate dall’espansione bizantina, ovvero il papato e l’imperatore germanico. Enrico II, sostenuto da papa Benedetto VIII, scese in Italia verso la fine del 1021 con un esercito di 60mila uomini, e attaccò l’anno dopo il sud, ma alla fine dovette ritirarsi. Il fatto d’armi più notevole fu un inutile assedio di Troia, nell’estate del 1022, i cui abitanti resistettero eroicamente ai Tedeschi per tre mesi. In quegli anni l’impero di Bisanzio era arrivato con Basilio II al massimo della potenza e le ripercussioni favorevoli si avvertivano anche in terra italiana. Questo stesso sovrano, che già nel 992, pensava di servirsi dell’aiuto navale veneziano per condurre truppe in Italia, era seriamente intenzionato a intraprendere la lotta contro gli Arabi di Sicilia intervenendo di persona. Nel 1025, un ciambellano eunuco di nome Oreste fu inviato in Italia con un forte esercito composto da truppe del tema di Macedonia e da mercenari stranieri per attaccare la Sicilia con il concorso del catepano Boioannes. L’operazione si risolse in un ennesimo fallimento. La morte lo colse e il successore, il fratello Costantino VIII, non si curò di proseguirne l’opera con la stessa energia. Nel 1028 il catepano Boioannes lasciò il governo e on la sua uscita di scena iniziò una irreversibile decadenza che in 40 anni avrebbe portato al collasso dell’Italia meridionale bizantina. Dopo la morte di Basilio II ebbe inizio una strisciante decadenza. Gli Arabi tornarono all’attacco nel 1029, ma nel 1035, dopo un accordo fra l’emiro siciliano e l’imperatore Michele IV, le loro incursioni cessarono definitivamente. La confusione spinse inoltre i Bizantini a tentare l’ultima azione di forza contro l’isola inviandovi un brillante generale, Giorgio Maniace, a cui già Belisario secoli prima fu conferito il grado di generalissimo. Maniace si impossessò di Messina, ma due anni più tardi, solo la parte orientale dell’isola era nelle sue mani, questo per le forti resistenze degli Arabi. Cadde in disgrazie a corte e venne portato come prigioniero a Costantinopoli lasciando in Sicilia un successore non all’altezza. Una nuova e grave tempesta si stava addensando sui domini bizantini, dovuta all’arrivo dei Normanni. Come gli Arabi, questi formidabili guerrieri erano calati dal Nord in gran numero come mercenari, ma attratti dalle prospettive del guadagno iniziarono le incursioni. Nel 1030 erano riusciti anche a ottenere il primo insediamento stabile con la concessione della Contea di Aversa da parte del duca di Napoli: la formazione della contea richiamò in Italia altri Normanni, che finirono per sfuggire a ogni controllo. L’attacco ai possedimenti bizantini divenne inevitabile e l’occasione venne fornita dall’ennesima ribellione scoppiata in Puglia. Un avventuriero milanese, Arduino, che aveva servito nell’esercito di Maniace e al momento era governatore di Melfi, pensò bene di servirsi del loro aiuto per realizzare un vantaggio personale. Si recò ad Aversa, dove prese contatto coi Normanni che gli fornirono un contingente di 300 uomini. Nel 1040 l’accordo andò a buon fine e gli alleati entrarono a Melfi, prendendone possesso. Gli abitanti delle località vicine, spaventati dai saccheggi, chiesero aiuto al catepano d’Italia, il protospatario Michele Dokeianos, che lasciò la Sicilia, per accorrere in Puglia. Il catepano arrivò con un grosso esercito e il 17 marzo 1041 affrontò i nemici presso Venosa: ma la sua presunzione fu punita e in prossimità del fiume Olivento le forze imperiali vennero travolte dalla furia dei Normanni. Michele Dokeianos trovò scampo nelle montagne vicine, dove riorganizzò le sue forze per tentare un nuovo attacco il 4 maggio, subendo però una nuova disfatta presso Montemaggiore sulle rive dell’Ofanto. Il comando venne affidato al successore, un altro Boioannes, parente del governatore, che fu a sua volta sconfitto e fatto prigioniero. Queste tre disfatte consecutive, giunte del tutto inaspettate data la disparità di forze tra i contendenti, segnarono l’inizio della fine per l’Italia bizantina. Il governo imperiale tentò una carta disperata liberando Giorgio Maniace e inviandolo in Italia, dove sbarcò nell’aprile del 1042. I Normanni, nel frattempo, avevano preso le loro contromisure politiche avvicinandosi al barese Argiro, figlio di Melo, con la proposta di riconoscerlo come loro signore: questi accettò. Maniace a sua volta poco riuscì a fare se non chiudersi a Taranto per non affrontare sul campo i nemici ed esercitare feroci rappresagli con la popolazione che era venuta a patti con gli invasori. Di lì a poco cambiò anche il clima politico a Costantinopoli e il nuovo sovrano Costantino IX Monomaco, abbandonò l’aggressività dei predecessori. Richiamando Manicace e cercando nello stesso tempo un accordo coi ribelli. Gli inviati dell’imperatore raggiunsero di conseguenza Argiro e gli proposero di tornare all’obbedienza, con l’impegno di usare i Normanni come mercenari al servizio dell’imperatore. Argiro accettò, ma Maniace non ne volle sapere e si ribellò facendosi proclamare imperatore dalle sue truppe. I baresi, sotto la guida di Argiro, restarono fedeli all’imperatore legittimo. Messo alle strette, salpò da Otranto con il suo esercito per andare a finire i propri giorni in Macedonia nel corso di una battaglia con le truppe lealiste. La politica conciliante di Costantinopoli non fermò i Normanni, che mantennero le conquiste fatte e iniziarono a espandersi in Puglia e in Lucania, avvicinandosi alla Calabria dove, si stanziò con il suo seguito uno dei numerosi figli di Tancredi d’Altavilla, quel Roberto il Guiscardo che sarebbe venuto capo indiscusso dei Normanni. Argiro, che era stato chiamato nel 1045 a Costantinopoli, fu rimandato in patria dal governo bizantino con l’ordine di usare ogni mezzo diplomatico per risollevare le sorti dell’impero. Sbarcò a Otranto nel 1051, prendendo poi possesso di Bari, con fatica per l’ostilità della fazione cittadina filonormanna, ma non arrivò ad alcun risultato e si decise di inviare un’ambasceria a papa Leone. Leone IX già da tempo era stato chiamato in causa dalle popolazioni dell’Italia meridionale in cerca di aiuto contro le selvagge devastazioni operate dagli invasori. Riuscì a mettere insieme un esercito consistente, rafforzato da contingenti tedeschi forniti dall’imperatore Enrico III e nei primi mesi del 1053 si mosse di persona verso sud con l’intenzione di raggiungere Argiro. Il ricongiungimento venne però reso impossibile dai Normanni, che sconfissero le forze bizantine in prossimità di Siponto costringendo Argiro a fuggire a Vieste; di conseguenza il 23 giugno del 1053 l’esercito del papa incontrò da solo i nemici in prossimità di Civitate, andando incontro a una completa disfatta. Il papa si chiuse in città, ma dovette di lì a poco consegnarsi ai vincitori, che lo trattarono con grande rispetto, anche se di fatto lo tennero prigioniero per rilasciarlo soltanto dopo la conclusione di un accordo di cui si ignora il contenuto. La sconfitta di Civitate segnò anche la fine del progetto politico di Argiro. I papi abbandonarono Bisanzio, tanto più che nel 1054 intervenne lo scisma fra le chiese, e i vincitori continuarono a rafforzare le proprie posizioni: buona parte della Puglia passò sotto il loro controllo e Roberto il Guiscardo si impossessò della Calabria, terminando la conquista nel 1059 con la presa di Reggio. L’ascesa del Guiscardo divenne poi irresistibile quando nel 1059, con un trattato concluso a Melfi, ottenne da papa Niccolò II l’investitura a duca di Puglia, Calabria e Sicilia in cambio del giuramento di fedeltà alla chiesa romana. Si stava infatti profilando lo scontro fra il papato e l’impero germanico. I bizantini fecero sforzi tanto disperato quanto inutili per mantenere il controllo della Puglia, tentando l’opzione militare e alleandosi con l’imperatore tedesco Enrico IV e l’antipapa Onorio II. La forza dei Normanni era comunque irrefrenabile e Roberto il Guiscardo decise di dare il colpo finale al nemico eliminando i pochi centri. Nel 1069 andò ad assediare Bari che capitolò nell’aprile del 1071. L’ultimo governatore dell’Italia imperiale, il catepano Stefano Paterano, cadde nelle sue mani: fu poi risparmiato e mandato a Costantinopoli insieme ad altri prigionieri. Finiva così, dopo quasi cinque secoli e mezzo, la storia del dominio di Costantinopoli nella penisola italiana. Nel secolo successivo, sotto il regno di Manuele I Comneno, i bizantini avrebbero fatto un ultimo tentativo di riprendersi l’Italia. Ancora in guerra con i Normanni, nel 1155, le truppe imperiali attaccarono la Puglia giungendo in poco tempo alle porte di Taranto. La controffensiva normanna li mise però in difficoltà e nella primavera del 1158 furono costretti a venire a patti e a evacuare la penisola, dove non sarebbero più tornati da conquistato ----PAGINA 92-104. VENEZIA E BISANZIO- 1) LE ORIGINI DI VENEZIA Venezia è ancora oggi una città sotto molti aspetti complicata e tale è anche la storia delle sue origini. Il motivo è essenzialmente tecnico: le testimonianze materiali che consentono di ricostruirle sono poche, le fonti documentarie assai scarse e gli storici locali scrivono molto tardi rispetto agli avvenimenti. La più antica fonte narrativa di cui disponiamo, l’Istoria Veneticorum di Giovanni Diacono, risale a poco dopo il Mille, mentre la composizione del testo cronachistico noto come ‘’Origo civitatum italiae seu veneticorum’’ si data fra XI e XII secolo. Più tarda ancora è inoltre la Chronica extensa del doge Andrea Dandolo, composta nel Trecento, che rappresenta la prima storia ufficiale di Venezia. Le opere storiche di provenienza veneziana presentano inoltre una caratteristica del tutto peculiare che consiste nella mitizzazione dell’origine della città, legandola a eventi leggendari e in particolare tacendo sulla dipendenza da Bisanzio. A ciò si aggiunge infine un ulteriore problema costituito dalla difficoltà di utilizzare l’Origo, in cui non solo si ha mescolanza di realtà e leggenda, ma anche un incredibile disordine espositivo. nell’812 con cui Costantinopoli riconosceva a Carlo Magno il titolo di imperatore, ma in cambio otteneva il dominio su Venezia. L’inviato imperiale che aveva trattato con Carlo Magno, lo spatario Arsafio, nell’811 a nome del suo signore dichiarò deposti il doge filofranco Obelerio e i due suoi fratelli associati al trono, sostituendoli con il duca lealista Agnello Partecipazio e riportando il governo veneziano sotto l’influenza bizantina. Questi avvenimenti segnarono l’ultimo intervento diretto di Bisanzio nella vita veneziana: il ducato, anche se formalmente soggetto a Bisanzio, si avviò in realtà verso una progressiva indipendenza, pur mantenendo per secoli un forte legame con l’impero. Difficile dire quando Venezia sia divenuta indipendente. La dottrina storica ha avanzato molte ipotesi in proposito, collocando in momenti diversi l’effettiva indipendenza fra IX e XI secolo. Già nel corso della prima metà del secolo vennero fatti passi notevoli: Agnello Partecipazio trasferì la capitale a Rialto, dando così una nuova fisionomia al ducato, e nell’828 sotto il successore Giustiniano il corpo di San Marco venne portato da Alessandria a Venezia, dove costituì il simbolo della nuova città. 2) IL LEGAME CON BISANZIO Venezia fu nel Medioevo la città più legata a Bisanzio e mantenne un vincolo di sostanziale alleanza con l’impero fino al XII secolo, quando sotto i sovrani Comneni i rapporti cominciarono a incrinarsi. La coincidenza di interessi nel far sì che le rotte adriatiche e le regioni che su queste si affacciavano fossero sgombre da nemici comuni spinse infatti a più riprese il governo veneziano a intervenire in favore dei bizantini. Oltre alle strette relazioni politiche, si ebbe un rapporto culturale del quale Costantinopoli continuò a essere un modello, tanto che si può parlare di una Venezia bizantina anche quando era venuta meno una effettiva dipendenza. Questo rapporto si manifestò ampiamente in campo artistico, ma soprattutto nell’influsso esercitato dalla corte bizantina su quella ducale. Dal punto di vista istituzionale, per esempio, possiamo ravvisare una chiara influenza bizantina nel sistema della co-reggenza, che in alcune occasioni consentì la successione dei dogi veneziani al potere. Era consuetudine a Bisanzio che il sovrano in carica si associasse a uno o più colleghi formalmente di pari grado. Questo sistema da un lato poneva rimedio alla tradizionale instabilità del potere supremo, dall’altro consentiva il formarsi di dinastie più o meno durature. A Venezia la coreggenza venne introdotta da Maurizio Galbaio, doge dal 764 al 787, che si associò al potere il figlio. Il doge del primo periodo aveva un’autorità di tipo regale, che venne limitata molto più tardi fino a trasformarlo in un semplice magistrato cittadino. La trasmissione del potere comportava, alla maniera bizantina, una consegna delle insegne da parte del collega più anziano. La cerimonia avvenne con la consegna di tre emblemi, la spada, il bastone e il seggio, che erano forse antiche insegne in qualche modo venute da Bisanzio. I legami con la corte di Costantinopoli non si fermano qui e si devono tenere presenti altri due importanti aspetti: i vincoli matrimoniali e il conferimento di dignità imperiali ai reggitori del governo veneziano. Orso I Partecipazio, doge dall’864 all’881, sembra aver preso in moglie una nipote di Basilio I, alla quale si lega in qualche modo la leggenda del bobolo veneziano, ossia l’offerta alle donne di un bocciolo di rosa rossa, che ancora oggi si pratia il giorno della festa di san Marco. Più di un secolo dopo, Giovanni, figlio di Pietro II Orseolo, sposò a Costantinopoli una nipote di Basilio II e Costantino VIII di nome Maria. Gli sposi in seguito si trattennero per qualche tempo ancora nella città imperiale; presero quindi la via di Venezia, ma qui la dogaressa morì poco dopo di peste assieme al figlio avuto dall’Orseolo, al quale era stato dato il nome di Basilio. Questa donna diede scandalo a Venezia per il suo amore del lusso. Un altro matrimonio con una donna di Costantinopoli si ebbe infine nell’XI secolo con le nozze fra Domenico Selvo e la bizantina Teodora Ducas, figlia dell’imperatore Costantino X. L’attribuzione di titoli imperiali, in Italia, fu un privilegio condiviso dai duchi di Venezia, Napoli, Amalfi e Gaeta, tutti in origine dipendenti da Bisanzio. Era consuetudine per gli imperatori di Bisanzio, concedere dignità palatine a governanti stranieri. I beneficiati, per parte loro, potevano rafforzare il loro peso politico e il prestigio personale, dato che il titolo li inseriva nei gradi della gerarchia nobiliare dell’impero, sullo stesso piano dei dignitari bizantini. Il peso specifico dell’impero di Bisanzio nell’immaginario collettivo era ancora notevole nei secoli centrali del Medioevo e a questo fascino non si sottraevano certo i governanti veneziani. I titoli nobiliari bizantini furono conferiti ai dogi veneziani dall’VIII all’XI secolo, da quando cioè il ducato era ancora soggetto all’impero fino a quando aveva raggiunto ormai l’indipendenza. La corte di Bisanzio fu infatti un punto di riferimento obbligato per i dogi, che da essa ricevevano dignità palatine o vi inviavano i propri eredi in cerca di legittimazione. Si ebbe così a partire dal terzo doge della lista tradizionale, Orso, un’ampia serie di concessioni di dignità conferite ai dogi o al loro figlio, che comprese i titoli di ypatos, spatharios e protospatharios, di patrizio, di patrizio e anthypatos e di magistros concessi a Domenico Contarini in carica dal 1043 al 1071, di protoproedos e infine di protosevastos a Domenico Selvo. Quest’ultimo titolo venne ai dogi dal privilegio con cui, nel 1082, Alessio I Comneno ricompensò la repubblica per l’aiuto nella guerra contro i Normanni ed era il più elevato di tutti gli altri concessi in precedenza, dato che poneva il duca veneziano sullo stesso piano dei membri della famiglia imperiale cui era stato conferito. Da occasionale, come era stata fino a quel momento, la dignità divenne inoltre ereditaria, trasmissibile cioè da un doge ad un altro. Domenico Selvo fu deposto nel 1084 e, di conseguenza, il titolo passò al successore Vitale Falier. Il Selvo, che visse ancora per qualche anno, continuò a fregiarsi della dignità imperiale. Seguiva così l’usanza bizantina, in forza della quale i titoli non erano revocabili se non dall’imperatore e si estinguevano solo alla morte del detentore. La dignità di protosevastos venne poi riconfermata ai dogi veneziani nei trattati successivi, nel 1126 e del 1147, ma questi dopo Ordelaffo Falier, in carica dal 1101 al 1118, non usarono più i gradi di nobiltà bizantina. I rapporti con Costantinopoli, infatti, erano diventati difficili e i governanti di Venezia, ormai di fatto e di diritto indipendenti, non ritenevano più opportuno mantenere legami così appariscenti con la corte imperiale. Il privilegio concesso ai Veneziani nel 1082 segnò l’inizio della loro straordinaria fortuna in Levante. Venne attribuito attraverso l’emissione di una <<crisobolla>>, ossia un documento all’apparenza unilaterale con cui veniva accordata una concessione sovrana. Nel maggio del 1082, durante il soggiorno a Costantinopoli, Alessio Comneno emise infatti una crisobolla con la quale concedeva ampi privilegi alla città alleata in cambio dell’aiuto prestato e dell’impegno a mantenere l’alleanza anche in futuro, sulla base di quanto concordato qualche tempo prima nelle trattative svolte dai suoi ambasciatori a Venezia. L’aiuto era quanto mai necessario per far fronte all’aggressione dei Normanni e l’imperatore largheggiò in concessioni, come d’altronde si era impegnato a fare chiamando in soccorso i Veneziani. Concesse loro pertanto titoli nobiliari, elargizioni in denaro, proprietà fondiarie e privilegi di natura commerciale. Questi ultimi furono senza dubbio i più importanti, perché le esenzioni attribuite fecero ottenere una posizione di preminenza nel commercio orientale. I veneziani avevano già ottenuto vantaggi di questo genere nel 992, con una crisobolla di Basilio II, ma si era trattato di una semplice riduzione di imposte per le navi che arrivavano a Costantinopoli. Ora al contrario furono autorizzati a commerciare in pressoché tutto l’impero senza pagare tasse né andare soggetti a controlli. Un notevole salto di qualità, tale da determinare inevitabilmente il predominio di Venezia. Al momento, tuttavia, non se ne valutò appieno la pericolosità, il volume dei traffici veneziani non era tale da destare preoccupazioni. L’importanza dell’avvenimento non sfuggì però a una osservatrice attenta come Anna Comnena, figlia e biografa di Alessio I, che dopo aver riassunto i termini della crisobolla osserva:(discorso pagina 118). La forma del privilegio in termini diplomatici voleva sottolineare la pretesa bizantina alla supremazia, più nominale che reale, sugli stati come il ducato veneziano si erano venuti costituendo da un’originaria condizione di sudditanza. Non per nulla, infatti, i veneziani nel testo sono considerati <<sudditi>>. Com’era nella prassi, il documento venne emesso in originale greco e traduzione latina dalla cancelleria imperiale; il primo però è andato perduto e possediamo soltanto due traduzioni latine inserite in crisobolle posteriori. All’originale doveva poi essere annessa una sezione relativa agli obblighi di Venezia, ma di questa non vi è più traccia. Il testo del privilegio imperiale al contrario ci è giunto integralmente con la serie dei benefici concessi a Venezia. Il doge come si è detto otteneva a titolo perpetuo la dignità aulica di <<protosevastato>> con il relativo stipendio, mentre ai patriarchi di Grado veniva concesso alle stesse condizioni quello di ypertimos. Il primo di questi era stato creato dallo stesso Alessio I, che operò una riforma radicale dei gradi di nobiltà bizantini; il secondo era ugualmente di origine recente e veniva conferito agli ecclesiastici che il sovrano voleva onorare in modo particolare: nel caso specifico Alessio Comneno intendeva alimentare la rivalità fra il patriarca di Grado e papa Gregorio VII, amico dei Normanni. Le elargizioni in denaro comprendevano un versamento annuale di venti libbre d’oro, che i Veneziani potevano distribuire a piacimento nelle loro chiese. Veniva poi imposto a ogni amalfitano proprietario di una bottega a Costantinopoli o in altri territori dell’impero di versare annualmente tra monete d’oro alla chiesa di San Marco a Venezia. Seguivano quindi le assegnazioni immobiliari: a Costantinopoli i Veneziani ottennero un quartiere lungo il Corno d’Oro comprensivo di tre scali marittimi e un forno adiacente alla chiesa di Sant’Acindino, che già doveva essere di loro proprietà, con la rendita relativa; a Durazzo la chiesa di sant’Andrea con la pertinenza di questa, a eccezione del materiale immagazzinato a uso della flotta imperiale. I privilegi commerciali, infine, riguardavano la facoltà di vendere o acquistare <<ogni genere di merce>> senza pagare alcuna tassa, né essere sottoposti a requisizioni e alla giurisdizione dei funzionari marittimi. Erano esattamente indicati, a tal fine, i tributi da cui i veneziani dovevano essere esentati. Questo diritto in teoria era valido per tutto il territorio bizantino, dato che il concetto è riaffermato per due volte nel documento; nella pratica però doveva essere limitato alle località espressamente elencato, che andavano dalla Siria alle estreme province occidentali ed erano i principali centri commerciali dell’impero. Non vi erano compresi i porti del mar Nero, di cui Bisanzio intendeva riservarsi il monopolio, e le isole di Creta e di Cipro, che vennero aperte al commercio veneziano soltanto qualche anno più tardi. Le località indicate erano 32; entravano però nell’elenco anche alcuni entri non più sotto controllo diretto di Bisanzio, come Antiochia o Durazzo, al momento occupata dai Normanni. DUE MONDI LONTANI (Teodora, quando morì Teofilo, imperatore di Bisanzio, prese le redini del potere al posto del figlio Michele III, detto l’Ubriacone, e governò fino all’858, successivamente diede l’incarico a Fozio di divenire patriarca della Chiesa di Costantinopoli, deponendo Ignazio I, utilizzando il pretesto che non voleva dare la comunione allo zio imperatore, Bardas). Il secolare dissidio con la chiesa di Roma si avvicinò allo scisma nel IX secolo con l’avvento al trono patriarcale di Costantinopoli dell’erudito Fozio. Imparentato con la famiglia imperiale e nato a Costantinopoli verso l’820, fu un uomo di grande erudizione e scrittore fecondo: la sua opera principale è la Biblioteca, che in alcuni casi ci dà notizia su scritti oggi scomparsi. Nell’858, dopo la deposizione di Ignazio, Fozio fu scelto come nuovo patriarca di Costantinopoli da Teodora, reggente dell’impero per contro del minore Michele III, nonostante fosse un laico. L’ex patriarca Ignazio andò a Roma per lamentare il trattamento subito: papa Niccolò gli diede ascolto e convocò un sinodo: papa Niccolò I gli diede ascolto e convocò un sinodo che non riconobbe l’elezione di Fozio dichiarandola illeggittima, dato che era stato di fatto imposto da Barda, l’onnipotente zio dell’imperatore, che aveva costretto alla rinuncia il precedente patriarca. Fozio, con l’appoggio di Barda e del suo sovrano, entrò in conflitto con il papa Niccolò I e convinse gli ambasciatori a lui inviati da Roma a ritendere legittima la sua elezione. Il papa dichiarò deposto Fozio nell’863, ma Michele III si schierò a favore del patriarca. Fozio a sua volta attaccò la chiesa di Roma sul piano dottrinale: un sinodo riunito a Costantinopoli nell’867 scomunicò il papa, condannò come eretica la dottrina romana della duplice processione dello Spirito Santo e respinse come illegali le intrusioni romane nelle questioni della chiesa bizantina. Si sarebbe probabilmente arrivati allo scisma, ma improvvisamente Michele III fu deposto e il nuovo imperatore Basilio I cambiò politica religiosa. Il sovrano fece rinchiudere Fozio in un monastero e richiamò Ignazio, rappacificandosi così con Roma. In seguito, tuttavia, deluso della sua precedente politica ecclesiastica, Basilio I fece tornare a corte Fozio che nell’877, alla morte di Ignazio, salì di nuovo sul trono patriarcale e questa volta venne anche riconosciuto da Roma. La partita era comunque soltanto rimandata. Lo scisma ebbe luogo nel 1054, segnando il punto di arrivo del contrasto fra Roma e Costantinopoli. Sul soglio di Pietro si trovava allora papa Leone IX, esponente del monachesimo riformato di Cluny, sostenuto dal cardinale Umberto, fiero avversario di Bisanzio. Mentre a Costantinopoli era patriarca Michele Cerulario, un’altra forte personalità, e sul trono sedeva il debole Costantino IX Niceforo Foca veniva definito <<imperatore dei Greci>> mentre Ottone I era <<imperatore augusto dei Romani>> e vennero incarcerati per l’intollerabile oltraggio. 2) I NORMANNI ALL’ATTACCO Nella seconda metà dell’XI secolo le distanze fra Oriente e Occidente iniziarono ad accorciarsi e quest’ultimo divenne sempre più aggressivo. Entrarono in gioco due fattori nuovi: la generale rinascita dell’Europa occidentale dopo il Mille, e la progressiva crisi dell’impero di Bisanzio. L’impero iniziò a presentarsi come una meta appetibile per chi era attirato dalle prospettive di guadagno o anche per gli stati che avevano intenzioni aggressive. I bizantini stessi, dopo secoli di un sostanziale isolamento, si aprirono sempre più all’Occidente e questo fenomeno si fece avvertire soprattutto sotto la dinastia dei Comneni, sul trono dal 1081 al 1185. Manuele I Comneno, il terzo sovrano della dinastia, amava le usanze occidentali e le introdusse a corte modificando la mentalità e le tradizioni della sua gente. Si fecero strada così i tornei cavallereschi accanto alle tradizionali corse di carri, per secoli il divertimento preferito dai bizantini, e anche nella scelta dell’imperatrice si fece avvertire il cambiamento: mentre per secoli i sovrani avevano sposato le loro suddite, ora iniziano a preferire le straniere, e la prassi in seguito sarebbe divenuta la regola. L’afflusso massiccio di Occidentali fece tuttavia maturare, anche un processo di ostilità crescente, rivolta a contenerne sia la pressione militare sia presenza ingombrante nella vita sociale ed economica dell’impero. Il progressivo indebolimento di Bisanzio si fece avvertire con la successione di sovrani di poco spessore e scarsamente attenti a mantenere un apparato militare all’altezza della situazione. Per più di 50 anni dopo il 1028 furono al governo quasi sempre esponenti dell’aristocrazia civile, pregiudizialmente avversi al mondo militare: quando salì al potere Alessio I Comneno, un rappresentante della fazione avversa, la situazione era ormai compromessa, con la sparizione dell’esercito nazionale e il disfacimento della flotta. A ciò si aggiungevano le catastrofiche sconfitte in Italia e in Asia Minore, passate in mano ai Turchi Selgiuchidi. Roberto il Guiscardo fu il primo ad approfittarne, portando il suo attacco direttamente al cuore di Bisanzio, e dando così inizio a ripetute aggressioni occidentali, sempre più frequenti a partire dal XII secolo. Nella primavera del 1081, a dieci anni dalla conquista del meridione italiano, Roberto il Guiscardo assalì la costa orientale dell’Adriatico, con l’intento di conquistare Durazzo e di qui aprirsi la via per Costantinopoli; dopo aver compreso Corfù portò quindi l’assedio alla città. Alessio Comneno si trovò in grosse difficoltà, essendo un soldato aveva bene chiara la situazione strategica e prese di conseguenza le uniche contromisure che al momento poteva adottare. Scrisse perciò al sultano selgiuchide di Asia Minore, con il quale aveva appena sottoscritto un trattato di pace, perché gli inviasse mercenari e, contemporaneamente, fece una richiesta di aiuto navale a Venezia. Da parte veneziana vi era una sostanziale coincidenza di interessi, poiché l’eventuale insediamento dei Normanni su entrambe le coste dell’Adriatico era visto come un pericolo alla libertà di navigazione. Esisteva inoltre a Durazzo una consistente colonia veneziana. Il governo veneziano, di conseguenza, non si fece pregare e fu rapidamente concluso un accordo quando la legazione imperiale raggiunse Venezia: le proposte di Alessio I erano molto allettanti per Venezia e le concessioni promesse sarebbero state fatte in caso di vittoria quanto di sconfitta degli alleati. La flotta veneziana, al comando del doge Domenico Selvo, fece quindi vela alla volta di Durazzo, dove arrivò probabilmente verso la metà di luglio, e subito si accese una violenta battaglia navale con i Normanni, in cui i veneziani ebbero la meglio. L’euforia del momento venne però raffreddata dalla determinazione con la quale il Guiscardo continuava ad assediare Durazzo, senza curarsi dell’accerchiamento navale e, ancor di più, dalla sonora sconfitta che le forze arrivate da Costantinopoli al comando del sovrano subirono alla metà di ottobre. Alessio Comneno si salvò con la fuga e la disfatta segnò il destino di Durazzo, che si arrese l’8 febbraio del 1082. Il risultato non era tuttavia decisivo e Alessio Comneno, dopo la fuga, non rimase inattivo: raggiunse Tessalonica, dove si fermò per qualche tempo prima di rientrare a Costantinopoli, e qui si adoperò per ricostruire un esercito; nello stesso tempo inviò un’ambasceria all’imperatore germanico Enrico IV per esortarlo ad accettare l’Italia normanna, a seguito dell’accordo già concluso all’inizio del conflitto, schierandosi insieme a lui contro il papa Gregorio VII, che al contrario appoggiava il Guiscardo, suo alleato nella lotta per le investiture. La missione diplomatica non ebbe l’effetto sperato e in primavera il Guiscardo riprese l’offensiva, deciso ad aprirsi la via per Costantinopoli, conquistando Castoria in Tessaglia. La situazione dell’impero sembrava disperata, ma intervenne un fatto nuovo a modificarla: nei domini italiani del Guiscardo era infatti scoppiata una rivolta, sobillata dai partigiani di Alessio I, ed Enrico IV, comparso dinanzi alle mura di Roma, si apprestava a scendere al Sud in aiuto dei ribelli. Il normanno fu costretto a rientrare in Italia, in aprile o maggio del 1082, lasciando il comando al figlio Boemondo. La sua partenza non capovolse l’andamento della guerra, impose soltanto una battura di arresto alla marcia su Costantinopoli, che fornì ai bizantini il tempo per riorganizzarsi. Boemondo estese le conquiste normanne e sconfisse sul campo per bene due volte l’imperatore nel corso dello stesso anno. La campagna si svolse fra l’estate e l’autunno del 1082, al termine di questa Boemondo andò a porre l’assedio a Larissa in Tessaglia. I veneziani non presero parte alle operazioni del 1082, non essendo state condotte sul mare. La capitolazione di Durazzo non guastò i buoni rapporti con Alessio I, che al contrario rafforzò i vincoli con gli alleati concedendo i privilegi promessi l’anno precedente. L’aiuto veneziano, d’altronde, era indispensabile per condurre un’azione sistematica contro gli aggressori. Con tenacia pari a quella del Guiscardo, Alessio Comneno preparò una controffensiva per il 1083. In primavera le truppe imperiali cacciarono i nemici da Larissa, liberando la città dopo sei mesi di assedio; Boemondo ripiegò a Castoria e di qui raggiunse Valona, con l’intenzione di recarsi in Italia in cerca di aiuto e di denaro. Fra i suoi uomini cominciava a serpeggiare il malcontento e l’imperatore ne approfittò per cercare di indurre i comandanti dei Normanni alla diserzione. Mentre Boemondo era a Valona, comparve nuovamente una squadra navale veneziana, che attaccò Durazzo ed entrò senza incontrare resistenza nella città abbandonata dagli abitanti. I veneziani non riuscirono però a prendere la rocca, in cui si erano asserragliati i Normanni. Vi restarono per 15 giorni, poi tornarono sulle navi alla notizia che i nemici si muovevano da Valona in aiuto degli assediati. Nella seconda metà dell’anno, infine, Alessio Comneno riprese l’offensiva e in novembre costrinse alla resa il presidio normanno di Castoria. La situazione si era rovesciata a favore dell’impero e i Normanni di fatto erano stati ricacciati fino al mare. Nela primavera del 1084 le navi veneziane abbndonarono Durazzo e raggiunsero Corfù congiungendosi a una flotta imperiale che aveva riconquistato l’isola, e probabilmente, la vicina Butrinto. Avevano però sottovalutato l’energia di Roberto il Guiscardo, che nella seconda metà del 1084 diede il via alla controffensiva. Mandò in avanscoperta Boemondo, da cui furono riconquistate Valona e Butrinto, e in ottobre partì a sua volta da Otranto con una flotta d centoventi navi. Si impossessò di Corfù e proseguì per ricongiungersi con Boemondo. Alessio I Comneno ricorse ancora ai veneziani chiedendo il loro aiuto e di nuovo una flotta veneziana, al comando del figlio del doge Selvo, raggiunse Corfù, dove venne assediato il castello, e qui si ricongiunse alla squadra imperiale inviata da Costantinopoli. Roberto il Guiscardo, fece vela alla volta di Corfù per affrontare gli alleati dai quali fu sconfitto in due successivi scontri navali. Ma quando ormai questi ritenevano di essere vincitori, li assalì di nuovo a sorpresa e li sconfisse rovinosamente nonostante la loro superiorità numerica. I bizantini fuggirono lasciando le altre navi che vennero travolte. Il Guiscardo propose ai congiunti il riscatto dei prigionieri sui quali non aveva esercitato la propria offerta di pace, che venne respinta. La sconfitta fu di tale portata che il doge Selvo fu costretto a dimettersi e venne sostituito da Vitale Falier. Il successo questa volta era stato completo ma i Normanni nnon ebbero modo di rallegrarsene a lungo, perché un’epidemia si diffuse fra loro facendone strage. Si ammalò anche Boemondo e fu costretto a rientrare in Italia per esservi curato. Ciò malgrado, nell’estate del 1085 il Guiscardo rimise in mare le navi che aveva ormeggiato in avnscoperta il figlio Ruggero per assediarne il castello. Non si sa bene cosa gli alleati abbiano fatto per contrastarlo ma, comunque siano andate le cose, Roberto raggiunse Cefalonia. Qui però venne colto da febbre e il 17 luglio del 1085 morì. La sua morte condusse alla rapida disgregazione di ciò che restava dell’apparato bellico normanno e, di fatto mise fine alla guerra. Si arresero senza combattere anche i difensori di Durazzo e l’esercito costituito dall’invasore si disgregò. Nonostante le difficoltà incontrate, il successo veneziano era completo e anche Alessio I alla fine dei conti ne aveva guadagnato essendo riuscito, con la vittoria sui Normanni e altri successi militari, a consolidare notevolmente il suo impero. L’alleanza con Venezia era stata mantenuta e così i privilegi commerciali concessi nel 1082, che non vennero messi in discussione. Venezia continuava a non avere antagonisti, rispetto sia ai commercianti indigeni sia alle altre città marinare italiane, e la sua posizione di forza non venne scossa neppure dal trattato con Pisa dell’ottobre 1111. Alessio I aveva emesso una crisobolla a favore di questa città, per dissuaderla dal prestare aiuto ai suoi nemici, concedendo privilegi commerciali, ma le condizioni di favore accordate restavano di gran lunga al di sotto di quelle di cui godeva Venezia. I pisani ottennero infatti un quartiere a Costantinopoli, con un annesso pontile di sbarco, e una semplice riduzione dei dazi doganali al 4% rispetto al normale 10%. 3) LA PRIMA CROCIATA Le crociate risvegliarono gli entusiasmi e i desideri di conquista degli Occidentali e segnarono nello stesso tempo l’inizio di una crisi irreversibile per Bisanzio. Il movimento crociatistico ebbe inizio nel 1095, quando papa Urbano II al concilio di Clermont fece appello ai fedeli per condurre la <<guerra santa>>. La definizione di crociata si adattò progressivamente a ogni guerra contro i nemici della fede, compresi gli eretici, ma come crociate più importanti sono in genere ricordate sette od otto spedizioni, che ebbero luogo fra XI e XIII secolo. Di queste, le prime quattro coinvolsero direttamente l’impero d’Oriente. L’appello di papa Urbano II suscitò un grande entusiasmo nella cristianità occidentale: l’adesione all’impresa andò al di là delle aspettative e l’idea di combattere per la fede colpì profondamente l’immaginazione dei contemporanei. L’entusiasmo suscitato dall’invito a liberare i luoghi santi, al famoso grido di <<Dio lo vuole! >>, non venne però condiviso in eguale misura da tutto il mondo cristiano. Se da un lato migliaia di persone in Occidente si misero in movimento per la guerra santa, dall’altro lato l’arrivo dei pellegrini fu visto con stupore e preoccupazione nel mondo bizantino. Per secoli Bisanzio aveva combattuto l’Islam e i suoi sovrani ritenevano che la lotta contro gli infedeli fosse un dei loro doveri. Al di là degli entusiasmi popolari, lo spostamento di una grande quantità di armati dall’Occidente destava allarme in termini materiali, dato che non si poteva prevedere quale atteggiamento queste forze avrebbero assunto. A Bisanzio gli Occidentali erano guardati con sospetto e ora, un numero enorme di uomini in armi si apprestava a muoversi verso il cuore dell’impero, dato che papa Urbano II aveva indicato Costantinopoli come luogo di raduno dei partecipanti. Al tempo della prima crociata, sul trono di Bisanzio sedeva ancora Alessio I Comneno, che dopo le vittorie riportate era sul punto di prendere l’offensiva contro i Turchi in Asia Minore. Questo suo progetto venne reso vano dall’arrivo dei crociati. Naturalmente non li aveva chiamati, anche se la propaganda dei crociati fantasticò in questo senso; Alessio I Comneno fu costretto a far buon viso a cattivo gioco, dato che non aveva forza sufficienti per rispedirli indietro. L’arrivo degli Occidentali suscitava in lui notevoli preoccupazioni: secondo quanto scrive la figlia, egli li temeva poiché conosceva il loro slancio irrefrenabile, il carattere instabile e volubile e gli altri difetti caratteristici, tra cui l’avidità e l’assoluta mancanza di scrupoli con la quale violavano i trattati. La stessa principessa bizantina si addentra poi in una spiegazione dei motivi della crociata, che ha un carattere fortemente riduttivo. A suo giudizio il movimento era nato per opera di Pietro l’Eremita, il predicatore di cui si dirà più avanti. Recatosi a visitare il santo sepolcro, Pietro sarebbe stato maltrattato in ogni modo dagli infedeli in Asia Minore; per questo motivo avrebbe pensato di spingere le genti dell’Occidente a recarsi in massa ai luoghi santi, sostenendo che ciò gli veniva ordinato da una voce divina. Sempre Anna Comneno distingue poi fra i pellegrini in buona fede, animati da un sincero desiderio di raggiungere Gerusalemme, e alcuni perfidi aristocratici, tra cui soprattutto i Normanni, il cui principale scopo consisteva nell’impossessarsi dell’impero. La prima crociata nacque con un’unica anima, ma due corpi distinti. Accanto alla spedizione ufficiale dei signori feudali, che raccolsero l’appello del papa, si costituì infatti una crociata autonoma di pellegrini, la cosiddetta <<crociata popolare>>, che la precedette di qualche mese. La crociata popolare si organizzò spontaneamente dopo il concilio di Clermont, grazie all’attività di numerosi predicatori, fra i quali ebbe un posto di primo piano il monaco itinerante Pietro l’Eremita: originario di Amiens, iniziò a predicare la crociata in Francia, dove raccolse circa 15mila seguaci e passò quindi in Germania, continuandovi la predicazione e reclutando nuovi discepoli. Il grosso era formato da contadini che volevano abbandonare le sollecitato dai cristiani di Oriente, decise finalmente di procedere alla volta della Palestina. La flotta veneziana ottenne importanti successi contro i musulmani e, al rientro, nella seconda metà del 1124, attaccò nuovamente l’impero. L’armata veneziana fece scalo a Rodi per rifornirsi; i Bizantini rifiutarono di concedere i viveri richiesti e i soldati del doge, di conseguenza, sbarcarono prendendo d’asslato la città, che venne saccheggiata. Subito dopo fu la volta di Chio. Da Chio vennero fatte incursioni piratesche contro Samo, Lesbo, Andro e altri centri minori e, in primavera, la flotta riprese la via di Venezia portando, fra l’altro, le reliquie di sant’Isodoro trafugate a Chio. Durante il viaggio venne saccheggiata Modone e analoga sorte toccò ad alcune località della costa dalmata. Giovanni Comneno, dopo l’assedio di Corfù, aveva ordinato di trattare i veneziani come nemici e l’atmosfera per loro doveva essersi fatta pesante anche a Costantinopoli. Nel 1126 ripresero le ostilità e una nuova spedizione veneziana attaccò l’isola di Cefalonia, dove fu sottratto il corpo di San Donato vescovo per portarlo a Venezia. La flotta imperiale non era in grado di far fronte agli attacchi e, nel corso di 4 anni, i veneziani agirono indisturbati ottenendo una serie di successi. Giovanni Comneno fece sapere al doge che era pronto a rinnovare il trattato e un’ambasceria veneziana raggiunse Costantinopoli. Nell’agosto del 1126 si arrivò a un accordo sancito dall’emissione di una nuova crisobolla, completata da una sezione, oggi perduta, relativa agli obblighi di Venezia. Giovanni Comneno perdonava i veneziani in considerazione dei precedenti meriti e perché di nuovo promettevano di combattere per l’impero. I loro ambasciatori avevano sottoscritto e giurato un documento nel quale venivano dettagliatamente fissati i doveri di Venezia nei confronti di Bisanzio; a loro volta avevano chiesto la conferma e la parziale modifica della crisobolla di Alessio I. Aggiungeva poi la modifica chiesta da Venezia, riguardante un’interpretazione autentica del testo alessiano: nell’applicazione delle norme stabilite dal documento . funzionari del fisco bizantino ritenevano infatti esentati dal pagamento delle tasse i veneziani, ma non i sudditi dell’impero che con loro trattavano. Ascoltate le rimostranze , l0imperatore accoglieva la richiesta, disponendo che l’esenzione si estendesse anche ai suoi sudditi sia quando acquistavano dai veneziani sia quando a loro vendevano. Al contrasto con Venezia, che aveva messo bruscamente fine a un’intesa secolare, seguì in modo ancora più devastante il passaggio della seconda crociata. Partita nel 1147, dopo la riconquista musulmana di Edessa, sotto la guida di Corrado III re di Germania e di Luigi VII re di Francia, questa spedizione terminò due anni dopo in un totale fallimento. Corrado III mosse dalla Germania verso la fine di maggio del 1147, attraversò l’Ungheria e superò il confine bizantino un paio di mesi più tardi. Sul trono di Bisanzio c’era ora Manuele I Comneno, nipote di Alessio I, uno dei sovrani più brillanti di Bisanzio, che si trovò tra le mani un impero notevolmente più solido e si adoperò per ristabilire ovunque possibile la sovranità bizantina; la sua azione politica segna l’ultimo serio tentativo di dare a Bisanzio una dimensione di potenza egemone. Sconfitto dai Turchi a Miriocefalo nel 1176, l’imperatore vide crollare i suoi sogni e di lì a 4 anni morì lasciando una situazione disastrosa. La pretesa del Comneno all’egemonia finì per scontrarsi inevitabilmente con l’esuberante potenza veneziana, le cui aspirazioni non sempre coincidevano con quelle del sovrano di Costantinopoli. Manuele I fu assalito dalle stesse preoccupazioni del nonno, quando la crociata si avvicinò. I delegati bizantini raggiunsero il re tedesco in territorio ungherese e gli chiesero di giurare di non agire contro l’imperatore, cosa alla quale Corrado III si prestò, ottenendo in cambio la promessa di appoggio logistico. A Sofia e Filippopoli si ebbero incidenti con le popolazioni e Manuele Comneno inviò truppe per scortare i crociati; il rimedio fu tuttavia peggiore del male, perché i due contingenti vennero spesso sanguinosamente alle mani. Manuele Comneno, seriamente allarmato, ordinò ai tedeschi di non raggiungere Costantinopoli e di effettuare la traversata a Sesto sull’Ellesponto, ma Corrado III proseguì per la sua strada arrivando nella capitale il 10 settembre. I tedeschi saccheggiarono i dintorni di Costantinopoli e la situazione rischiò di degenerare in scontro aperto ma all’ultimo momento venne ristabilita un’apparente concordia e i crociati passarono il Bosforo. I Francesi arrivarono il mese successivo, seguendo ugualmente l’itinerario terrestre; la loro marcia causò meno problemi ai bizantini perché venne condotta con maggiore disciplina. Lo stesso re, dopo un rifiuto iniziale, aderì alla richiesta di impegnarsi con il giuramento a restituire i territori ex imperiali. La spedizione prese quindi la via dell’Asia Minore, con l’aiuto dei bizantini, ma senza alcuna collaborazione tra Tedeschi e Francesi. I primi vennero sconfitti pesantemente dai Turchi in prossimità di Dorileo il 25 ottobre, e poco più tardi, re Luigi si ricongiunse ai resti del loro esercito avanzando sotto la continua pressione dei Turchi, fino ad Attalia, dove lasciò i suoi uomini per imbarcarsi alla volta di Antiochia. Corrado III, a sua volta, abbandonò la spedizione a Efeso per tornare a Costantinopoli: di qui, in seguito, si recò in Palestina. Le operazioni proseguirono quindi in Siria, al di là dell’orbita bizantina, senza alcun risultato concreto. Approfittando dell’allontanamento di forza per controllare i crociati, infatti, i Normanni di re Ruggero II si impadronirono di Corfù nel 1147. Di qui la loro flotta attaccò la Grecia continentale, devastandone molte località: questa incursione si svolse nella seconda metà del 1147, e condusse alla presa di Tebe e di Corinto dove i Normanni razziarono un enorme bottino. Dopo di che si ritirarono e la loro flotta riprese la via della Sicilia portando le ricchezze depredate e un gran numero di prigionieri: le navi da guerra normanne, secondo uno storico bizantino, erano così cariche di preda da sembrare pesanti vascelli mercantili. Corfù restava però in mano nemica e, messo alle strette, Manuele Comneno fu costretto a concludere due trattati con Venezia per assicurarsene l’appoggio navale e attaccare l’isola, riconquistandola nell’estate del 1149. Il fallimento delle operazioni militari in Asia Minore, di cui i maggiori responsabili furono i capi della spedizione, venne propagandisticamente attribuito ai bizantini: come già al tempo della prima crociata, si era parlato di un tradimento bizantino, ora Luigi VII lamentò lo stesso motivo fra le cause della sconfitta. Vere o false che fossero le accuse, contribuirono a inasprire i rapporti tra Oriente e Occidente, che negli anni successivi si fecero sempre più tesi. Da parte occidentale si guardava con sospetto crescente all’impero, visto come una potenza inaffidabile e pericolosa e, viceversa, a Bisanzio cresceva di giorno in giorno l’animosità contro i Latini. Manuele Comneno non aveva concepito la campagna contro Corfù come una semplice operazione difensiva, bensì quale parte di un progetto più ambizioso di riconquista del territorio italiano. Una volta eliminata la testa di ponte di Corfù, aveva intenzione di portare direttamente la guerra nel regno normanno per farla finita con i nemici di sempre. A tale fine iniziò a mettere insieme una grande armata di terra e di mare della quale intendeva prendere personalmente il comando. L’inizio delle operazioni erano previste per la primavera del 1148 e l’imperatore doveva essere sicuro di risolvere la questione in poco tempo, a giudicare dal fatto che si era assicurato l’aiuto veneziano soltanto per sei mesi. I suoi progetti vennero però ritardati da fatti imprevisti e nell’inverno del 1150, la flotta approntata per l’invasione, che si trovava ferma a Valona, rientrò a Costantinopoli. Fra le circostanze avverse che causarono il ritardo vi fu anche l’azione della diplomazia veneziana, scarsamente propensa ad accettare l’insediamento dei bizantini su entrambe le coste dell’Adriatico. L’intesa con il re di Germania non venne tuttavia meno e l’inizio della campagna in Italia fu fissato per il 1152, ma Corrado III morì il 15 febbraio di quell’anno senza che nulla fosse stato fatto. Il nuovo sovrano tedesco, Federico I Barbarossa, si mostrò molto più tiepido di fronte un accordo con i bizantini, da cui li divideva la pretesa all’egemonia, e il progetto di guerra comune sfumò. Ciò malgrado, nel giugno del 1155, quando il Barbarossa si trovava in Italia, le forze imperiali attaccarono la Puglia giungendo in poco tempo alle porte di Taranto. Fu però una vittoria di Pirro: l’anno successivo il nuovo re di Sicilia, Guglielmo I, sconfisse i bizantini in prossimità di Brindisi, procedendo quindi alla riconquista del territorio che gli era stato sottratto. Nella primavera del 1158, infine, con la mediazione di papa Adriano IV, venne concluso un trattato in forza del quale i bizantini abbandonarono la penisola. L’impresa non fu soltanto un insuccesso militare, ma ebbe anche conseguenze politiche: creò infatti un contrasto insanabile fra l’imperatore di Bisanzio e il collega Germanico, e segnò l’inizio di una progressiva frattura nelle relazioni con Venezia. Il timore di una riaffermata presenza bizantina in Italia aveva spinto la repubblica a concludere un trattato con Guglielmo I nel 1154, così che al momento delle ostilità Venezia restò neutrale. Per aggirare l’ostacolo, Manuele Comneno nel 1155 si rivolse a Genova, gettando le basi di un accordo, ma la diplomazia normanna vanificò la sua opera ottenendo che anche questa città rimanesse neutrale. L’invadenza non solo militare dell’occidente suscitò, come succede in casi del genere, un forte sentimento xenofobo fra i bizantini, che si manifestò apertamente attraverso 2 episodi: il primo con i provvedimenti adottati contro i veneziani nel 1171 e il secondo con la strage di occidentali a Costantinopoli nel 1182. I provvedimenti furono l’esito inevitabile del peso enorme assunto dai veneziani nell’impero, a seguito dei privilegi commerciali di cui godevano, e vennero messi in atto, per ordine di Manuele Comneno, attraverso l’arresto e la confisca dei beni. La strage fu invece conseguenza diretta della politica nazionalistica dell’ultimo Comneno, Andronico, che eccitò le folle contro i latini. Dopo la morte di Manuele I Comneno nel 1180, il governo era passato al giovane figlio Alessio e alla reggente Maria di Antiochia, seconda moglie del defunto imperatore. La debolezza del potere centrale diede però l’avvio a un tentativo di usurpazione da parte di Andronico, cugino di Manuele, che si pose a capo di una rivolta antigovernativa. I rivoltosi erano animati soprattutto dall’ostilità nei confronti degli Occidentali. Andronico Comneno, dalla provincia di cui era governatore, marciò su Costantinopoli ed ebbe facilmente ragione delle forze governative. Il suo ingresso nella città, nel 1182, fu preceduto da un massacro di Latini da parte della folla aizzata dagli agenti imperiali: si ebbero migliaia di vittime e i sopravvissuti vennero venduti come schiavi ai Turchi. (testimonianza Eustazio che è il metropolita di Tessalonica). Andronico Comneno si liberò di Alessio II e Maria di Antiochia mettendoli a morte e intraprese una riforma dello stato, volta a eliminare decisamente le forme di degenerazione della vita pubblica, che sostenne con metodi di feroce brutalità. Riuscì a far venir meno alcune forme tradizionali di corruzione, ma rese assai debole la propria posizione e minò l’apparato militare togliendo di mezzo i signori feudali che, a Bisanzio come in Occidente, ne erano i capi; finì perciò col subire ripetute sconfitte da parte dei nemici tradizionali dell’impero: il colpo più grave venne dai Normanni, che nl 1185 rinnovarono l’aggressione all’Oriente e presero Durazzo, impadronendosi in seguito di Tessalonica, mentre la loro flotta conquistava Corfù, Cefalonia e Zacinto. Tessalonica fu brutalmente saccheggiata e di qui i vincitori presero in parte la via di Costantinopoli. La gravità della disfatta e la minaccia capitale causarono la caduta di Andronico Comneno, che a Costantinopoli venne linciato dalla folla inferocita. Con la sua caduta finì anche la dinastia comnena, sostituita da quella debolissima degli Angeli. Isacco II Angelo riuscì comunque a liberarsi dei Normanni, che furono sconfitti da un suo generale e costretti a ritirarsi, mantenendo il controllo di Cefalonia e di Zacinto, da quel momento definitivamente perdute da Bisanzio. Pochi anni più tardi arrivò una nuova disgrazia con la terza crociata, iniziata nel 1189 dopo la conquista di Gerusalemme a opera del Saladino. Anche questa sedizione, al cui comando vi erano l’imperatore Federico I Barbarossa e i re Filippo Augusto di Francia e Riccardo Cuor Leone d’Inghilterra, ebbe un esito modesto. Federico Barbarossa, nemico dichiarato dell’impero, percorse l’itinerario attraverso i Balcani e si alleò con Serbi e Bulgari in funzione antibizantina. A Costantinopoli si sparse il panico e venne concluso un trattato con il Saladino per impedire il passaggio dei crociati. Federico Barbarossa occupò Filippopoli e si apprestò ad assalire Costantinopoli. Alla fine però, Isacco II si arrese e, nel febbraio 1190, venne concluso un trattato, nel quale il sovrano tedesco otteneva il permesso di effettuare la traversata e il rifornimento di viveri e un certo numero di ostaggi. Il Barbarossa non raggiunse tuttavia la Terra Santa, perché morì poco più tardi; fallì ugualmente la spedizione dei re di Francia e Inghilterra, ma quest’ultimo sottrasse ai Bizantini Cipro. I rapporti fra Bisanzio e Occidente peggiorarono ancora negli anni successivi, per l’ostilità dell’imperatore Enrico VI, figlio e successore del Barbarossa, che minacciava di impossessarsi di Costantinopoli, raccogliendo l’eredità dei Normanni di cui era divenuto sovrano. La debolezza di Bisanzio, in continua decadenza sotto i successori dei Comneni, ne faceva sempre più una preda a portata delle potenze egemoni in Occidente, convinte di potersene impossessare senza grandi sforzi. I bizantini cercarono di placare il sovrano germanico impegnandosi a pagare un forte tributo annuo, per cui venne introdotta una speciale <<tassa tedesca>>. Le risorse finanziarie non furono tuttavia sufficienti e il sovrano del momento, Alessio III Angelo, fu costretto ad asportare gli ornamenti delle tombe imperiali per raggiungere la somma necessaria. La minaccia tedesca su Bisanzio si fece sempre più pressante, ma Enrico VI morì nel 1197 prima di riuscire ad attuarla; in ogni modo fu soltanto una tregua perché di lì a poco l’Occidente avrebbe sferrato il colpo mortale. moderazione e pensò di inviare un’ambasceria a Costantinopoli per chiedere spiegazioni. L’arrivo dei profughi di Almiro fece però prevalere il partito della guerra e l’idea di negoziare venne abbandonata: nell’arco di 4 mesi fu approntata una flotta di 100 imbarcazioni da guerra e 20 da carico, che in settembre fece vela alla volta del Levante agli ordini del doge Michiel, per essere raggiunta durante il tragitto da altre dieci galee fornite dagli Istiani e Dalmati. Vennero prese Traù e Ragusa, e di qui la flotta raggiunse l’Eubea, di cui fu assediata la capitale. L’astuzia bizantina entrò a questo punto in scena: il comandante del presidio imperiale avviò trattative con il doge e promise la restituzione dei beni confiscati, se fosse stata inviata un’ambasceria a Costantinopoli, cosa che il Michiel fece. Gli ambasciatori non riuscirono a vedere Manuele Comneno e furono richiamati; essi avevano avuto comunque assicurazioni sulle possibilità di far pace e tornarono con un legato bizantino, che però sembra essere stato inviato per guadagnare tempo e informarsi sulla consistenza delle forze avversarie. Nel frattempo, l’armata veneziana si era trasferita a Chio, sottomettendo tutta l’isola, effettuando intanto numerose incursioni punitive contro le città costiere dell’impero. Mentre si svolgeva la seconda legazione però le forze veneziane vennero colpite da un’epidemia ed ebbero in poco tempo un migliaio di morti; pieni di sospetti e di rancore verso l’imperatore, essi pensarono che avesse fatto avvelenare i pozzi e il vino. Ai primi di aprile, gli occupanti lasciarono Chio e raggiunsero l’isola di Panagia. L’epidemia continuava intanto a mietere vittime e i Veneziani si spostarono a Lesbo con l’intenzione di raggiungere poi l’isola di Lemno, ma il cattivo tempo li costrinse ad approdare a Sciro. Si trovarono così alle strette: poco dopo, l’insofferenza ormai generalizzata spinse il doge a ordinare la ritirata e la sua flotta fece vela per Venezia, inseguita e attaccata dalle navi bizantine. La campagna si era risolta così in un totale disastro e la grande armata messa in campo l’anno precedente rientrò in patria umiliata e di fatto sconfitta, portandosi dietro per di più l’epidemia che ne aveva fatto strage. Lo scontento fu così grande che pochi giorni dopo il doge venne assassinato. La terza ambasceria terminò ugualmente in un fallimento e i due legati veneziani vennero insultati da Manuele. L’uso della forza questa volta nulla aveva risolto e al commercio veneziano era venuto un colpo gravissimo, anche se alcuni audaci continuarono a loro rischio a praticare i mercati bizantini. Migliaia di Veneziani erano imprigionati a Bisanzio, i loro beni passati al fisco o a chi se ne era impossessato a diverso titolo, i contatti diplomatici a nulla erano serviti e il doge era stato assassinato. Il nuovo doge Sebastiano Ziani abbandonò la politica del predecessore e cercò di premere su Bisanzio per altre vie, fomentando la ribellione dei Serbo e fornendo navi al Barbarossa, che nel 1173 assediò Ancona, rimasta fedele all’impero. La via diplomatica non venne tuttavia trascurata, anche se i risultati furono nulli perché l’imperatore continuò a servirsi della consueta tattica dilatoria. Visto che a nulla portavano i negoziati, a Venezia si decise di dare un segnale più forte, fu concluso un trattato con il re di Sicilia, quindi con uno dei peggiori nemici di Bisanzio: venne stipulata una pace ventennale e in cambio la repubblica ottenne concessioni commerciali. Questo fatto nuovo, a quanto pare, spinse Manuele I a rivedere la propria posizione. Si diede l’avvio a nuovi negoziati, e nel 1179 si giunse alla liberazione di parte dei prigionieri. Non tutti i prigionieri inoltre vennero liberati e, nel 1182, il quartiere veneziano a Costantinopoli non era stato ancora ricostituito. Se ne deve quindi dedurre che, più che di un accordo in senso stretto, si sia trattato di un gesto di buona volontà del sovrano in vista dell’esito favorevole delle trattative. Manuele I non arrivò comunque alla conclusione di queste perché morì il 24 settembre 1180. Dopo l’eliminazione del suo successore, l’usurpatore Andronico I Comneno, isolato sul piano internazionale per il massacro degli Occidentali, riprese le trattative con i Veneziani, che non erano stati toccati dalla strage non essendo ancora tornati a popolare il loro quartiere di Costantinopoli, e nel 1183 in segno di benevolenza rilasciò gli ultimi prigionieri. I negoziati procedettero spediti e, concluso un accordo che contemplava la restituzione del quartiere di Costantinopoli, il risarcimento in rate annuali dei danni subiti nel 1171 e il rinnovo dei privilegi. Venne probabilmente emessa una crisobolla, oggi perduta, e i Veneziani ricominciarono a tornare in buon numero nell’impero, esercitandovi i loro traffici e riprendendo possesso del quartiere nella capitale. L’imperatore inviò a Venezia cento libbre d’oro, che vennero distribuite fra i danneggiati. Il pagamento di cento libbre d’oro non ebbe altro seguito nell’immediato: nel settembre del 1185 Andronico Comneno venne tolto di mezzo e la situazione tornò in alto mare. Isacco II Angelo proseguì nella linea favorevole a Venezia avviando trattative per assicurarsene l’alleanza e allontanarla dalle potenze occidentali ostili a Bisanzio, e i legati del doge Orio Mastropietro raggiunsero Costantinopoli per mettersi all’opera. Si arrivò in breve tempo a un accordo parziale: l’emissione di tre crisobolle del febbraio 1187 sancirono: la prima crisobolla rinnovava i privilegi ottenuti dal tempo di Alessio I, la seconda il diritto al quartiere di Costantinopoli così come era stato concesso da Manuele Comneno; la terza introduceva, al contrario, un elemento di novità con un trattato di alleanza militare fra Venezia e l’impero, che non fu mai messo in pratica e di cui non è neppure chiaro lo scopo. Isacco Angelo, ossessionato dai nemici sterni che miravano ai territori del suo impero, aveva disperatamente bisogno di alleati e ancora una volta cercò di rendersi amica Venezia, a favore della quale nel giugno 1189 emise una quarta crisobolla per definire le questioni della riconsegna dei beni e del risarcimento dei danni. 2 anni prima, ordinando la restituzione dei beni confiscati ai veneziani, aveva istituito una commissione per recuperare quanto non fosse immediatamente reperibile. La commissione non aveva però ottenuto grandi risultati a motivo delle difficoltà tecniche che comportava l’identificazione di ciò che era stato di proprietà veneziana, finito nelle mani più disparate. Il governo cittadino aveva protestato per il ritardo e il sovrano aveva deciso di mettere fine alla controversia accettando la proposta degli ambasciatori veneziani di ampliare il loro quartiere a Costantinopoli, fino a raggiungere una rendita annuale di 50 libbre d’oro, a scapito degli adiacenti quartieri Tedeschi e dei Francesi. Isacco II doveva scendere a qualsiasi compromesso pur di mantenere l’amicizia veneziana nel momento del bisogno. A giustificazione del suo operato, inoltre, addusse il fatto che i quartieri francese e tedesco erano poco usati dai titolari e, più che alle rispettive nazioni, appartenevano ai pochi commercianti di passaggio, i quali rendevano uno scarso servizio all’impero, per cui si riteneva più conveniente assegnarli ai Veneziani per l’utile che essi arrecavano. I quartieri vennero trasferiti ai nuovi assegnatari con i relativi punti di approdo e il verbale di consegna fu messo in mano agli ambasciatori alla presenza dello stesso Isacco II. Il passaggio di proprietà comportava anche il trasferimento delle rendite, che erano pari appunto a 50 libbre d’oro. Il trattato del giugno 1189 riguardò inoltre l’annosa questione del risarcimento dei danni, che si trovava ancora al punto di partenza dopo il primo pagamento di Andronico Comneno. Isacco II accettò di pagare l’intera somma e, sebbene un centenario fosse già stato versato, decise ugualmente di corrispondere tutti i quindici centenari chiesti da Venezia. Questa decisione è presentata nel testo della crisobolla come un atto di benevolenza. Una prima quota di 250 libbre viene data agli ambasciatori del doge e l’imperatore si impegnò a far avere il resto in rate uguali nell’arco di sei 6 anni. Anche questo impegno, troppo oneroso rispetto alla grande bancarotta di Bisanzio, non fu tuttavia mantenuto: dopo l’arrivo della prima rata si ebbero ulteriori pagamenti nel 1191 e nel 1193, ma quando, nel 1195, Isacco II perse il trono il debito non era stato ancora saldato. Il perdurare della appropriazioni indebite nel 1189, malgrado l’obbligo di restituire tutto ai Veneziani, rende chiaramente l’idea della precarietà della rinnovata intesa con l’impero, in cui la parte soccombente, Bisanzio, giocava le ultime carte a disposizione per uscirne indenne. I ritardi nel risarcimento, intenzionali o meno che fossero, rendevano inoltre assai fragile la nuova amicizia, che era molto più formale che sostanziale. L’aiuto veneziano era sì necessario all’impero come lo era stato in precedenza, ma ora andava prestato a un corpo in agonia più per farlo sopravvivere che per definirne un nuovo ruolo di potenza internazionale. A ciò si aggiungeva l’instabilità della situazione interna. Una prova evidente si ebbe dopo la deposizione di Isacco II, quando il potere passò al fratello Alessio III Angelo, che mutò la linea politica del predecessore e assunse un atteggiamento ostile nei confronti di Venezia, favorendo i Genovesi, i Pisani e i Ragusei ai danni di questa. I rapporti veneto-bizantini si fecero nuovamente tesi e furono necessarie lunghe trattative per ristabilire un accordo. Il doge Enrico Dandolo inviò un’ambasceria al nuovo imperatore allo scopo di ottenere il rinnovo della crisobolla di Isacco II e il risarcimento promesso, ma questa non ottenne risultati e fu seguita da una legazione bizantina a Venezia. Il doge Dandolo, però non intendeva trascinare la cosa all’infinito e inviò altri ambasciatori a Bisanzio che, il 27 settembre 1198, arrivarono finalmente a un accordo, confermato due mesi più tardi da una lunghissima crisobolla. La questione centrale del disaccordo fra Venezia e Bisanzio, cioè il risarcimento dei danni, non venne ufficialmente definita, ma è possibile che essa sia stata comunque regolata. Alessio III riconfermò i privilegi commerciali sanciti dalle crisobolle dei suoi predecessori e a sua volta dichiarò solennemente la completa libertà di commercio per i Veneziani con l’esenzione da tutte le imposte. Per sgomberare il campo da possibili equivoci, inoltre fece elencare nella crisobolla tutte le città o regioni in cui essi avrebbero potuto esercitare il loro commercio. Esse erano infatti sorte controversie a motivo dell’incompletezza delle precedenti concessioni, che non indicavano esattamente tutte le zone aperte ai traffici veneziani; gli ambasciatori se ne erano lamentati con il loro sovrano ed egli volle così definire una volta per tutte la questione. Ne restavano però escluse le zone costiere del mar Nero, mantenendo la decisione già adottata al tempo di Alessio I Comneno. Su richiesta degli ambasciatori venne infine definita la condizione dei Veneziani residenti a Bisanzio, ai quali furono date alcune garanzie giurisdizionali per meglio tutelarli. Questo accordo solenne concludeva la serie dei patti fra Venezia e l’impero iniziata oltre un secolo prima. Fu l’ultimo tentativo di definire su base pacifica un rapporto divenuto sempre più difficile: agli umori oscillanti dei sovrani di Bisanzio corrispondeva da tempo il desiderio veneziano di una sicurezza che salvaguardasse i loro interessi in Oriente. Bisanzio, minacciata da ogni parte e senza più una politica coerente, non offriva le necessarie garanzie al comune veneziano, per il quale il mantenimento della regolarità dei traffici in Levante era di capitale importanza. LA QUARTA CROCIATA E L’IMPERO LATINO --- 1) LA CONQUISTA DI COSTANTINOPOLI La quarta crociata si trasformò in un atto di pirateria internazionale: i due artefici principali furono il doge di Venezia Enrico Dandolo e il marchese Bonifacio di Monferrato. Disattese del tutto infatti gli scopi istituzionali per cui era stata bandita e per i quali il papa l’aveva benedetta, ossia la liberazione della Terra Santa, e senza un motivo reale si rovesciò su una città cristiana, devastandola con una furia ferina che nulla aveva a che fare con la religiosità. La quarta crociata venne bandita nel 1198 da papa Innocenzo III e il suo invito fu raccolto dapprima dalla feudalità francese e fiamminga, alla quale si unirono in seguito i signori tedeschi e dell’Italia settentrionale. Capo riconosciuto ne fu il conte Tibaldo di Champagne, che però morì nel 1201 e venne sostituito al comando dal marchese Bonifacio di Monferrato. I partecipanti elaborarono un piano strategico di raggiungere via mare l’Egitto e di qui attaccare la Terra Santa: un progetto ardito, la cui realizzazione richiedeva però una flotta adeguata. L’unica che poteva dare garanzie in tal senso era la repubblica di Venezia e, di conseguenza, a questa ci si rivolse. Furono avviate trattative e, nell’aprile del 1201, venne concluso un trattato in forza del quale Venezia avrebbe preso parte all’impresa offrendo le navi e i viveri necessari per un anno, contro il pagamento di una forte somma di denaro. In più i veneziani avrebbero fornito una scorta di 50 galere, a condizione di ricevere in cambio metà delle conquiste future. Come data del raduno a Venezia in vista della partenza fu stabilito il 29 giugno del 1202. I crociati iniziarono ad affluire in città fra aprile e giugno 1202 ma, si accorsero di non poter raccogliere tutta la somma necessaria per pagare il trasporto. Il doge Enrico Dandolo fece allora una proposta tanto strana quanto insolita e suggerì loro di conquistare per conto della repubblica di Venezia la città di Zara, che si era ribellata alla repubblica stessa, e di ottenere così una dilazione nel pagamento. Zara era città cristiana e al momento si era data al re d’Ungheria, perciò l’idea suscitava molte perplessità all’interno del movimento crociato. La sua conquista non aveva nulla a che fare con gli scopi della spedizione. Si trattava in sostanza di un vero e proprio ricatto operato dai Veneziani, tale da suscitare il disappunto di chi a loro era tendenzialmente avverso. (discorso di Gunther di Pairis pagina 166). I crociati, alle strette, altro non poterono fare che acconsentire nonostante l’opposizione di molti. L’avvenimento fu solennizzato con una cerimonia nella chiesa di San Marco e, prima dell’inizio della messa, il doge Dandolo parlò ai presenti, annunciando la sua intenzione di prendere la croce; si recò quindi dinanzi all’altare pregando a lungo in ginocchio, poi gli venne cucita una croce sul copricapo in modo che tutti la vedessero. L’8 novembre 1202, la flotta prese finalmente il largo, composta da 202 navi, 7mila veneziani e 32mila crociati. Prese anche parte alla spedizione l’anziano doge Dandolo, che doveva avere superato i novant’anni ed era quasi cieco, a seguito di un incidente capitatogli circa tre decenni prima quando si era recato in ambasceria a Costantinopoli. L’età e la menomazione, però, nulla avevano tolto alla sua naturale energia, che il Dandolo mostrò nella fase organizzativa della crociata e, in seguito, nei momenti più difficili Fiandra, sul quale fecero convergere i voti veneziani per evitare che si imponesse la forte personalità di Bonifacio di Monferrato. Subito dopo fu istituito un patriarca latino di Costantinopoli, nella persona del veneziano Tommaso Morosini. Si fece infine la spartizione dell’impero: il sovrano latino ottenne un quarto dell’impero e il resto andrò diviso in parti uguali in ragione di un quarto e mezzo per ciascuno fra veneziani e cavalieri crociati. La spartizione aveva tuttavia un valore in gran parte teorico dato che, quando fu completata, la provincia bizantina doveva ancora essere sottomessa, a eccezione dei territori di Macedonia e di Tracia conquistati da Baldovino di Fiandra con una breve campagna estiva. Anche quando, in seguito, l’assoggettamento ebbe luogo, non sempre le assegnazioni fatte sulla carta coincisero con le acquisizioni effettive. La conquista della provincia bizantina iniziò verso la fine del 1204 e il grosso si svolse fra 1204 1205, portando alla costituzione di alcuni stati feudali più o meno ampi e semi-indipendenti nel corpo dell’impero latino. Bonifacio di Monferrato, deluso per la mancata elezione a imperatore, conquistò per sé il regno di Tessalonica, con giurisdizione su Macedonia e Tessaglia, in contrasto con il sovrano latino e con l’appoggio dei Veneziani, che in cambio ottennero da lui la cessione di Creta, di cui avrebbero preso possesso qualche tempo più tardi. I Francesi si gettarono sulla Grecia e nel 1205 il borgognone Ottone de la Roche, con l’appoggio del re di Tessalonica, formò il ducato di Atene, comprendente Attica e Beozia, con capitale Tebe. Nel Peloponneso sorse inoltre il principato di Acaia o Morea, costituito nello stesso anno dai cavalieri crociati Guglielmo di Champlitte e Goffredo di Villehardouin. I Veneziani trassero i maggiori vantaggi dalla conquista e si assicurarono una serie di scali commerciali per garantire le rotte del Levante. Rinunciarono ai territori della Grecia continentale loro assegnati nella spartizione, ma si impossessarono di Durazzo, Corfù, Corone e Modone nel Peloponneso, Creta e parte dell’Eubea. A queste acquisizioni, passate sotto il controllo diretto della repubblica, si aggiunsero le isole dell’Arcipelago, conquistate in maniera autonoma, a eccezione di Andro, conquistata da alcuni nobili partiti da Costantinopoli e guidati da Marco Sanudo, che vi costituirono proprie signorie. Il numero di queste aumentò nel corso del tempo, ma al momento della prima conquista (1207) dovevano essere Nasso, Paro, Milo e Santorini, Andro presa da Mariano Dandolo, Tino, Micone , Sciro, Scopelo e Sciato finite in mano ai fratelli Andrea e Geremia Ghisi, e Lemno sottomessa da Filocalo Navigaioso. Erano inoltre compresi nella parte assegnata a Venezia i principali possedimenti in Tracia, fra cui Adrianopoli. A Costantinopoli i Veneziani ebbero infine parte della città e vennero reintegrati nel quartiere posseduto fino ai tempi di Manuele Comneno. A partire dal 1205, dopo la morte del doge Dandolo, venne inoltre istituito a Costantinopoli un podestà veneziano per governare parte dei territori coloniali e questo, per qualche tempo mostrò tendenze autonomistiche, per essere però di lì a breve riportato sotto il controllo della madrepatria. Con la formazione dell’impero latino, in sostanza, Venezia si garantì un impero commerciale e la sicurezza dei transiti fino a Costantinopoli, mettendo fine una volta per tutte alla precarietà dei rapporti con Bisanzio. La posizione dei Veneziani nell’impero fu di gran lunga più solida di quella dei crociati: mentre infatti questi ultimi erano costretti a giurare fedeltà all’imperatore, il doge, in forza del trattato del 1204, venne esentato dall’obbligo. La politica veneziana, inoltre, si mostrò più coerente di quella dei crociati e anche in seguito Venezia si contrappose come potenza unitaria alla frammentazione dell’impero latino. La conquista latina all’inizio si rivelò molto facile. La maggior parte dei grandi proprietari fondiari bizantini, infatti, si sottomise ai nuovi signori quando ottenne l’assicurazione di poter conservare i propri possedimenti. L’acquisizione veneziana dei territori assegnati, al contrario, non fu del tutto indolore. La prima spedizione di conquista partì da Venezia dopo la metà di maggio del 1205 e si impossessò senza sforzo di Durazzo; poco più tardi fu raggiunta da altre navi e l’intera flotta si diresse a Corfù, divenuta sede del corsaro genovese Leone Vetrano, che venne conquistata in luglio. Essendo l’isola sfuggita di mano ai conquistatori: questa volta partirono dalla madrepatria trentun galere e, dopo un accanito combattimento, ne fu preso il castello. L’occupazione avrebbe poi trovato un completamento un anno dopo con la cattura del Vetrano e della sua flotta: portato a Corfù, il corsaro venne impiccato. La stessa flotta che aveva preso Corfù arrivò quindi a Corone e Modone, divenute ugualmente nidi di pirati, che caddero a seguito di una lotta armata. La tappa successiva fu Creta, la cui conquista iniziò nel 1207 e si protrasse per alcuni anni a causa della presenza di pirati sostenuti da Genova e dell’aristocrazia locale, mal disposta verso i nuovi dominatori. I bizantini, di fronte allo sfacelo del loro mondo, non rimasero sempre a guardare e alcuni aristocratici fuggirono in regioni non ancora raggiunte dai Latini, dando vita a governi indipendenti che reclamarono la continuità con il precedente impero. Il primo di questi fu l’impero di Nicea, in Asia Minore, fondato nel 1204 da Teodoro Lascaris, genero di Alessio III, fuggito da Costantinopoli al momento della conquista latina, che nel 1208 si fece incoronare imperatore da Michele Autoriano, da lui stesso creato patriarca. L’impero di Nicea fu inutilmente contrastato dai Latini, che intendevano conquistarlo e liberarsi così di una potenziale minaccia di restaurazione bizantina. Alla fine del 1204 i Latini attaccarono l’Asia Minore per sottometterla, ma la loro avanzata si arrestò bruscamente quando, nel febbraio del 1205, i bizantini di Tracia si ribellarono chiamando in aiuto lo zar bulgaro Kalojan. L’imperatore latino richiamò le truppe dall’Asia Minore e, da Costantinopoli, mosse contro i nemici. Il 14 aprile del 1205 si giunse allo scontro e Baldovino fu sanguinosamente sconfitto dai Bulgari in prossimità di Adrianopoli. Nella battaglia perì il fiore della cavalleria crociata e scomparve lo stesso imperatore, fatto prigioniero e mai restituito. I superstiti, guidati dal doge Dandolo e da Goffredo di Villehardouin, lo storico della crociata, omonimo nipote del principe di Acacia, raggiunsero a fatica Costantinopoli, dove il Dandolo morì. La battaglia di Adrianopoli salvò Nicea dalla probabile sottomissione e gli Occidentali dovettero temporaneamente evacuare l’Asia Minore, permettendo così al nuovo impero di consolidarsi e raccogliere l’eredità di Costantinopoli. Teodoro Lascaris organizzò il nuovo stato sul modello di Bisanzio e facendovi rivivere sia l’impero sia il patriarcato. Egli e i suoi successori entrarono nella storia dei sovrani Costantinopoli come una sorta di governo imperiale in esilio: si considera la serie dei sovrani di Nicea quale legittima successione di Alessio V dopo la presa della capitale. All’impero latino e al patriarca latino si vennero perciò contrapponendo un patriarca ortodosso e un imperatore greco a Nicea. Nicea rappresentava un pericolo per l’impero latino e il nuovo sovrano, Enrico di Fiandra, fratello di Baldovino, riprese il progetto di sottometterla dopo aver arrestato l’espansione dei Bulgari. La guerra si trascinò per alcuni anni senza risultati notevoli, finché, nel 1214, venne concluso il Trattato di Ninfeo che definì i confini dei due imperi: allo stato latino sarebbe rimasta la costa nord-occidentale dell’Asia Minore, mentre il resto fino alla frontiera con i Selgiuchidi sarebbe andato a Nicea. Il despotato di Epiro, a sua volta giunse rapidamente a una potenza considerevole, estendendosi su Epiro, Acarnania ed Etolia; come Nicea, assunse una posizione politica fortemente antilatina. Il successo più spettacolare a danno dei Latini fu ottenuto dal despota Teodoro Angelo nel 1217, quando le sue forze fecero prigioniero Pietro di Courtenay, l’imperatore designato di Costantinopoli che si stava recando ad assumere la carica. Nel 1224 inoltre Teodoro Angelo riconquistò Tessalonica, mettendo fine al regno che si era mantenuto con i successori di Bonifacio di Monferrato, ucciso dai Bulgari nel 1207, e ne fece la capitale dei suoi possedimenti. Dopo questi successi, si fece a propria volta proclamare imperatore dei Romani, rivendicando il diritto di rappresentare la continuità del governo bizantino in antagonismo a Nicea, con cui l’Epiro ebbe un costante rapporto di rivalità. Fu un nuovo colpo per l’impero latino, il cui centro nel 1225 si era ridotto alla sola Costantinopoli e ai sobborghi. L’impero di Nicea si rafforzò con Giovanni III Ducas Vatatze, salito al trono nel 1225 e vissuto fino al 1254, che nei primi anni di regno sottomise quasi tutta l’Asia Minore latina ed entrò in Tracia, dove fu presa Adrianopoli. La caduta di questa importante città apriva anche per Nicea la via di Costantinopoli, ma la fase successiva della conquista venne ritardata dall’intervento degli Epiroti, che miravano allo stesso obiettivo dei loro rivali di Nicea. Le truppe dell’Epiro si opposero ai Niceni senza però riuscire nell’intento, dato che i loro piani furono resi vani dallo zar bulgaro Ivan II Asen, ugualmente intenzionato a impossessarsi della città imperiale. Ivan II intendeva infatti formare un impero bizantino-bulgaro con capitale a Costantinopoli e, dopo la morte di Roberto di Courtenay nel 1228, avevano pensato di affidargli la reggenza per il giovane successore Baldovino II. Lo stesso zar si trovò così inevitabilmente in rotta di collisione con l’Epiro: nel 1230, quando era pronto per l’attacco a Costantinopoli, Teodoro Angelo fu sconfitto e fatto prigioniero dai Bulgari a Klokotnica sulla Marizza. La sua disfatta causò l’eclissi della potenza epirota, prontamente sostituita da Nicea, e non si rivelò del tutto proficua per la Bulgaria, dato che gli Occidentali cambiarono idea e nel 1231 elessero imperatore l’anziano Giovanni di Brienne per governare insieme a Baldovino II. Il sovrano bulgaro fu così spinto ad allearsi nel 1235 con Nicea contro i Latini; all’alleanza aderì, sia pure in subordine, l’impero di Tessalonica, rappresentato da Manuele fratello di Teodoro. Subito dopo gli alleati portarono l’assedio a Costantinopoli per terra e per mare ma presto Ivan II cambiò di nuovo parere, dapprima tornando ad accordarsi con i Latini contro Nicea, poi abbandonando definitivamente la scena nel 1237. La sua defezione lasciò Nicea libera di continuare il programma di espansione verso la città imperiale, anche se Giovanni Vatatze non riuscì a raggiungere l’agognato obiettivo di ricostruire l’impero. La sua azione venne ritardata da diversi fattori, fra cui l’invasione mongola che nel 1242 sconvolse l’Europa orientale e che costrinse Nicea ad allearsi con i Turchi per garantire la propria sopravvivenza. I mongoli si spinsero fino alla costa adriatica, ma la loro incursione fu di breve durata e, alla fine, su rivelò vantaggiosa per i Greci di Asia Minore, perché indebolì notevolmente i vicini e potenziali antagonisti orientali. Passata la tempesta, Vatatze riprese l’espansione in direzione dei Balcani e nel 1246 conseguì un successo decisivo conquistando Tessalonica. L’impero latino aveva subito un colpo terribile con la disfatta di Adrianopoli e negli anni che seguirono si trasformò sempre più in un morto vivente, e mantenuto in vita soltanto perché sostenuto dalla flotta veneziano. Lo stato di cronica debolezza dell’impero latino fu aggravato da una pesante crisi finanziaria. Baldovino II, sul trono dal 1228, trascorse lunghi anni in Occidente nella disperata ricerca di sostegno, venendo i possedimenti aviti e rivolgendosi in varie direzioni per far sopravvivere la dominazione latina a Costantinopoli. A causa del continuo bisogno di denaro, infine, Baldovino II finì per dare in pegno ai mercanti veneziani il figlio Filippo e per vendere il piombo che ricopriva i tetti dei suoi palazzi. Ogni sforzo fu però inutile e l’Occidente abbandonò Costantinopoli latina al suo destino, con la sola eccezione dei Veneziani, che fino all’ultimo cercarono di preservarla per il loro tornaconto. Nel 1258, a causa della minorità del sovrano legittimo Giovanni IV Lascaris, il potere reale a Nicea passò a un generale, Michele Paleologo, che divenne reggente e poco più tardi ottenne anche la corona di co- imperatore, per poi sbarazzarsi del Lascaris nel 1261, facendolo accecare. La sua ascesa era stata favorita dalla difficile situazione in cui si trovava Nicea, contro la quale si formò una coalizione fra Manfredi re di Sicilia, il despota di Epiro Michele II e il principe francese di Acaia Guglielmo di Villehardouin. Gli alleati vennero sconfitti dal Paleologo a Pelagonia, in Macedonia nel 1259: i 400 cavalieri inviati da Manfredi perirono sul campo, il principe di Acaia fu fatto prigioniero e l’Epiro subì un duro colpo. Michele Paleologo era l’unico trionfatore e, di fatto, non esisteva più una potenza in grado di opporsi a Nicea, se non la repubblica di Venezia. Per far fronte a questa situazione, Michele Paleologo entrò in trattative con Genova e il 13 marzo 1261 venne firmato a Ninfeo un trattato che poneva le basi della potenza genovese nell’impero. I genovesi si impegnarono a fornire a Nicea fino a 50 navi, equipaggiate a spese del sovrano, ottenendo in cambio una serie di privilegi, tra i quali l’esenzione dalle imposte sul commercio e la concessione di scali nei porti più importanti, compresa Costantinopoli. I marcati greci sarebbero stati preclusi ai nemici dei Genovesi e, una volta ripresa Costantinopoli, essi avrebbero recuperato tutti i loro possedimenti in città, aggiungendo alcune proprietà veneziane. I genovesi inviarono qualche nave in Oriente, ma il loro aiuto non fu necessario, perché Costantinopoli cadde in modo imprevisto. La città venne occupato quasi per caso da un generale di Nicea di nome Alessio Strategopulo, che era stato inviato in missione in Tracia circa 800 uomini e l’ordine di passare vicino alla capitale per spaventare i Latini. Quando egli giunse in prossimità di Costantinopoli, venne a sapere che era pressoché priva di difensori e decise di approfittarne. L’intera flotta era infatti partita al comando del podestà Marco Gradenigo per attaccare un’isola del mar Nero appartenente a Nicea; su di essa si era inoltre imbarcata quasi tutta la guarnigione latina, lasciando in città soltanto l’imperatore Baldovino II con il suo seguito. Con l’aiuto di alcuni residenti, i Niceni entrarono in Costantinopoli nella notte fra il 24 e il 25 luglio: al mattino seguente i Latini cercarono di resistere, ma vennero dispersi e Baldovino II, vista inutile ogni difesa, si preparò a fuggire. Nel corso della stessa giornata fece ritorno la flotta veneziana e Alessio Strategopulo ordinò di dare fuoco alle case dei abbandonando l’Angiò al proprio destino e riprese le trattative con Bisanzio, con cui nel 1285 avrebbe concluso un nuovo trattato. 2) LA DECADENZA Michele VIII Paleologo morì l’11 dicembre del 1282 dopo aver speso l’intera esistenza a cercare di ricostruire la potenza del suo impero. Lo sforzo da lui compito a conti fatti si rivelò un sostanziale fallimento. La sua politica ambiziosa fu abbandonata dal figlio e successore Andronico II, che in un primo luogo ripudiò l’inutile unione religiosa con Roma, cercando di riportare la pace nella chiesa bizantina. Al fine di ridurre le enormi spese pubbliche, avviò un programma di risanamento economico volto essenzialmente alla contrazione delle spese militari, che fu attuato attraverso la riduzione dell’esercito e lo smantellamento della marina, in sostituzione della quale il nuovo sovrano ritenne di poter fare affidamento sull’alleanza con Genova. La politica estera si fece di conseguenza meno aggressiva e Andronico II cercò di risolvere mediante i rapporti diplomatici i conflitti con le potenze antagoniste. La rinuncia al mantenimento di una fora militare e la nuova linea politica ebbero un pesante contraccolpo sull’impero. La potenza ancora esistente sotto il predecessore subì un rapido processo di contrazione, avviando Bisanzio a divenire un piccolo stato incapace di esprimere una propria politica estera. La moneta andò soggetta a una forte svalutazione e si diffuse la grande proprietà terriera, inutilmente contrastata da un tentativo imperiale di aumentare l’imposizione fiscale per i ricchi. Sui mercati prevalsero le monete d’oro delle repubbliche italiane, portando un forte rincaro dei prezzi e un generale impoverimento. Analogamente disastrose le ripercussioni interne della politica seguita nei confronti delle repubbliche marinare, la cui alleanza o neutralità gravò sull’erario imperiale con una serie di concessioni o privilegi per mantenerne l’amicizia. Con Andronico II si accentuò la dipendenza di Bisanzio dalle grandi repubbliche marinare. L’amicizia con Genova fu alla base della sua azione di governo, ma il sovrano non tralasciò di ristabilire normali rapporti anche con Venezia, dopo che questa ebbe abbandonato l’alleanza con l’Angiò, rivelatasi un disastroso errore di prospettiva. Nel 1283 il governo veneziano decise di avviare contatti con il nuovo imperatore per concludere una tregua alla quale si giunse, due anni più tardi, dopo lunghe trattative. Venne stipulato questa volta un accordo decennale, che impegnava ciascuna parte a non allearsi con potenze ostili all’altra. Restava tuttavia aperto il contenzioso risalente al tempo di Michele VIII sulle isole egee, riconquistate da Venezia, rientrata nel 1296 anche nel pieno possesso dell’Eubea. La mancanza di un effettivo potere contrattuale nei confronti sia di Genova sia di Venezia fece sì che negli ultimi anni del secolo Andronico II fosse coinvolto suo malgrado nella guerra veneto-genovese, combattuta in Oriente a partire dal 1294. L’imperatore, ancora alleato con i Genovesi, offrì loro un riparo dentro le mura della capitale e i Veneziani, per rappresaglia, inviarono una flotta che ne saccheggiò i dintorni. Genova per parte sua si ritirò dalla guerra nel 1299, abbandonando l’alleato al proprio destino, e nel 1302 l’impero dovette concludere un accordo oneroso con la città rivale. Diveniva così evidente la decisa dipendenza di Bisanzio dalle città marinare italiane, che metteva fine alla politica di supremazia perseguita da Michele VIII. Anche la tregua faticosamente raggiunta con Venezia era molto fragile e nel 1306, si associò al progetto di crociata contro Bisanzio di Carlo di Valois, fratello di Filippo IV di Francia, che aveva ereditato i diritti al trono latino e godeva dell’appoggio di papa Clemente V, da cui Andronico II era stato scomunicato. La spedizione non ebbe mai luogo e, nel 1310, la città lagunare cambiò rotta accordandosi con il sovranp do Costantinopoli con cui concluse un nuovo trattato. Negli anni che seguirono Andronico II si servì della forza militare dell’Occidente ricorrendo ai servigi della Compagnia Catalana, una banda di mercenari che già aveva combattuto in Sicilia durante il conflitto angioino-aragonese da poco terminato. Ma anche in questo caso l’imperatore non fece una buona scelta, dopo i successi iniziali, i rapporti con i Catalani si fecero difficili a causa del ritardo nel pagamento del soldo. Andronico II li trasferì a Gallipoli per passare l’inverno 1304- 1305 e qui, in aprile, il co-imperatore Michele IX fece assassinare il loro capo Ruggero di Flor, ma non ottenne con ciò il risultato sperato di ridurli all’obbedienza: i Catalani anzi entrarono in guerra aperta con Bisanzio, sconfiggendo le truppe di Michele IX. Per due anni devastarono la Tracia imperiale, poi si spostarono a nord saccheggiando nel 1308 anche i monasteri dell’Athos; raggiunsero quindi la Tessaglia governata dal despota bizantino e, nel 1310, passarono al servizio del duca franco di Atene, Gualtieri di Brienne, con il quale ruppero i rapporti l’anno successivo. Ne conseguì una guerra franco-catalana, terminata con la vittoria della compagnia di ventura: il duca venne ucciso e si costituì un principato catalano di Atene. L’arruolamento dei Catalani comportò costi gravissimi sia per le devastazioni subite sia per la necessità di imporre nuove tasse ai sudditi. La situazione subì poi un ulteriore aggravamento negli anni di Andronico II con lo scoppio di una guerra civile di ampie proporzioni fra l’imperatore e il nipote omonimo che si era visto privare dei diritti di successione. Alla fine vinse il giovane Andronico, che depose il nonno, ma lo stato che prese in mano era ancora più indebolito e ancora più devastato dagli avvenimenti bellici. Sotto Andronico II, salito al potere nel 1328, l’impero ebbe un momentaneo rafforzamento dovuto in buona parte all’appoggio di Giovanni Cantacuzeno, un giovane e ricco aristocratico, che di fatto dirigeva lo stato. Il nuovo sovrano tentò una controffensiva contro i Turchi in Asia Minore, rivelatasi però fallimentare, dovette destreggiarsi fra le due repubbliche marinare. A differenza del predecessore, mantenne rapporti stabili con Venezia e adottò nello stesso tempo una politica ostile nei confronti dei Genovesi. Nel 1329 riuscì a riprendere l’isola di Chio, passata alcuni anni prima sotto il dominio della famiglia genovese degli Zaccaria, alleandosi con i Turchi Selgiuchidi degli emirati costieri dell’Asia Minore. Proseguendo nella stessa linea, poi costrinse alla sottomissione la città di Focea, ugualmente sotto il controllo dei genovesi, e scongiurò un loro tentativo di riconquistare Chio e di appropriarsi di Lesbo; al di punire i Genovesi di Galata. Il sia pur limitato ritorno di velleità dell’impero finì bruscamente quando nel 1341 Andronico III morì e il passaggio al trono all’erede Giovanni V fece scoppiare una nuova guerra civile. La contesa intestina si accese per la reggenza in nome di Giovanni V, divenuto imperatore all’età di 9 anni, fra il partito aristocratico guidato dal megas domestikos Giovanni Cantacuzeno, al comando dell’esercito, e una fazione avversa sostenuta dall’imperatrice madre Anna di Savoia. Questo secondo partito, appoggiato anche dal patriarca di Costantinopoli Giovanni Caleca, trovò un capo nel megaduca Alessio Apocauco, che diede un carattere popolare al suo schieramento, contro lo schieramento aristocratico del rivale. La guerra civile fu combattuta dal 1341 al 1347 e produsse uno sconvolgimento di grande portata, da cui Bisanzio non riuscì più a risollevarsi: a differenza di quella degli anni Venti, da cui c’era stato soltanto un indebolimento, questa causò il tracollo definitivo dell’impero. Le potenze straniere (serbi, turchi, bulgari) intervennero in modo massiccio e alla fine divennero arbitri dell’esito finale; nella contesa politica si inserirono poi contrasti religiosi e sociali. Cantacuzeno si fece proclamare imperatore, sia pure rispettando il principio di legittimità con l’osservanza formale dei diritti del Paleologo, e alla fine ebbe la meglio sui rivali assumendo la reggenza e, di fatto, il potere assoluto. Mantenne quindi sul trono il Paleologo nonostante la diffidenza e l’ostilità reciproca. L’impero uscì stremato dal nuovo conflitto civile e subì ulteriori perdite territoriali. Le potenze occidentali non restarono a guardare: I Genovesi presero Chio e Focea, che non sarebbero più tornate all’impero, i Veneziani invece fecero un buon bottino accaparrandosi i gioielli della corona bizantina senza intervenire in guerra. Nel 1343 infatti Anna di Savoia chiese a Venezia un prestito di 30.000 ducati da rimborsare in 3 anni, con i relativi interessi del 5% annuo, a garanzia del quale furono dati in pegno i gioielli della corona. La richiesta sollevò un dibattito in Senato e, malgrado le perplessità sorte, alla fine si giunse alla decisione di concederlo. Il pegno (consistente in pietre preziose, oro e perle) fu quindi consegnato al bailo veneziano di Costantinopoli per essere trasportato a Venezia dove sarebbe rimasto perché i Bizantini non avrebbero più avuto la possibilità di riscattarlo. Nei numerosi trattati commerciali fra Venezia e Bisanzio che ancora ci furono nel corso del tempo, si ebbero come punti centrali la duplice trattativa sul risarcimento dei danni e la restituzione del prestito, cui nel 1352 si sarebbero aggiunti altri 5000 ducati concessi a Giovanni V contro il pegno di una pietra preziosa. A parte occasionali pagamenti di cifre modeste, Costantinopoli non riuscì mai a pagare il suo debito e, quando cadde in mano turca, i gioielli della corona rimasero ancora depositati a Venezia. Giovanni VI Cantacuzeno si illuse di poter far restaurare in parte la potenza del suo impero di fronte alla rapacità occidentale, ma fu un breve sogno. In teoria i suoi progetti erano validi e l’usurpatore adottò una linea politica estera anti-genovese e, nello stesso tempo, cercò di rimettere in campo una propria flotta per non dipendere dalle repubbliche marinare. Questo tentativo si rivelò fallimentare: i Genovesi si defraudati dei loro privilegi e, nel 1349 attaccarono i cantieri di Costantinopoli incendiando le navi che trovarono all’ancora. Poco più tardi, nel 1350, Giovanni Cantacuzeno si trovò inoltre coinvolto nella guerra veneto-genovese per il controllo del commercio nel mar Nero. L’imperatore si alleò con Venezia e Pietro IV d’Aragona, partecipando alla battaglia del 1352 nelle acque del Bosforo. Lo scontro ebbe esito incerto e, quando i Veneziani abbandonarono il campo, Cantacuzeno dovette concludere la pace con Genova. A questa Venezia rispose alleandosi con Giovanni V Paleologo contro di lui. Nel 1352 si era aperta, infatti, una nuova guerra civile fra Giovanni VI e Giovanni V, risolta con l’intervento dei Turchi ottomani. L’amicizia con i Turchi, che fu un cardine della politica di Giovanni VI, alla lunga finì tuttavia per rivelarsi un’arma a doppio taglio e ne causò la caduta. Gli ottomani nel 1354 penetrarono infatti in territorio europeo, impossessandosi di Gallipoli, che non abbandonarono malgrado le pressanti richieste dell’imperatore. Per Cantacuzeno fu uno scacco di ampie dimensioni, perché Gallipoli era una testa di ponte per la conquista dell’Europa. La sua posizione si indebolì, a vantaggio di una congiura promossa da Giovanni V con l’appoggio del corsaro genovese Francesco Gattilusio, cui fu promessa Lesbo. Questa ebbe successo e l’usurpatore fu deposto nel novembre del 1354 e costretto a divenire monaco. Il governo dei Catacuzeno sopravvisse in Morea, dove nel 1348 era stato istituito un despotato, retto fino al 1380 dal figlio dell’ex imperatore per poi passare ai Paleologi. La caduta di Cantacuzeno, nel 1354, restituì il potere al legittimo sovrano Giovanni V Paleologo. Giovanni V, nonostante il suo lungo regno, non fu in grado di risollevare le sorti dell’impero e si limitò a reggere alla meglio uno stato in completo disfacimento, che continuava a subire mutilazioni dello scarso territorio rimasto. Gli Ottomani, insediatisi in Europa, raggiunsero una considerevole potenza, minacciando Costantinopoli e gli altri stati balcanici, cioè Serbia, Bulgaria, principato valacco e Ungheria. La seconda metà del Trecento fu segnata dalla travolgente conquista della penisola balcanica dove, dopo la morte dello zar serbo Stefano Dusan (1355) e la conseguente frantumazione del suo impero, non esisteva più una potenza capace di contrastare i Turchi. Subito dopo la presa di Gallipoli, gli Ottomani iniziarono a sottomettere la Tracia, la Bulgaria (conquistarono Filippopoli nel 1363). Verso il 1365 Murad I fissò la capitale ad Adrianopoli in Tracia. Il pericolo rappresentato dall’espansione ottomana cominciò a essere seriamente avvertito anche in Occidente, ma le continue rivalità fra le potenze rendevano assai problematica un’azione comune. Il tradizionale antagonismo fra Venezia e Genova, rendeva impossibile un progetto politico indipendente dagli interessi particolari. L’atteggiamento nei confronti di Bisanzio cominciò a modificarsi al tempo di Giovanni V e, dalla consueta ostilità, si passò a una sempre maggiore consapevolezza del ruolo di frontiera cristiana svolto da Bisanzio, valutando le ricadute negative che la sua comparsa avrebbe prodotto anche in Occidente. Giovanni V Paleologo rinunciò realisticamente a ogni tentativo di ricostruire una potenza bizantina e puntò tutte le sue carte sull’aiuto dell’Occidente. Per opporsi alla travolgente avanzata nemica, cercò inutilmente aiuto in Serbia e riprese il progetto di riunificazione religiosa con la chiesa romana, già seguito dai suoi predecessori senza risultati concreti, come condizione necessaria per promuovere una crociata contro i Turchi. Nel 1355 fece promesse di ampia portata a papa Innocenzo VI circa la sottomissione della chiesa greca al primato romano, ma il suo appello sembrò essere raccolto soltanto 10 anni più tardi da Urbano V, che da Avignone promosse la crociata. Le speranze dell’imperatore andarono però deluse perché la spedizione che ne seguì, condotta dal re di Cipro Pietro di Lusignano, si diresse in Egitto, dove fu saccheggiata Alessandria. Giovanni V decise di recarsi di persona a Buda per chiedere aiuto al re Luigi d’Angiò, alla guida del più potente stato balcanico del momento. Era la prima volta che un sovrano di Bisanzio usciva dai propri confini non da conquistatore, ma per un umiliante pellegrinaggio in cerca di una salvezza che non poté ottenere. Anche queste sue speranze andarono infatti deluse e l’Ungheria non si mosse in soccorso di Bisanzio. Le uniche operazioni militari proficue furono condotte da Amedeo VI, conte di Savoia e cugino dello stesso Giovanni V, arrivato in Oriente con forza crociate per riconquistare Gallipoli nel 1366 e ottenere altri successi a spese di Turchi e Bulgari, fra cui la liberazione del sovrano bizantino che era stato fatto prigioniero da questi ultimi sulla via del ritorno dall’Ungheria. La riconquista di Gallipoli non risolveva la questione della minaccia turca e Giovanni Paleologo decise di giocare la carta più realistica per ottenere aiuto, andando in fondo nella politica di riavvicinamento a Roma. Nell’aprile del 1369 abbandonò Costantinopoli in direzione dell’Italia. Qui a Roma abiurò la religione
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved