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BREVE STORIA DELLA CHIMICA Isaac Asimov, Sintesi del corso di Chimica

Riassunto per l'esame di chimca

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 02/04/2020

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Scarica BREVE STORIA DELLA CHIMICA Isaac Asimov e più Sintesi del corso in PDF di Chimica solo su Docsity! BREVE STORIA DELLA CHIMICA Isaac Asimov CAPITOLO 1 - GLI ANTICHI FUOCO E PIETRA Gli uomini primitivi, quando cominciarono a servirsi di utensili, accettavano la natura cosi come la trovavano: un femore di un qualche animale poteva essere usato come un bastone, le pietre erano ottime armi da lancio ecc. Con il passare del tempo impararono a modificare la materia: così la pietra veniva foggiata o fissata a dei bastoni in legno. Ma la pietra rimaneva tale, e il legno anche. Ma la materia a volte si trasformava da sola: accadeva ad esempio che un fulmine incendiasse una foresta, o un pezzo di carne cominciasse a imputridire. Questa modificazione della natura della materia costituisce l’oggetto della chimica. Le alterazioni nella natura e nella struttura delle sostanze costituiscono le trasformazioni chimiche. La capacità di effettuare volontariamente delle trasformazioni chimiche vantaggiose si presentò dopo che l’uomo ebbe imparato ad accendere e tenere in vita un fuoco. Una volta appresa quest’arte, l’uomo divenne chimico di professione perché aveva la necessità di combinare gli elementi come legno e altri combustibili, con l’aria in maniera da poter generare una quantità sufficiente di luce e calore. Il calore, poi, poteva essere usato per produrre altre trasformazioni chimiche: cuocere il cibo; modellare l’argilla per la creazione di mattoni ecc. Età della pietra: Le prime sostanze utilizzate dall’uomo furono quelle presenti nel suo ambiente: legno, ossa, pelli e pietre. Di queste la più durevole fu la pietra. Inizio della civiltà: Verso l’8.000 a.C. nel Medio Oriente fu introdotta una rivoluzionaria innovazione nella produzione degli alimenti, l’uomo imparò ad addomesticare gli animali, a coltivare piante e a costruire abitazioni permanenti fino alla nascita delle città. Periodo neolitico o età della pietra nuova: La pietra continuò ad essere la materia prima caratteristica dei vari utensili e furono introdotte tecniche per la sua lavorazione. I METALLI I primi metalli devono essere stati rinvenuti sotto forma di pepite: si deve essere trattato di rame e oro, che colpivano gli uomini per la loro lucentezza e il loro colore. Il loro utilizzo inizialmente fu ornamentale, indipendentemente dalla forma dei frammenti ritrovati, e venivano usati insieme ai ciottoli colorati o le conchiglie di madreperla. Successivamente si scoprì che i metalli erano malleabili: ciò significa che è possibile batterli fino a trasformarli in una lamina sottile senza che si rompano. La scoperta quasi sicuramente avvenne per caso, ma non passò molto tempo affinché l’uomo iniziasse a lavorare i metalli trasformandoli in modo da accrescerne la bellezza. Il rame era però raro in natura, solo successivamente si scoprì che era possibile ottenerlo dalla pietra: non si sa esattamente dove, come e quando fu fatta tale scoperta, probabilmente intorno al 4000 a.C. nella penisola del Sinai, o a est della Sumeria. Divenne così molto comune, tanto da essere poi impiegato negli utensili. Età di bronzo: Nel 3000 a.C. si scoprì che riscaldando insieme un minerale di rame e un minerale di stagno si otteneva una qualità di rame particolarmente dura, chiamata bronzo. Nel 2000 a.C. era una lega abbastanza comune, tanto da essere utilizzata per la fabbricazione di armi e armature. Durante questo periodo fu combattuta la Guerra di Troia, avvenimento che ha portato alla luce le armature dei soldati, appunto fatte di bronzo. Il fabbro era una figura molto importante e aveva anche un posto tra gli dei della mitologia greca (Efesto). Gli uomini dell’età del bronzo conoscevano un metallo ancora più duro del bronzo: il ferro. Ma questo era troppo raro e prezioso per utilizzarlo in vasta scala e ancora non si sapeva che si poteva estrarre il ferro dalla pietra. Il problema è che, per la sua fusione, occorrevano temperature molto più elevate, in condizioni di ottima ventilazione. Età del ferro: Nel 1500 a.C. si scoprì il segreto della fusione del ferro in Asia Minore da parte degli Ittiti. Nella sua forma più pura il ferro dolce non è molto resistente, ma se assorbe dal carbone di legna una quantità di carbonio sufficiente a formare uno strato superficiale della lega di ferro e carbonio, prende il nome di acciaio. Questo rivestimento è più resistente della miglior qualità del bronzo e conserva più a lungo un filo più tagliente. La scoperta dell’acciaio segnò il punto cruciale dell’evoluzione della metallurgia del ferro. Gli eserciti forniti di corazze di e armi di ferro duro avevano la certezza di sconfiggere gli eserciti dotati di armi e corazze di bronzo: i primi ad avere una dotazione di armi di ferro furono gli Assiri, ai quali la superiorità delle armi permise di edificare, nel 900 a.C. un potente impero. Prima che sorgesse la civiltà greca, quindi, l’arte della chimica aveva già raggiunto un discreto grado di sviluppo. Soprattutto in Egitto: gli Egizi inoltre erano particolarmente esperti nella produzione di pigmenti minerali e nell’estrazione di succhi e infusi dal mondo vegetale. Secondo una teoria la parola “khemeia” deriva dal nome usato degli Egizi per indicare la propria terra, Kham: significherebbe quindi “l’arte egizia” Un’altra teoria è che la parola Khemeia derivi dal greco khumos “succo di pianta”: avrebbe quindi significato di “l’arte di estrarre succhi”. Qualunque sia la sua origine, di khemeia, questa parola è l’antenata della nostra “chimica”. GLI ELEMENTI DEI GRECI I greci furono i primi ad aver studiato quella che oggi noi chiamiamo chimica teorica. La chimica teorica ebbe origine con Talete (640-546 a.C). Talete si chiedeva in che modo tutte le sostanze risultino aspetti diversi di una sola materia fondamentale. Per rispondere doveva stabilire quale potesse essere la sostanza o l’elemento di base. Per Talete l’elemento di base era l’acqua Per Anassimene l’elemento di base era l’aria Per Eraclito l’elemento di base era il fuoco Per Empedocle l’elemento di base era la terra La dottrina dei quattro elementi fu accettata da Aristotele (384-322 a.C), ma non credeva che gli elementi fossero letteralmente le quattro sostanze citate, egli considerava gli elementi come combinazioni di due coppie di caratteri opposti. Fuoco = (caldo, secco) Aria = (caldo, umido) Acqua = (freddo, umido Terra = (freddo, secco) Inoltre, Aristotele argomentò che il firmamento doveva essere composto da un quinto elemento, che chiamò etere, che significa brillare. L’etere per Aristotele è perfetto, eterno e incorruttibile. GLI ATOMI DEI GRECI Tra i filosofi greci nacque un’altra importante questione, ovvero quella relativa alla divisibilità della materia. Era possibile dividere infinite volte la materia? Leucippo fu il primo a mettere in dubbio l’infinita divisibilità Dopo Avicenna la scienza araba ebbe un declino rapido: dopo tre secoli di supremazia, fu la volta dell'Europa occidentale. Con le Crociate si ebbero i primi contatti tra cristiani e musulmani. La prima Crociata del 1096 fece sì che i Cristiani conquistassero Gerusalemme nel 1099 e il regno cristiano si stabilì per due secoli sulla costa siriana e le due culture ebbero modo di mescolarsi, e il continuo flusso di cristiani che tornavano in Europa portò una certa ammirazione verso la scienza araba. Vennero tradotti numerosi testi dall’arabo al latino per poterli studiare: il primo fautore di queste traduzioni fu il francese Gerberto (940-1003), che diventò papa Silvestro II nel 999. Lo studioso inglese Roberto da Chester, fu il primo a tradurre in latino un testo di alchimia nel 1144, fu imitato poi da altri: uno dei più grandi traduttori italiani fu Gerardo da Cremona, che tradusse 92 testi arabi. Dal 1200 gli studiosi europei ebbero quindi modo di assorbire le conoscenze alchimistiche degli arabi e di cercare di farle progredire. Il primo importante alchimista europeo fu Alberto Magno il quale si dedicò allo studio dei testi di Aristotele: fu merito suo se il filosofo ebbe tanta importanza nella dottrina del tardo Medioevo e agli arbori dell’età Moderna. Ad Alberto Magno spesso viene attribuita la scoperta dell’arsenico, data la chiarezza con cui ne parla nei suoi scritti (ma, probabilmente, era già conosciuta da prima). Contemporaneo di Alberto Magno fu Ruggero Bacone: egli sosteneva che per fare progressi bisognasse fondarsi sull’esperienza e applicare alla scienza metodi matematici, ma i tempi non erano ancora abbastanza maturi per capire il suo pensiero. È a lui che si attribuisce, anche qui sbagliando, la scoperta della polvere da sparo. Altro studioso noto è stato il falso Geber, un alchimista medievale, solito firmarsi con il nome dello studioso arabo vissuto prima di lui, che descrisse l’acido solforico e la preparazione dell’acido nitrico concentrato. Questi acidi si ottenevano dai minerali, mentre gli acidi già conosciuti allora, si ottenevano dal mondo vegetale. Questa scoperta degli acidi minerali costituì un importante progresso nel mondo della chimica. Grazie a questa scoperta si potevano effettuare molte reazioni chimiche e dissolvere molte sostanze, cosa che gli antichi greci e arabi non potevano fare in quanto l’acido più forte che conoscevano era l’aceto. La scoperta degli acidi, tuttavia, non fece molta impressione, e si continuò a preferire la ricerca dell’oro. Nel 1317 ci fu un nuovo stallo dell’alchimia. Papa Giovanni XXII, un po’ per paura che si trovasse il modo di produrre oro, un po’ perché stanco degli imbroglioni, proibì lo studio dell’alchimia. Questo ovviamente fece in modo che si studiasse la chimica in clandestinità. Nel 1453 Costantinopoli (la capitale dell’impero bizantino) cadde in mano ai Turchi. Molti scienziati greci fuggirono allora in Europa, portando con sé quello che erano riusciti a salvare delle proprie biblioteche. L’Occidente entrò in contatto solo con alcuni miseri resti di quello che era la scienza greca, ma anche quel poco ebbe un immenso effetto di stimolo sulle ricerche. Fu questo un periodo di grandi esplorazioni, grazie anche alla scoperta della bussola, furono aperte le rotte verso l’India, scoperto un nuovo continente ecc.: l’uomo europeo iniziava a capire che erano ancora molte le cose da scoprire e che i filosofi greci dopotutto non erano onniscienti come si era creduto per tanto tempo. Fu in questo periodo delle “esplorazioni” che Gutemberg realizzò la prima macchina per la stampa rendendo possibile la copiatura di numerosi libri in poco tempo. Uno dei primi testi copiati fu il poema di Lucrezio che diffuse in tutta Europa la teoria atomistica. Nel 1543 vennero pubblicati due libri rivoluzionari che, probabilmente, prima della stampa sarebbero stati ignorati e andati persi:  Il libro dell’astronomo polacco Copernico che sosteneva che il centro dell’universo era il Sole e non la Terra.  Il libro dell’anatomista fiammingo Vesalio che descriveva con precisione l’anatomia umana, respingendo molte convinzioni che derivavano dalle fonti greche. Con queste due pubblicazioni ebbe inizio la rivoluzione scientifica. LA FINE DELL’ALCHIMIA Nel 1556 il medico tedesco Bauer, conosciuto come Agricola, interessato alla mineralogia e al suo rapporto con la medicina, pubblicò il De Re Metallica, che contiene un sommario di tutte le informazioni pratiche ottenibili dai minerali di quell’epoca. Si tratta di un libro scritto con grande chiarezza, con illustrazioni sui minerali, che ebbe subito grande popolarità (tutt’oggi è considerato uno dei classici della scienza): è con questo testo che nasce la scienza della mineralogia. Sempre in questi anni il medico svizzero Von Hohenheim, conosciuto come Paracelso, affermava che la ragione d’essere dell’alchimia consisteva nella preparazione di medicine con le quali curare le malattie, mettendo quindi in secondo piano il voler scoprire con quest’arte le tecniche di trasmutazione (es. metallo in oro). Nel 1597 l’alchimista Andreas Libau pubblicò il libro Alchemia, il primo vero testo di chimica. Nel 1600 l’alchimia andò perdendo la importanza fino ad arrivare al 1700 che si trasformò in quella che noi oggi chiamiamo chimica. CAPITOLO 3 – TRANSIZIONE LA MISURA Nonostante i progressi, le conoscenze nel campo della chimica erano arretrate rispetto ad altre branche della scienza. L’astronomia o la fisica, infatti, avevano capito l’importanza delle misure quantitative e dell’applicazione di tecniche matematiche, grazie a figure come Galilei o Newton. I chimici esitavano ad adottare gli stessi metodi in quanto era più difficile rappresentare l’oggetto della loro ricerca in maniera semplice, tale da permettere la rappresentazione con il linguaggio matematico. Tuttavia, i chimici facevano progressi: un esempio significativo è l’esperimento del medico fiammingo Van Helmont il quale fece crescere un albero in una quantità misurata di terra innaffiandolo regolarmente e misurando il peso dell’albero a mano a mano che questo cresceva. Egli sperava di scoprire l‘origine dei tessuti viventi che crescevano insieme alla pianta e per questo applicò la misura ad un problema di chimica e biologia insieme. Per cinque anni il medico fiammingo pesò l’acqua che dava la pianta e la pianta fissa e osservando che dopo cinque anni il peso della pianta equivaleva al peso iniziale più l’acqua che gli era stata somministrata. Possiamo dire che aveva già osservato quella che poi fu definita la legge di Lavoisier. A quei tempi l’unica sostanza aeriforme conosciuta era l’aria stessa anche se spesso gli alchimisti avevano osservato nel corso dei loro esperimenti arie e vapori, ma si trattava sempre di sostanze sfuggenti difficilmente studiabili. Van Helmont Fu il primo chimico che prese in esame i vapori prodotti nei suoi esperimenti per studiarli e scoprì che assomigliavano all’aria nell’aspetto fisico, ma non in tutte le loro proprietà. Dette il nome “caos” a questi vapori, ma per adattarla alla pronuncia fiamminga utilizzò la grafia gas, parola usata ancora oggi per indicare tutte le sostanze aeriformi. Chiamò gas silvestre il gas ottenuto dalla combustione del legno al quale dedicò diversi studi: quello che noi chiamiamo anidride carbonica. Fu lo studio dei gas il primo a prestarsi alle misurazioni matematiche, dando così origine alla chimica moderna. LA LEGGE DI BOYLE Era evidente che l’aria stava acquistando una notevole importanza. Il fisico Torricelli nel 1643 riuscì a dimostrare che l’aria esercitava una pressione e mostrò come essa fosse in grado di sostenere una colonna di mercurio alta 760 millimetri: fu così che inventò il barometro. I gas iniziarono a diventare così meno misteriosi: avevano un peso, esercitavano una pressione proprio come i liquidi e i solidi con i quali differivano per la densità, molto inferiore. La pressione esercitata dal peso dell’atmosfera fu oggetto di una sorprendente dimostrazione effettuata dal fisico tedesco Otto Von Guericke che inventò una pompa pneumatica che gli permetteva di estrarre l’aria da un recipiente in modo che la pressione esterna non fosse più equilibrata dalla pressione interna. Questa dimostrazione suscitò grande interesse per le proprietà dell’aria e soprattutto l’interesse del chimico irlandese Robert Boyle che Progettò un altro modello di pompa pneumatica: dopo aver “diluito” al massimo l’aria aspirandola da un recipiente, affrontò l’esperimento contrario, quello della compressione, cioè della riduzione dell’aria nel volume più piccolo possibile. Le sue deduzioni sono note ad oggi come legge di Boyle: il volume occupato da un gas (mantenuto a temperatura costante) è inversamente proporzionale alla pressione alla quale il gas è sottoposto. Si tratta del primo tentativo di applicare misurazioni esatte alle variazioni osservate in una sostanza di particolare interesse per i chimici. Tuttavia, Boyle non specificò che la temperatura dovesse restare costante affinché la sua legge restasse valida, forse dando per scontato che si sarebbe capito. Il fisico francese Mariotte fece la stessa scoperta, indipendentemente dalla legge di Boyle nel 1680 e specificò chiaramente che la temperatura doveva essere mantenuta costante. Per questa ragione la legge di Boyle è conosciuta anche come legge di Mariotte. LA LEGGE DI BOYLE che stabilì la relazione inversamente proporzionale tra pressione e volume dei gas a temperatura costante, ebbe origine dall’esperimento qui illustrato. Il mercurio versato nell’estremità lunga del tubo comprimeva l’aria bloccata nell’estremità corta. Raddoppiando la colonna di mercurio, la colonna d’aria si riduceva a metà. Il rapporto si esprime graficamente nella curva riprodotta in alto. LA NUOVA CONCEZIONE DEGLI ELEMENTI La carriera di Boyle segna la fine delle espressioni “alchimia” e “alchimista”. Boyle aveva eliminato la prima sillaba da entrambi i termini scrivendo il libro, di notevole importanza, The Sceptical Chymist (Il chimico scettico) pubblicato nel 1661: da quel momento la scienza fu denominata chimica e gli scienziati che coltivavano questa scienza vennero chiamati chimici. Boyle era “scettico” perché non era più disposto ad accettare ciecamente le antiche conclusioni raggiunte con ragionamenti basati su premesse iniziali. Inoltre, era insoddisfatto dai tentativi degli antichi di individuare gli elementi dell’universo con il solo ragionamento. Egli definì invece gli elementi in maniera pratica e sbrigativa. Fin dai tempi di Talete gli elementi erano le semplici sostanze primitive delle quali era composto l’universo, quindi occorreva mettere alla prova i presunti elementi per stabilire se fossero effettivamente semplici. Se una sostanza si poteva dividere in sostanze più semplici questo non era un elemento mentre poteva essere che fossero elementi le sostanze più semplici in cui era stata divisa. Inoltre, se due sostanze fossero state entrambe elementi si sarebbero potuti combinare insieme formando una terza sostanza chiamata composto, in questo caso il composto si doveva poter dividere nei due elementi originari. Il termine elemento qui usato aveva solo una nonostante le teorie greche l’aria non era un elemento, ma consisteva in una miscela di almeno due sostanze distinte: l’aria comune e l’anidride carbonica. Nello studiare le proprietà dell’anidride carbonica Black scoprì che una candela accesa immersa in questo gas non bruciava più e una candela accesa in un recipiente chiuso pieno di semplice aria, a un certo punto si spegneva e l’aria rimasta non poteva più alimentare la fiamma. Quest’aria non poteva essere anidride carbonica. Quindi che cosa era quest’aria residua? Black affidò questo problema a uno dei suoi studenti, Rutherfor, che attraverso i suoi studi denominò aria flogistica il gas che era riuscito a isolare. Oggi noi lo chiamiamo azoto e attribuiamo a Rutherfor il merito della scoperta dell’azoto. IDROGENO E OSSIGENO In questo periodo altri due chimici inglesi sostenitori della teoria flogistica fecero compiere un ulteriore passo avanti agli studi sui gas. Il primo di loro era Henry Cavendish che si interessava particolarmente al gas che si forma dalla reazione degli acidi con certi metalli: il gas viene chiamato idrogeno. Cavendish fu il primo a misurare il peso di particolare i volumi di gas diversi in modo da poter determinare la densità di ciascun gas e scoprì che l’idrogeno era straordinariamente leggero. Inoltre, a differenza dell’anidride carbonica, l’idrogeno era facilmente infiammabile e proprio per la sua credenza nella teoria flogistica Cavendish penso di essere riuscito a isolare il flogisto Il secondo chimico era Joseph Priestley che raccogliendo dell’anidride carbonica al di sopra dell’acqua scoprì un liquido dal sapore acido: si tratta di quella che oggi chiamiamo gazzosa oppure acqua di Seltz. Possiamo dire che Priestley può essere considerato il padre della moderna industria delle bevande analcoliche. Durante tutto il 1700 furono scoperte elementi nuovi che testimoniavano il progresso della chimica e della mineralogia. Cronstedt introdusse l’uso del cannello nello studio dei minerali ovvero un tubo lungo e assottigliato a un’estremità per mezzo del quale, soffiando nell’apertura più larga, si otteneva all’estremità più sottile un getto d’aria concentrato. Questo getto rivolto contro la fiamma ne accresceva il calore. Per un secolo il cannello rimase uno degli strumenti chiave dell’analisi chimica. Le nuove tecniche, come per esempio quella del cannello, permettevano di acquistare una massa di informazioni tale che Cronstedt si sentì autorizzato a proporre una classificazione dei minerali, non soltanto in base al loro aspetto, ma anche in base alla loro struttura chimica e così nel 1758 fu pubblicato un libro dedicato a questo nuovo tipo di classificazione. IL CANNELLO, introdotto nella pratica di laboratorio dal chimico svedese Cronstedt. Fu uno strumento fondamentale di analisi per più di un secolo, ed è ancora in suo. Il getto d’aria proveniente dal cannello dirige la fiamma nella direzione voluta e ne aumenta il calore. IL TRIONFO DELLA MISURA Verso la fine del XVIII secolo cominciò a sentirsi l’esigenza di riunire in una teoria generale le importanti scoperte avvenute nel campo dei gas e a farlo fu il chimico francese Antoine Laurent Lavoisier. Lavoisier sin dall’inizio delle sue ricerche chimiche aveva riconosciuto l’importanza delle misurazioni accurate La sua prima opera importante fu uno studio sulla composizione del gesso solfato idrato di calcio. Quello che cercava di fare Lavoisier era demolire tutte le antiche teorie che non servivano più, come quella che sosteneva la possibilità della trasmutazione. Dopo un prolungato riscaldamento l’acqua infatti si trasformava in terra, sembrava una tesi ragionevole perché l’acqua fatta riscaldare per molti giorni consecutivi in un recipiente di vetro presentava effettivamente un sedimento solido. Lavoisier decise di mettere alla prova questa trasmutazione servendosi questa volta delle misurazioni accurate Per 101 giorni fece bollire dell’acqua in un apparecchio che faceva condensare il vapore acqueo e lo immetteva di nuovo nel recipiente in ebollizione, in modo che, durante l’esperimento, nulla andasse perduto. Ovviamente non si dimenticò mai di misurare, pesò infatti sia l’acqua, che il recipiente, prima e dopo il lungo periodo di ebollizione. Effettivamente comparve un sedimento, ma il peso dell’acqua non cambiò durante tutto l’esperimento, quindi il sedimento non era acqua trasformata in terra, ma una sostanza appartenente in origine al vetro e lentamente erosa dall’acqua nella quale era precipitata sottoforma di frammenti solidi. Con i suoi colleghi chimici comprò un diamante per poi farlo riscaldare in un recipiente chiuso fino alla sua totale scomparsa. Si formò dell’anidride carbonica e quindi era la prima palese dimostrazione del fatto che il diamante è una forma di carbonio. Riscaldò anche altri metalli come lo stagno e il piombo in recipienti chiusi, entrambi i metalli formarono lo strato superficiale di calce fino ad un certo punto e poi non arrugginivano più. I seguaci della teoria flogistica si ostinavano a dire che l’aria aveva assorbito dal metallo tutto il flogisto che era capace di contenere. Si sapeva benissimo che la calce era più pesante del metallo eppure ogni volta che Lavoisier pesava l’intero recipiente dopo averlo riscaldato, questo pesava esattamente come prima dell’esperimento. Aveva quindi dimostrato che la trasformazione del metallo in calce non era conseguenza della perdita del flogisto ma di un acquisto di qualcosa di molto concreto ovvero dell’aria. Da questa scoperta Lavoisier affermò che i minerali erano combinazioni di metallo e di gas. Come conseguenza dei suoi esperimenti sulla combustione Lavoisier affermò che la massa non viene mai né creata né distrutta ma trasferita da una sostanza all’altra, questo concetto costituisce la legge di conservazione della massa. (NB. La massa per Lavoisier era il peso) GLI ESPERIMENTI DI LAVOISIER erano illustrati, negli elementi di Chimica, con disegni della signora Lavoisier. LA COMBUSTIONE Lavoisier sostiene che l’aria non è una sostanza semplice ma una miscela di due gas nel rapporto di 1 a 4. Un quinto dell’aria era costituito dall’aria deflogisticata di Priestley e questa parte dell’aria si combinava con le varie sostanze durante la combustione e la formazione della ruggine, passava dal minerale al carbone di legno ed era essenziale per la vita. Lavoisier chiamò questo gas con il nome di ossigeno, ma gli altri quattro quinti dell’aria non erano in grado di alimentare la combustione e costituivano un gas completamente diverso che venne chiamato azoto. Nel 1783 Cavendish era ancora alle prese con il suo gas che era l’idrogeno. Ne bruciò una certa quantità e studò le conseguenze scoprendo che i vapori generati dalla combustione si condensavano formando un liquido che era acqua. Questo esperimento dimostra che l’acqua non era una sostanza semplice, ma un prodotto della combinazione di due gas. Venuto a sapere dell’esperimento, Lavoisier chiamò idrogeno il gas di Cavendish e fece notare che l’idrogeno bruciava e quindi l’acqua era composta di idrogeno e ossigeno. Queste nuove teorie implicavano una razionalizzazione della chimica: si abolirono tutti i misteriosi principi. D’ora in poi avrebbero avuto interesse per i chimici solo le sostanze in grado di essere pesate o misurate. Nel 1787 venne pubblicato un sistema logico di nomenclatura, un sistema basato su principi logici, tale che dai nomi dei composti si potessero riconoscere gli elementi che lo componevano. Era un sistema di prefissi e suffissi in grado di fornire indicazioni sulle proporzioni nelle quali si presentavano i diversi elementi. Nel 1789 Lavoisier pubblicò il Trattato elementare di chimica che servì per dare al mondo una visione unitaria della conoscenza sulla chimica. Si tratta del primo testo moderno di chimica. l libro comprendeva, tra le altre cose, l’elenco di tutti gli elementi conosciuti fino ad allora (o almeno quelli che Lavoisier considerava elementi). Le teorie di Lavoisier furono criticate dai vecchi sostenitori del flogisto, ma numerosi furono coloro che accettarono e seguirono le orme del chimico. Lavoisier perse la vita nel 1794, durante le Rivoluzione francese. Ad oggi è ricordato come uno dei più grandi chimici mai esistiti. CAPITOLO 5 - GLI ATOMI LA LEGGE DI PROUST I successi conseguiti da Lavoisier incitarono i chimici e cercare di esplorare altri campi utilizzando le misurazioni accurate, uno di questi campi era costituito dagli acidi. Gli acidi sono chimicamente attivi, reagiscono con i metalli come lo zinco, il ferro e lo stagno dissolvendoli e generando idrogeno. Il loro sapore è acido e fanno cambiare colore a determinate tinture. Di fronte agli acidi, con caratteristiche opposte, troviamo le basi che sono chimicamente attive, hanno un sapore amaro e operano sulle tinture cambiamenti di colore opposti a quelli determinati dagli acidi. In particolare, le soluzioni Mitscherlich scoprì nel 1819 che composti con composizione simile e nota tendevano a cristallizzarsi insieme come se le molecole dell’uno si mescolassero alle molecole, di forma affine, dell’altro. Da questa legge dell’isomorfismo (cioè della stessa forma) derivava che se due composti formano cristalli insieme, e si conosce soltanto la struttura di uno di questi, si può ritenere che la struttura del secondo composto sia simile. Questa caratteristica dei cristalli isomorfi permise ai ricercatori di correggere gli errori commessi prendendo in esame soltanto i pesi di combinazione e servì da guida per l’individuazione dei pesi atomici esatti. PESI E SIMBOLI Il più importante passo avanti nell’elaborazione della determinazione dei pesi atomici si deve a Jons Jakob Berzelius il quale, insieme allo stesso Dalton, fu uno dei principali artefici dell’elaborazione della teoria atomica. Egli si dedicò alla determinazione dell’esatta composizione elementare di diversi composti. Grazie a diverse centinaia di analisi, trovò numerose conferme della legge delle proporzioni definite che il mondo della chimica dovette accettare per forza la teoria atomica. Berzelius affrontò quindi il compito di determinare i pesi atomici utilizzando procedimenti più avanzati di quelli di cui si era potuto servire Dalton nel suo programma di ricerche. Berzelius utilizzò i risultati degli studi di Dulong e Petit e di Mitscherlich , inoltre utilizzò anche la legge di Gay-Lussac sui volumi dei gas, ma non si servì dell’ipotesi di Avogadro. La prima tavola dei pesi atomici di Berzelius fu pubblicata nel 1828 e regge bene il confronto con i valori accettati oggi. Una differenza importante tra la sua tavola e quella di Dalton era costituita dal fatto che ai valori di Berzelius non corrispondevano numeri interi. I valori di Dalton, basati sul peso atomico dell’idrogeno fatto uguale a uno, erano tutti numeri interi. È proprio questa teoria che aveva permesso al chimico inglese William Prout di congetturare nel 1815 che tutti gli elementi non fossero altro che composti di idrogeno. Questa teoria prendeva il nome di ipotesi di Prout. Nei 100 anni successivi alla pubblicazione della tavola di Berzelius vennero pubblicate tavole dei pesi atomici sempre migliori e divenne sempre più evidente che i pesi atomici dei vari elementi non erano multipli interi del peso atomico dell’idrogeno. Il fatto che pesi atomici dei vari elementi non fossero legati tra loro da rapporti semplici fece sorgere il problema della scala più opportuna per la misura dei pesi. Assegnando all’idrogeno il peso 1, come era stato fatto da Dalton o da Barzeius, all’ossigeno veniva assegnato il peso atomico di 15,9. Era l’ossigeno, dopotutto, che serviva generalmente per determinare in quali proporzioni si combinassero vari elementi, dato che l’ossigeno formava facilmente composti con tanti elementi diversi. Per assegnare all’ossigeno un opportuno peso atomico di valore intero esso fu portato a 16,0000. In base alla nuova unità di misura ossigeno=16 il peso atomico dell’idrogeno passava a 1,008 circa. L’unità di misura dell’ossigeno=16 fu conservata fino alla metà del XX secolo, quando fu introdotta una unità di misura più logica accompagnata da leggerissime variazioni in peso atomico. Una volta accettata la teoria atomica era possibile immaginare che le sostanze fossero composte di molecole che contenevano un numero fisso di atomi dei vari elementi. Sembrava del tutto naturale cercare di raffigurare queste molecole disegnando il numero adatto di circoletti e rappresentando ciascun tipo di atomo con un circoletto particolare. Berzelius poi si rese conto che i circoletti erano superflui e che sarebbero bastate le semplici iniziali del nome latino (ad elementi con la stessa iniziale bastava aggiungere una seconda lettera). Egli propose di assegnare a ciascun elemento un simbolo che rappresentasse nello stesso tempo sia l’elemento in generale sia un singolo atomo dell’elemento stesso. Nacquero così i simboli chimici degli elementi, che sono stati oggetto di accordi internazionali e vengono accettati universalmente. È semplice, grazie a questi simboli, rappresentare vari elementi (es per l’acqua H20 → due atomi di idrogeno e uno di ossigeno, la mancanza del numero dopo il simbolo indica la presenza di un solo atomo) L’ELETTROLISI Nel frattempo, la corrente elettrica, che era stata utilizzata così bene, produceva effetti sensazionali nell’isolare nuovi elementi. Come sappiamo Boyle aveva dato la definizione di elemento, ma era deludente il fatto che si conoscessero molte sostanze che non erano elementi, ma contenevano elementi ancora da scoprire che chimici non riuscivano isolare per poterli studiare. Spesso infatti si trovavano elementi combinati con l’ossigeno e per liberare l’elemento era necessario portar via l’ossigeno. Se si fosse introdotto un secondo elemento con una maggiore affinità per l’ossigeno, forse l’ossigeno avrebbe abbandonato il primo elemento per unirsi al secondo. Si scoprì che questo metodo funzionava. Spesso era il carbonio ad esercitare questo trasferimento dell’ossigeno. Il chimico inglese Davy pensò che quello che non si poteva scindere con i prodotti chimici si sarebbe potuto separare servendosi dello strano potere della corrente elettrica, che si era rivelata capace di spaccare facilmente la molecola dell’acqua, dopo che prodotti chimici si erano dimostrati inefficaci. Davy si mise a costruire una pila elettrica composta da 250 piastre metalliche, la più potente che fosse mai stata costruita fino ad allora. Da questa batteria il chimico fece passare delle forti correnti attraverso soluzioni di composti, nei quali si sospettava che si nascondessero elementi sconosciuti, ma non ottenne alcun risultato a parte la formazione di idrogeno e ossigeno dall’acqua. A quanto pareva era necessario eliminare l’acqua. Davy alla fine ebbe l’idea di fondere le sostanze e di far passare la corrente attraverso i composti allo stato fuso. In questo modo avrebbe avuto a disposizione un liquido conduttore privo di acqua. Questo funzionò e il 6 ottobre 1807 Davy fece passare una corrente attraverso una massa di potassa (carbonato di potassio) fusa e ottenne delle pallottoline di un metallo che immediatamente chiamo potassio. Una settimana più tardi isolò il sodio dalla soda (carbonato di sodio), questo nuovo elemento era solo leggermente meno attivo del potassio. Nel 1808 Davy isolò diversi metalli dei rispettivi ossidi: il magnesio dalla magnesia, lo stronzio dalla stronzianite, il bario dalla barite e il calcio dalla calcina. L’opera di Davy sull’elettrolisi fu portata avanti dal suo assistente e discepolo prediletto Michael Faraday che diventò uno scienziato anche più grande del suo maestro. Faraday fu il primo a definire elettrolisi la scissione delle molecole per mezzo della corrente elettrica e chiamò elettroliti i composti o le soluzioni capaci di lasciar passare la corrente elettrica. Chiamo elettrodi le aste o piastre di metallo inserite nella massa fusa o nella soluzione: l’elettrodo dotato di carica positiva era l’anodo e quello dotato di carica negativa era il catodo. La corrente elettrica veniva trasportata attraverso la soluzione con la massa fusa da entità che Faraday chiamò ioni che in greco significa viandante. Denominò anioni gli ioni diretti verso l’anodo e cationi quelli diretti verso il catodo. Nel 1832 Faraday enunciò la sua prima legge dell’elettrolisi che affermava che la massa della sostanza liberata all’elettrauto nel corso dell’elettrolisi era proporzionale alla quantità di elettricità passante per la soluzione. La sua seconda legge dell’elettrolisi affermava invece che il peso del metallo liberato da una data quantità di elettricità era proporzionale al peso equivalente del metallo. Dalla legge di Faraday sull’elettrolisi sembrava ragionevole dedurre che l’elettricità fosse divisibile in unità minime e in variabili come la materia stessa. Esistevano cioè degli atomi di elettricità. È soltanto alla fine del 19º secolo che questa teoria venne confermata e che gli atomi di elettricità vennero individuati. FARADAY spiegò l’azione elettrolitica secondo le linee indicate in questo disegno. È riprodotta la terminologia inventata da Faraday. CAPITOLO 6 – LA CHIMICA ORGANICA LA SCONFITTA DEL VITALISMO Dalla scoperta del fuoco l’uomo tendeva a suddividere le sostanze in due categorie: quelle che bruciavano e quelli che non bruciavano. In generale le sostanze che bruciavano provenivamo dal mondo animale e/o vegetale; mentre quelle provenienti dal mondo minerale tendevano a spegnere il fuoco. Non fu difficile quindi pensare che le sostanze combustibili e non corrispondessero rispettivamente a sostanze derivate da organismi viventi e non (non senza eccezioni come il carbone o lo zolfo). Le conoscenze acquisite durante il diciottesimo secolo dimostrarono però che la combustibilità non era l’unico fattore di distinzione tra organismi viventi e non: per esempio le sostanze provenienti dal mondo non vivente erano in grado di sopportare trattamenti violenti, ai quali gli organismi viventi non resistevano. Nel 1807 Barzelius decise di chiamare organiche le sostanze come l’olio di oliva o lo zucchero (provenienti da organismi viventi) e inorganiche sostanze come l’acqua o il sale (provenienti dal mondo non-vivente). Ciò che colpì particolarmente fu il fatto che sottoponendo ad alte temperature sostanze organiche si riusciva ad ottenere sostanze inorganiche: non si conosceva invece il passaggio inverso (almeno all’inizio del diciannovesimo secolo). A quell’epoca molti chimici sostenevano la dottrina del vitalismo, secondo la quale la vita era uno speciale fenomeno non strettamente legato alle leggi dell’universo, valide per gli oggetti inanimati. Secondo il vitalismo, per poter trasformare materiale inorganico in materiale organico era necessario un certo tipo di influsso, o “forza vitale” presente solo nei tessuti viventi: i chimici, dunque, non sarebbero stati in grado di effettuare tali trasformazioni in quanto non erano in grado di manipolare e forze vitali. Si affermava quindi che le sostanze inorganiche fossero presenti tanto nel mondo vivente che in quello non vivente, mentre le sostanze organiche solo negli organismi viventi. A smentire queste credenze fu Wholer, studente di Barzelius, il quale si interessò in maniera particolare ai cianuri e composti affini. Nel corso di un esperimento, mentre era intento a scaldare del cianato d’ammonio, scoprì che in esso si trovava l’urea, una sostanza presente nelle urine di molti animali, tra cui l’uomo, e quindi di indubbia origine organica. Da qui si rese conto di essere in grado di trasformare una sostanza inorganica in sostanza organica: anche Berzelius (conosciuto per la sua testardaggine) fu costretto ad ammettere di aver avuto torto nel sostenere che la linea tra organico ed inorganico fosse insormontabile. Un allievo di Wholer, Kolbe, sintetizzò invece l’acido acetico (sostanza organica) partendo da carbonio, idrogeno e ossigeno. Quest’impresa diede il colpo di grazia al vitalismo. Ma fu grazie al chimico francese Bethelot, il quale affrontò in maniera sistematica la sintesi dei composti organici producendone a dozzine, che il passaggio tra organico e inorganico passò da essere un'emozione “proibita” ad essere un’operazione di ordinaria amministrazione. GLI ELEMENTI COSTRUTTIVI DELLA VITA Tuttavia, i composti organici creati finora erano semplici. Le caratteristiche della vita erano presenti in sostanze di manipolazione più complessa come gli amidi, i grassi e le proteine, dei quali era più difficile l’individuazione della struttura elementare. L’unica certezza era che si poteva scindere queste sostanze in “elementi costruttivi” riscaldandoli con un acido o una base diluiti. Il chimico russo Kirchhoff fu il pioniere in questo tipo di trasformazioni nel 1812 riuscì a trasformare l’amido in un unico zucchero, chiamato poi glucosio. Nel 1820 il francese Braconnot trattò allo stesso modo la gelatina proteica ottenendo la glicolla o glicina, un acido organico contenente azoto e facente parte della famiglia degli aminoacidi. La glicolla altro non era che il capostipite di una ventina di aminoacidi che furono isolati nei 100 anni successivi alla sua scoperta. Sia gli amidi che le proteine possiedono molecole giganti costituite da lunghe catene di elementi di glucosio ed elementi di aminoacidi. I chimici nel diciannovesimo secolo non erano in grado di riprodurre in laboratorio tali catene. Discorso diverso invece per i grassi. Il chimico francese Chevreul passò gran parte della sua vita allo studio dei grassi. Nel 1809 trattò del sapone con dell’acido isolando quelli che oggi chiamiamo acidi grassi. In seguito, dimostrò che quando questi si trasformano in sapone liberano la glicerina, la quale possiede una molecola semplice, con soli 3 punti d’attacco. Sembrava ragionevole pensare quindi che i grassi fossero formati da soli 4 elementi ovvero 1 di glicerina 3 di acidi grassi. Nel 1880 il chimico russo Beilstein pubblicò un ricco elenco di composti organici, utilizzando la teoria dei tipi di Laurent per classificare questi composti secondo un ordine razionale. LA VALENZA La teoria dei tipi indusse alcuni chimici a meditare sul fatto che l'atomo di ossigeno si univa sempre ad altri due atomi o radicali, e l'atomo di azoto si univa sempre a tre atomi o radicali. Alcuni chimici, come Kolbe, si abituarono a scrivere formule di composti organici dando per scontata questa costanza dei legami. Il chimico inglese Edward Frankland fu il primo ad interessarsi ai composti organo-metallici, costituiti da gruppi organici uniti ad atomi di metallo. Ciascun atomo di metallo si univa solo ad un determinato numero di gruppi organici, e questo numero variava da metallo a metallo. Nel 1852 Frankland propose la teoria della valenza, cioè l'affermazione che ciascun atomo possiede un potere di combinazione fisso. Gli atomi di idrogeno, sodio, cloro, argento, bromo e potassio possono combinarsi solo con un altro atomo, perché hanno valenza 1. Gli atomi di ossigeno, calcio, zolfo, magnesio e bario possono unirsi al massimo con due atomi differenti, perché hanno valenza 2. Azoto, fosforo, alluminio e oro hanno valenza 3. Con il tempo si capì che il problema della valenza non era semplice come si era pensato in un primo momento, ma questa scoperta ebbe comunque un valore inestimabile. Per prima cosa, il concetto di valenza chiarì la differenza tra peso atomico e peso equivalente dei vari elementi. In generale, il peso equivalente di un atomo è uguale al suo peso atomico diviso per la valenza. Inoltre, la seconda legge dell'elettrolisi di Faraday afferma che il peso dei vari metalli librati da una determinata quantità di corrente elettrica è proporzionale ai pesi equivalenti dei metalli stessi. La quantità di corrente elettrica capace di liberare un determinato peso di un metallo monovalente sarà quindi in grado di liberare soltanto la metà dello stesso peso di un metallo bivalente, che abbia più o meno lo stesso peso atomico. Per trasportare un atomo monovalente, occorre un “atomo di elettricità”, mentre per trasportare un atomo bivalente ne sono necessari due. LE FORMULE DI STRUTTURA Fu Kekulé ad applicare in maniera efficace il concetto di valenza alla struttura delle molecole organiche. Kekulé cominciò a supporre che la valenza del carbonio fosse uguale a 4 e, a partire dal 1858, si mise a calcolare la struttura delle molecole e dei radicali organici più semplici. Il chimico scozzese Couper propose di rappresentare con dei trattini le forze che determinano la combinazione tra loro dei diversi atomi (o legami, come vengono comunemente chiamati). Questa forma di rappresentazione permetteva di chiarire il motivo per cui le molecole organiche erano tanto più grandi e complesse di quelle inorganiche. Secondo Kekulé, gli atomi di carbonio si potevano unire fra loro per mezzo di uno o più dei loro quattro legami di valenza, formando lunghe catene. Nessun altro genere di atomo sembrava possedere in maniera altrettanto spiccata questa capacità dell'atomo di carbonio. Di conseguenza, i tre idrocarburi più semplici (metano: CH4, etano: C2H6, propano: C3H8) si potevano rappresentare assegnando quattro legami a ciascun atomo di carbonio e un legame a ciascun atomo di idrogeno: Questa serie può essere allungata unendo insieme atomi di carbonio. Aggiungendo ossigeno (solo due legami) e azoto (tre) sarebbe possibile rappresentare le molecole di alcool etilico (C2H6O) e di metilamina (CH5N). Queste formule di struttura diventano più flessibili ammettendo l'esistenza di due legami (legame doppio: = ) o di tre legami (legame triplo: ≡ ) tra atomi adiacen . Si potrebbe rappresentare, quindi, l'etilene (C2H4), l'acetilene (C2H2), il cianuro di metile (C2H3N), l'acetone (C3H6O) e l'acido acetico (C2H4O2). Le formule di struttura si resero utili a tal punto da venire immediatamente accettate dalla maggior parte dei chimici organici. Il nuovo sistema di rappresentazione fu appoggiato soprattutto dal chimico russo Butlerov, il quale illustrò come l'uso delle formule di struttura potesse spiegare l'esistenza degli isomeri. Ad esempio, l'alcool etilico e l'etere dimetilico, hanno la stessa formula empirica (C2H6O), ma diversa formula di struttura. Butlerov si occupò di uno speciale tipo di isomerismo, detto tautomerismo, in cui determinate sostanze di presentavano sempre sotto forma di miscugli di due composti. Se si riusciva a isolare uno di questi composti nella sua forma più pura, esso si trasformava immediatamente, in parte, nell'altro composto. Butlerov dimostrò che il tautomerismo consisteva nel trasferimento spontaneo di un atomo di idrogeno da un legame con un atomo di ossigeno a un legame con un atomo di carbonio adiacente (e viceversa). Nessuno era in grado di rappresentare la struttura del benzene, o benzolo (C6H6), e Kekulé suggerì una formula di struttura ad anello di atomi di carbonio (invece che a catena). Il concetto di formula di struttura divenne più solido che mai. GLI ISOMERI OTTICI Lo studioso inglese Thomas Young aveva dimostrato, nel 1801, che la luce si comportava come se fosse stata costituita da minuscole onde. Nel 1814, il fisico francese Augustin Jean Fresnel dimostrò che le onde luminose appartenevano alla categoria delle onde trasversali. Queste onde oscillano perpendicolarmente alla direzione nella quale si propaga l'onda nel suo complesso. In un raggio di luce comune, alcune onde oscillano in una direzione, altre in un'altra, e altre ancora in una direzione diversa. Non esiste una direzione preferita alle altre. Facendo passare il raggio di luce attraverso determinati cristalli, il raggio di luce è costretto ad oscillare su un dato piano, che permette alla luce di passare insinuandosi tra una fila di atomi e l'altra. La luce che vibra solo in un determinato piano è detta luce polarizzata, espressione introdotta dal fisico francese Etienne Louis Malus. Nel 1815, il chimico francese Jean Baptiste Biot dimostrò che, facendo passare la luce polarizzata attraverso determinati cristalli, si verificava una rotazione del piano di vibrazione delle onde, a volte in senso orario (rotazione destrogira), a volte in senso antiorario (rotazione levogira). Ai cristalli con questa proprietà dell'attività ottica appartenevano anche quelli dei composti organici. Alcuni di essi possedevano questa proprietà anche quando erano in forma di soluzione. Esistevano degli isomeri ottici, sostanze che si differenziavano solo per le loro proprietà ottiche. Il chimico francese Louis Pasteur fece degli esperimenti sui cristalli di tartrato di ammonio e sodio. Osservò che i cristalli erano asimmetrici: un lato aveva una minuscola faccia che mancava sul lato opposto. In alcuni cristalli la faccia era sul lato destro, in altri sul lato sinistro. Pasteur separò i cristalli con una pinzetta e fece sciogliere i due gruppi ottenuti. Le proprietà delle due soluzioni erano identiche, ma una delle due era destrogira, mentre l'altra era levogira. Questo non spiegava il perdurare dell'attività ottica nelle soluzioni. Se l'attività ottica dipendeva da un'asimmetria, questa asimmetria doveva esistere nella struttura molecolare stessa. Sembrava indiscutibile che gli atomi delle molecole fossero distribuiti nello spazio tridimensionale. In questo caso poteva darsi che la loro disposizione rivelasse l'asimmetria necessaria per spiegare la loro attività ottica. LE MOLECOLE TRIDIMENSIONALI Il giovane chimico olandese Jacobus Hendricus Van't Hoff affermò, nel 1874, che i quattro legami dell'atomo di carbonio si diramavano nello spazio tridimensionale verso i quattro vertici di un tetraedro. I quattro legami dell'atomo di carbonio sono quindi disposti simmetricamente attorno all'atomo, e si introduce un elemento di asimmetria soltanto se ciascuno dei quattro legami è unito ad un atomo, o gruppo di atomi, differente. Questo schema fornisce il tipo di asimmetria che Pasteur aveva trovato nei suoi cristalli. Il chimico francese Joseph Achille Le Bel pubblicò, quasi contemporaneamente, una teoria analoga. La teoria dell'atomo di carbonio tetraedrico è quindi detta teoria di Van't Hoff – Le Bel. I composti contenenti atomi di carbonio asimmetrici davano luogo ad attività ottica, mentre i composti che ne erano privi non rivelavano questa attività. Il chimico tedesco Viktor Meyer dimostrò che i legami degli atomi di azoto, considerati nello spazio Il primo periodo era costituito solo dall'idrogeno; il secondo e il terzo erano formati da sette elementi ciascuno (rispecchiando la legge delle ottave di Newlands); gli ultimi periodi erano più lunghi (mostrando l'errore di Newlands: la legge delle ottave non può valere per tutta la tavola). Un anno prima che Meyer pubblicasse la sua teoria, però, il chimico russo Dimitrij Ivanovič Mendeléev aveva scoperto a sua volta la variazione in lunghezza dei periodi degli elementi, passando a dimostrarne le conseguenze in modo sensazionale. Egli affrontò il problema partendo dalla valenza notando come i primi elementi mostravano una variazione progressiva di valenza. Mendeléev notò che la valenza aumentava e diminuiva dando luogo a periodi: l’idrogeno per primo, con un periodo tutto per sé; due periodi di sette elementi; periodi contenenti più di sette elementi. Mendeléev usò questi dati per costruire non un grafico come avevano fatto Meyer e Beguyer de Chancourtois, ma una tavola come quella di Newlands. Mendeléev pubblicò la sua tavola periodica degli elementi nel 1869. Per rispettare l’esigenza che tutti gli elementi di una colonna avessero la stessa valenza, in alcuni casi Mendeléev fu costretto a mettere un elemento di peso atomico leggermente maggiore davanti a un elemento di peso atomico leggermente inferiore (ad es. Il tellurio con peso atomico 127, 6 e valenza 2 veniva collocato prima dello iodio con peso atomico 126,9 e valenza 1. in questo modo il tellurio cadeva nella colonna degli elementi bivalenti e lo iodio in quella dei monovalenti). Scoprì anche che era necessario lasciare nella tavola degli spazi vuoti, immaginando che essi corrispondessero ad elementi non ancora scoperti. Mendeléev riuscì a scoprire anche molte proprietà degli elementi mancanti, basando il suo ragionamento sulle proprietà degli elementi che si trovavano sopra e sotto gli spazi vuoti. SI COLMANO I VUOTI Nel 1814, l'ottico tedesco Joseph von Fraunhofer, fabbricando i suoi prismi, scoprì che la luce che passava attraverso essi formava uno spettro di colore attraversato da una serie di righe scure. Contò circa seicento righe di questo genere, prendendo nota della loro posizione. Il fisico Gustav Robert Kirchhoff e il chimico Robert Wilhelm Bunsen riuscirono a trarre informazioni sensazionali da queste righe. Ciò avvenne grazie al becco Bunsen, un congegno costituito da un cannello nel quale avviene la combustione di una miscela di gas e aria, che produce una fiamma molto calda e poco luminosa. Quando Kirchhoff collocava diversi cristalli nella fiamma, questa cominciava ad emanare luce di colori particolari. Facendola passare attraverso un prisma, questa luce si separava formando linee brillanti. Kirchhoff dimostrò che ogni elemento produceva uno spettro diverso dagli altri, che lo rendeva identificabile. L'apparecchio usato per analizzare gli elementi in base a questa proprietà fu chiamato spettroscopio. LO SPETTROSCOPIO, usato nella scoperta di diversi elementi, permetteva agli scienziati di confrontare le righe luminose degli spettri nei metalli incandescenti. Oggi sappiamo che la luce si genera per effetto di certi fenomeni che avvengono all’interno degli atomi, in maniera diversa a seconda dell’atomo. Di conseguenza, ogni elemento emette delle onde di determinate lunghezze e non di altre. Se la luce cade su un vapore, si possono far accadere i fenomeni inversi all’interno degli atomi del vapore. Verranno allora assorbite, anziché emesse, le radiazioni luminose aventi determinate lunghezze d’onda. Inoltre, dato che in entrambi i casi si verificano gli stessi fenomeni (una volta in un senso, e una volta nel senso inverso) le lunghezze d’onda delle radiazioni luminose assorbite dal vapore in un caso sono esattamente le stesse che il determinato vapore emetterebbe nel caso opposto. Sembrava molto probabile che le righe nere dello spettro della luce del sole fossero state generate dall’assorbimento della luce emessa dal corpo incandescente del sole, da parte dei gas della sua atmosfera relativamente fresca. I vapori dell’atmosfera solare assorbivano la luce, e in base alla posizione delle righe scure formatesi di conseguenza nello spettro era possibile stabilire quali elementi fossero presenti nell’atmosfera del sole. Lo spettroscopio fu usato per dimostrare che il sole (nonché gli altri corpi celesti) era composto di elementi identici a quelli terrestri, liquidando così definitivamente le teorie di Aristotele. Lo spettroscopio, inoltre, permise di individuare nuovi elementi.: se un minerale veniva portato all’incandescenza e rivelava delle linee che non appartenevano ad alcun elemento conosciuto, era logico pensare che si trattasse di un elemento nuovo. Bunsen e Kirchhoff scoprirono in questo modo il cesio e il rubidio. Altri chimici iniziarono ad interessarsi a questo strumento, come Il chimico francese Paul Emile Lecoq de Boisbaudran che scoprì il gallio (un elemento le cui proprietà erano state già studiate da Mendeléev tra gli elementi mancanti della sua tavola). Altri due elementi previsti da Mendeléev furono scoperti in seguito: il chimico svedese Lars Fredrick Nilson scoprì lo scandio; il chimico tedesco Clemens Alexander Winkler scoprì il germano. Da quel momento in poi divenne impossibile dubitare della validità e dell'utilità della tavola periodica. NUOVI GRUPPI DI ELEMENTI Il chimico finlandese Johan Gradolin aveva scoperto, nel 1794, un nuovo ossido metallico in un minerale proveniente dalle cave di Ytterby (vicino Stoccolma): si trattava di una terra molto meno comune di quelle esistenti perciò prese il nome di terra rara, o ittrite. Cinquanta anni dopo, da essa fu isolato un elemento, l’ittrio. Nel diciannovesimo secolo furono analizzati altri minerali provenienti dalle terre rare (silice, calce, magnetite), e si scoprì che facevano parte di una serie di elementi a parte, che presero il nome di elementi delle terre rare. Il chimico svedese Carl Gustav Mosander scoprì ben quattro elementi appartenenti alle terre rare: il lantanio, l’erbio, il terbio e il didimio. Più tardi il chimico austriaco Carl Auer, barone von Welsbach, scoprì che il didimio era in realtà un miscuglio di due elementi, che chiamò praseodimio e neodimio. Entro il 1907 erano stati scoperti in tutto quattordici elementi appartenenti al gruppo delle terre rare: si erano aggiunti il disprosio, l’olmio, il tulio e il lutezio. Le terre rare avevano proprietà chimiche simili e valenza pari a 3. Sarebbero dovute rientrare tutte in una stessa colonna della tavola periodica, ma una disposizione del genere sembrava impossibile perché nessuna colonna era abbastanza lunga da contenere quattordici elementi. Inoltre, i pesi atomici delle terre rare erano separati da intervalli molto brevi, perciò si sarebbero dovute collocare tutte in una stessa riga orizzontale, cioè nello stesso periodo. Potevano essere collocate nel sesto periodo, a patti supporre che questo sarebbe stato più lungo del quarto e del quinto, i quali erano a loro volta più lunghi de secondo e del terzo. Tuttavia, l’affinità delle caratteristiche degli elementi delle terre rare rimase senza spiegazione fino agli anni ‘20 del XX secolo e la mancanza di una spiegazione gettò ombra su tutta la tavola periodica. Un altro gruppo di elementi, non previsti da Mendeléev, non crearono tutto questo scompiglio anzi, si adattarono alla perfezione alla tavola periodica. Le prime informazioni su questo nuovo gruppo si ebbero dal fisico inglese John William Strutt, Lord Rayleigh il quale si dedicò a calcolare i pesi atomici dell’ossigeno, dell'idrogeno e dell'azoto. Nel caso dell’azoto scoprì che il peso atomico variava a seconda dell'origine del gas (l’azoto proveniente dall’aria aveva un peso leggermente superiore a quello dell'azoto proveniente dal suolo). Il chimico scozzese William Ramsay, interessatosi al problema, ricordò che Cavendish aveva cercato di combinare l'azoto dell'aria con l'ossigeno, scoprendo che rimaneva un'ultima bolla di gas che non si combinava con l'ossigeno. Era possibile che l'azoto estratto dall'aria contenesse un altro gas leggermente più pesante dell'azoto, che facesse apparire un po' più pesante l'azoto dell'aria. Ramsay ripeté l'esperimento di Cavendish aiutandosi con lo spettroscopio e scoprì in effetti un nuovo gas che occupava circa l’1% del volume dell’atmosfera: l'argo (dal greco “inerte”: tale era il gas scoperto, in quanto non si combinava con nessun alro elemento). Questo elemento (con peso atomico 40) avrebbe dovuto occupare un posto vicino allo zolfo, al cloro, al potassio e al calcio. L'argo aveva, però, valenza pari a 0 (perché non si combinava con nessun altro elemento) e venne quindi collocato tra cloro (valenza 1) e potassio (valenza 1), in modo da formare la seguente successione: zolfo (2), cloro (1), argo (0), potassio (1), calcio (2). Ramsay iniziò a cercare altri gas con valenza pari a 0, che appartenessero quindi alla famiglia dei gas inerti, i quali si sarebbero collocati perfettamente tra la colonna degli alogeni e quella dei metalli alcalini (entrambe con valenza 1). Venne scoperto l'elio (il più leggero dei gas inerti e l'elemento, dopo l'idrogeno, con peso atomico più basso), il neon, il cripto e lo xeno. Inizialmente i gas inerti erano considerati pure e semplici curiosità, interessanti solo per i chimici che vivevano nelle proprie torri d’avorio. Tuttavia, a partire dal 1910, il chimico francese Georges Claude dimostrò che una corrente elettrica costretta a passare attraverso gas come il neon, genera una luce morbida e colorata. Prima del 1950 le lampadine a filamento incandescente dei centri dello spettacolo vennero sostituite da luci al neon (dei tubi pieni di questo gas potevano essere piegati per formare lettere dell'alfabeto, parole o disegni). composizione della miscela in condizioni di equilibrio. Variando la concentrazione di una qualsiasi delle sostanze partecipanti, si modifica quindi la posizione del punto di equilibrio. Sebbene la concentrazione di equilibrio variasse a seconda che venisse sottratto o aggiunto un certo quantitativo di una o più sostanze partecipanti, Guldberg e Waage scoprirono un fattore che restava inalterato. Il rapporto tra il prodotto delle concentrazioni delle sostanze situate da una parte della doppia freccia, e il prodotto delle concentrazioni delle sostanze dalla parte opposta della doppia freccia, rimane costante in corrispondenza del punto di equilibrio. Il simbolo K rappresenta la costante di equilibrio caratteristica di ogni reazione reversibile data che si svolga ad una temperatura stabilita. La legge dell'azione di massa di Guldberg e Waage era una guida per lo studio delle reazioni reversibili più corretta della teoria di Berthelot, tuttavia venne pubblicata in norvegese, e passò quindi inosservata fino a che non fu tradotta in tedesco. Nel frattempo, il fisico americano Josiah Willard Gibbs applicava i principi della termodinamica alle reazioni chimiche, e pubblicò diverse relazioni sull'argomento. Gibbs elaborò il concetto di energia libera, quantità fisica che incorporava in sé tanto il contenuto di calore quanto l'entropia. Quando avveniva una reazione chimica, l'energia libera del sistema variava. Se l'energia libera diminuiva, l'entropia aumentava sempre, e la reazione era spontanea (l’energia libera era utile in quanto più facilmente misurabile rispetto all’entropia). La variazione nella quantità di calore contenuta nel sistema dipendeva dalla misura esatta in cui l’energia libera aumentava e l’entropia diminuiva. Di solito, nelle reazioni spontanee, diminuiva anche la quantità di calore, e si verificava un'emissione di calore. A volte, però, la variazione dell'energia libera e dell'entropia era tale che la quantità di calore aumentava, e la reazione (per quanto spontanea) assorbiva energia. Gibbs dimostrò che l'energia libera di un sistema variava se si modificava la concentrazione delle sostanze chimiche che costituivano il sistema (supponiamo che l’energia libera di A+B non sia molto diversa da quella di C+D. In questo caso piccole modifiche alla concentrazione potrebbero esser sufficienti a far sì che l’energia libera di A+B risulti maggiore di quella di C+D per alcune concentrazioni o minore per altre). La velocità di variazione dell'energia libera al variare della concentrazione di una determinata sostanza rappresenta il potenziale chimico della sostanza. Era proprio questo a fungere da forza animatrice delle reazioni chimiche. Le reaziono chimiche seguivano spontaneamente un percorso da punti di elevato potenziale chimico a punti di potenziale basso, così come il calore che fluiva spontaneamente da punti con alte temperature a punti con temperature basse. Gibbs dimostrò che, all'equilibrio, la somma dei potenziali chimici di tutte le sostanze partecipanti raggiungeva il minimo (Partendo da A+B, il valore della somma scendeva lungo il “pendio” del potenziale chimico man mano che si formava C+D. Se si partiva da C+D il valore della somma scendeva man mano che si formava A+B. All'equilibrio si raggiungeva il fondo della “valle d’energia” tra i due “pendii”). Gibbs passò ad applicare i principi della termodinamica agli equilibri tra diverse fasi (liquide, solide e aeriformi) presenti all'interno di un determinato sistema chimico. Ad esempio, l'acqua allo stato liquido, il vapore acqueo e il ghiaccio (un componente, tre fasi) potevano esistere tutti insieme solo ad una determinata temperatura e pressione. Gibbs elaborò la regola delle fasi, che permetteva di stabilire in anticipo in che modo sarebbe stato possibile variare la temperatura, la pressione e le concentrazioni dei vari componenti, in qualsiasi combinazione di componenti e di fasi. Nacque così la termochimica. Le scoperte di Gibbs, tuttavia, non ebbero da subito molto successo, in quanto furono pubblicate su una rivista americana che i luminari europei ignoravano. LA CATALISI Il più celebre ricercatore della chimica fisica alla fine del diciannovesimo secolo era il chimico russo-tedesco Friedrich Wilhelm Ostwal, grazie al quale la chimica fisica venne riconosciuta come disciplina a sé stante. Ostwald studiò il fenomeno della catalisi (così chiamata da Berzelius), un fenomeno per cui una determinata reazione chimica viene accelerata dalla presenza di piccole quantità di una sostanza che sembra mantenersi estranea alla reazione. Il platino in polvere, ad esempio, catalizza la reazione dell'idrogeno con l'ossigeno e con tutta una serie di composti organici. Ostwald osservò che, in base alle teorie di Gibbs, si doveva supporre che i catalizzatori accelerassero le reazioni senza alterare le relazioni energetiche tra le sostanze interessate, e che il catalizzatore si combinasse con la sostanza reagente formando un composto intermedio, che si sarebbe poi decomposto per dare il prodotto finale. La decomposizione liberava il catalizzatore, che assumeva di nuovo la sua forma originaria. L'effetto del catalizzatore, quindi, era quello di velocizzare la reazione senza essere consumato. Ostwald fu l'ultimo oppositore della teoria atomica, poiché si rifiutava di credere a qualcosa non dimostrato empiricamente. A questo punto, sorse il problema del moto browniano. Questo fenomeno, che si manifesta con il movimento rapido e irregolare di minuscole particelle in sospensione nell'acqua, fu osservato per la prima volta nel 1827 dal botanico scozzese Robert Brown. Nel 1905 il fisico svizzero-tedesco Albert Einstein dimostrò che questo movimento si poteva attribuire al bombardamento delle particelle da parte delle molecole dell'acqua. Einstein trovò un'equazione che poteva servire, una volta misurate le caratteristiche delle particelle in movimento, a calcolare le dimensioni reali della molecola d'acqua. Il fisico francese Jean Baptiste Perrin eseguì le misurazioni necessarie nel 1908 e presentò la prima valutazione attendibile del diametro delle molecole, e quindi degli atomi. A questo punto, anche Ostwald dovette abbandonare l'opposizione alla teoria atomica. L'opera di Gibbs venne diffusa anche al chimico-fisico Henri Louis Le Chatelier, famoso per aver enunciato, nel 1888, il principio di Le Chatelier (qualsiasi variazione di uno dei fattori di un equilibrio determina un riordinamento del sistema in un senso tale da ridurre al minimo la variazione originaria). Il chimico olandese Van't Hoff raggiunse indipendentemente, nel penultimo decennio del secolo, molte delle conclusioni a cui era arrivato Gibbs. Van't Hoff studiò le soluzioni e dimostrò, nel 1886, che le molecole delle sostanze disciolte, muovendosi a caso attraverso il liquido della soluzione, si comportavano in conformità a regole analoghe a quelle che determinavano il comportamento dei gas. Lo scienziato tedesco Walther Hermann Nernst applicò i principi della termodinamica alle reazioni chimiche che hanno luogo nelle pile elettriche. Dimostrò che nelle reazioni chimiche si poteva generare la luce che, a sua volta era in grado di determinare reazioni chimiche. Lo studio delle reazioni indotte dalla luce prende il nome di fotochimica (chimica della luce). Molti studiosi, tra cui il fisico francese Joseph Nicéphore Niepce, l'artista francese Louis Jacques Mandé Daguerre e l'inventore inglese William Henry Fox Talbot, scoprirono una tecnica che permetteva di creare immagini disegnate dalla luce del sole, grazie all'azione della luce sull'argento. Questo processo prese il nome di fotografia (“scrittura con la luce”). La luce si comportava quasi come un catalizzatore: bastava una piccola quantità di luce a provocare in un miscuglio di idrogeno e cloro una reazione di violenza esplosiva, mentre al buio non si verificava nessuna reazione. Nernst spiegò, nel 1918, che il raggio di luce iniziale è responsabile di una reazione a catena fotochimica, la quale conduce, con velocità esplosiva, alla formazione di moltissime molecole di acido cloridrico. LA DISSOCIAZIONE IONICA A Ostwald e Van’t Hoff si aggiunse un altro maestro delle origini della chimica fisica: il chimico svedese Svante August Arrhenius. Da studente, egli aveva focalizzato la sua attenzione sugli elettroliti, cioè sulle soluzioni capaco di permettere il passaggio di una corrente elettrica. Nel 1853 il fisico tedesco Johann Wilhelm Hittorf osservò che alcuni ioni si spostavano più velocemente di altri. Questo portò al concetto di numero di trasporto, che indica in quale rapporto i vari ioni trasportano la corrente elettrica. Ma nonostante questa scoperta, la natura degli ioni restava un mistero. Arrhenius entrò in campo grazie all’opera del chimico francese François Marie Raoult studiava le soluzioni e giunse all'enunciazione della legge di Raoult: “la pressione parziale di un vapore solvente in equilibrio con una soluzione è direttamente proporzionale alla frazione molare del solvente”. Questa regola diede la possibilità di stimare il numero relativo di particelle della sostanza disciolta (il soluto) e del liquido in cui essa viene disciolta (il solvente). Raoult aveva misurato i punti di congelamento delle soluzioni, notando che il punto di congelamento della soluzione era più basso di quello del solvente puro. Rault riuscì a dimostrare che l'abbassamento del punto di congelamento era proporzionale al numero delle particelle di soluto presenti nella soluzione. Facendo sciogliere una sostanza nell'acqua, essa si divideva in molecole distinte. Nel caso delle sostanze non elettrolitiche, come lo zucchero, l'abbassamento del punto di congelamento concordava con questa ipotesi. Ma nel caso degli elettroliti, come il sale comune (NaCl), l'abbassamento del punto di congelamento era due volte maggiore del previsto. Il numero delle particelle presenti era il doppio di quello delle molecole di sale. Facendo sciogliere del cloruro di bario (BaCl2), il numero delle particelle presenti risultava tre volte maggiore di quello delle molecole. La molecola di NaCl è costituita da due atomi, e la molecola di BaCl2 da tre. Arrhenius pensò che quando determinate molecole venivano disciolte in un solvente come l'acqua, queste molecole si dividessero nei singoli atomi che le componevano. Inoltre, dato che queste molecole, una volta scisse in atomi, conducevano la corrente elettrica, Arrhenius ritenne che le molecole non si decomponessero in atomi normali, ma in atomi dotati di carica elettrica. Arrhenius affermò che gli ioni di Faraday non erano altro che atomi (o gruppi di atomi) dotati di carica elettrica positiva o negativa (o erano “atomi di elettricità” oppure “trasportatori di atomi di elettricità”). Arrhenius usò la sua teoria della dissociazione ionica per spiegare molti fenomeni dell'elettrochimica. Arrhenius osservò che le molecole non reagivano necessariamente tra loro, urtandosi, a meno che non fossero dotate di un quantitativo minimo di energia, o energia di attivazione. Quando questa è bassa, le reazioni si svolgono rapidamente e senza difficoltà; quando è alta, può darsi che la reazione abbia luogo a velocità infinitamente piccola. In questo secondo caso, se si aumentasse la temperatura in modo da far ricevere l'energia necessaria ad un certo numero di molecole, la reazione avrebbe luogo all'improvviso e violentemente (come succede con l'esplosione provocata da un miscuglio di idrogeno e ossigeno, che si verifica non appena si raggiunge la temperatura di accensione). ANCORA SUI GAS Alla metà del diciannovesimo secolo, il chimico franco-tedesco Henri Victor Regnault eseguì delle misurazioni accurate sui volumi e sulle pressioni dei gas dimostrando che, soprattutto quando si aumentava la pressione o si riduceva la temperatura, i gas non seguivano esattamente la legge di Boyle (secondo la quale la pressione e il volume di una certa quantità di gas variavano in misura inversamente proporzionale). sostanze che servono da elementi costruttivi delle molecole giganti degli acidi nucleici. Le sue ipotesi furono poi confermate dal chimico scozzese Alexander Robertus Todd il quale) sintetizzò i vari nucleotidi e composti affini tra gli anni '40 e gli anni '50. Alcune di queste sostanze, soprattutto gli alcaloidi, rientrano nella categoria generale dei medicinali. Fin dall’inizio del XX secolo venne dimostrato che anche le sostanze sintetiche potevano essere usate in ambito medico, rivelandosi preziosi. Una sostanza sintetica, l'arsfenamina, era stata usata dal batteriologo tedesco Paul Ehrlich (come agente terapeutico contro la sifilide. Questa applicazione è ritenuta alla base dello studio della chemioterapia, cioè la cura delle malattie per mezzo di sostanze chimiche specifiche. Nel 1932 il chimico tedesco Gerhard Domagk scoprì che la sulfanilamide, un composto sintetico scoperto anni prima, poteva servire per combattere una serie di malattie infettive. In questo caso però, le sostanze naturali hanno raggiunto e superato quelle sintetiche. Ad esempio, nel 1928, il batteriologo scozzese Alexander Fleming scoprì la penicillina, il primo antibiotico (“contro la vita”, nel senso della vita microscopica). La sua scoperta fu casuale: lo scienziato aveva lasciato scoperto per diversi giorni un recipiente contenete una coltura di strafilococchi, su cui si era formata una muffa. Fleming decise di analizzare tale muffa e vide che ogni spora della muffa presentava una zona limpida nella quale la coltura di battei si era dissolta. Fleming approfondì le sue ricerche, convinto di trovasi davanti ad un medicamento antibatterico, ma trovò difficoltà nell’isolare la sostanza. La necessità di nuovi medicinali per curare le infezioni si fece sentire durante la Seconda guerra mondiale e ciò portò ad un nuovo e massiccio assalto al problema. Sotto la guida del patologo australiano Howard Walter Florey e del biochimico anglo-tedesco Ernst Boris Chain si riuscì ad isolare la penicillina e a determinarne la struttura. Nel 1945 si era in grado di produrre mezza tonnellata di penicillina al mese. Nel 1958 si riuscì a fermare il processo a metà, ottenere il nucleo centrale della molecola della penicillina e aggiungere questi vari gruppi organici che non si sarebbero sviluppati spontaneamente. Questi prodotti sintetici avevano in alcuni casi caratteristiche antibatteriche superiori a quelle della penicillina. Negli anni '40 e '50 vennero isolati da varie muffe e messi in commercio diversi antibiotici, come la streptomicina e le tetracicline. Il materiale usato per le analisi delle sostanze organiche era scarso, e le analisi risultavano imprecise o addirittura impossibili. Il chimico austriaco Fritz Pregl riuscì a ridurre le dimensioni degli strumenti usati nelle analisi, elaborando la tecnica della microanalisi rendendo così possibili le analisi di piccoli campioni che si erano rivelate precedentemente intrattabili. I classici procedimenti di analisi richiedevano la misurazione del volume di una sostanza consumata nel corso di una reazione (analisi volumetrica), oppure la pesatura di una sostanza prodotta da una reazione (analisi gravimetrica). Con l’avanzare del ventesimo secolo vennero tuttavia introdotti procedimenti fisici di analisi basati sull’assorbimento della luce, sulle variazioni della conduttività elettrica e su tecniche ancora più elaborate. LE PROTEINE Fino ad ora tutte le sostanze di cui si è parlato sono composte da molecole che si presentano come singole entità, che non si decompongono facilmente e non comprendono più di una cinquantina di atomi. Esistono, tuttavia, delle molecole giganti composte da migliaia e perfino milioni di atomi. Queste molecole non sono di natura unitaria ma composte da elementi costruttivi piuttosto piccoli. È facile scindere queste molecole negli elementi costruttivi che le compongono. Così fece Levane nelle sue ricerche sui nucleotidi, Il chimico scozzese Thomas Graham fu il primo a muovere i passi verso lo studio delle molecole intatte: egli era interessato al fenomeno della diffusione, ovvero il modo in cui si mescolano tra loro le molecole di due sostanze che entrano in contatto. Iniziò con lo studiare la velocità di diffusione dei gas e nel 1831 dimostrò che questa era inversamente proporzionale alla radice quadrata del loro peso molecolare (legge di Graham) In seguitò studiò la diffusione delle sostanze in soluzione, scoprendo che le soluzioni di sostanze come il sale, lo zucchero o il solfato di rame erano in grado di passare attraverso una membrana di pergamena (che conteneva, presumibilmente, dei fori invisibili persino al microscopio), mentre le soluzioni di sostanze come la gomma arabica, la colla e la gelatina non riuscivano a passare. Era evidente che le molecole di questo secondo gruppo di elementi erano troppo grandi per passare attraverso la membrana. Graham chiamò cristalloidi le sostanze che passavano facilmente, e colloidi quelle che non passavano. Lo studio delle molecole giganti entrò a far parte, come costituente importante, dello studio della chimica dei colloidi, fondata appunto da Graham. Se da una parte una membrana di pergamena c'è acqua pura e dall'altra una soluzione colloidale, l'acqua entra nello scompartimento colloidale, ma la via d'uscita da esso è bloccata dalle molecole colloidali, perciò l'acqua entra più rapidamente di quanto non ne esca e ciò determina una pressione osmotica. Il botanico tedesco Wilhelm Pfeffer dimostrò nel 1877 di poter misurare la pressione osmotica e di stabilire il peso molecolare delle molecole giganti della soluzione colloidale. Un metodo migliore fu escogitato dal chimico svedese Theodor Svedberg il quale realizzò, nel 1923, l'ultracentrifuga. Questa faceva girare le soluzioni colloidali, spingendo verso l'esterno le molecole giganti. Dalla velocità del moto verso l'esterno delle molecole giganti, si poteva calcolare il peso molecolare. Il chimico svedese Arne Wilhelm Kaurin Tiselius perfezionò dei metodi per la separazione delle molecole giganti in base alla distribuzione della carica elettrica sulla superficie molecolare. Questa tecnica, detta elettroforesi, è importante per la separazione e la purificazione delle proteine. La molecola delle proteine è formata da una ventina di elementi costruttivi diversi ma imparentati, I vari aminoacidi. È per questo che le molecole delle proteine sono così versatili, ma così difficili da definire. Emil Fischer, che precedentemente aveva determinato la struttura dello zucchero, cominciò ad interessarsi alle proteine dimostrando che la parte aminica di uno aminoacido era legata alla parte acida di un altro, formando un legame peptidico. Tuttavia, non si sapeva ancora determinare l’ordine degli aminoacidi che formano le catene polipeptidiche delle molecole reali: ci volle un altro mezzo secolo e l’invenzone di una nuova tecnica per determinarlo. Pioniere di questa tecnica fu il botanico russo Mikhail Semenovič Tsvet il quale fece colare in un tubo di ossido di alluminio in polvere una miscela di pigmenti vegetali di colori molto simili. Le diverse sostanze della miscela aderivano alla superficie delle particelle di polvere con forze diverse. Mentre la miscela filtrava verso il basso, i singoli componenti si separavano, formando anelli di colore. Tsvet chiamò questa tecnica cromatografia (“scrittura con il colore”). La tecnica di Tsvet fu perfezionata nel 1944 dai chimici inglesi Archer John Porter Martin e Richard Laurence Millington Synge, che sostituirono la colonna di polvere con carta da filtro assorbente, chiamando la tecnica cromatografia su carta. Tra la fine degli anni ‘40 e i primi ‘50 vennero scisse diverse proteine negli aminoacidi che le costituivano. Le miscele vennero quindi separate e analizzate attraverso la cromatografia su carta: in questo modo fu possibile calcolare il numero complessivo di ciascun aminoacido presente nella molecola della proteina, ma non l’ordine esatto che spettava a ciascun aminoacido. Il chimico inglese Frederick Sanger scisse l'insulina (un ormone proteico costituito da una cinquantina di aminoacidi) in catene più corte, che analizzò grazie alla cromatografia su carta. Nel 1953, dopo 8 anni di analisi, riuscì a stabilire l'ordine esatto degli aminoacidi all'interno della molecola dell'insulina. Da qui in poi furono usati gli stessi metodi per calcolare la struttura di molecole proteiche anche più grandi. Il passo successivo fu quello di effettuare le sintesi in laboratorio delle molecole proteiche. Nel 1954, il chimico americano Vincent du Vigneaud riuscì a sintetizzare l'ossitocina, formata da solo 8 aminoacidi. Dopo questa prima sintesi, furono ricostruite catene ancora più complesse e, nel 1963 si era in grado di sintetizzare anche l’insulina. Spesso, riscaldando le proteine, esse perdono le loro proprietà; vengono, cioè, denaturate. La denaturazione non provoca la rottura della catena polipeptidica, perciò devono esserci dei legami secondari. Questi legami contengono, di solito, un atomo di ossigeno, e sono chiamati legami all'idrogeno (hanno una resistenza pari ad un ventesimo rispetto ai legami di valenza). All’inizio degli anni ’50 il chimico americano Linus Pauling ipotizzò che la catena polipeptidica si avvolgesse su se stessa a forma di elica e fosse tenuta ferma da legami all'idrogeno. Questo concetto si è rivelato utile per quanto riguarda le proteine fibrose (pelle e tessuti connettivi). Il chimico austro-britannico Max Ferdinand Perutz e il chimico inglese John Cowdery Kendrew hanno dimostrato che la struttura ad elica è presente anche nelle più complesse proteine globulari (come l'emoglobina e la mioglobina). I due chimici si sono serviti della diffrazione dei raggi X, nella quale un fascio di raggi X passante attraverso dei cristalli è deviato dagli atomi che formano i cristalli stessi. Quando gli atomi sono disposti secondo uno schema regolare, la diffrazione di un dato angolo in una determinata direzione è più efficace; quando la disposizione degli atomi è più complessa, il procedimento è più lungo e noioso. Al principio degli anni ’50 il fisico inglese Francis Harry Compton Crick e il chimico americano James Dewey Watson scoprirono che le molecole degli acidi nucleici erano costituite da una doppia elica, ovvero da due catene avvolte attorno ad un asse comune. Questo modello di Watson-Crick, presentato per la prima volta nel 1953, si è rivelato un importante passo avanti per la conoscenza della genetica. GLI ESPLOSIVI Il chimico svizzero-tedesco Christian Friedrich Schönbein, già famoso per aver scoperto l'ozono (una forma di ossigeno), durante un esperimento a casa sua rovesciò una miscela di acido nitrico e acido solforico, e usò un grembiule di cotone per pulire. Lasciato ad asciugare sopra la stufa, il grembiule fece “puff” e sparì. Scönbein aveva trasformato la cellulosa del grembiule in nitrocellulosa. I gruppi nitro (dall’acido nitrico) servivano da fonte interna di ossigeno e, una volta riscaldata, la cellulosa si ossidava completamente, tutta in una volta. Si trattava di una possibile “polvere senza fumo” e dal suo potenziale, quale propellente delle granate di artiglieria, ricevette il nome di cotone fulminante. I primi tentativi di fabbricare cotone fulminante per uso militare fallirono, perché le fabbriche avevano la tendenza a saltare in aria. Nel 1891, Dewar e il chimico inglese Frederick Augustus Abel riuscirono a creare una miscela non pericolosa contenente cotone fulminante, che prese il nome di cordite. Una delle sostanze che forma la cordite è la nitroglicerina, scoperta nel 1847 dal chimico Ascanio Sobrero. Era un esplosivo troppo delicato per essere usato in guerra, ma allo stesso tempo troppo pericoloso per essere usato a scopo pacifico (es. per tracciare un sentiero in montagna): il tasso di mortalità era molto elevato. La famiglia dell'inventore svedese Alfred Bernhard Nobel fabbricava nitroglicerina. Dopo che un'esplosione gli uccise il fratello, Nobel si impegnò per domare l'esplosivo. Nel 1866 scoprì una terra assorbente detta “farina fossile” che poteva essere impregnata di grandi quantitativi di nitroglicerina. Questa, poteva poi assumere la forma di bastoncini, che potevano essere maneggiati in tutta sicurezza, ma consentivano il potere distruttivo della nitroglicerina: questo esplosivo prese il nome di dinamite. I POLIMERI La cellulosa nitrata era un esplosivo, ma la cellulosa parzialmente nitrata (pirossilina) era meno pericolosa da maneggiare, e le vennero trovate importanti possibilità di utilizzazione. L'inventore americano John Wesley Hyatt ottenne dalla pirossilina (sciolta in una miscela di alcool ed etere, a cui aggiunse canfora per renderla più I primi procedimenti di applicare il nuovo procedimento fallirono perché era necessario partire da minerali privi di fosforo. Una volta individuata questa caratteristica, il prezzo dell’acciaio calò, e l’età del ferro fu sostituita finalmente dall’età dell’acciaio. La lavorazione dell’acciaio, tuttavia, non si limita alla combinazione dl carboni con il ferro. Il metallurgista inglese Robert Abbot Hadfield sperimentò le proprietà degli acciai mescolati a piccole quantità id altri metalli e nel 1882 brevettò l’acciaio al manganese, che segnò l’inizio del trionfo degli acciai speciali. Nel 1919 fu brevettato l’acciaio inossidabile (con cromo e nichelio), che non arrugginiva. Nel 1916 il metallurgista giapponese Kotaro Honda scoprì che, aggiungendo cobalto all’acciaio al tungsteno, si otteneva una lega capace di fornire calamite più potenti di quelle di acciaio comune. Questa scoperta diede il via alla realizzazione di leghe magnetiche ancora più potenti. Nel 1827, Wöhler isolò un campione impuro di alluminio, il più comune fra tutti i metalli, ma sconosciuto fino ad allora. Nel 1855, il chimico francese Henri Etienne Sainte-Claire Deville elaborò un metodo adeguato alla preparazione di alluminio ragionevolmente puro in quantità moderate. Era comunque più costoso dell’acciaio e veniva usato per ostentazione. Nel 1886, lo studente di chimica americano Charles Martin Hall scoprì che l’ossido di alluminio era solubile in un minerale fuso detto criolite. Una volta disciolto l’ossido, per mezzo dell’elettrolisi si poteva ottenere lo stesso alluminio. Lo stesso anno, il metallurgista francese Paul Louis Toussaint Héroult elaborò praticamente lo stesso metodo. Il procedimento Hall – Héroult ha messo l’alluminio alla portata di tutti, rendendolo adatto anche per impieghi più umili. L’alluminio ha il pregio di essere leggero (pesa un terzo dell’acciaio) ed è quindi utile nell’industria aeronautica, che usa anche grandi quantità di magnesio, metallo ancora più leggero. Negli anni ‘30 sono stati perfezionati dei procedimenti per l’estrazione del magnesio dai sali disciolti nell’acqua di mare, che assicurano una fonte praticamente inesauribile di questo metallo. Anche il titanio è pieno di promesse: è un metallo comune, molto resistente agli acidi, di leggerezza intermedia, tra l’alluminio e l’acciaio, e se preparato adeguatamente è il più forte dei metalli, a parità di peso. AZOTO E FLUORO L’azoto è presente nell’atmosfera ma esiste in forma elementare, mentre quasi tutti gli organismi ne hanno bisogno soltanto sotto forma di composto. L’azoto però è quasi inerte e forma composti solo con difficoltà. Nonostante la sua onnipresenza nell’aia, il terreno è spesso povero di nitrati (i composti azotati di tipo più comune), i quali servono da fertilizzanti naturali, nonché come ingredienti per la polvere da sparo e di esplosivi moderni. La scorta di nitrati presenti sulla terra è alimentata dai temporali: nelle vicinanze dei lampi l’azoto e l’ossigeno presenti nell’aria si uniscono formando composti che si disciolgono nelle gocce d’acqua e scendono a terra. Anche certi tipi di batteri utilizzano l’azoto presente nell’aria per creare composti azotati. Ma le esigenze dell’umanità in fatto di nitrati continuavano a crescere, rendendo insufficienti le fonti naturali. Il chimico tedesco Fritz Haber studiò dei procedimenti per combinare con l’idrogeno l’azoto dell’atmosfera, formando ammoniaca. L’ammoniaca sarebbe poi stata facilmente trasformabile in nitrati. Entro il 1908 Haber era riuscito nel suo intento, sottoponendo l’idrogeno l’azoto ad alte pressioni e usando come catalizzatore del ferro. Il chimico tedesco Karl Bosch aveva trasformato l’esperienza di Haber in procedimento industriale, e a metà della Prima guerra mondiale produceva tutti i composti azotati di cui la Germania aveva bisogno. Succedeva l’opposto nel caso del fluoro, che esisteva solo sotto forma di composto e non era mai stato isolato (è l’elemento chimico più attivo in assoluto). Il chimico francese Ferdinand Frédéric Henri Moissan decise di utilizzare il platino per costruire l’attrezzatura necessaria ad isolare il fluoro, poiché era l’unico elemento capace di resistergli. Raffreddò tutto a – 50 °C, per smorzare la fortissima attività del fluoro, e fece passare una corrente elettrica attraverso una soluzione di floruro di potassio in acido fluoridrico. Raggiunse l’obiettivo, isolando il fluoro. Moissan divenne famoso per un’altra realizzazione: cercò di arrivare alla formazione di un diamante (composto da atomi di carbonio disposti in maniera molto compatta), sciogliendo del carbone di legna nel ferro fuso, permettendo che il carbone catalizzasse durante il raffreddamento. Convinto di essere riuscito nell’impresa, produsse una serie di minuscoli diamanti impuri (ad oggi, però, sappiamo che nelle condizioni in cui si è svolto il lavoro non è possibile che si siano creati dei diamanti; è possibile, quindi, che sia stato vittia di un inganno). Anche l’inventore americano Edward Goodrich Acheson, cercò di produrre diamanti partendo da forme più comuni di carbonio. Non ci riuscì, ma ottenne una sostanza estremamente dura che chiamò carborundum. Si trattava di un composto di silicio e carbonio, molto abrasivo. Per la creazione dei diamanti servivano pressioni e temperature molto più alte di quelle ricavabili nel diciannovesimo secolo. I primi diamanti sintetici sono stati ottenuti nel 1955 grazie ai procedimenti messi a punto dal fisico americano Percy William Bridgman. LA TERRA DI NESSUNO TRA CHIMICA ORGANICA ED INORGANICA Il chimico inglese Frederick Stanley Kipping cominciò nel 1899 a fare ricerche sui composti organici contenenti silicio (l’elemento più diffuso sulla crosta terrestre dopo l’ossigeno), riuscendo a sintetizzare, nel giro di quarant’anni, un buon numero di composti organici contenenti uno o più di questi atomi tipici del mondo inorganico. È stato infatti possibile ottenere lunghe catene di silicio e ossigeno alternati all’infinito. Questa attività non riguarda solo la chimica inorganica, perché ogni atomo di silicio ha valenza pari a quattro, ma di questi legami solo due vengono usati nella combinazione con l’ossigeno. Questo vuol dire che gli altri due possono unirsi ad una vasta gamma di gruppi organici. Questi siliconi organici/inorganici sono diventati importanti, dopo e durante la Seconda guerra mondiale, come grassi, fluidi idraulici, gomme sintetiche o idrorepellenti. La maggior parte dei composti organici è costituita dagli idrocarburi, ovvero composti fatti di carbonio e idrogeno. Esiste però una famiglia di fluorocarburi (e derivati), ovvero di composti organici fatti di carbonio e fluoro. Il chimico americano Thomas Midgley jr. Fu il primo a compiere esperimenti con i fluoro-organici e preparò il freon, un gas la cui molecola è formata da un atomo di carbonio al quale sono uniti due atomi di cloro e due di fluoro. Il freon viene usato come refrigerante (nei condizionatori, nei frigoriferi), ed è inodore, non velenoso e non infiammabile. Durante la Seconda guerra mondiale, il fluoro e i suoi derivati furono utilizzati sulle ricerche sull’uranio e sulla bomba atomica: occorrevano dei grassi che non fossero attaccabili dal fluoro, per questo vennero usati i fluorocarburi, in quanto avevano già subito il massimo “attacco” possibile dal fluoro. I polimeri di fluorocarburi sono sostanze cerose, che respingono l’acqua e i solventi e non permettono il passaggio di elettricità. Negli anni ‘60 è entrata nell’uso una sostanza plastica composta di fluorocarburi (il teflon), usato sotto forma di pellicola sottile per rivestire le padelle, che possono così essere usate per friggere senza grasso. Il chimico tedesco Alfred Stock (1876 – 1946) cominciò a studiare gli idruri di boro (composti di boro e idrogeno) e scoprì che si potevano costruire composti abbastanza complicati, analoghi per certi versi agli idrocarburi. Gli idruri di boro sono stati usati, dopo la Seconda guerra mondiale come additivi per i combustibili dei missili, per aumentare la spinta che aziona i veicoli a razzo negli strati superiori dell’atmosfera e nello spazio. CAPITOLO 12 – GLI ELETTRONI I RAGGI CATODICI Per tutto il diciannovesimo secolo si continuò a pensare che l’atomo fosse una particella indivisibile, senza struttura e senza caratteristiche. I passi avanti si devono alle ricerche sulla corrente elettrica. Se in un punto esiste una concentrazione di cariche elettriche positive e in un altro una concentrazione di cariche elettriche negative, tra i due punti si costituisce un potenziale elettrico, la cui forza fa passare da un punto di concentrazione all’altro una corrente di elettricità, che tende a livellare la concentrazione. La corrente attraversa più facilmente alcune sostanze, come i metalli, dette conduttori, ai quali basta un potenziale anche molto piccolo per far sì che vengano attraversate da corrente; mentre le sostanze come il vetro, lo zolfo sono dette isolanti hanno bisogno di un potenziale elettrico enorme per essere attraversate da correnti anche deboli. Dato un potenziale elettrico sufficiente, era possibile far passare la corrente ettraverso qualsiasi sostanza, liquida, solida o gassosa. Gli scienziati del diciannovesimo secolo cercarono di spingersi oltre e si concentrarono sul modo di far passare la corrente elettrica attraverso il vuoto, ma serviva un vuoto abbastanza spinto da permettere alla corrente di attraversalo senza troppe interferenze da parte della materia. Nel 1855, il vetraio tedesco Heinrich Geissler escogitò un procedimento per la produzione del vuoto più spinto che si fosse mai ottenuto fino a quel momento. Costruì, infatti, dei recipienti di vetro all’interno dei quali praticava il vuoto. Questi tubi di Geissler vennero usati dal fisico tedesco Julius Plücker, che fece sigillare due elettrodi in uno di questi tubi, stabilì tra loro un potenziale elettrico e riuscì a far passare una corrente. La corrente determinava degli effetti luminosi all’interno del tubo, che variavano a seconda dell’intensità del vuoto. Il fisico inglese William Crookes aveva realizzato un tubo a vuoto ancora più perfezionato (tubo di Crookes), che permetteva di studiare meglio il passaggio della corrente elettrica nel vuoto. Crookes dimostrò che la corrente elettrica andava dal catodo all’anodo, dove colpiva il vetro circostante creando l’alone di luce. I fisici dell’epoca non sapevano quale fosse la natura della corrente elettrica, di conseguenza non sapevano determinare con certezza che cosa si spostasse dal catodo all’anodo. Di qualsiasi cosa si trattasse, si sapeva colo che il suo moto era rettilineo, quindi poteva essere chiamata “radiazione”. Nel 1876 questo flusso fu chiamato raggi catodici dal fisico tedesco Eugen Goldstein. Era ragionevole supporre che i raggi catodici fossero una forma di luce e che fossero costituiti da onde oppure che fossero formati da particelle veloci le quali, a causa del loro minimo peso o della loro elevata velocità, non avrebbero risentito della gravità. Un modo per capire quale potesse essere l’alternativa corretta era quello di capire se i raggi catodici venivano deviati o meno dall’azione di una calamita. Nel 1897, il fisico inglese Joseph John Thomson (1856 – 1940) riuscì a dimostrare la deviazione dei raggi catodici in un campo elettrico, dimostrando una volta per tutte che i raggi catodici erano flussi di particelle dotate di carica negativa. La misura della deviazione di una particella dei raggi catodici in un campo magnetico di forza data dipende dalla massa della particella e dalla grandezza della sua carica elettrica. Thomson fu in grado di misurare il rapporto tra massa e carica, anche se non poteva misurare separatamente né l’una né l’altra. I raggi gamma, dato che non venivano deviati, costituivano una radiazione di tipo luminoso, ma maggiore dei raggi X. I raggi beta subivano la stessa deviazione che avrebbero subito i raggi catodici. Becquerel aveva stabilito che questi raggi erano costituiti da elettroni veloci, infatti i singoli elettroni emessi dalle sostanze radioattive si dicono particelle beta. Gli esperimenti sui raggi alfa suggerivano che essi fossero costituiti da particelle formate da quattro protoni ciascuna. Ma la carica che possedevano era pari a quella di due protoni, quindi si ritenne che la particella alfa contenesse quattro protoni e due elettroni, che neutralizzavano due cariche positive, senza aggiungere niente alla massa. Nel 1932, il fisico inglese James Chadwick scoprì una particella di massa quasi uguale a quella del protone, ma priva di carica elettrica, che chiamò neutrone. Il fisico tedesco Karl Heisenberg affermò quindi che le particelle pesanti, a carica positiva, non erano costituite da combinazioni di protoni ed elettroni, ma da combinazioni di protoni e neutroni. La particella alfa era quindi formata da due protoni e due neutroni, con carica uguale a due e massa uguale a quattro volte quella del protone. CAP 13 – L’ATOMO NUCLEARE IL NUMERO ATOMICO Marie Curie scoprì, studiando la radioattività dell’uranio, alcuni campioni di minerale a basso tenore di uranio, ma intensamente radioattivo, più dello stesso uranio puro. Giunse alla conclusione che si trattava di un minerale completamente diverso dall’uranio: conosceva tutti i componenti del minerale presenti in proporzioni abbastanza considerevoli e sapeva che nessuno di essi era radioattivo, perciò l’elemento sconosciuto doveva essere presente in piccolissime quantità, ed essere estremamente radioattivo. Nel 1898, insieme a suo marito, riuscì ad isolare questo elemento, al quale venne dato il nome di polonio. A dicembre isolarono un altro elemento: il radio. Quest’ultimo emetteva radiazioni in misura 300.000 volte superiore a quella di una stessa quantità di uranio, ed era molto raro. Furono scoperti altri elementi fortemente radioattivi: l’attinio, il radon (un gas nobile) e il protoattinio. Questi elementi furono utilizzati nei “cannoni a particelle” (Il piombo assorbe le radiazioni. Se si mette un pezzetto di una sostanza contenente uno di questi elementi in una scatola rivestita di piombo munita di un foro, quasi tutte le particelle emesse verranno assorbite dal piombo. Alcune però riusciranno a imboccare il foro e formeranno un fascio sottile costituito da moltissime particelle ad alto livello di energia che si potrà rivolgere contro un bersaglio). Rutherford, usando questi cannoni, bombardò dei fogli sottili di metallo (d’oro, ad esempio= con particelle alfa veloci. Quasi tutte le particelle alfa passavano dall’altra parte indisturbate, altre subivano deviazioni anche considerevoli. Dato che il foglio aveva uno spessore di duemila atomi e quasi tutte le particelle alfa lo attraversavano senza problemi, sembrava che gli atomi fossero costituiti quasi interamente da spazio vuoto. Il fatto che alcune particelle alfa registrassero brusche deviazioni, significava che nell’atomo doveva esistere una massa dotata di carica positiva capace di respingere le particelle alfa, anch’essa positiva. Rutherford elaborò la teoria dell’atomo nucleare: l’atomo contiene al centro un nucleo molto piccolo, munito di carica positiva, che contiene tutti i protoni e i neutroni dell’atomo. Il nucleo atomico deve essere molto piccolo per spiegare il fatto che, di tutte le particelle alfa, soltanto una piccola parte subisce deviazioni, ma deve anche concentrare in sé quasi tutta la massa dell’atomo. Nelle zone periferiche dell’atomo si trovano gli elettroni, dotati di carica negativa, che sono troppo leggeri per impedire il passaggio delle particelle alfa. L’atomo nucleare di Rutherford rese più complessa la questione dell’indivisibilità dell’atomo. Il nucleo centrale dell’atomo era protetto da una nube di elettroni, e restava intatto in tutte le trasformazioni chimiche. Era stata proprio questa apparente immutabilità del nucleo a fa sì che fino ad allora tutti i dati sperimentali venissero interpretati a favore della nozione di indivisibilità dell’atomo. Tuttavia, l’atomo subiva un tipo di trasformazione nelle normali reazioni cimice. Era possibile togliere o aggiungere un certo numero di elettroni alla superficie dell’atomo. In questo modo fu possibile risolvere il problema degli ioni. Ma come si differenziano gli atomi nucleari dei diversi elementi? Il fisico tedesco Max Theodor Felix von Laue cominciò a bombardare dei cristalli con i raggi X. Questi esperimenti stabilirono due dati essenziali: 1) I cristalli sono formati da atomi disposti secondo una struttura geometrica di strati regolari, che determinano la dispersione dei raggi X secondo uno schema fisso; 2) Dal modo in cui si disperdono i raggi X si possono capire le dimensioni (lunghezza d’onda) delle minuscole onde che li costituiscono. Il fisico inglese Charles Glover Barkla scoprì, nel 1911, che quando i raggi X vengono dispersi attraverso certi elementi, generano fasci di radiazioni che penetrano nella materia per distanze caratteristiche. Ogni elemento dà luogo ad una gamma particolare di raggi X caratteristici. Un altro fisico inglese Henry Gwyn-Jeffreys Moseley usò il metodo di von Laue per calcolare le lunghezze d’onda di questi raggi X caratteristici, scoprendo che la lunghezza d’onda diminuiva a mano a mano che aumentava il peso atomico degli elementi che emettevano le radiazioni. Questo rapporto inversamente proporzionale dipendeva dalla misura della carica positiva del nucleo dell’atomo. Maggiore era la carica, più corta era la lunghezza d’onda dei raggi X caratteristici. Partendo dalla lunghezza d’onda era possibile calcolare la caricadeli atomi di qualsiasi elemento. La misura della carica nucleare prende il nome di numero atomico. Si capì, quindi, che Mendeléev aveva disposto i suoi elementi in ordine, non di peso atomico, ma di numero atomico: infatti, nei pochi casi in cui aveva messo elementi più pesanti davanti ad elementi più leggeri, gli elementi più leggeri avevano in realtà numero atomico più alto. Non era più possibile utilizzare la definizione di elemento di Boyle (“sostanza non decomponibile in sostanze più semplici”), ma era necessario sostituirla con una nuova: un elemento è una sostanza costituita da atomi che possiedono tutti un numero atomico identico e caratteristico. Per la prima volta era anche possibile prevedere esattamente quanti elementi rimanevano da scoprire. Mancavano sette elementi (i numeri atomici 43, 61, 72, 75, 85, 87 e 91). Nel 1917 fu scoperto il protoattinio (91), nel 1923 l’afnio (72) e nel 1925 il renio (75); ne mancavano solo quattro, ma i vuoti furono colmati soltanto negli anni’30. Dato che il protone è l’unica particella dotata di carica positiva del nucleo, il numero atomico è uguale al numero dei protoni del nucleo. I neutroni, invece, partecipano alla massa e non alla carica (es. l’alluminio ha numero atomico 13, quindi 13 è il numero dei protoni presenti nel nucleo. Il suo peso atomico è invece 27, quindi il numero dei neutroni è 14). Protoni e neutroni si indicano collettivamente col nome di nucleoni. In condizioni normali, l’atomo è elettricamente neutro, quindi ad ogni protone del nucleo deve corrispondere un elettrone. Quindi il numero degli elettroni di un atomo neutro è uguale al numero atomico. (es. l’atomo di sodio ha numero atomico 11 e peso atomico 23. Contiene 11 protoni, 12 neutroni -che insieme vanno a formare il peso atomico, pari a 23- e 11 elettroni). I GUSCI DI ELETTRONI Lo scambio di elettroni avviene quando due atomi si scontrano e reagiscono, o si uniscono mettendo in comune un certo numero di elettroni, oppure si separano di nuovo dopo essersi scambiati uno o più elettroni. È questa proprietà a dare luogo ai cambiamenti di proprietà che si osservano nelle sostanz partecipanti alle reazioni chimiche. Emerse il concetto che gli elettroni dell’atomo si dividevano in gruppi raffigurabili come gusci, o cortecce di elettroni. Queste cortecce racchiudono il nucleo come strati di cipolla, e ogni corteccia è in grado di contenere un numero maggiore di elettroni rispetto alle cortecce più interne. Ogni guscio prese il nome di una lettera: K, L, M, N, e così viaIl guscio più interno, o corteccia K, contiene solo due elettroni; la corteccia L ne può contenere 8; la corteccia M addirittura diciotto; e così via. Questo serve anche a spiegare la tavola periodica infatti, ad esempio, negli atomi di tutti i metalli alcalini la corteccia più esterna è occupata solo da un elettrone. L’attività chimica di ogni elemento dipende, quindi, dal numero di elettroni situati sulla corteccia esterna. Gli elementi dotati di cortecce esterne che si assomigliano, avranno proprietà simili. Mendeléev aveva disposto gli elementi secondo questa caratteristica, ma senza neanche saperlo. A mano a mano che, negli atomi più pesanti, aumenta il numero degli elettroni, le cortecce cominciano a sovrapporsi. Gli atomi contrassegnati da numeri atomici consecutivi hanno elettroni supplementari in una delle cortecce interne, mentre in quella esterna il numero è costante. Mendeléev aveva disposto gli elementi in base alla loro valenza: era ragionevole, quindi, supporre che la valenza degli elementi dipendesse dalla disposizione degli elettroni. Il chimico tedesco Richard Abegg aveva rivelato che la configurazione elettronica dei gas nobili doveva essere particolarmente stabile. In essi non vi era la tendenza né ad aumentare, né a diminuire il numero degli elettroni. Per questo, i gas stessi non prendevano parte a reazioni chimiche. Quindi, gli altri atomi avrebbero potuto cedere o accettare elettroni per arrivare ad avere la stessa configurazione dei gas nobili. Ad esempio, la disposizione degli undici elettroni del sodio è 2-8-1, mentre quella dei diciassette elettroni del cloro è 2-8-7. Se il sodio cede un elettrone e il cloro ne accetta uno, il sodio acquista la distribuzione 2-8 del neon, e il cloro consegue la configurazione 2-8-8 dell’argo. L’atomo di sodio diventa ione sodio (poiché cede una carica negativa, quindi diventa carico positivamente), al contrario l’atomo di cloro diventa ione cloro. Il sodio e il cloro hanno valenza 1, poiché il primo non può cedere più di un elettrone e il secondo non può accettare più di un elettrone. Il calcio (2-8-8-2) e l’ossigeno (2-6) tendono rispettivamente a cedere e ad acquistare 2 elettroni, quindi hanno valenza 2. Dal punto di vista elettronico è risultato che il peso equivalente rappresenta i pesi relativi degli elementi coinvolti in un singolo spostamento elettronico di questo tipo La teoria di Abegg considerava però solo i trasferimenti completi di elettroni (elettrovalenza). I chimici americani Gilbert Newton Lewis e Irving Langmuir proposero una spiegazione per la struttura della molecola del cloro, formata da due atomi di cloro strettamente uniti. Non c’è motivo per cui un atomo di cloro trasferisca un elettrone ad un altro atomo di cloro, e i due atomi non potevano aderire per semplice attrazione elettrostatica (cariche opposte che si attraggono). Secondo Lewis e Langmuir, ciascun atomo mette in comune un elettrone. I due elettroni del fondo comune sarebbero rimasti nella corteccia esterna di entrambi gli atomi, 3) Se l’atomo perdeva un raggio di gamma (privo di carica), il contenuto di energia subiva una variazione, ma la struttura corpuscolare rimaneva inalterata; l’atomo restava lo stesso elemento. GLI ISOTOPI Che cosa si doveva fare dei vari prodotti di disintegrazione dell’uranio e del torio? Ne erano stati scoperti a dozzine, ma nella tavola periodica cerano al massimo nove posti in cui sistemarli. Soddy suggerì che la stessa casella della tavola periodica avrebbe potuto essere occupata da atomi di diverso tipo. Ad esempio, la casella 90 avrebbe potuto ospitare diverse varietà di torio, la casella 82 diverse varietà di piombo, e così via. Soddy chiamò isotopi queste varietà di atomi che occupavano la stessa casella. Gli isotopi avevano lo stesso numero atomico e le stesse caratteristiche chimiche, ma diverso peso atomico e diverse proprietà radioattive. Nel 1912 J. J. Thomson aveva sottoposto all’azione di un campo magnetico dei fasci di ioni neon dotati di carica positiva. Il campo defletteva gli ioni neon e li faceva cadere su una lastra fotografica. Se tutti gli ioni fossero stati di massa identica, essi avrebbero subìto tutti la stessa deviazione, e sulla pellicola fotografica sarebbe apparsa una sola macchia. Invece furono individuate due macchie, e una era circa dieci volte più scura dell’altra. Altri elementi fornirono gli stessi risultati, e l’apparecchio fu chiamato spettrografo di massa. La misura della deflessione di ioni di carica identica da parte di un campo magnetico dipende dalla massa dei vari ioni; quanto maggiore è la massa dello ione, tanto minore è la deviazione. In base a questi risultati, sembrava che esistessero due tipi di atomi di neon, uno dei quali pesava più dell’altro. Il primo aveva un numero di massa pari a 20, il secondo pari a 22. Il peso atomico del neon era di circa 20,2 (poiché il neon-20 era dieci volte più comune del neon-22). In altri termini la massa dei singoli atomi era un multiplo intero di quella dell’atomo dell’idrogeno, mentre un dato elemento, composto di atomi di massa diversa, poteva avere un peso atomico risultante dalla media ponderata di questi numeri interi, quindi non necessariamente intero. I vari isotopi hanno lo stesso numero atomico, ma numeri di massa diversi, e nel nucleo hanno lo stesso numero di protoni, ma numeri differenti di neutroni. Così, per esempio, Il neon 20, il neon 21 e il neon 22 hanno tutti 10 protoni nel nucleo e hanno quindi tutti il numero atomico uguale a 10 e distribuzione elettronica del tipo 2-8. Tuttavia, il neon 20 ha un nucleo di 10 protoni e 10 neutroni, il neon 21 ha un nucleo di 10 protoni più 11 neutroni e il neon 22 ha un nucleo di 10 protoni più 12 neutroni. Nel 1935 Il chimico canadese-americano Arthur Jeffrey Dempster scoprì che l’uranio reperibile in natura era una mescolanza di due isotopi, anche se il suo peso atomico (283,07) era molto vicino a un numero intero. Semplicemente, un isotopo era presente in proporzione molto maggiore rispetto all’altro. Addirittura, il 98,3% degli atomi di uranio avevano nuclei costituiti da 92 protoni e 146 neutroni cioè un numero di massa complessiva di 238. Questi erano gli atomi dell’uranio 238. Il 0,7% residuo invece aveva tre neutroni in meno ed era uranio 235. Dato che le caratteristiche radioattive dipendono dalla costituzione del nucleo atomico e non dalla distribuzione degli elettroni, gli isotopi di un elemento possono essere chimicamente simili ma completamente differenti dal punto di vista della radioattività C’erano motivi teorici per sospettare che anche l’idrogeno fosse costituito da un paio di isotopi. Nel 1931 il chimico americano Harold Clayton Urey fece evaporare lentamente quattro litri di idrogeno liquido nella convinzione che, se fosse esistito un isotopo più pesante dell'idrogeno, esso avrebbe avuto un punto di ebollizione più elevato e sarebbe evaporato più lentamente. Sarebbe pertanto rimasto indietro accumulandosi nel residuo. Nell’ultimo centimetro cubo di idrogeno, infatti, Urey riuscì a individuare tracce inconfondibili dell’esistenza di un idrogeno 2, dal nucleo composto da un protone più un neutrone. All’idrogeno 2 fu imposto il nome particolare di deuterio. Il chimico americano William Francis Giauque dimostrò che anche l’ossigeno era formato da tre isotopi. Il tipo più comune era l’ossigeno 16 (8 protoni più 8 neutroni), il resto era quasi tutto ossigeno 18 (8 protoni più 10 neutroni), con tracce di ossigeno 17 (8 protoni più 9 neutroni). I fisici si misero a determinare i pesi atomici sulla base dell’ossigeno 16 posto uguale a 16,0000, ottenendo una serie di valori (peso atomico fisico) uniformemente maggiori, di una quantità piccolissima, rispetto ai valori utilizzati e gradualmente perfezionati nel corso del diciannovesimo secolo (peso atomico chimico). Nel 1961, le organizzazioni internazionali dei chimici e dei fisici hanno deciso di adottare una scala dei pesi atomici basata sul carbonio 12 posto esattamente uguale a 12,0000. Questa scala coincide con i vecchi pesi atomici chimici, eppure è legata a un solo isotopo anziché alla media di un gruppo di isotopi. CAPITOLO 14 – LE REAZIONI NUCLEARI LE NUOVE TRASMUTAZIONI L’uomo poteva modificare a piacimento la struttura atomica delle molecole nelle reazioni chimiche ordinarie. Quindi, perché non modificare a volontà la disposizione dei protoni e dei neutroni del nucleo atomico nel corso di reazioni nucleari? Fu Rutherford a compiere il primo passo in questa direzione: bombardando diversi gas con particelle alfa scoprì che, di tanto in tanto, una particella alfa colpiva il nucleo di un atomo e lo sconvolgeva. Riuscì a dimostrare che le particelle alfa erano in grado di scacciare protoni dai nuclei di azoto e di fondersi con ciò che restava. L'isotopo più comune dell'azoto e l'azoto 14, il cui nucleo è composto da 7 protoni e 7 neutroni. Se si sottrae un protone e si aggiungono i 2 protoni e 2 neutroni della particella Alfa ciò che ci si trova davanti è un nucleo con 8 protoni e 9 neutroni: è l'ossigeno 17. La particella Alfa si può considerare elio 4, e il protone, idrogeno 1. Rutherford aveva compiuto la prima reazione nucleare fatta dall’uomo: azoto 14 + elio 4 → ossigeno 17 + idrogeno 1 È la prima trasmutazione, ovvero trasformazione di un elemento in un altro. Ma le particelle alfa fornite dagli elementi radioattivi erano dotate di scarsa energia: per ottenere risultati migliori occorrevano particelle dotate di energia molto maggiore. Nel 1929, il fisico inglese John Douglas Cockcroft e il fisico irlandese Ernest Thomas Sinton Walton furono i primi a progettare un acceleratore capace di produrre particelle dotate di energia sufficiente per realizzare una reazione nucleare. Bombardarono degli atomi di lito con protoni accelerati e ottennero delle particelle alfa. La reazione nucleare era: idrogeno 1 + litio 7 → elio 4 + elio 4 Nel dispositivo di Cockroft-Walton le particelle venivano accelerate in linea retta. Nel 1930, il fisico americano Ernest Orlando Lawrence progettò un acceleratore che costringeva le particelle a percorrere una traiettoria a forma di spirale a lenta espansione. Un ciclotrone di questo tipo poteva generare particelle ad alta energia. Sempre nel 1930, il fisico inglese Paul Adrien Maurice Dirac aveva esposto delle ragioni teoriche nelle quali riteneva che tanto ai protoni, quanto agli elettroni, dovessero corrispondere delle particelle esattamente opposte (antiparticelle). L’antielettrone avrebbe dovuto possedere la stessa massa dell’elettrone, ma carica positiva, mentre l’antiprotone avrebbe avuto la massa del protone, ma carica negativa. Nel 1932, il fisico americano Carl David Anderson aveva effettivamente scoperto l’antielettrone, nel corso di alcune ricerche sui raggi cosmici (raggi provenienti dallo spazio che penetrano nell’atmosfera terrestre). Quando le particelle dei raggi cosmici colpiscono i nuclei atomici dell’atmosfera si generano alcune particelle che deviano come gli elettroni, ma nella direzione opposta. Anderson li chiamò positoni. Nel 1955, il fisico italo-americano Emilio Segré e il fisico americano Owen Chamberlain riuscirono a generare e individuare l’antiprotone. Si ipotizza l’esistenza di atomi composti da nuclei a carica negativa, contenenti antiprotoni, circondati da positoni dotati di carica positiva. Questa antimateria non potrebbe durare a lungo sulla Terra (né sulla nostra galassia), perché la materia e l’antimateria si annienterebbero venendo in contatto. LA RADIOATTIVITÀ ARTIFICIALE Nel 1934, due fisici francesi, i coniugi Frédéric Joliot-Curie e Irène Joliot-Curie bombardarono dell’alluminio con particelle alfa e si accorsero che, cessato il bombardamento, l’alluminio continuava ad emettere particelle proprie. Erano partiti dall’alluminio 27 per arrivare, come scoprirono, al fosforo 30. Quest’ultimo era un isotopo artificiale, che non esisteva in natura (esisteva solo il fosforo 31), poiché era radioattivo, con un periodo di soli 14 giorni. I coniugi avevano realizzato il primo caso di radioattività artificiale. Da quel momento, furono creati più di mille isotopi artificiali, tutti radioattivi. Ogni elemento possiede almeno un isotopo radioattivo. Perfino l’idrogeno ne ha uno, l’idrogeno 3 (tritio), con un periodo di 12 anni. Nel 1940 il chimico canadese-americano Martin D. Kamen scoprì il carbonio 14, che si forma per effetto dei raggi cosmici che bombardano l’azoto dell’atmosfera. Quindi, noi respiriamo sempre un po’ di carbonio 14 e lo incorporiamo nei nostri tessuti; quando una forma di vita muore, l’assimilazione cessa e il carbonio 14 incorporato si disintegra lentamente. Il periodo del carbonio 14 supera i 5.000 anni, e il chimico americano Willard Frank Libby ha realizzato un procedimento che permette di stabilire l’età dei resti archeologici in base al contenuto di carbonio 14. Facendo mangiare i composti isotopici rari ad un animale, è possibile, una volta morto l’animale, trarre dati importanti dai composti nei quali si ritrovano gli isotopi. Pioniere in questo ramo di ricerche è stato il biochimico tedesco-americano Rudolph Schoenheimer il quale eseguì ricerche importanti sui grassi e sulle proteine, usando l’azoto 15 e l’idrogeno 2. L’uso degli isotopi radioattivi permette di seguire meglio le reazioni, ma gli isotopi di questo tipo sono stati disponibili in quantità solo dopo la Seconda guerra mondiale. Il biochimico americano Melvin Calvin si è servito del carbonio 14 per individuare molte delle reazioni che si svolgono nel processo della fotosintesi. Nel 1937, Lawrence bombardò con deutoni (nuclei dell’idrogeno 2) un campione di molibdeno (numero atomico 42) e si scoprì che questo campione conteneva tracce di una nuova sostanza radioattiva, che si rivelarono atomi dell’elemento di numero atomico 43. Questo elemento non era ancora stato scoperto in natura, e prese il nome di tecnezio (o masurio), da una parola greca che significa “artificiale”. Nel 1939 e 1940 furono scoperti gli elementi numero 87 (francio) e 85 (astato), che si ottengono dall’uranio, e nel 1947 fu scoperto l’elemento numero 61 (prometeo). Questi elementi sono tutti radioattivi. GLI ELEMENTI TRANSURANICI Per bombardare i nuclei atomici si usavano particelle positive (protoni, deutoni, particelle alfa), che però venivano respinte dalla carica positiva dei nuclei atomici, e serviva un’energia molto forte per costringere queste particelle a superare la repulsione e a colpire i nuclei. Con la scoperta dei neutroni si presentava una nuova possibilità: essi infatti erano privi di carica e, di conseguenza, non venivano respinti.
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