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burnout- appunti sul burnout in pedagogia generale, Appunti di Psicologia

appunti sul burnout in pedagogia generale

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 17/02/2021

valedo1
valedo1 🇮🇹

5

(2)

20 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica burnout- appunti sul burnout in pedagogia generale e più Appunti in PDF di Psicologia solo su Docsity! 1) Ecco come combattere il Burnout, la depressione dell’insegnante 2019-11-06 184 2 minuti di lettura FacebookTwitter E’ un fenomeno in crescita costante tra gli insegnanti. Si presenta come un iniziale stato di logorio psicofisico, con sintomi di stanchezza. Poi si passa a difetti di concentrazione, demotivazione, disinteresse e depressione. Il tutto con conseguente riduzione della capacità lavorativa. E’ il Burnout (letteralmente bruciato, fuso). In Italia sarebbero oltre 20.000 le persone colpite, nella stragrande maggioranza docenti. Una vera e propria sindrome invalidante che si sta sviluppando sempre più nel nostro paese e che colpisce, in particolar modo, chi vuole dimostrare le proprie capacità a tutti i costi, ma, spesso, non si rende conto che il logoramento di cui è vittima gli imporrebbe di riposarsi e pensare al proprio benessere. Secondo il dipartimento di medicina del lavoro dell’Inail tra i fattori determinanti ci sarebbe proprio un’eccessiva dedizione al sacrificio. Caratteristica molto diffusa tra gli insegnanti. Fenomeno in crescita Esistono molteplici cause di carattere organizzativo, come le condizioni di lavoro (classi numerose, carenza di attrezzature), l’organizzazione scolastica (eccessive pratiche burocratiche, carenza di percorsi di aggiornamento significativi) e le “politiche” scolastiche (limitata possibilità di carriera, retribuzione insoddisfacente, precarietà e mobilità). All’interno della gamma degli “ammortizzatori” del Burnout si possono citare le relazioni familiari solide e che offrono una rete di sostegno emotivo adeguata, il genere (le donne possiedono maggiori risorse emotive) e l’età di servizio (gli anziani hanno più esperienza lavorativa e strumenti per affrontare situazioni stressogene). Burnout, i colleghi aiutano a combatterlo Altre condizioni favorenti sono il supporto di colleghi e il livello di autoefficacia percepita, attraverso il riconoscimento del proprio lavoro da parte di superiori e utenti. Nell’ ottica cognitivo-comportamentale, i pensieri che assorbono la vittima di burnout ruotano intorno a due convinzioni “l’utente è ingrato, insensibile ai miei sforzi di aiutarlo”, ma anche “sono abbandonato dall’azienda, non riconoscono i miei sforzi, e quindi mi sento inutile”. Questo atteggiamento mentale determina risposte emotive e comportamentali di aggressività, che si alternano a disperazione e inutilità, “non riesco a raggiungere i miei obiettivi, devo impegnarmi di più”. L’obiettivo del trattamento è cambiare questo modo di pensare per ridurre l’intensità delle emozioni negative (e della conseguente tensione corporea) e creare un clima sereno e produttivo all’interno dell’ambiente lavorativo. Per migliorare i rapporti con colleghi, superiori e allievi a scuola, è utile apprendere tecniche di assertività, abilità che serve a contrastare sia la tendenza alla passività “non sono in grado di aiutare nessuno” sia cinismo e aggressività, apprendendo a rispondere a richieste eccessive con chiarezza, calma e salvaguardando il rapporto di fiducia con l’utenza e l’immagine lavorativa. Fulcro della terapia è la ristrutturazione cognitiva dei pensieri depressivi del tipo “l’alunno non apprende, sono un incompetente” con pensieri più razionali e positivi sul tono dell’umore come “farò del mio meglio con i mezzi a mia disposizione”. La collaborazione con i colleghi è poi fondamentale per sfogare le proprie frustrazioni e preoccupazioni e diminuire il peso delle responsabilità. A questo fine il supporto dato da gruppi di sostegno con altre persone che vivono la stessa condizione di logoramento, e la vicinanza dei familiari, evitano il sovraccarico di ansie e tiene lontani da comportamenti dannosi per sé e gli altri. Mettere in primo piano i propri bisogni (coltivando hobby e interessi o riprendendo i contatti sociali che si erano persi concentrandosi troppo sul lavoro), servirà a non logorare le energie indispensabili per curare le persone che chiedono a loro volta aiuto. Ad oggi sul Burnout è possibile intervenire con ottimi risultati, ma è necessario rendersi conto che continuare a negare le proprie necessità primarie (riposo, svago, tranquillità) porta solo all’autodistruzione e che si ha urgente bisogno di aiuto per cambiare stile di vita e far riemergere il rispetto per sé, l’ottimismo, la gioia di vivere. Uscire dal Burnout è possibile, quindi, attraverso il controllo sulle proprie priorità di vita, sulle proprie emozioni e l’impegno per la riorganizzazione di un ambiente di lavoro in cui siano chiari ruoli, compiti da svolgere, aspettative realistiche di miglioramento delle difficoltà degli utenti, così da non superare i limiti personali ed esaurire le proprie energie interiori. 2) Atti di bullismo, precarietà, demotivazione. La sindrome del “burnout” lavorativo colpisce sempre più insegnanti, al punto che uno su 2 si sente fallito. Chi ne è afflitto fatica a parlarne e non può contare su una rete di aiuto. Così le conseguenze rischiano di essere molto gravi. Anche per gli allievi Stressati dalle responsabilità, trascurati da chi dovrebbe motivarli, ostaggi di una precarietà lavorativa che accresce i fattori d’ansia e sempre più spesso, come dimostra la cronaca, bersaglio di atti di bullismo da parte degli studenti, quando non addirittura contestati e minacciati dai loro genitori. Sono gli insegnanti italiani le nuove vittime della sindrome da “burnout”, che indica l’esaurimento da lavoro. Una condizione che si presenta inizialmente come uno stato di logorio psicofisico con stanchezza cronica e poi determina importanti cali di concentrazione, demotivazione, esaurimento delle energie interiori, disinteresse e inefficienza nell’attività di tutti i giorni e nella gestione delle relazioni, fino alla depressione nei casi più estremi. Una vera piaga sociale che chiama anche in causa i genitori Sia perché molte situazioni di disagio sono alimentate, magari involontariamente, dal tentativo di alcuni di proteggere a tutti i costi i figli, sia perché sono proprio questi ultimi a scontare, in aula, le conseguenze del burnout in termini di crescita umana e culturale più difficoltosa, minore serenità, interpretazione errata dei valori. «Oggi insegnare non è facile» ammette Vittorio Lodolo D’Oria, medico esperto in malattie professionali dei docenti. «Si è perso il rispetto per il ruolo, messo in discussione in modo sempre più aggressivo da ragazzi e genitori. Rispetto al ’68 le due autorità educative contestate, scuola e famiglia, oggi fanno addirittura a pugni tra loro. Finchè non si risolverà questo conflitto le cose non miglioreranno». Molti assumono ansiolitici e hanno paura di parlarne ai colleghi È così che, malpagati, umiliati e malmenati, i professori sono costretti non di rado a intraprendere percorsi psicoterapeutici e ad assumere ansiolitici o antidepressivi. La maggior parte vive il disagio in solitudine, perché manca un sostegno psicologico diffuso e organizzato all’interno della scuola e perché si ha paura di parlarne ai colleghi o ai superiori in quanto il Dmp (Disagio mentale da professione, il termine con cui il Servizio sanitario nazionale indica il “burnout”) può anche diventare causa di inidoneità professionale. «Purtroppo quando manca la Francesco a 51 anni ha vissuto tutto l’iter tipico di un docente: il precariato, il macinare chilometri per andare a lavoro dalla provincia di Salerno, dove vive, fino in Basilicata dove era supplente, e finalmente l’entrata in ruolo. Alcuni anni fa, quando aveva già la cattedra, è <<scoppiato>>: << Una mattina mi sono svegliato e piangevo, mi tremavano le gambe, avevo paura di fare del male ai miei allievi. Non volevo varcare la porta, né sentirmi la responsabilità di educare qualcuno. Ho chiamato il preside, mi ha detto: "Si prenda dei giorni”. Io gli urlavo: “Voglio andare via dalla scuola, come devo fare?”>>. Elena, direttore sanitario di una struttura del Lazio, è <<una pendolare che fa 170 chilometri al giorno. Più che allontanarmi dal lavoro, volevo sempre essere presente, anche quando non dovevo: non spegnevo il telefono, neanche in ferie. Non dormivo quasi mai e, quando capitava, sognavo quello che dovevo fare l’indomani>>. Insegnanti che picchiano allievi, infermiere che maltrattano i malati. Avrete letto le storie sui giornali, e forse avrete pensato che siano << impazziti>>. Molto più spesso, la causa è un malessere profondo che colpisce le <<professioni d’aiuto>> (helping profession). Dietro di loro si nasconde – e neanche tanto – il burn out. << Un logorio professionale>>, spiega Ferdinando Pellegrino, medico psichiatra a Salerno e autore del libro La sindrome del burn out. <<Chi svolge una professione a stretto contatto con il pubblico diventa incapace, a un certo punto, di gestire i ritmi e il carico emotivo che deriva dall’aiutare gli altri. Ciò può portare dapprima a un’apatia verso il lavoro, in seguito all’errore professionale, per non parlare dei rischi di patologie gravi>>. Emiliano tutto questo lo conosce bene. <<Alcuni di noi fisioterapisti erano così stressati da venire alle mani. Io, poi, avevo quella sensazione di morte sempre attaccata addosso, che per il mio lavoro è controproducente: il contatto fisico con il paziente è continuo e lui deve fidarsi di te. Ero disinteressato, cinico, trattavo male tutti. Sempre stanco, depresso, con mal di testa continuo: questa situazione è andata avanti per mesi, e nessuno si è accorto di nulla. Finchè ho chiesto il part-time: mia madre è invalida, me l’hanno concesso. E nei giorni in cui ero a casa, ho cominciato a recuperare me stesso>>. Elena ha avuto un’ulcera, e solo il riposo forzato l’ha fermata per un po’. <<Ora sto meglio perché ho imparato a gestire lo stress, anche se basta poco per destabilizzarmi. In ospedale uno degli infermieri del pronto soccorso è in burn out, abbiamo provato a spostarlo in un altro reparto, ma fa resistenza: ha paura di quello che possono pensare gli altri, l’ambiente è piccolo>>. Ma come ci si accorge che non è <<semplice>> stress? <<Bisogna farsi delle domande fondamentali>>, dice Pellegrino, <<”Sono contento della vita che faccio? Quanto dormo la notte? Ho del tempo libero a disposizione?”. Un campanello d’allarme è quando si litiga di continuo con i colleghi, si fanno molte assenze, ci si sente risentiti, falliti, in colpa. E poi i segnali fisici: tensione muscolare, cefalee muscolo-tensive, disturbi gastro-intestinali, vertigini, tachicardia, stanchezza cronica. E’ inutile dirsi:”E’ un periodo, passerà”, non è così>>. C’è chi va avanti con farmaci, alcol e droghe. <<Un collega mi ha confessato di bere due litri di vino a sera. E ci sono dottori che approfittano del facile accesso ai farmaci per prenderli senza monitorarne l’effetto, diventandone dipendenti>>. Francesco,i farmaci li prende ancora adesso, dietro prescrizione medica. <<Per mesi accompagnavo i miei figli e, arrivato a casa, stavo disteso sul letto tutto il tempo a guardare il soffitto finché non tornavo a prenderli. Oppure restavo sul divano da solo, senza parlare con nessuno. Il momento migliore era la sera perché, passata la giornata in cui normalmente ci si dedica al lavoro, io non mi sentivo più in colpa. Per il mio atteggiamento. Quando ero a scuola, a volte mi veniva l’impulso di abbandonare la classe, ma ovviamente non lo facevo. All’esterno non si vedeva nulla e nessuno, neanche i miei alunni, si sono accorti di qualcosa. Ma senza questi antidepressivi, ho paura di perdere il controllo>>. LO STRESS DA LAVORO SECONDO LA LEGGE << Non esistono regole specifiche sul Burn-out >>, spiega Alessandra Messina, avvocato esperto in diritto del lavoro. << Per una causa risarcitoria, bisogna dimostrare che c’è un nesso tra la cattiva organizzazione del lavoro e i disturbi psicofisici. Il lavoratore deve provare – fornendo email, lettere, ecc – che ha più volte messo in evidenza le condizioni inadeguate in cui svolgeva la professione e che le sue richieste di miglioramento sono rimaste inesaudite. Ha infatti molta rilevanza il fatto che l’azienda non abbia preso provvedimenti – per esempio il trasferimento in un altro reparto – per venire incotro al suo disagio. E il medico deve attestare che certe patologie sono riconducibili al contesto lavorativo. Di solito non si arriva al processo: le parti riescono ad accordarsi prima >>. Con il nuovo Testo Unico sulla tutela della salute dei lavoratori, qualcosa potrebbe cambiare. Entro il 31 Dicembre 2010 le Aziende dovranno valutare lo <<lo stress da lavoro-correlato >>. Sarà compito dei datori di lavoro combatterne le cause – orari eccessivi, incertezza degli incarichi, mancanza, di comunicazione, tensioni – pena un’ammenda da 5 a 15 mila euro e reclusione da 4 a 8 mesi Il mestiere dell’insegnante è ad alta usura psicologica, spiega Vittorio Lodolo D’Oria, medico e autore del libro Pazzi per la scuola, dove sono raccolti 125 casi di burn out, <<Il docente incontra tutti i giorni la stessa utenza composta da allievi figli della generazione del ’68, che raramente si sono sentiti dire di no, così gli tocca sostituirsi alla famiglia come educatore. Il suo inoltre è un mestiere che non ha più grande riconoscimento sociale né grandi prospettive di cambiamento. Lo stress prolungato può portare a patologie psichiatriche gravi, al suicidio. Ho incontrato gente che non riusciva più a dare i voti, a inventarsi titoli dei temi, gestire la classe, che faceva lezione con le tapparelle abbassate per paura di essere spiata>>. Come succedeva a Laura (nome di fantasia), prof. In un Liceo del Torinese: <<Ero sempre stata a contatto con ragazzi difficili nelle scuole di periferia. Finché, dopo 23 anni di carriera, ho cominciato ad avere paura del gruppo esagitato. Non sopportavo il rumore dei quaderni ad anelli che si aprivano e chiudevano, faticavo a compilare i registri, avevo attacchi di panico, a volte ero così disorientata che non ricordavo dove fossero le aule in cui dovevo fare lezione>>. Cercare aiuto dai colleghi era inutile. <<E mio marito mi zittiva. Urlavo spesso, ero nervosa, non riuscivo a stare dietro ai miei figli e a mia madre malata. Sono andata da uno psichiatra che mi ha dato degli antidepressivi, ma non nascondo che a volte ho pensato di farla finita>>. A Laura è stata riconosciuta l’inidoneità permanente all’insegnamento: è andata in pensione prima del previsto. Francesco è invece tornato tra i banchi, dopo uno stop di sei mesi. <<Ricordo ancora il giorno dell’accertamento della commissione: non ho avuto parole di comprensione, mi sembrava di essere giudicato per la mia inefficienza. Ora stringo i denti e vado avanti, i genitori e gli allievi mi considerano un buon professore>>. <<Fino al 1992, con le baby pensioni, chi aveva 15 anni di servizio poteva ritirarsi>>, dice Lodolo D’Oria, che fa parte della commissione dell’Asl di Milano che valuta l’inabilità al lavoro. <<Da allora, i casi di insegnanti che chiedono la visita sono raddoppiati>>. Eppure, è una prassi spesso ignorata dai docenti, e dagli stessi dirigenti: solo uno su cento sa che può richiedere l’accertamento se vede un insegnante <<vacillare>>. <<Stiamo raccogliendo le firme affinché il ministero della Pubblica Istruzione si occupi seriamente del problema. Formazione, prevenzione e condivisione sono fondamentali: sul blog scuola, gli insegnanti hanno la possibilità di raccontarmi la loro storia, leggere quelle degli altri e avere un supporto>>. Alla condivisione ha dedicato la sua attività Anna Di Gennaro, maestra prepensionata, sette anni fa, a causa del disagio mentale professionale. Una donna di 57 anni pimpante, allegra, che è difficile immaginare con <<i segni della depressione in viso, piegata in due dal mal di schiena che altro non era che una somatizzazione del profondo malessere>>. Con Lodolo Dìoria ha gestito uno sportello di ascolto sul sito orizzontescuola, scrive sul burn out sul sito ilsussidiario., mantiene contatti con docenti <<scoppiati>>. Che possono <<guarire>>: l’importante è riconoscerli in tempo. 4) Quando la depressione mina la vita professionale Di Vittorio Lodolo D'Oria Non vi è dubbio che i tre grandi fattori responsabili del nostro livello di stress sono nell’ordine: la componente genetica (o eredo-familiare); la vita di relazione (altrimenti detta “extra professionale” con i suoi life-event lutti, malattie, fallimenti etc); l’attività professionale (con la conseguente usura psicofisica). Non vi è dubbio che i tre grandi fattori responsabili del nostro livello di stress sono nell’ordine: la componente genetica (o eredo-familiare); la vita di relazione (altrimenti detta “extra professionale” con i suoi life-event lutti, malattie, fallimenti etc); l’attività professionale (con la conseguente usura psicofisica). Nella storia di Patrizio sono presenti molti di questi elementi e la difficoltà sembra essere il pane quotidiano, tuttavia la buona gestione delle relazioni parentali, così come il ritrovato interesse per i propri hobbies, servono a riguadagnare un livello di guardia di fronte allo stress che diviene accettabile. Importante contributo è dato anche da: riconoscimento, accettazione e trattamento della patologia depressiva e contestuale assegnazione allo svolgimento di altre mansioni. La lettera di Patrizio e la sua successiva integrazione ci forniscono lo spunto per commenti e riflessioni. Gentile dottore, la mia storia è presto raccontata. Ho 59 anni (circa 10 alla pensione). Insegnante laureato in Lingue Straniere ho insegnato inglese da precario per circa 16 anni, sballottato in tutti gli istituti superiori della provincia. Già provato dalla vita (orfano di madre dall'età di 8 anni, due sorelle morte di tumore in giovane età) sono sempre stato considerato una persona forte, che dava supporto e consigli ai colleghi, dai quali credo di essere stato abbastanza stimato. Il crollo è avvenuto nel 2005, quando un’amica e collega si è suicidata. Non so cosa sia capitato, ma sono crollato come un castello di sabbia. Da allora è iniziata una depressione galoppante coincisa con l’immissione in ruolo e l’assegnazione a un istituto professionale in una zona disagiata, con degli studenti particolarmente difficili, che accortisi delle mie difficoltà, mi hanno reso la vita un vero inferno. Sono seguite crisi di panico, rifiuto di entrare in classe e, per due anni, ho fatto più malattia (mi vergogno a dirlo) che lavoro. Poi ho chiesto l’inidoneità che mi è stata accordata per due anni, quindi rinnovata per altri due anni. Ho trascorso tre anni sottoutilizzato in una stanzetta a fare lavoretti insignificanti e a sentirmi sempre peggio. Quest’anno l’Istituto in cui lavoravo è stato accorpato al Liceo Scientifico del paese limitrofo. Il DSGA, che mi conosceva già per aver lavorato in questo istituto mi ha voluto come aiuto all’amministrazione. Mi sono ritrovato in un ambiente conosciuto e amichevole, il lavoro mi ha interessato subito: ho in mente nuovi progetti e mi sento molto meglio. Ma c’è la spada di Damocle della visita di idoneità, che dovrebbe avvenire entro il 31 agosto 2016. Tra l’altro, ho interrotto i rapporti con lo psichiatra che mi seguiva e che voleva sottopormi ad altre Terapie Elettro Convulsivanti (ne ho già fatte 4 senza risultato). Pertanto non so più a chi rivolgermi per la certificazione medica. Questa, in breve, è la mia storia. La ringrazio per l’attenzione. La storia scritta da Patrizio, seppur significativa, è costellata da grossi buchi che lo invito a riempire. Gli chiedo di parlarmi più puntualmente della diagnosi e delle terapie ma soprattutto della sua vita di relazione con la famiglia. Gentile dottore, eccomi di nuovo da lei. La diagnosi che mi è stata posta è: “Depressione maggiore grave resistente ai farmaci”. Per le terapie devo controllare a casa la cartella clinica, ma ricordo Olanzapina, attualmente Fluoxetina e inizialmente Sali di litio. Sono sposato dal 1989 ma sto con mia moglie dal 1981, ho due figli, maschi di 26 e 21 anni: il maggiore, ipoacusico dalla nascita e protesizzato, studia matematica. Ha problemi relazionali ma, tra noi, abbiamo un ottimo rapporto. Il minore fa il pizzaiolo, non ha voluto studiare ma è un bravo ragazzo, serio e gran lavoratore. Il rapporto con mia moglie ha alti e bassi: attualmente stiamo bene e riconosco che è una donna eroica che mi ha sempre aiutato e sostenuto. Tra l’altro capisce bene la mia situazione, essendo medico di medicina generale. Non saprei che altro raccontarle. Un solo particolare frivolo: da quando sono entrato in depressione scrivo poesie. Pensi che prima di ammalarmi avevo sempre considerato i poeti e i depressi degli inutili lavativi: la vita punisce le nostre presunzioni. Un caro saluto. Riflessioni 1. Patrizio lega l’esordio della sua depressione al suicidio della collega (uno dei tanti – verrebbe da dire – a giudicare dai giornali), ma è assai probabile che la stessa entrata in ruolo abbia provocato un rilassamento delle difese, spianando alla manifestazione della crisi. Indubbiamente il docente accusa il malessere dopo 16 anni di precariato, e non v’è dubbio che tale condizione abbia potuto incidere alquanto. 2. Le terapie che il docente indica sono piuttosto pesanti (Olanzapina, Sali di Litio)e farebbero pensare a un disturbo bipolare (alternanza tra episodi maniacali e depressivi). Se così fosse, il momento in cui Patrizio scrive, rappresenta una fase di buon compenso, cioè il cosiddetto periodo intercritico. 3. Nulla si sa dell’anamnesi familiare che, in gran parte dei pazienti con disturbo bipolare, è positiva: almeno uno dei due genitori risulta esserne frequentemente affetto. E’ fondamentale che ciascun docente abbia ben chiaro il proprio livello di rischio di fronte allo stress, valutando anche la situazione di salute dei genitori biologici e l’eventuale ereditarietà di alcune malattie. 4. Per queste forme non è possibile altro provvedimento se non quello di essere adibiti ad altre mansioni diverse dall’insegnamento. Per ottenerlo occorre essere scortati da un valido medico di parte che sappia ben illustrare la perniciosità del disturbo (ad es. l’immodificabilità della prognosi), nonché la grave usura psicofisica della professione cui farebbero seguito inevitabili ricadute. 5. La situazione familiare, invece di essere pretesto per ulteriori lamentazioni (un figlio portatore di handicap, l’altro che non ha proseguito gli studi, l’altalenanza nei rapporti col coniuge), diviene trampolino da cui ripartire, ritagliando del tempo per coltivare un impensabile hobby (poesia). Patrizio comprende che le energie sono preziose e non ne possiede per combattere su più fronti. Ne consegue che invece di crearsi nemici, è opportuno che si trovi alleati: cominciando da quelli veri che gli staranno accanto tutta la vita “nella buona e nella cattiva sorte”.
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