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"Calvino" di Barenghi, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

riassunto completo di "Calvino" di Barenghi

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 07/12/2016

ficcanaso1
ficcanaso1 🇮🇹

4.5

(171)

37 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica "Calvino" di Barenghi e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! CALVINO – Di Mario Barenghi Capitolo 1: Racconti di guerra, di bosco e di scoglio (1945-1954) IL SENTIERO DEI NIDI DI RAGNO (1947) Italo Calvino esordisce nel 1947 con un romanzo di guerra che porta un titolo tra il fiabesco e il naturalistico, Il sentiero dei nidi di ragno. I temi del romanzo sono attinti dalla recente esperienza della guerra partigiana, combattuta da Calvino sulle Alpi Marittime. Nato nel 1923 a Santiago de Las Vegas presso L’Avana, a Cuba. Cresciuto in un ambiente borghese. Inizia con poca convinzione, seguendo le orme dei genitori, gli studi di agraria. I mesi trascorsi in montagna da partigiano avevano rappresentato per lui una fase decisiva per la sua maturazione umana, intellettuale e politica. Dopo la Liberazione si trasferisce a Torino, dove comincia a lavorare nel campo del giornalismo e dell’editoria, e dove consegue la laurea in Lettere. Importante per lui è stata la collaborazione con Einaudi. L’altro polo intorno a cui Calvino gravita è il Partito Comunista; fino all’invasione dell’Ungheria (1956) sarà un attivo militante e un collaboratore assiduo della stampa di partito, specialmente per l’Unità, dove pubblica articoli, recensioni, reportages, racconti. Il romanzo è ambientato in un piccolo paese ligure della riviera di Ponente, il protagonista è Pin, un bambino di circa dieci anni, orfano dei genitori, tremendamente solo e in continua ricerca di integrazione col mondo degli adulti, per lui rappresentato dai frequentatori dei vicoli e dell’osteria del paese. Offeso per le relazioni che la sorella prostituta intrattiene con i militari tedeschi e provocato dagli adulti a dimostrare la sua fedeltà e coraggio, Pin ruba all’amante della sorella, un marinaio tedesco, la pistola e la sotterra in campagna, nel luogo, nascosto a tutti, dove è solito rifugiarsi e dove i ragni fanno il nido. A causa del furto, Pin verrà messo in prigione dove incontra, tra l’altro, Lupo Rosso, un giovane partigiano. Insieme evadono dal carcere, ma, una volta fuori, Lupo Rosso abbandona Pin che si trova da solo a girovagare per i boschi, fino a che non incontra Cugino. Questi lo conduce al gruppo di partigiani a cui appartiene, il distaccamento del Dritto, il più scalcinato dell’intera divisione dove Pin incontra personaggi dalla dubbia eroicità, come Dritto, Pelle, Giglia. Dopo varie vicende, Pin scappa dai partigiani e dopo alcuni giorni di cammino, arriva a quello che resta del suo paese. Qui si rifugia nel suo luogo segreto e si accorge che la pistola è scomparsa ed egli sospetta che a rubarla sia stato Pelle. Pieno di tristezza, si reca dalla sorella, che rappresenta ormai il suo unico appoggio, e viene a sapere che ella possiede una pistola (quella che lui aveva sotterrato), ricevuta da un giovane delle brigate nere, che Pin capisce essere appunto Pelle. Sentendosi ormai abbandonato anche dalla sorella, si rifugia presso il sentiero dei nidi di ragno, dove incontra Cugino, che confida a Pin il suo desiderio di recarsi da una donna. Pin gli indica dove abita sua sorella, ma non appena Cugino si reca da lei, Pin sente degli spari. Cugino torna immediatamente da Pin e gli dice che non vuole più andare con una donna. Resta incerta la provenienza degli spari, che fa comunque pensare che Cugino abbia ucciso la sorella di Pin per punirla di essere complice dei tedeschi. Pin è felice di aver incontrato una figura di adulto che lo protegge e lo capisce e i due si allontanano tenendosi per mano. Il romanzo è articolato in 12 capitoli. In esso sono chiaramente distinguibili tre parti: la prima dedicata alla descrizione della vita nel paese, dalla descrizione della vita inCarrugio Lungo fino all’evasione e al primo incontro di Pin con il Cugino (cap. I-IV); la seconda dedicata alla descrizione dell’esperienza partigiana, fino all’incendio e al trasferimento del nuovo campo (cap. V-VIII); la terza dedicata al finale, con l’apparente catastrofe e l’epilogo dischiuso verso un impregiudicato avvenire (cap. X-XII). Il capitolo IX è distinto dagli altri e svolge una funzione ritmica di pausa prima del finale drammatico e una funzione ideologica di cornice interpretativa posta a metà romanzo. Viene abbandonato il punto di vista ingenuo di Pin per riferire il dialogo tra il comandante di brigata Ferreira e il commissario politico Kim, che, assalito dall’esigenza di chiarirsi il senso della lotta partigiana, dovuta anche ai suoi studi di medicina psichiatrica, nota che un medesimo furore accomuna partigiani e fascisti. La scelta di schierarsi con uno o con l’altro dipende spesso dal caso, da motivazioni occasionali e contingenti. Ma è opposto il significato storico delle azioni che ne conseguono. I partigiani, anche i meno consapevoli o i più confusi, come quelli della banda del Dritto, sono dalla parte della libertà: ogni loro gesto va nella direzione del riscatto delle umiliazioni e dalle ingiustizie. . Il romanzo è governato da una serie di corrispondenze e simmetrie. In particolare si nota l’alternanza tra capitoli statici (descrizioni, riflessioni e dialoghi) e capitoli dinamici (avventure, conflitti e fughe). Ci sono poi motivi che vengono ripresi in più capitoli: esempio è il primo capitolo che si apre con Pin in compagnia e si conclude con lui solo, in contrasto con l’ultimo capitolo in cui avviene l’inverso. Se si esclude il capitolo IX , la narrazione procede con un ritmo alacre e un piglio leggero e spavaldo consono alla giovane età del protagonista. I personaggi sono caratterizzati con pochi tratti sommari, spesso con effetti di deformazione e di forzatura espressionistica (il viso largo e camuso del cugino; le lentiggini di Pin). La vicenda presenta un alto quoziente di violenza, ma tutte le uccisioni a sangue freddo avvengono fuori campo e alla coscienza di Pin esse sfuggono. Sono anche numerosi gli elementi che richiamano una dimensione fiabesca: ad esempio, il luogo dove i ragni fanno i nidi appare a Pin come un luogo incantato e la pistola gli appare come un talismano, la scia dei noccioli di ciliegia. Decisiva è la scelta di una prospettiva ribassata e straniante di un eroe non ancora adolescente. Sesso e violenza sono le componenti principali di un mondo adulto che a Pin è ancora precluso. Pin ha una carica vitale che lo rende disponibile a ogni novità e avventura, ma è anche un eroe alla ricerca di qualcosa. Nelle sue riflessioni la dimensione politica rimane aliena: tutto quello che desidera è essere accolto in un ambiente umano, non importa quanto marginale o modesto (anche in prigione si sente accolto). La conclusione provvisoria: sia o no il Cugino l’amico che cerca, il cammino che Pin deve percorrere è ancora molto lungo. Il tema principale non è il contrasto tra il bene e il male all’interno del soggetto, ma l’idea generale di un soggetto diviso, rispetto alla quale acquistano un valore pregnante altre antinomie presenti nel testo. Ad esempio l’opposizione tra l’austerità cupa e severa e non immune alla grettezza degli ugonotti, e l’edonismo spensierato incarnato dai lebbrosi; il dilemma tra un progress tecnologico all’uso che viene fatto delle nuove macchine (mastro Pietrochiodo) e un sapere astratto, incapace di incidere nella vita concreta (il dottor Trelawnay e la sua ricerca sui fuochi fatui). Ci sono alcuni punti di contatto con il Sentiero: una certa somiglianza tra i caratteri di Pin e del nipote di Medardo, entrambi orfani e non ancora adolescenti, insieme smaliziati e ingenui. Un altro motivo interessante è quello della comunicazione attraverso gli oggetti (il Gramo manda messaggi a Pamela attraverso oggetti crudelmente distrutti, lo stesso fa il Buono ma al contrario). Il Visconte ha un doppio finale: il primo, che riguarda Medardo, smaschera la convenzionalità dello happy end: egli vivrà a lungo, avrà molti figli, governerà con saggezza, ma tutto ciò non segna l’inizio di un’epoca di felicità meravigliosa. Il secondo riguarda il giovanissimo narratore: il quale, all’opposto di Pin, perde il suo migliore amico, giacché il dottor Trelawnay riprende il mare insieme al capitano Cook. L’ENTRATA IN GUERRA (1954) E’ un trittico di racconti scritti da Calvino tra il ’52 e il ’53 e usciti riuniti in un unico volume intitolato “L’entrata in guerra” nel 1954. Questo sarà il libro che Calvino amerà di meno tra tutti quelli che ha scritto. Esso è il meno originale e rappresenta una specie di incursione nella letteratura della memoria, che per lo scrittore rappresenta un territorio straniero, e ciò per i seguenti motivi: 1. a causa del suo carattere schivo e per niente incline all’esibizione di sé; 2. per l’attrazione verso modelli letterari in cui prevalgono aspetti avventurosi e drammatici oppure realistici e oggettivi. Tutti e tre i racconti sono ambientati fuori dalle mura domestiche, perché “entrare in guerra” vuol dire “uscire di casa”, così come passare dalla pace alla guerra coincide col passaggio dall’adolescenza alla gioventù. L’inizio del racconto che dà il nome alla raccolta, vede il protagonista in spiaggia insieme ad un amico la mattina del 10 giugno 1940. Nel pomeriggio di quello stesso giorno Mussolini annuncerà l’entrata in guerra dell’Italia. L’ingresso in guerra dell’Italia, assume nel libro l’aspetto concreto dei profughi provenienti dai paesi evacuati dell’entroterra ligure. L’immagine delle famiglie contadine che cercano di sistemare le loro povere cose suscita nel protagonista sentimenti che oscillano fra una pietà istintiva e un’altrettanto istintiva repulsione. Particolarmente penoso è poi lo spettacolo degli storpi, degli idioti e dei deformi che mostrano il loro volto e sfilano in parata. Il protagonista si trova ad accudire un vecchio paralitico. L’ultima scena è il transito dello stesso Mussolini per la città accompagnato dai suoi generali. Al protagonista, appena diciassettenne, che ha appena visto morire il vecchio in mezzo agli estranei, il Duce appare come più giovane e immaturo di lui. La condizione esistenziale rappresentata in “L’entrata in guerra” è caratterizzata da attesa, perplessità, disorientamento, solitudine. Il protagonista, di cui non viene mai detto il nome, sta crescendo e gli avvenimenti storici, più che accelerare la crescita, la rendono urgente. Viene sottolineata la mancanza di figure di riferimento che guidino il protagonista nel percorso di crescita. Ad esempio, il padre anziano è un uomo dell’Ottocento che è ormai estraneo alla società e l’ambiente scolastico non offre occasione di incontro con personaggi importanti. Il protagonista del trittico si trova così in una situazione simile a Pin: è proteso verso una dimensione adulta ma non trova la strada per accedervi. Gli avanguardisti a Mentone. L'io narrante (Calvino diciassettenne) si rende disponibile, insieme all'amico Biancone[4], a partecipare insieme ad altri giovani avanguardisti del suo paese (Sanremo) ad una missione di rappresentanza a Mentone, dove deve arrivare una legione di giovani falangisti spagnoli. Mentone era da poco stata conquistata alla nemica Francia e costituiva la nuova cittadina di frontiera. I giovani, in un'atmosfera goliardica che esalta la retorica fascista, si ritrovano in una città evacuata e proseguono un saccheggio delle poche cose rimaste nelle case abbandonate. Da un iniziale senso di disagio dato dall'appropriarsi di cose altrui, si passa all'esaltazione del predatore. Solo l'io narrante si sottrae alla generale prova di ardimento, forza e prepotenza, a costo di passare da vigliacco. Le notti dell'UNPA. L'io narrante è lo stesso dei due racconti precedenti ed anche il coprotagonista è l'amico esperto che accompagna l'autore alla scoperta della notte. I due ragazzi vengono incaricati dall'UNPA della sorveglianza notturna di una scuola elementare. L'incarico, accolto con incosciente entusiasmo, si trasforma in una esaltante avventura alla scoperta della notte e dei misteri del mondo degli adulti. Capitolo 2: Tra fiaba e modernità (1955-1963) FIABE ITALIANE (1956) L’Italia non ha un corpus tradizionale unitario di fiabe: per colmare questo vuoto storico-culturale occorre quindi attingere alle raccolte regionali e locali, operando una selezione rappresentativa del territorio, sia della tipologia fiabesca documentata nei dialetti italiani. Inoltre è necessario tradurre i testi nella lingua nazionale, e all’uniformità linguistica deve fare riscontro una riconoscibile omogeneità di stile. L’editore “Einaudi” elabora il progetto di una raccolta di fiabe italiane e affida a Calvino la stesura dell’opera. Egli vi si dedica a tempo pieno, abbandonando l’ordinaria attività redazionale, e, dopo due anni, nel 1956 vengono pubblicate le “Fiabe italiane”. Il volume raccoglie 200 testi, di ciascuna delle quali è indicata la provenienza (città, regione o area geografica). La scelta include aree geografiche in cui si parla italiano, anche se esterne al confine dello stato italiano (esempio Istria, Dalmazia e Corsica), mentre vengono esclusi i territori in cui si parla una lingua diversa dall’italiano, anche se compresi all’interno del confine di stato (esempio Valle d’Aosta e Alto Adige). Il libro viene aperto da una Introduzione scritta da Calvino stesso, in cui l’autore illustra la genesi e i caratteri dell’opera. Gli aspetti della fiaba che Calvino considera particolarmente interessante sono: • fiaba come modello narrativo caratterizzato da sintesi, essenzialità del disegno e rapidità del ritmo; • insieme delle fiabe come repertorio inesauribile di ripetizioni e variazioni, che rivela alcuni meccanismi profondi del narrare; • la sostanza realistica che si nasconde dietro le invenzioni fiabesche, perché, per Calvino, le fiabe sono vere e rappresentano una specie di catalogo dei possibili destini dell’uomo (leggi pagina 30-31). Per Calvino le “Fiabe italiane” rappresentano una pausa salutare in una fase di perplessità sul piano creativo, nonché un’occasione di rilancio, perché da esse nasceranno le opere della maturità. Calvino non si limita a scegliere la versione più efficace di una fiaba, tra le diverse che di solito ci sono pervenute. Molto spesso contamina, prelevando questo o quel particolare da un’altra versione; non di rado integra, inventa, fornendo poi tutte le precisazioni filologiche e biografiche. Le “Fiabe italiane” rappresentano un’opera che si può leggere a due livelli: da un lato permettono una lettura di intrattenimento, che include il pubblico infantile, dall’altro presentano delle note rivolte al pubblico più colto. Le fiabe inserite nell’opera sono state “tradotte” da Calvino dal dialetto in cui originariamente erano scritte, a volte lo scrittore deve scegliere tra diverse versioni, a volte le deve completare. Calvino, nell’introduzione, spiega di aver riscritto integralmente anche le fiabe toscane, perché ritiene che quelli parlati in Toscana siano dialetti non diversi dagli altri. In questo modo viene sancita la perdita della centralità della culla dell’idioma nazionale. L’introduzione termina con l’indicazione delle caratteristiche distintive delle fiabe italiane. Esse raramente presentano aspetti davvero violenti, mentre è frequente la “sofferta trepidazione d’amore”. Spesso ci si innamora di persone sconosciute, misteriose o lontane oppure perdute dopo l’unico, fugace incontro. IL BARONE RAMPANTE Rampante è un termine araldico: designa la postura dei quadrupedi (leoni, leopardi, cavalli) che negli stemmi compaiono levati sulle zampe posteriori. Rampante non deve essere inteso come arrivista per il Barone. Rampante è sinonimo di arrampicarsi, salire affannosamente, soprattutto in rapporto a situazioni di desiderio. Calvino riprende il disinvolto piglio immaginoso del visconte, ma sono molte le differenze tra i due. Tra queste una si trova subito nel titolo che passa da un participio passato (passivo) al presente (attivo). Oltre alla conclusione delle Fiabe, Calvino si distacca dalla politica, a causa della scelta del Partito Comunista Italiano di allinearsi sulle posizioni sovietiche, repressive nei confronti degli operai. Con Il volume è diviso in quattro parti, “Gli idilli difficili”, “Le memorie difficili”, “Gli amori difficili” e “La vita difficile”, e comprende 49 storie brevi e 3 racconti lunghi. Le principali novità sono rappresentate dalle dieci novelle di Marcovaldo (inserite nella Parte prima), dalla sequenza “Gli amori difficili” e dalla struttura ternaria della Parte quarta. In particolare la Parte terza “Gli amori difficili” comprende nove storie dedicate ai temi dell’incomunicabilità amorosa, della lontananza e del desiderio. “Gli amori difficili” diventeranno, con qualche aggiunta, un libro a sé, pubblicato nel 1970 con un’importante Nota introduttiva. Le novelle di Marcovaldo, si riferiscono a un personaggio nato sulle pagine del quotidiano “L’Unità” nel 1952. Marcovaldo è un personaggio buffo e malinconico, che assomiglia a Charlot di Chaplin e a certe figure dei fumetti. E’ un uomo di fatica che vive in una grande città industriale assieme alla moglie e quattro figli e che ricerca, nel mondo di asfalto e cemento, la presenza della natura. Le sue avventure finiscono regolarmente male: i funghi che raccoglie nell’aiuola spartitraffico sono velenosi, il coniglio che libera dalla gabbia in ospedale è portatore di germi pericolosissimi, ecc. Al personaggio di Marcovaldo, Calvino continua a dedicarsi anche negli anni successivi, fino alla pubblicazione, nel 1963, del volume “Marcovaldo ovvero Le stagioni in città” che comprende 20 racconti ordinati in cinque cicli stagionali. Destinatario dell’opera è un pubblico giovane. Rispetto alla serie di storie inseriti in “I racconti”, si nota come al contrasto tra città e natura tende a subentrare l’antitesi conformismo/anticonformismo, omologazione/eccentricità; le storie a volte si concludono con situazioni di smarrimento e di spaesamento, anziché con un danno o una perdita. LA NUVOLA DI SMOG. LA FORMICA ARGENTINA “La nuvola di smog” è innanzitutto metafora del male di vivere, qui identificato con l'inquinamento e la sporcizia che invade ogni cosa, e del modo per affrontarlo, conviverci o comprenderlo. Il protagonista, senza nome né volto, è un intellettuale scapolo che si reca in una città per lavorare come redattore a "La Purificazione", rivista dell'EPAUCI (Ente per la Purificazione dell'Atmosfera Urbana dei Centri Industriali). La città in questione è infatti circondata da una grande nube di smog, visibile ovunque: c'è polvere nella stanza presa in affitto dal protagonista, nel suo ufficio e sui vestiti, sui muri e nelle strade, nell'aria e sulla pelle. In realtà prova un disagio visibile verso il mondo e gli altri, si pulisce spesso le mani sporche di polvere ed è sempre alla ricerca di una provvisorietà che lo salvi dal male di vivere. Il racconto passa in rassegna i vari modi in cui i personaggi secondari reagiscono allo smog. Sembrerebbe dunque il personaggio più portato a un'eventuale liberazione: nonostante paia l'unico a non cercare una via d'uscita, nella sua situazione di osservatore riesce a cogliere la vera entità dello "smog", preclusa invece a chi, pensando di aver trovato una soluzione, ha utilizzato solamente dei modi per non vedere. Ecco che sul finale lo seguiamo mentre esce nelle campagne, seguendo i carretti dei lavandai, per guardare e per serbare negli occhi l'immagine dei bianchi panni stesi e di coloro che, fuori dallo smog, puliscono la sporcizia di chi ne è immerso. Calvino pubblica “La nuvola di smog” unitamente alla “Formica argentina” nel 1965. “La formica argentina” viene pubblicato per la prima volta nel 1952 nel decimo numero della rivista internazionale di letteratura "Botteghe Oscure". Nel breve racconto Calvino parla dell’invasione nella Liguria degli anni Venti e Trenta di una specie minuscola di formiche, importate dall’America. L’autore esprime il male di vivere, che in questo caso viene dalla natura. Protagonista e narratore è un operaio che si è appena trasferito con moglie e figlio in una casa nuova, dove subito si accorge che ci sono formiche ovunque. Il nemico è la formica argentina, una specie di formica particolarmente aggressiva e prolifica che negli anni Venti e Trenta infestò la Riviera di Ponente . La forza della formica argentina è il suo numero e la sua ostinazione. I personaggi del racconto hanno diversi modus operandi di fronte al problema. Il racconto è un crescendo di angoscia di fronte ad un nemico invisibile e non numerabile che rende anche le situazioni più comuni spiacevoli. Alla fine del racconto, dopo tutti i trambusti, il protagonista, la moglie ed il loro bambino si recano in spiaggia vicino al molo dove riescono a godere di una momentanea e pur labilissima serenità attraverso la visione del paese al tramonto e soprattutto del mare calmo e pulito. IL CAVALIERE INESISTENTE “Il cavaliere inesistente” è il terzo romanzo della trilogia de I nostri antenati, e viene pubblicato da Einaudi nel 1959. Il libro, dopo l’uomo dimezzato del Visconte dimezzato e l’allegoria illuminista del Barone rampante, presenta la riflessione di Calvino sul mancato rapporto tra la realtà e l’uomo contemporaneo. Il Cavaliere inesistente è suddiviso in dodici capitoli, si presenta come un caso esemplare di letteratura di secondo grado: ambiente, personaggi, situazioni sono desunte dalla tradizione del poema cavalleresco rinascimentale, con un gusto tipicamente ariostesco per la complicazione dell'intreccio, la rapidità del ritmo, l'ariosa e ironica libertà dell'invenzione. La storia, ambientata all'epoca dei paladini e dell'esercito di Carlo Magno, si sviluppa intorno a due personaggi antitetici: Agilulfo, cavaliere dall’armatura vuota, che esiste solo attraverso la forza di volontà e la coscienza, e Gurdulù, che esiste ma che è privo di coscienza, e che diventerà nel corso delle vicende lo scudiero del protagonista. Intorno a queste due figure (una priva di “individualità fisica”, l’altra priva “d’individualità di coscienza”) ruotano gli altri personaggi, attraverso i quali viene sviluppata la narrazione: in particolare acquista rilievo il giovane Rambaldo, che rappresenta una sorta di altro protagonista. Mentre Agilulfo, presentatosi alla corte di Carlo Magno a Parigi, è inviso agli altri cavalieri per la legge di perfezione che lo guida (e che al tempo stesso lo rende inumano), il giovane Rambaldo vuole vendicarsi dell'argalif pagano Isoarre, che ha ucciso suo padre. Caduto in un'imboscata, Rambaldo è salvato dalla bella Bradamante, di cui s'innamora all'istante; Bradamente è però a sua volta innamorata proprio di Agilulfo, e rifiuta quindi il giovane. Il tutto si sblocca quando un giovane, Torrismondo, svela di essere il figlio di Sofronia, la donna che, salvata quindici anni prima da Agilulfo dalle mani di alcuni briganti e creduta all'epoca vergine, era valsa al protagonista il titolo nobiliare per la difesa della sua illibatezza. Colpito nell'onore (e cioè nella propria identità di cavaliere) Agilulfo parte alla ricerca della donna per scoprire la verità, seguito a ruota da Bradamante, Rambaldo e Torrismondo, che vuole ritrovare il padre, membro del fantomatico Sacro Ordine dei Cavalieri del Gral. La ricerca conduce Agilulfo dall'Inghilterra al Marocco sull tracce di Sofronia, mentre Torrismondo si reca nella terra di Curvaldia e scopre che in realtà i Cavalieri del Gral non sono affatto i paladini che si aspettava e che anzi opprimono i contadini con pesanti tributi. Dopo che il "cavaliere inesistente" ha recuperato Sofronia e l'ha condotta al campo dei Franchi, Torrismondo, nel frattempo innamoratosi perdutamente di lei, scopre di non essere suo figlio ma suo fratellastro: i due, sposati al cospetto di Carlo Magno, possono regnare felicemente sul regno di Curvaldia. Agilulfo invece non viene a conoscenza della verità: credendo di aver ormai perso l'onore, scompare cedendo a Rambaldo la propria armatura. Anche Bradamante rivela infine la propria identità: ella altro non è che suor Teodora, narratrice delle vicende. Delusa dai suoi amanti, la donna è solita rifugiarsi in un convento per espiare il proprio dolore; ma in questo caso, in chiusura del romanzo, sarà la voce dell'innamorato Rambaldo a farla fuggire dal monastero. All’interno della trilogia de I nostri antenati, Il cavaliere inesistente, anche se composto per ultimo, può essere visto come il prologo, cioè il momento di ricerca dell’essere, prima ancora dei tentativi di realizzarlo e di raggiungere la completezza, come accade nel Visconte dimezzato e nel Barone rampante. Il cavaliere inesistente analizza, attraverso l'ambientazione cavalleresca, diversi modi di "essere" che per Calvino possono essere ricondotti al nostro modo di stare al mondo in quanto individui: Rambaldo, giovane combattente che vuole vendicare la morte del padre, “cerca le prove d’esserci” nell’azione, e rappresenta quindi per Calvino “la morale pratica”. Torrismondo, l’altro giovane guerriero che mette in discussione le qualità del cavaliere Agilulfo per una superiore legge etica, rappresenta per Calvino “la morale assoluta”, perché il ragazzo ricerca l’esserci “da qualcos’altro che se stesso, da quel che c’era prima di lui, il tutto da cui s’è staccato”. C’è poi Bradamante, donna guerriero innamorata di Agilulfo, ma anche narratrice occulta della storia nelle vesti di Suor Teodora; in lei si ricompongono i temi del libro (e anche della tradizione del poema cavalleresco di Boiardo, di Ariosto e di Tasso), l’amore e la guerra come prove della nostra esistenza. In più, nella sua natura doppia di Bradamante-Suor Teodora comincia a prendere corpo la riflessione di Calvino sulla scrittura e sulle sue potenzialità, preannunciando la linea di poetica degli anni Sessanta e Settanta. In tal senso, Il cavaliere inesistente illustra poi assai bene il piacere di Calvino per la citazione intertestuale, anche di stampo ironico. Rambaldo, per esempio, nel corso del romanzo matura e ottiene in eredità l’armatura del cavaliere perfetto ma inesistente, e infine l’amore di Bradamante. In questo caso è rintracciabile il modello letterario di Ruggiero, personaggio del poema Orlando furioso di Ariosto, il quale conquista la sua Bradamante dopo una lunga maturazione spirituale. Non si può considerare però un romanzo di formazione, un Bildungsroman: ciò richiederebbe un andamento graudale e riflessivo incompatibile con la velocità impressa al racconto, con la pluralità dell'azione, con la molteplicità dei personaggi. Nel romanzo un elemento biografico è ritrovabile nel paesaggio ligure in cui Calvino ambienta la vicenda. Su questo sfondo non è facile per lo scrittore esordiente collocare i personaggi e le loro vicende in modo credibile. Da questa difficoltà nascono alcune ingenuità, come l’esasperazione dei temi del sesso e della violenza e la disomogeneità causata dall’innesto della disquisizione ideologica fuori trama (il capitolo IX). Calvino cerca di superare le sue difficoltà ideando un eroe giovanissimo, Pin. La Prefazione 1964 si conclude con alcune osservazioni sul radicale cambiamento del clima letterario degli anni seguenti quelli della Resistenza. LE COSMICOMICHE (1965) Questo libro segna l’invenzione da parte di Calvino, di un genere in cui la dimensione della comicità (che sia richiama al linguaggio dei fumetti e a quello cinematografico di certi registi come Chaplin) è temperata dal “cosmico”, cioè da un vertiginosa dilatazione degli orizzonti spazio-temporali, che crea particolarissimi effetti nella quotidianità. Decisivo e innovativo è il ruolo affidato alla scienza, della quale viene capovolta la prospettiva, in quanto si parte dalla complessità del reale che viene ridotta alla semplicità di una formula matematica e astratta. L’obiettivo è quello di produrre un effetto di straniamento e di spaesamento. Calvino gioca sui mutamenti di scala, dall’infinitamente grande (esempio le distanze tra pianeti), all’infinitamente piccolo delle particelle elementari; il tutto compreso nei ricordi di un eroe mai antropomorfo d’aspetto (= di aspetto simile ad un uomo), ma umanissimo in termini di sensibilità, comportamenti e pensieri. “Le Cosmicomiche” sono una raccolta di 12 racconti, ciascuno introdotto dalla rapida esposizione di una teoria scientifica. Da essa prende spunto il protagonista, Qfwfq (pronuncia “Cuf”), per rievocare una delle sue avventure Le teorie enunciate riguardano i momenti più diversi e remoti della storia dell’universo (l’origine del sistema solare, l’estinzione dei dinosauri, la formazione delle galassie, ecc). Il protagonista ha un nome bizzarro e palindromo, formato da una serie di consonanti impronunciabili. Egli ha la stessa età del cosmo e lungo i miliardi di anni della sua vita ha assunto innumerevoli forme diverse. Di Qfwfq non viene mai detto chiaramente chi è e come è, ma solo che c’è, che è presente. Del protagonista è pure evidente la duplicità: egli appare vecchio quanto l’universo nelle vicende che narra, ma in esse appare sempre come ingenuo, sbigottito e acerbo. Il racconto “Lo zio acquatico” è ambientato all’epoca in cui alcune specie di pesci si trasferiscono sulla terraferma, diventando anfibi. La fidanzata di Qfwfq, Lll, rimane affascinata nella volontà del prozio N’ba N’ga, che a tutti i costi decide di rimanere pesce, e si unisce a lui. Qfwfq riflette che essere uno è un valore, ma è un valore anche saper seguire le trasformazioni. Discorso opposto e complementare viene svolto nel racconto “I dinosauri”. Qfwfq è l’unico dinosauro sopravvissuto alla grande moria che ha sterminato gli antichi dominatori della Terra. Siccome però nessuno dei Nuovi abitanti sa riconoscere un vero dinosauro, egli viene accolto dal branco. Da un lato si evidenzia la difficoltà a riconoscere nel nuovo le tracce dell’antico e dall’altro il risorgere dell’antico nelle vesti del nuovo. Dal punto di vista linguistico, la narrativa cosmicomica segna una svolta nell’opera di Calvino. Il dato più evidente è l’estensione del lessico, attraverso una strategia di scambio e ibridazione tra voci dotte o specialistiche (tratte soprattutto dal linguaggio tecnico-scientifico) e termini di uso comune. Questa fusione di materiali eterogenei garantisce la vivacità ad una narrazione che riesce a mimare con felice spigliatezza l’andamento del discorso orale. Si riscontra inoltre il frequente ricorso a similitudine e metafore, che è reso necessario dall’inverosimiglianza delle situazioni descritte. “Le Cosmicomiche” affermano con chiarezza un impulso evidente in Calvino, cioè quello di tentare dimensioni inesplorate per far fronte ad una realtà sempre più deludente ed ingannevole. TI CON ZERO (1967) Il volume è suddiviso in tre parti: la prima (“Altri Qfwfq”) ripropone lo schema del libro “Le Cosmicomiche” (didascalia scientifica e intervento del protagonista Qfwfq che rievoca un evento lontano); la seconda parte è costituita da un racconto lungo “Priscilla” a sua volta diviso in tre parti; la terza parte comprende quattro brani narrati da personaggi diversi da Qfwfq. Rispetto a “Le Cosmicomiche”, si evidenziano elementi di continuità e di discontinuità. 1. In “Ti con zero” è più ampio lo spazio concesso all’ambientazione contemporanea. 2. Mentre in “Le Cosmicomiche” il tema della morte viene evitato con cura (anzi in parte la comicità del testo è dovuta all’impressione di continuità e dal perpetuarsi delle avventure di Qfwfq; in “Ti con zero” il tabù si incrina, anche se non viene mai detto che Qfwfq è defunto. 3. L’accentuarsi della tensione tra ordine e disordine costituisce la più rilevante novità di “Ti con zero” rispetto a “Le Cosmicomiche”. In “Ti con zero”quanto più la realtà appare aggrovigliata e sfuggente, tanto più la narrazione si adegua a criteri di es attezza rigorosa, trasparente e controllabile. IL CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI (1969) “Il castello dei destini incrociati” esce per la prima volta nel 1969 ed è incluso nel volume “Tarocchi”. L’edizione definitiva esce per Einaudi nel 1973, comprenderà una versione ampliata rispetto all’originale (otto capitoli invece che sei) e “La taverna dei destini incrociati”. inizialmente, doveva essere diviso in tre romanzi brevi: "Il castello dei destini incrociati", "La taverna dei destini incrociati" e "Il motel dei destini incrociati"; tutti trattanti lo stesso tema ma con diverse ambientazioni e modalità espressive, ed è per questo motivo che l'autore arrivato al secondo ha deciso di fermarsi. Il romanzo è contraddistinto da una atmosfera inequivocabilmente ariostesca. La storia narra di un cavaliere che, sorpreso dal calare della sera in mezzo al bosco, trova rifugio in un castello, sul quale grava un incantesimo: chi vi giunge perde la parola. Il cavaliere siede a tavola, dove trova altri personaggi tutti muti. Alla fine della cena viene portato un mazzo di tarocchi e ogni commensale, a turno, racconta la propria storia a gesti, disponendo sul tavolo una serie di carte. Man mano, le carte formano un cruciverba narrativo dove ogni sequenza, orizzontale o verticale, può essere letta in entrambi i sensi. La lettura che Calvino fa dei Tarocchi corrisponde a un esercizio di interpretazione letterale delle immagini, volto a valorizzare ogni dettaglio figurativo. L’esordio del testo “La Taverna dei destini incrociati” è caratterizzato da una sintassi torrentizia, attraverso la quale il discorso mima confusione e smarrimento. Le differenze rispetto a “Il castello dei destini incrociati” si attenuano nelle storie inserite, eccetto una tendenza all’uso di ripetizioni, delle allitterazioni e dei bisticci. Anche in questo caso le storie rievocano grandi personaggi della letteratura occidentale, con una predilezione per gli eroi shakespeariani. Lo schema del cruciverba di racconti esprime un desiderio di ordine e regolarità che si scontra con le vicende cupe e rovinose delle singole storie. Quello che conta è, in particolare, la volontà di comunicare nonostante l’incantesimo dell’ammutolimento. Nel Castello le regole sono due: il mutismo, che costringe i personaggi ad esprimersi attraverso le immagini dei tarocchi, e la disposizione dei tarocchi sul tavolo, che ne limita la scelta (un destino è tale solo se acquista senso all’interno di un sistema). Entrambi gli aspetti avvalorano l’idea di una realtà complessa e difficilmente decifrabile: un mondo sul quale incombono distruzione e follia, e in cui narrare la propria storia (cioè rendere la propria storia narrabile) è divenuto un’ardua impresa. Alla minaccia dell’assurdo si contrappongono dunque solo i tentativi di interpretazione di un soggetto sempre più disorientato, straniato, straniero. I temi della comunicazione senza parole, l’importanza della percezione visiva e il conflitto tra ordine e disordine, avranno rilevanti sviluppi nelle opere successive di Calvino. LE CITTA’ INVISIBILI (1972) La città, come realtà e come simbolo, è uno dei cardini della narrativa calviniana, nel senso che spesso le storie di Calvino hanno un’ambientazione urbana (Il sentiero, L’entrata in guerra, La speculazione edilizia parlano della sua originaria San Remo; mentre Torino erudita dei professori, quella ideologica, che mira solo a ottenere conferme di nozioni acquisite, e c’è anche la non-lettura di chi usa i libri come materia prima per costruire oggetti artistici. Calvino ritorna a rivolgersi a un pubblico più ampio, al pubblico dei romanzi, rispetto a quello ristretto a cui erano indirizzati libri come Il castello dei destini incrociati o Le città invisibili. UNA PIETRA SOPRA (1980) Dopo il distacco dal Pci, Calvino collabora con “Il Giorno”, poi con il “Corriere della sera” negli anni Settanta, infine con “la Repubblica”, fondato dal suo amico e compagno di liceo Eugenio Scalfari nel 1976. “Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società” è una raccolta di saggi letterari pubblicata da Italo Calvino in prima edizione nel 1980 per la collana "Gli Struzzi" dell'Editore Einaudi. Contiene una quarantina di saggi letterari pubblicati da Calvino su riviste e quotidiani tra il 1955 e il 1978. È il primo libro non-fiction. Le tematiche sono molto varie e gli scritti sono stati selezionati in modo da formare, per intenzioni dichiarate dell'autore, una forma di autobiografia intellettuale. La prospettiva d’insieme non è per nulla ottimistica: le speranze di rigenerazione dell’immediato dopoguerra sono lontane, la fiducia nell’iniziativa politica è stata sepolta dalle disillusioni, i movimenti giovanili non hanno saputo contrastare il trionfo del neocapitalismo, l’Italia non è ancora uscita dalla fase buia delle stragi impunite e del terrorismo. Vi si leggono interventi critici, profili di autori, riflessioni sulla scrittura, sullo stile, sulla lingua e sulle tecniche dello scrivere. PALOMAR (1983) Ultimo libro di narrativa pubblicato da Calvino in vita e ultimo volume calviniano apparso per Einaudi. Palomar è spesso visto come un’opera di carattere testamentario. A questo contribuisce il fatto che nell’ultima riga del libro, a termine del brano intitolato Come imparare a essere morto, il protagonista d’improvviso muoia: quasi come un presagio dell’improvvisa morte dell’autore. A parte questa coincidenza, Palomar non ha nulla di davvero conclusivo; ma conclude una gestazione lunga e travagliata, durante la quale Calvino coltiva un progetto di tipo enciclopedico. Il personaggio di Palomar è nato sulle pagine del “Corriere della Sera” alla metà degli anni ’70, ed è andato assumendo ben presto il carattere di una sorta di controfigura di Calvino stesso. Il volume che esce nel 1983 è composto da 27 testi (10 brani sono ripresi dal Corriere, 4 da “Repubblica” e 13 sono inediti), ripartiti in tre parti, ciascuna suddivisa in tre sezioni. Alla fine del volume, prima dell'indice, l'autore pone una nota esplicativa, una specie di ricetta di cui si è servito per accostare i vari testi che risultano così allineati secondo uno schema di proporzioni. Essa ci spiega il senso dei numeri accostati ai capitoli e agli intertitoli nell'indice. Le cifre 1, 2, 3, che numerano i titoli dell'indice, siano esse in prima, seconda o terza posizione, non hanno solo un valore ordinale ma corrispondono a tre aree tematiche, a tre tipi di esperienze e di interrogazione che, proporzionati in varia misura, sono presenti in ogni parte del libro. Gli 1 corrispondono generalmente a un'esperienza visiva, che ha quasi sempre per oggetto forme della natura: il testo tende a configurarsi come una descrizione. Nei 2 sono presenti elementi antropologici, culturali in senso lato, e l'esperienza coinvolge, oltre ai dati visivi, anche il linguaggio, i significati, i simboli. Il testo tende a svilupparsi in un racconto. I 3 rendono conto di esperienze di tipo più speculativo, riguardanti il cosmo, il tempo, l'infinito, i rapporti tra l'io e il mondo, le dimensioni della mente. Dall'ambito della descrizione e del racconto si passa a quello della meditazione. Calvino ha sperimentato un particolare approccio alla realtà, tentando di conoscerla attraverso esercizi di tensione visuale e di completezza descrittiva. La stessa scelta del nome Palomar è sintomatica perché richiama alla mente l’osservatorio astronomico di Mount Palomar, vicino a San Diego, in California. Palomar ricorda però anche “palombaro”, che evoca la dimensione della profondità. La principale caratteristica di questo personaggio è la sua tendenza a osservare, a scrutare. Un trittico è dedicato propriamente all’osservazione del cielo e vari brani trattano di volatili e prospettive aeree. La peculiarità delle avventure di Palomar consiste nel fatto che il suo sguardo si concentra su fenomeni ed oggetti molto circoscritti: uno stormo di uccelli nel cielo di Roma, un contenitore di vetro esposto in una gastronomia parigina etc. Sebbene Palomar si sforzi di aderire alla concretezza delle cose, il frammento di realtà preso in considerazione si rivela vertiginosamente complesso, sfuggente e inesauribile. Nelle esperienze e nella fisionomia del protagonista sono poi evidenti i tratti autobiografici: i luoghi di residenza e villeggiatura, i viaggi, l’interesse per la scienza, l’atteggiamento riflessivo, l’indole riservata e la scarsa loquacità. Con quest’opera Calvino compie un’operazione in un certo senso complementare a quella di Se una notte d’inverno. Nell’iper-romanzo del ’79 si parla essenzialmente di prodotti letterari, di universi verbali: di mondi scritti, destinati alla lettura. In Palomar invece il principio della lettura si applica alle cose, e le difficoltà aumentano (“leggere il mondo non scritto, il mondo che sfugge alla presa del linguaggio vuol far parlare il silenzi, obbligare il silenzio a parlare di se stesso”). Palomar non demorde: nelle sue solitarie esplorazioni, che partendo da un dettaglio quotidiano tendono a dilatarsi a misure cosmiche, si esprime molto di più di un soggettivo desiderio di conoscenza: ciò a cui lui aspira è un tipo di sapere che prescinda dal condizionamento dell’io. Palomar si conclude con l’invitabile morte del personaggio. Non ancora conclusa è invece l’esperienza cosmicomica. Nel 1984, a vent’anni dall’esordio di Qfwfq, esce il volume Cosmicomiche vecchie e nuove, che raccoglie quasi tutti i racconti della serie. COLLEZIONE DI SABBIA (1984) Anche Collezione di sabbia è diviso in quattro parti. Quasi tutti i testi delle prime tre riprendono interventi apparsi sulla Repubblica tra il 1980 e il 1984, mentre l’ultima è composta da reportages scritti per il Corriere nel 1975-76, più qualche inedito. Come Il castello dei destini incrociati, il libro è corredato da illustrazioni, in questo caso sedici tavole fuori testo. L'autore vi raccolse impressioni ricevute durante le sue visite ai musei parigini, riflessioni sorte da "cose viste" o da letture fatte, resoconti di viaggi in paesi dell'Asia e dell'America, a contatto con inedite visioni del mondo e della vita. l volume si divide in quattro parti: Esposizioni–Esplorazioni, Il raggio dello sguardo, Resoconti del fantastico, La forma del tempo (contiene: Testi riguardanti i viaggi in Giappone, Messico e Iran;). A differenza di quanto avviene in Palomar , l’impegno descrittivo si rivolge in maniera pressoché eslcusiva a oggetti culturali. Capitolo 5: L’officina interrotta (1985…) LEZIONI AMERICANE (postumo 1988) Nel giugno 1984, Calvino riceve dalla Harvard University, l’invito a tenere per l’anno accademico 1985-86 un ciclo di lezioni il cui tema è libero. Calvino sceglie di parlare di una serie di valori, o qualità, o specificità della letteratura per lui meritevoli di essere tenuti presenti anche in futuro, cioè: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità, Coerenza. Delle sei conferenze previste, Calvino fa in tempo a prepararne cinque, prima che la malattia mortale, ictus, lo colpisca nel 1985. Nel 1988 Garzanti pubblica Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, che comprende il testo delle prime cinque conferenze. Lezioni americane non è il primo libro postumo di Calvino, infatti il trittico di racconti Sotto il sole giaguaro lo precede di due anni. Per la prima volta Calvino aveva progettato un’opera saggistica organica, anziché una raccolta di testi già scritti. Le Norton Lectures si pongono come una sorta di trattato, come un’esposizione ordinata della poetica calviniana. Una delle caratteristiche delle “Lezioni americane” è la varietà e la ricchezza dei riferimenti letterari, italiani e stranieri, con una forte presenza dei classici. Sono richiamati, tra gli altri, Ovidio, Lucrezio, Guido Cavalcanti, Shakespeare, Leopardi e Kafka. Nella prima conferenza sulla leggerezza, Calvino afferma che l’operazione che egli ha voluto compiere attraverso il suo lavoro è stata prevalentemente quella di togliere peso alle figure umane, ai corpi celesti, alle città, ma soprattutto alla struttura del racconto e al linguaggio. Per Calvino la ricerca della leggerezza rappresenta la reazione al peso del vivere. In questa prima conferenza, Calvino spiega cosa intende per sguardo obliquo riferendosi al mito di Perseo, l’eroe in grado di tagliare la testa a Medusa. Egli riesce nell’intento perché evita di guardare direttamente Medusa che ha il potere di pietrificare coloro che la guardano. Grazie infatti ai suoi sandali alati, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, cioè il vento e le nubi (Perseo eroe della leggerezza) e osserva l’immagine di Medusa solo indirettamente, attraverso il riflesso di essa su uno scudo di bronzo. La testa tagliata di Medusa viene conservata da Perseo che la usa per sconfiggere i nemici. Ovidio nelle “Metamorfosi”, racconta che Perseo appoggia la testa dell’orribile mostro su un tappeto erboso coperto da ramoscelli nati nell’acqua. Questo gesto di leggerezza produce un miracolo: i ramoscelli a contatto con la testa di Medusa diventano coralli. A Calvino sembra che il mondo stia vivendo un lento processo di pietrificazione e il regno dell’umano sia condannato alla pesantezza. In questa situazione, Calvino vede come via d’uscita il volare, come Perseo, in un altro spazio. Calvino non si riferisce però alle fughe nel sogno o nell’irrazionale, ma ritiene necessario cambiare approccio, cambiare l’ottica, la logica e i metodi per conoscere il mondo. Della sesta conferenza sulla coerenza non si sa quasi nulla. Si può pensare che dopo l’elogio alla pluralità, Calvino volesse concentrarsi su ciò che è consapevolmente parziale ma univoco, irreversibile, coeso. Mondadori pubblica una copiosa produzione sparsa di non-fiction con il titolo “Mondo scritto e mondo non scritto”. Il modello di letteratura che egli persegue suppone che il linguaggio possa dire qualcosa sul mondo, possa rappresentare almeno parzialmente la realtà. Per fare questo deve però superare un grave ostacolo proprio della società dell’informazione, cioè ritrovare il contatto diretto con le cose (il mondo non scritto) superando il diaframma degli stereotipi, gli automatismi linguistici, dei filtri deformanti della comunicazione, del mondo già scritto. Qui Calvino da un’indicazione: far sopravvivere un linguaggio diretto e concreto, capace di fare presa sulle cose, di dare voce a ciò che è ancora escluso dal dominio della parola (“scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi attraverso di noi”). SOTTO IL SOLE GIAGUARO (1982) Ci sono altri due lavori non terminati, che però hanno una fisionomia abbastanza definita. Il primo è un libro che ha il titolo di lavoro “I cinque sensi”, di cui erano pronti tre brani su cinque. Il nome, il naso (1972) e Sapore Sapere (1982) erano apparsi in rivista; Un re in ascolto (1984) era uscita una versione abbreviata sulla Repubblica. Sotto il sole giaguaro è il nuovo titolo che Calvino voleva dare al secondo brano; Garzanti lo adotta come titolo complessivo del volume che pubblica nella primavere del 1986. Sotto il sole giaguaro è il brano dedicato al senso del gusto. Il racconto vuole sottolineare la parentela tra “sapore” e “sapere”. Esso è ambientato in Messico, dove una coppia di turisti visita le rovine archeologiche e intanto assapora le delizie della cucina locale. L’assaporare insieme tante varietà di cibi esotici favorisce il recupero dell’intimità sessuale tra i coniugi. L’acme del racconto è rappresentata dalla discesa nella cripta del Tempio delle Iscrizioni a Palenque, una sorta di discesa agli inferi che produce una sorta di estasi visionaria. Nel finale la normalità viene ripristinata e vengono celebrate l’unione tra l’uomo e la donna, la comprensione della realtà e l’acquisizione per via gustativa del sapere (Belpoliti: “per sapere bisogna ingerire, e il cannibalismo è un modello di conoscenza sensibile del mondo”). Il racconto sull’udito, Un re in ascolto, riprende la modalità di narrazione in seconda persona della cornice di Se una notte d’inverno. Immobile sul trono il re tende l’orecchio ai rumori che gli giungono nel silenzio della grande sala. La possibilità che qualcosa interrompa il regolare avvicendarsi e le percezioni sonore assilla il re come una minaccia, ma nello stesso tempo lo attira (il possesso è vano, la realtà sfuma nel nulla. Il potere asservisce, dominare equivale a essere prigioniero). Tra le carte ci Calvino è conservata la traccia di un racconto della vista; sul tatto ci sono solo materiali preparatori. Altro progetto è quello dei Dialoghi storici, di cui ne rimangono tre brani: L’uomo di Neanderthal, Montezuma e Henry Ford. Il primo riprende l’idea calviniana che la fine sta nell’inizio e che le innovazioni tecnologiche non valgono quanto le primordiali selci scheggiate. Il dialogo con l’ultimo imperatore degli Aztechi fa emergere il dilemma sul senso della storia e sul senso di una civiltà. Il terzo parla dell’applicazione del sistema fordista. Meno definito il progetto di una terza raccolta, intitolata Gli oggetti. Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, Calvino pubblica alcuni racconti accomunati dal fatto di prendere spunto da strumenti d’uso quotidiano, quali la doccia, il telefono, il telecomando. Calvino avverte la necessità di rifarsi alla realtà materiale, alla concretezza della percezione, alla fisicità degli oggetti. LA STRADA SI SAN GIOVANNI (1990) Calvino si dedica con molto impegno alla linea di ricerca autobiografica. Anche qui il progetto era di raccogliere una serie di interventi sparsi, giocati tra memoria e riflessione, integrandoli con testi concepiti appositamente. Il titolo probabile era Passaggi obbligati. L’opera non fu completata a causa della sua morte ma tra queste pagine ci sono alcune delle cose migliori scritte da Calvino. In particolare tre testi: La strada di San Giovanni (1962), Dall’opaco (1971) e La poubelle agréée (1977), tutti compresi nel volume La strada di San Giovanni, pubblicato da Mondadori nel 1990. CONCLUSIONE Nel panorama della letteratura italiana novecentesca la posizione di prestigio che la maggior parte degli studiodi attribuisce a Calvino dipende da molteplici fattori: • l’eccellenza stilistica: la scrittura calviniana evita sia il registro più elevato ed esclusivo (preziosismi lessicali, complicazioni sintattiche, le forme iperletterarie), sia quello più basso e crudo (volgarismi, voci dialettali, mimesi diretta del parlato). In compenso Calvino cerca di conferire alla lingua il massimo di duttilità e ricchezza, di concretezza e precisione. Il risultato è un modello di prosa moderna, varia e agile, e dai molti colori. • La spiccata tensione inventiva e sperimentale. Calvino è uno scrittore che non solo cambia molto da libro a libro, rinnovandosi di continuo, ma che in ogni fase della sua carriera coltiva progetti estrosamente differenziati. • La grande apertura culturale, unita a una forte consapevolezza della peculiarità della letteratura e dei suoi compiti. La letteratura è in grado di esercitare una funzione positiva solo salvaguardando la propria autonomia, ma deve anche sapersi porre come luogo dove i differenti saperi possono dialogare e confrontarsi, senza mai ripiegarsi su se stessa e senza rinunciare all’impegno di interpretare la realtà, anche quando ricorre agli strumenti dell’astrazione fantastica o fiabesca.
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