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Capitolo 12 Marazzini, Sintesi del corso di Storia della lingua italiana

Riassunto del capitolo 12 del manuale Marazzini

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 03/09/2016

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Beatrice_07 🇮🇹

4.5

(44)

37 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Capitolo 12 Marazzini e più Sintesi del corso in PDF di Storia della lingua italiana solo su Docsity! Capitolo 12: L’Ottocento PURISMO: IL CULTO DEL PASSATO All’inizio del’800, anche per reazione contro l’egemonia della cultura francese e contro l’invadenza della lingua d’oltralpe, imposta durante l’Impero napoleonico, si sviluppò un movimento chiamato Purismo. Il termine, inizialmente nato per polemica, indicava un’avversione e un’intolleranza per ogni innovazione, influsso straniero, tecnicismo, neologismo. Un atteggiamento del genere ebbe per conseguenza un forte antimodernismo, ne derivava un vagheggiamento dell’antico, epoca felice per la lingua e un disprezzo per i tempi presenti e una teoria della storia linguistica, intesa come progressiva caduta. Il capofila del Purismo italiano può essere definito Antonio Cesari, veronese, autore di libri religiosi, di novelle, studi danteschi, ma soprattutto celebre per la sua attività di lessicografo; la Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana è da considerare il vero manifesto del Purismo. Secondo Cesari, tutti in quel tempo del 1300 parlavano e scrivevano bene, il canone della perfezione linguistica veniva esteso al di là delle opere degli autori, massimi o minori che fossero. Si apprezzava non solo la letteratura, ma anche le umilissime scritture quotidiane, le note contabili ecc. A parte il discutibile mito puristico delle origini, vagheggiato come età della perduta perfezione, poco offriva Cesari. Arrivò presto a riproporre l’inautenticità del De vulgari Eloquentia, secondo i vecchi argomenti dibattuti, ma superati e improponibili. Se Cesari è il capofila del Purismo, molte sono le figure che si muovono nell’ambito di questo movimento. Il marchese Puoti, napoletano, tenne una scuola libera e provata, dedicata all’insegnamento della lingua italiana, intesa come concezione puristica, ma meno rigida di quella di Cesari, più disponibile verso gli autori del ‘500; fu il maestro di De Sanctis e Settembrini. Quest’ultimo, pur lontano dal Purismo, ne giustificava l’esistenza come un’embrionale forma di sentimento nazionale, manifestatasi nel momento in cui gli italiani non avevano una vera patria, ma solo una lingua che teneva ‘’il luogo di patria’’. De Sanctis nello scritto autobiografico La giovinezza ricorda i contenuti della scuola di Puoti, che spiegò che la base della scuola era la buona e ordinata lettura dei trecentisti e cinquecentisti. Lo scrittore Carlo Botta fu solidale con il Cesari, fu autore della Storia della guerra della indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1809, in cui la lingua di arcaismi cozza con il contenuto moderno. L’autore oltre a parole obsolete come civanza per guadagno, misfare per far male, usa i nomi antichi dei venti al posto delle designazioni dei punti cardinali. L’efficacia pratica del Purismo, nella sua durata temporale molto lunga, si realizzò anche in seguito, dopo l’Unità italiana, quando l’insegnamento di molte scuole fu improntato a metodi che discendevano dalle idee di Puoti e di Cesari. I Fatti di Enea, il Novellino, le prediche del Cavalca restano tra i libri fondamentali per l’educazione dei giovani. LA “PROPOSTA” DI MONTI E LE REAZIONI ANTIPURISTICHE Vincenzo Monti, all’apice della sua attività letteraria, pose un freno alle esagerazioni del Purismo. Fin dal 1813 dimostrò di non andare d’accordo col Cesari e dalle colonne del “Poligrafo” di Milano, Monti gli rinfacciò di aver dato una versione del Vocabolario della Crusca apparentemente più ampia. La critica antipurista di Monti arrivò a colpire lo stesso Vocabolario della Crusca; le sue polemiche linguistiche compongono la serie di volumi intitolata Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, uscita dal 1817 al 1824. Gran parte della Proposta era costituita dalla ricerca di errori compiuti dai vocabolari fiorentini, errori dovuti anche alla scarsa preparazione filologica. Il Vocabolario della Crusca veniva giudicato inadeguato, caratterizzato da una visione angusta della lingua. Alla stessa tradizione si riallacciava Ludovico di Breme, intellettuale piemontese attivo nel gruppo romantico milanese, il quale appoggiava la polemica di Monti contro il Vocabolario della Crusca e contro ogni forma di Purismo, invocando però anche un atteggiamento di critica ancora più drastica nei confronti della tradizione italiana. Tra i romantici milanesi circolò uno scritto di Stendhal ( I pericoli della lingua italiana), ispirato al sensismo: lo scritto condannava il Purismo e metteva a fuoco la situazione linguistica dell’Italia, caratterizzato dalla vitalità dei dialetti e dall’artificiosità della lingua letteraria. LA SOLUZIONE MANZONIANA ALLA QUESTIONE DELLA LINGUA GLI SCRITTI EDITI E INEDITI DI MANZONI SULLA LINGUA ITALIANA I romantici milanesi si dibattevano attorno al problema dell’italiano in tutto o in parte simile a una lingua morta, che si imparava dai libri, che si impiegava nella letteratura e per le occasioni ufficiali, ma inadatta ai rapporti quotidiani e familiari, per i quali era più facile e funzionale il dialetto, o addirittura una lingua straniera come il francese. Manzoni affrontò la questione e inserì le sue idee nella stesura de I Promessi Sposi, divenute una teoria linguistica di alto valore sociale che influirono profondamente, collaborando a cambiare la situazione dell’italiano e rendendo la nostra lingua più viva e meno letteraria. analizzava lo stile di diversi autori, da Boccaccio, Machiavelli, da Bartoli a Giordani e individuava i difetti di costruzione e le inversioni che ne rendevano faticosa la lettura. In alternativa proponeva uno stile piano, adatto a una piacevole conversazione. L’esempio di Manzoni favorì la cosiddetta “risciacquatura in Arno”, il soggiorno culturale a Firenze, con lo scopo di acquisire familiarità con la lingua parlata della città. Manzoni influenzò doversi intellettuali; anche Morandi, precettore di Vittorio Emanuele III fu manzoniano. La borghesia italiana, nella babele linguistica della nazione appena unificata, aveva bisogno di libri facili e concreti, come L’idioma gentile di De Amicis, che influì profondamente sugli insegnanti. L’unico freno alla diffusione della teoria manzoniana nel mondo della scuola fu il prestigio di Carducci come poeta-professore, avversario del toscano popolareggiante, pronto a sferzarlo con la sua satira. ALCUNE IDEE-GUIDA DELLA LINGUISTICA MANZONIANA NEGLI SCRITTI POSTUMI La teoria linguistica manzoniana va giudicata alla luce degli scritti postumi, soprattutto del trattato Della lingua italiana. Manzoni si oppose al Purismo di Cesari, da cui lo divideva la coscienza netta che la naturalezza della lingua non poteva essere cercata in modelli scritti, in un corpus filologico eterogeneo e arcaico. Manzoni era inoltre avverso alle teorizzazioni dei classicisti, che affidavano le sorti della lingua alla responsabilità degli scrittori e non al potere dell’uso. Una buona parte del saggio Della lingua italiana era dedicata a combattere le teorie di Condillac sull’origine del linguaggio: Manzoni accettò la tesi della lingua come dono divino, ribadendo la sua piena fiducia nella narrazione della Bibbia; negò che potesse mai essere esistita una società senza lingua, o un uomo senza linguaggio. Rifiutava l’idea che il linguaggio fosse nato dalle onomatopee e dalle interiezioni e restò legato a una polemica contro la filosofia del ‘700, contro gli Idéologues, che aveva frequentato a Parigi nella giovinezza, prima della conversione. Elaborò il principio dell’adeguatezza: una lingua viva è quella che basta a dire tutto quanto si dice nella società che si serve della lingua, concepita quindi come interezza, al di là dell’uso individuale. Non era accettabile il concetto di lingua modello (puristico o classicistico), perché la forma della lingua non esiste se non nella lingua in atto. Le lingue sono mutabili, come abitazioni che ripariamo mentre continuiamo a risiedervi. Il pensiero linguistico di Manzoni, basato sulla mutabilità, rifiutava il concetto di ‘legge’, così come contestava il valore delle categorie grammaticali; nella lingua l’eccezione e l’irregolarità valgono quanto la regola. REALIZZAZIONI LESSICOGRAFICHE GRANDI DIZIONARI NELLA PRIMA META’ DEL’800 L’800 è stato il secolo dei dizionari ed è stata una stagione florida sia per la produzione che per la qualità, oltre che per la varietà di realizzazioni. In questo secolo il dibattito sul lessico prese le mosse dalla Crusca, sia in riferimento alle idee linguistiche dell’Accademia, sia per la rivisitazione extratoscana del Vocabolario degli Accademici, realizzata nel 1806-11 dal padre Antonio Cesari di Verona, capofila del Purismo (Crusca veronese). Cesari aveva riproposto il Vocabolario della Crusca con delle aggiunte, allo scopo di esplorare il repertorio della lingua antica, quella trecentesca, dei grandi autori, ma anche di quelli minori. Tra il 1833 e il 1842 fu pubblicato il Vocabolario della lingua italiana di Manuzzi, anch’esso nato da una revisione della Crusca; quest’autore fu un purista e il vocabolario attestava la tendenza di una parte della cultura italiana ad assestarsi nel solco del passato, a radicarsi in esso. Altre riproposte sono: F 0 A 7 il “Dizionario della lingua italiana” in 6 volumi di Cardinali, Oriolo e Costa, pubblicato a Bologna nel 1819 F 0 A 7 il “Dizionario della lingua italiana” in 7 volumi di Carrer e Federici, uscito a Padova fra il 1827 e il 1830 Entrambi i vocabolari dichiararono di aver integrato la Crusca con voci riprese dall’Alberti di Villanova, dalla Proposta di Monti e dalla Crusca veronese di Cesari. La somma delle aggiunte avveniva in maniera piuttosto meccanica e queste opere potevano peccare di originalità; la forma grafica si poteva così riscontrare: l’asterisco era il segno scelto per contrassegnare tutte le voci non presenti nella Crusca le quali risultano riconoscibili a colpo d’occhio. La soluzione era comoda per identificare più rapidamente le novità introdotte, ma allo stesso tempo è anche prova di una difficoltà nell’amalgamare l’insieme. Tra i 1829 e il 1840 si stampò il “Vocabolario universale italiano”, la cui base era sempre la Crusca, però rivisitata: l’opera aveva un taglio prettamente enciclopedico, con attenzione alle voci tecniche. Fu detto Negli anni in cui maturava l’Unità, fu maggiormente avvertita la necessità di lessico tecnico: la nostra era una lingua che possedeva le parole per la poesia, per il poema e per il melodramma e risultava debole o poco utilizzabile, proprio nel settore tecnico-pratico e familiare. Carena nella sua opera si preoccupò di verificare l’uso vivo toscano, a Firenze e altrove. Egli era convinto che i vocaboli non usati dagli artigiani di Firenze, ma documentati da ottimi libri, potessero essere accolti come vivi e italiani. DIZIONARI DIALETTALI L’800 fu anche il secolo della lessicografia dialettale. L’esigenza di queste opere fu determinata dall’interesse romantico per il popolo e la cultura popolare, a cui seguì la curiosità della linguistica per il dialetto, considerato una parlata con la sua dignità, i suoi documenti, la storia parallela a quella della lingua nazionale. Lo studio dei dialetti si accompagnò a una profonda curiosità per le tradizioni popolari e anche per le forme letterarie della cultura orale. La casa editrice Pomba nel 1859 aveva stampato il “Gran dizionario piemontese-italiano” di Vittorio di Sant’Albino; nella presentazione già si spiegava come il vocabolario dialettale fosse al servizio di quello nazionale e dovesse servire all’apprendimento della lingua della patria. Ponza, autore di diversi vocabolari dialettali, aveva proposto di usare il dialetto come via d’accesso all’italiano, in modo da accostare il noto all’ignoto. Altri dizionari: F 0 A 7 “Vocabolario domestico napoletano e toscano” di Puoti del 1841 F 0 A 7 “Vocabolario milanese-italiano” di Cherubini, usato da Manzoni F 0 A 7 “Dizionario del dialetto veneziano” di Boerio F 0 A 7 “Nuovo dizionario siciliano-italiano” di Mortillaro EFFETTI LINGUISTICI DELL’UNITA’ POLITICA IL NUMERO DEGLI ITALOFONI I territori degli ex stati nazionali che entrarono nel nuovo organismo erano caratterizzati da profonde differenze, relative a tradizioni, abitudini, modi di vivere, livello di sviluppo economico e sociale. Le differenze linguistiche erano la conseguenza della storia e della tradizione dei popoli. In comune tra gli Stati c’era solo un modello di italiano letterario, elaborato dalle élites e mancava una lingua comune della conversazione. Il numero degli italofoni, cioè chi era in grado di parlare italiano, era allora molto basso. Non ci sono documenti certi di quanti fossero effettivamente quelli che lasciavano da parte il dialetto e conversavano in lingua. De Mauro ha tentato di rispondere a questo e partì dalla constatazione che al momento della fondazione del Regno d’Italia quasi l’80% degli abitanti era analfabeta, come risulta dai dati del primo censimento e non tutto il restante 20% sapeva usare l’italiano. La qualifica di “alfabeti” veniva attribuita a quelli che, lunghi dallo scrivere decentemente, non sarebbero stati in realtà capaci di stendere due righe in italiano corretto. Egli aveva supposto che per raggiungere una padronanza accettabile della lingua occorresse almeno la frequenza della scuola superiore post elementare (160.000 individui) a cui aggiunse 400.000 toscani che avevano un possesso naturale della lingua, per la vicinanza tra il toscano parlato e l’italiano letterario e 70.000 romani, cittadini della città papale che parlavano un dialetto molto toscanizzato. Sommando tutti questi presunti italofoni, si arriva a poco più di seicentomila italiani capaci di parlare italiano, su un totale di 25 milioni. Castellani ha proposto un diverso percorso da seguire: pose il problema dell’esistenza di una fascia geografica mediana (Marche, Umbria, Lazio) in cui la natura delle parlate locali era tale da far ritenere che un grado d’istruzione anche elementare fosse sufficiente per arrivare al possesso dell’italiano; inoltre rivendicò l’identità tra toscano parlato e lingua italiana, sostenendo che tutta o quasi la popolazione toscana degli anni attorno al 1861 andava calcolata tra gli italofoni, indipendentemente dal grado d’istruzione. (gli italofoni erano quindi il 10% della popolazione). Il quadro non cambiava: una minoranza ridotta al momento dell’Unità sapeva parlare italiano e tutti gli altri erano confinati nel dialetto. LA SCUOLA Con la formazione dell’Unità, per la prima volta la scuola elementare divenne gratuita e obbligatoria, secondo l’ordinamento dello stato sabaudo dalla legge Casati del 1859, che fu estesa al territorio nazionale. La legge Coppino del 1877 rese effettiva la frequenza, almeno per il primo biennio. De Mauro dimostrò che questa scuola però non fu efficace, per le difficoltà che aveva questo servizio in un paese dalle condizioni estremamente arretrate; le condizioni della scuola erano migliori nelle città, peggiori nelle zone agricole. Nel 1861 almeno la metà della popolazione infantile evadeva l’obbligo scolastico. Le regioni in cui c’erano meno analfabeti erano il Piemonte, la Lombardia e la Liguria, oltre al miglior tasso di scolarità e con Castellani difese la Toscana, insistendo sull’importanza del manzonismo e di autori toscani per la diffusione della prosa italiana media; tra i canali di diffusione del toscano c’erano opere del Collodi, di De Amicis, romanzi per ragazzi. IL LINGUAGGIO GIORNALISTICO Nel XIX secolo il linguaggio giornalistico acquistò un’importanza nuova; il giornalismo, sotto l’influenza di quello francese, inglese e tedesco, presentava una notevole apertura a innovazioni sia nel lessico che nella tecnica espositiva. I periodici volevano raggiungere un pubblico nuovo e necessitavano di un linguaggio più semplice, anche se il giornale primo - ottocentesco restava un prodotto d’élite. Nella seconda metà del’800 il giornalismo diventò un fenomeno di massa e le edicole furono il punto di vendita della stampa periodica. Nel giornale si alternavano voci colte e libresche e popolari, oltre che a forme regionali come camorra e picciotto. La sintassi giornalistica sviluppò la tendenza al periodo breve e alla frase nominale. La lingua giornalistica era molto esposta al nuovo: si registrano neologismi e forestierismi presenti nella lingua viva e parlata e compaiono per la prima volta termini come attrezzatura, confisca, delibera, importo. Il giornale è interessante perché composto da parti diverse: la lingua della cronaca, degli articoli politici o letterari, economici, pubblicitari; questi ultimi contenevano termini nuovi o parole regionali, censurate dai puristi. LA PROSA LETTERARIA CONSERVATORISMO LINGUISTICO Gli sviluppi della prosa nell’800 erano importanti, in quanto era l’epoca in cui si fondava la moderna letteratura narrativa, attraverso due svolte fondamentali, legate a Manzoni e Verga. Manzoni ebbe il merito di rinnovare il linguaggio non solo del romanzo, ma anche della saggistica, avvicinando lo scritto al parlato. La prosa letteraria della prima metà del’800 era ancora condizionata dal modello puristico e classicistico. I puristi, coerenti con l’Abate Cesari, imitavano la letteratura antica e scrivevano alla maniera del Boccaccio e alcuni di essi erano influenzati dal fiorentino vivo. Il popolo era considerato alla stregua di un prolungamento del vocabolario, da ‘consultare’ con devozione. La maggior parte dei puristi non lo prendeva neanche in considerazione. La loro prosa era ricca di arcaismi. LA PROSA DI GUSTO CLASSICO I classicisti in genere si ispiravano alla grande tradizione del Rinascimento. La prosa di autori come Monti e Leopardi rappresentava uno dei migliori risultati qualitativi a cui giunse il classicismo. Non a caso, si tratta di due autori che non ebbero alcuna simpatia per i puristi, anzi: scrissero pagine importanti contro le teorie di costoro. Monti fu maestro nella prosa di tipo polemico e satirico, rivolta ai puristi e all’Accademia della Crusca e adoperò il genere del dialogo. La prosa del Cinquecento offriva molte proposte di satira e polemica, come gli scritti di Annibal Caro, molto amato da Leopardi. Leopardi vedeva in Annibal Caro un esempio di scrittore che era stato in grado di esibire una naturalezza elegante. Tale naturalezza Leopardi la riconosceva anche in un autore secentesco, Bartoli, per il quale espresse la sua ammirazione in diverse pagine dello “Zibaldone”, definendolo il “Dante della prosa italiana” e avversava gli arcaismi e lo stile di Boccaccio. Un ottimo esempio della prosa elevata e ‘naturale’ di Leopardi sono le Operette Morali. IL MODELLO MANZONIANO E LA PRASSI CORRETTORIA DEI PROMESSI SPOSI “Fermo e Lucia”, giudicato come un composto di voci non bene amalgamato, con lombardismi, francesismi, toscanismi e latinismi, uscì in prima edizione nel 1825-27 (edizione ventisettana dei Promessi Sposi), già indirizzata verso la lingua media e comune. Nello stesso 1827 lo scrittore, compì un viaggio in Toscana e avviò la risciacquatura dei panni in Arno, cioè la correzione della lingua che egli voleva adeguata al fiorentino delle persone colte. Il nuovo testo fu pubblicato dal 1840-42 e fu accolto con giudizi contrastanti: alcuni preferivano la ventisettana, come Giusti, Cantù, De Sanctis, Cattaneo, altri approvarono la revisione, riconoscendo che lo scrittore aveva tentato la difficile e importante operazione di avvicinare la lingua scritta a quella parlata. Oggi è possibile confrontare tutte le differenze fra la ventisettana e la quarantana: F 0 A 7 taglio ampio delle forme lombardo - milanesi, spesso coincidenti con forme toscane attestate nella letteratura di genere comico dei secoli passati. Le forme lombardo - milanesi erano state accolte nella ventisettana, orientata già in direzione della lingua toscana, ma in modo libresco, usando modelli scritti. Esempio: eliminazione del termine marrone per ‘sproposito’: ho fatto un marrone > ho sbagliato, abbiamo fatto ben grosso il marrone > l’abbia fatta bella, manifestare un marrone > palesare uno sproposito. narrativo. Nei Malavoglia la voce dello scrittore diventa espressione della coralità popolare, che fa da filtro alla narrazione. L’innovazione stilistica permetteva di snellire il periodo, eliminando le frasi subordinate e dava voce a nuovi personaggi, popolari, appartenenti al mondo degli umili e dei ‘vinti.’ Il cammino della lingua scritta verso il parlato non prende solo la forma del toscano, ma anche dell’italiano popolare e regionale. LA POESIA LINGUAGGIO POETICO NEOCLASSICO Il linguaggio poetico dell’800 si caratterizzava per una fedeltà alla tradizione aulica e illustre, in coincidenza con l’affermazione del Neoclassicismo. Vincenzo Monti era il restauratore di un linguaggio classico sontuoso e Foscolo non era da meno, come dimostra la solennità dei “Sepolcri”. La tendenza all’aulico, proprio della poesia neoclassica, era verificabile a livello sintattico, perché frequenti erano le inversioni prolettiche, congiunti con vocativi posti al fondo del periodo, come nel sonetto “Alla sera”: forse perché della fatal quiete tu sei l’imago a me si cara vieni, o Sera!. La disposizione sintattica si discosta da quella propria della prosa e della lingua comune. Il lessico veniva selezionato come parole nobili e proprie della quotidianità: la doppia serie lessicale, fatta di cultismi e latinismi, distingue le parole della poesia da quelle della prosa e questa sarà una caratteristica del linguaggio letterario italiano almeno fino al ‘900 con Pascoli. Nel caso di parole che non sono diverse in prosa e poesia, si ricorreva alla sincope (spirto per spirito, pria per prima) o al troncamento (cor, mar, dolor, amor) ed erano tronchi anche gli infiniti dei verbi in tutte e tre le coniugazioni. Leopardi nel suo Zibadone scrisse che una parola o una frase difficilmente è elegante se non si isola dall’uso del volgare: gli arcaismi si addicevano alla poesia, in cui il linguaggio si riallacciava alla tradizione petrarchesca e tassiana. Attraverso tasso, Leopardi acquisì il principio del carattere vago del linguaggio poetico, in cui non ci dovrebbero essere termini che definiscono in maniera precisa e univoca, ma parole che dovrebbero evocare qualcosa di indefinito e quindi di poetico. UN DISSONANTE CONTRASTO TRA TONI ALTI E TONI BASSI Il linguaggio poetico dell’800 si mantenne immune da vistose novità formali e le parole nuove, quotidiane vennero introdotte solo nella poesia giocosa, come quella di Giusti. Lo stesso Manzoni si attenne alla forma tradizionale, senza abuso di arcaismi e parole colte, nonostante il tono sia sempre stato alto, sublime. Le parole quotidiane ebbero difficoltà ad entrare in poesia, eppure premevano sul linguaggio poetico. Quando i romantici vollero introdurre in poesia contenuti realistici, il linguaggio poetico non permetteva l’inserimento di parole quotidiane. Qualche segno di innovazione si ebbe nella seconda metà del secolo, nei poeti della cosiddetta “scapigliatura”, come Praga e Tarchetti, che introdussero elementi realistici nel tessuto della poesia tradizionale, creando un particolare effetto di stridore. LA POESIA IN DIALETTO E LE POLEMICHE ANTIDIALETTALI L’800 fu un secolo in cui ebbe un eccezionale sviluppo qualitativo la poesia in dialetto. Il milanese Porta e il romano Belli rappresentavano i più alti esponenti di questa letteratura. Belli commentò i propri sonetti con note esplicative, che illustravano anche alcune parole poi passate alla lingua nazionale, come fregarsene (fregammene), cazzata (sciocchezza), fesso (sciocco). La poesia di Porta si legava, invece, a una polemica sul ruolo del dialetto e della letteratura dialettale. Pietro Giordani, classicista, con un articolo sulla “Biblioteca italiana” del 1816, condannò l’iniziativa di Francesco Cherubini di stampare una collezione di opere letterarie in dialetto milanese. Era prevista l’uscita in 12 tomi, che avrebbero riunito in un unico corpus, a partire dai cinquecentisti per giungere ai contemporanei e l’ultimo tomo doveva essere riservato a Porta. Giordani contestava l’uso dei dialetti come nocivo per la nazione e riteneva che la poesia dialettale dovesse essere collocata su un piano basso e non avesse alcuna funzione di progresso. Sentiva inoltre la mancanza di una lingua comune diffusa largamente. Porta scrisse in polemica contro Giordani, una serie di 12 sonetti satirici. I romantici milanesi, invece, erano favorevoli alla tradizione in dialetto, in cui vedevano un modo di avvicinarsi alla lingua popolare, riallacciandosi anche alla posizione del Parini.
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