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La concezione giuridica degli omissioni e i reati privi di evento, Sintesi del corso di Diritto Penale

Sulla necessità dell’assenza di cause di giustificazione per l’esistenza di un reato, con un focus particolare sui reati di omissione. La distinzione tra reati di pura condotta e reati di evento, e il concetto di causa psicologica. Viene inoltre discusso il concetto di pericolo e l’obbligo di attivarsi in presenza di pericolo.

Tipologia: Sintesi del corso

2010/2011

Caricato il 14/10/2011

luna1984
luna1984 🇮🇹

4.1

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Scarica La concezione giuridica degli omissioni e i reati privi di evento e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Penale solo su Docsity! Parte II - Titolo I Capitolo 2 – L’ELEMENTO OGGETTIVO A costituire l’elemento oggettivo del reato concorre un’azione o un’omissione. Senza di questa il reato non è concepibile, perché il reato è un comportamento dell’uomo. L’azione e l’omissione nella dottrina più recente sono indicate col termine di condotta e talvolta con l’espressione azione. La condotta umana di regola da sola non basta a costituire il primo elemento essenziale del reato; è necessario un risultato, un effetto di quella condotta: è necessaria una modificazione del mondo esteriore, ad es. la morte di un uomo nel reato di omicidio. Questo risultato si dice evento. La condotta e l’evento sono 2 entità distinte, ma non indipendenti: tra l’una e l’altra deve esistere un legame, un rapporto di casualità. E’ evidente che senza tale legame, l’avvenimento esterno non potrebbe considerarsi effetto della condotta. Ne risulta che lo studio dell’elemento oggettivo del reato si ripartisce in condotta, evento e rapporto di casualità. Inoltre, per l’esistenza del reato, oltre alla presenza degli elementi indicati nella fattispecie criminosa, è necessaria l’assenza di cause di giustificazione. ▲ LA CONDOTTA rappresenta ogni comportamento dell’uomo, perciò anche quelli relativi alla sua coscienza, come i pensieri, i desideri, ecc. Il diritto penale non si interessa degli atti puramente interni. Il reato è sempre un avvenimento che si realizza nel mondo esterno, giacché l’atto psichico che non si traduce in un comportamento esterno non è mai punibile. La condotta, quindi, è solo quel comportamento umano che si manifesta esteriormente. La condotta può assumere due forme: una positiva ed una negativa; può consistere in un fare e in un non fare. Nel primo caso si ha l’azione, nel secondo l’omissione. L’omissione costituisce anch’essa una estrinsecazione della personalità del soggetto. L’azione consiste in un movimento del corpo del soggetto percepibile dall’esterno. Ai fini del diritto interessa osservare che l’azione si presenta molte volte come una serie di movimenti del corpo. Ognuno di questi movimenti si dice atto e l’insieme degli atti costituisce l’azione. L’atto, quindi, non è che un frammento dell’azione nei casi in cui questa non si esaurisce in un solo movimento corporeo. E’ necessario stabilire quando si abbia una sola azione e quando una molteplicità di azioni, al fine di determinare se ci troviamo dinanzi ad uno o più reati. Bisogna considerare anche che l’uomo dotato di coscienza e volontà, opera per conseguire dei fini, quindi l’azione è un comportamento dell’uomo rivolto ad uno scopo. Questo è ciò che imprime all’azione il suo carattere unitario. I singoli atti esteriori vengono cementati tra loro e ridotti ad unità dallo scopo che l’uomo si propone. Così colui che colpisce più volte una persona con un pugnale al fine di ucciderla, non fa tante azioni quante sono le ferite inferte, ma compie una sola azione. Affinché l’azione sia unica è necessaria la con testualità: i vari atti devono susseguirsi immediatamente, senza notevole interruzione, formando un insieme distinto. Se, invece, tra gli uni e gli altri trascorre un rilevante lasso di tempo, non si ha una sola azione, ma molteplicità di azioni, come chi va a screditare una persona diffondendo in momenti diversi notizie calunniose. Ne consegue, dunque, che per l’unicità dell’azione occorre che gli atti, oltre ad essere guidati da un solo scopo, si svolgano in un unico contesto. L’omissione Secondo la teoria dell’aliud agere, che fu enunciata per la prima volta dal criminalista tedesco Luden, l’omissione, come comportamento di un soggetto non è il nulla. L’omittente non rimane inerte, ma fa qualche altra cosa; se non compie l’azione che da lui si aspettava, ne compie un’altra. Questa seconda azione forma un tutt’uno con l’omissione e ne costituisce l’aspetto positivo. Tale concezione è priva di consistenza in quanto non sempre l’uomo, nel momento in cui avrebbe dovuto agire, compie un’altra azione; ma egli può essere rimasto inerte, continuando, per esempio, a dormire. Si aggiunga, inoltre, che l’azione diversa da quella che il soggetto avrebbe dovuto compiere è priva di ogni rilevanza giuridica, tanto che non deve essere accertata. Quindi l’omissione altro non è che il mancato compimento dell’azione che si attendeva da un uomo e per il diritto valgono quelle omissioni che consistono nel non compimento di azioni prescritte dall’ordinamento giuridico. ▲ L’EVENTO è un risultato. Il realizzarsi di uno stato di fatto. L’evento non è un qualsiasi fatto, ma l’avvenimento che si presenta congiunto ad un altro fatto mediante un nesso casuale. Dato che , nel campo del diritto, viene in considerazione la condotta dell’uomo, d’ordinario si intende per evento il risultato della condotta medesima. Al diritto non interessano tutti i risultati dell’azione umana ma solo alcuni di essi. L’evento, perciò, in senso tecnico è solo l’effetto della condotta che il diritto prende in considerazione, in quanto connette al suo verificarsi conseguenze di carattere penale. Tale effetto può essere fisico, come la distruzione di un oggetto nel delitto di danneggiamento; può essere fisiologico, come la morte di un uomo nell’omicidio o la perdita di un arto nella lesione personale e può essere psicologico, come la percezione di un’espressione offensiva da parte di una persona nell’ingiuria e nella diffamazione. Si tratta, però, sempre di un effetto naturale della condotta umana, effetto che, per tale sua qualità, si distingue nettamente dalla condotta medesima, e cioè dal movimento corporeo nell’azione e dal non compimento di un dato atto nell’omissione. Esso è sempre un quid diverso e distinto dal comportamento umano: un fatto perciò esteriore all’uomo. L’evento, quindi, è l’effetto naturale della condotta umana che è rilevante per il diritto. (L’evento nel reato). L’evento, però, non è un elemento che ricorre sempre nel reato. L’esame comparativo delle figure criminose, infatti, dimostra che, se il più delle volte, affinché si abbia un reato perfetto, occorre che si sia verificato un risultato esteriore della condotta umana, in pochi casi basta che sia stato posto in essere un determinato comportamento. Esempio: delitto di evasione (art. 385), che cosa si richiede per l’esistenza di questo reato? Null’altro che sia compiuta l’azione descritta nella norma incriminatrici. Esistono, perciò, reati privi di evento, il quale, in conseguenza, non considerarsi elemento essenziale del reato. L’evento, inoltre, proprio perché è il risultato della condotta dell’uomo, deve verificarsi successivamente ad essa. Il tempo che intercorre fra la condotta e l’evento non ha rilevanza per il diritto e l’evento può verificarsi anche in un luogo diverso da quello in cui si è svolta la condotta del reo, come nel caso del pacco esplosivo che venga spedito da una città ad un’altra. In queste ipotesi si parla di reati a distanza. Non è detto che nel reato debba esservi un solo evento. Esistono figure criminose che presentano una pluralità di eventi. Ciò si verifica nei reati composti, i quali risultano dalla combinazione di 2 o più reati. Dato che l’evento è l’effetto naturale della condotta umana rilevante per il diritto penale, si parla di concezione naturalistica. Ad essa si contrappone la c.d. concezione giuridica, secondo la quale l’evento consiste nell’offesa dell’interesse protetto dal diritto. La differenza fra le due concezioni è profonda, perché l’evento, inteso come modificazione del mondo esteriore rilevante per il diritto penale, è un’entità che si aggiunge alla condotta dell’uomo: è un’entità naturale, distinta e diversa dal comportamento del soggetto, mentre l’offesa del bene protetto è lo stesso fatto umano considerato dal punto di vista della tutela giuridica. Da ciò deriva che l’offesa non sempre si distingue dalla condotta dell’uomo, potendo combaciare con essa; il che avviene in quei reati che consistono in una semplice azione od omissione. Anche le conseguenze delle due concezioni sono diverse, perché, mentre per quella naturalistica l’evento può mancare nel reato, la concezione giuridica lo considera come elemento essenziale. La concezione giuridica, però, non può essere accolta perché non risponde alle esigenze della scienza del diritto, la quale deve prendere in considerazione l’effetto naturale del comportamento umano. A sostegno della concezione giuridica si invocano gli artt. 40 e 43 del codice, nei quali si parla di evento da cui dipende l’esistenza del reato. Tale espressione dimostrerebbe luogo delle destra investa u bambino che cade improvvisamente da un balcone. In questo caso il reato colposo viene meno per difetto di colpa specifica. Per la seconda teoria, quella della causalità adeguata, affinché per il diritto esista un rapporto di causalità occorre che l’uomo abbia determinato l’evento con un’azione proporzionata, adeguata. E’ adeguata l’azione che è in generale idonea a determinare l’effetto. Non si considerano causati dall’uomo gli effetti che al momento dell’azione si presentavano improbabili, cioè gli effetti straordinari o atipici dell’azione medesima. Anche questa teoria non si sottrae ad alcune critiche. Principalmente bisogna dire che l’adeguatezza dell’azione, dato che viene stabilita ex ante, secondo lo studio di casi simili, rimane un’operazione poco pratica per il diritto, che porta anche alla nascita di molte incertezze. La possibilità i sostenere che l’azione che ha recato un evento non era in generale, in astratto idonea a determinarlo, può offrire all’imputato una comoda scappatoia. La teoria dell’adeguatezza porta ad estendere esageratamente il campo dell’irresponsabilità penale, portando a troppe assoluzioni. Per giungere ad una nozione del rapporto causale che risponda alle esigenze del diritto, bisogna partire dalla considerazione che la causalità a cui partecipa l’uomo, cioè la causalità umana, presenta delle caratteristiche speciali. La particolare natura di tale causalità deriva dal fato che l’uomo è un essere fornito di coscienza e volontà. Per mezzo della coscienza egli è in grado di rendersi conto delle circostanze che ostacolano o favoriscono la sua azione, e, aiutato dall’esperienza, può calcolare in anticipo gli effetti che derivano da determinate cause. Mediante la volontà egli può inserirsi nel processo causale ed imprimere ad esso una direzione. Date queste possibilità, è fuori dubbio che esiste un campo in cui l’uomo può dominare in virtù dei suoi poteri conoscitivi e volitivi. Solo i risultati che rientrano in questa sfera, quindi, possono considerarsi causati dall’uomo. Tutti gli altri effetti, cioè quelli che si svolgono al di fuori di tale ambito e che per tale motivo non possono essere da lui controllati, non sono opera sua. I risultati che sfuggono al dominio dell’uomo sono i fatti eccezionali, ossia quei fatti che hanno una probabilità minima di verificarsi. Non rientrano sicuramente i fatti atipici o anormali, come ritiene la teoria della causalità adeguata, in quanto questi possono sempre essere prevenuti o calcolati in anticipo. Le riflessioni svolte consentono di affermare che per l’esistenza del rapporto di causalità occorrono due elementi: uno positivo e uno negativo. Il positivo è che l’uomo con la sua azione abbia posto in essere una condizione dell’evento, e cioè un antecedente senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato. Il negativo è che il risultato non sia dovuto al concorso di fattori eccezionali. Qualora ci sia un legame di dipendenza tra l’azione e il risultato, ma questo, per fattori eccezionali, non è imputabile all’uomo, il rapporto è detto occasionale. Si nega, così, l’esistenza del nesso di causalità fra l’azione iniziale e l’esito finale nei casi seguenti: una persona lievemente ferita rimane uccisa nell’ospedale in seguito ad una bomba lanciata da nemici; un colpo di sasso determina la morte di un emofiliaco; un individuo, che ha avuto un braccio fratturato, decede per una gravissima imprudenza del sanitario curante; ecc. Dagli es. risulta che l’esclusione del nesso causale può aversi non solo quando il fatto eccezionale sopravviene all’azione umana, ma anche quando preesiste ad essa, come nel caso dell’emofiliaco che muore in seguito ad una lieve lesione. Il nostro cod. ha regolamentato la materia attraverso: l’art. 40, dove si stabilisce la necessità di un legame tra l’azione compiuta dal soggetto o la sua omissione e l’evento dannoso o pericoloso che si è verificato. Senza tale nesso di causalità il soggetto non può essere punito; l’art. 41, il quale statuisce nel 1° co.: “ Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”; 2° co.: “ Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità, quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso, se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita”; 3° co.: “Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui”. Il primo e il terzo co. non danno luogo a difficoltà considerevoli. Il primo co. sanziona il principio che il concorso di fatti o circostanze di qualsiasi specie estranei all’operato del soggetto, siano essi antecedenti, contemporanei o posteriori, di regola non esclude il rapporto di causalità tra l’azione od omissione e l’evento. Per fare un es., la ferita è causa della morte anche se questa si è verificata per le particolari condizioni di salute della vittima, ovvero è dipesa da un’infezione sviluppatasi nel decorso della malattia. Il 3° co. ha una funzione chiarificatrice. Esso afferma che le regole sancite nell’at. In esame si applicano anche quando le cause concorrenti consistano in fatti illeciti di altre persone. I due precedenti co. corrispondono esattamente ai principi della teoria della condicio sine qua non. Il 2° co. mette in evidenza che il rapporto di causalità si esclude quando le cause sopravvenute sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. Tale co. è estraneo alla precedente teoria e sembra che i compilatori del codice hanno voluto con tale principio porre una limitazione alla teoria stessa. Una diffusa giurisprudenza nega questo sostenendo che il codice ha adottato interamente la teoria dell’equivalenza; infatti si afferma che il 2° co. dell’art. 41 si riferisce solo ai casi in cui all’azione criminosa sopravviene una serie casuale del tutto autonoma, cioè un avvenimento che ha prodotto il risultato in modo indipendente. Si fa a tal proposito l’esempio della persona che venga avvelenata, ma poi resti uccisa da un fulmine, prima che il tossico abbia agito. Questa interpretazione non può essere accolta in quanto, quando l’evento è dovuto ad una serie casuale assolutamente indipendente, manca l’azione e il risultato il nesso richiesto in generale dall’art. 40. Vari tentativi sono stati fatti per dare un significato ragionevole al 2° co. dell’art. 41. una interpretazione logica può ricavarsi dalla relazione al progetto definitivo, nella quale si afferma che la disposizione in esame mira ad escludere il rapporto di causalità nelle interferenze di serie meramente occasionali, come nel caso della persona ferita che, trasportata all’ospedale, vi trovi la morte per un incendio criminoso o fortuito. Basandosi su questa spiegazione, la Corte Suprema ha ritenuto che l’esclusione del nesso causale si ha quando l’evento è stato determinato da fatti completamente imprevedibili, cioè fatti che presentano il carattere di assoluta anormalità, quindi un avvenimento straordinario. Secondo il comune modo di giudicare, quando ciò si verifica, il fattore straordinario sopravvenuto assume il ruolo di vera causa del risultato e il precedente viene considerato una semplice occasione. Tale interpretazione sembra che risponda perfettamente allo scopo della norma, che è di introdurre una limitazione alla teoria dell’equivalenza causale. Il 2° co. dell’art. 41 deve, quindi, essere interpretato nel senso che il nesso di causalità è escluso quando il risultato è dovuto al sopravvenire di un avvenimento assolutamente anormale (rarissimo), il che è quanto dire al sopravvenire di un avvenimento eccezionale. La teoria così proposta tende ad escludere il rapporto causale non solo quando il fattore eccezionale sopravviene all’azione, ma altresì quando esiste in precedenza, (es. un’anomalia fisica rarissima), oppure si verifica simultaneamente (es. scoppio di un esplosivo portato in dosso dalla vittima). E’ possibile applicarla anche in altri casi? Si dovrebbe rispondere negativamente, perché dalla dizione letterale del 1° capoverso dell’art. 41 si evince che il legislatore ha limitato alle concause sopravvenute l’efficacia di escludere il rapporto di causalità. Il problema della causalità non si presenta solo nei riguardi dei reati d’azione, ma anche in quelli di omissione, quando un evento sia richiesto per l’esistenza del reato (come nei reati commissivi mediante omissione) o sia previsto come circostanza aggravante (come nell’omissione di soccorso da cui derivi una lesione o la morte della persona in pericolo). Anche nel campo dell’omissione, per poter imputare un evento al soggetto, occorrono due elementi: la realizzazione di una condizione del risultato e il mancato intervento di fattori eccezionali. Per l’avverarsi di un evento, non basta la presenza di certi fatti: occorre pure l’assenza di altri. Si parla in questo caso delle c.d. condizioni negative. Su tal punto concordano i principali cultori della logica, a cominciare da Stuart-Miller, il quale, per dimostrare che anche un fatto negativo può essere condizione, fa l’esempio dell’esercito che è stato sorpreso perché la sentinella non era al suo posto. Ma l’elemento indicato non basta perché l’evento possa attribuirsi al soggetto. Come nel caso dell’azione, occorre che l’uomo, con i suoi poteri conoscitivi e volitivi, abbia determinato l’effetto. Da ciò la conseguenza che il nesso è escluso, quando si verificano fatti eccezionali. Così, se in seguito alla mancata illuminazione delle scale di un edificio un inquilino cade fratturandosi una gamba, e poi, mentre viene trasportato in ospedale, rimane vittima di uno scontro automobilistico, il proprietario dell’edificio non potrà ritenersi autore dell’esito letale. Al concetto dell’omissione è strettamente legato quello dell’azione che si attendeva dal soggetto, perché omettere non significa far nulla, ma non compiere quell’azione. Ne consegue che per accertare il nesso dobbiamo domandarci se l’azione attesa avrebbe o no impedito l’evento. Per fare un esempio: nel caso che un guardiano ferroviario non abbia compiuto le manovre che avrebbe dovuto eseguire e sia quindi avvenuto un disastro, il nesso si ammetterà se col compimento della manovra il disastro sarebbe stato evitato; si negherà se l’evento si sarebbe avverato ugualmente. L’art. 40 aggiunge, inoltre: “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Per effetto di questa disposizione, colui che determina un risultato mediante un’omissione non ne risponde sempre: ne risponde quando sia venuto meno ad un obbligo giuridico. La causalità, dunque, non basta: occorre in più l’esistenza, per il soggetto, dell’obbligo di compiere una data azione, e precisamente quell’azione che avrebbe impedito il verificarsi dell’evento. Tale obbligo deve essere giuridico, cioè imposto dal diritto, sicché la semplice violazione di un dovere morale non è sufficiente. L’obbligo giuridico violato affinché sorga la responsabilità penale, può essere generale, cioè valevole per tutti i cittadini, professionale o d’ufficio, cioè valevole solo per una categoria di persone, oppure speciale, cioè valevole per un dato individuo. Non è necessario che sia espresso, potendo essere anche tacito. Ciò che deve essere posto in evidenze è che l’obbligo violato deve essere stabilito dall’ordinamento giuridico proprio per impedire eventi del genere di quello che si è verificato. Quanto alla fonte dell’obbligo di impedire l’evento, è indubbio che sovente essa si trova proprio nella legge penale. Oltre che dal diritto penale, l’obbligo di agire può nascere da altri rami del diritto pubblico ed anche da un ordine legittimo dell’autorità o da un provvedimento del magistrato. Nessun dubbio che fonte dell’obbligo può essere anche il diritto privato. Qui vengono in considerazione anzitutto i doveri derivanti dal diritto di famiglia. Il figlio che lascia morire di stenti il vecchio genitore che non sia in grado di procurarsi il necessario per vivere, è responsabile di omicidio. Vengono, poi, in considerazione gli obblighi derivanti da contratto. Infine, il dovere di agire può nascere anche dalla propria attività. Chi esplica un’attività che può ledere interessi giuridici di terzi (es. apre una buca in una strada) ha il dovere di adottare le misure necessarie per evitare infortuni. Inoltre, colui che con la sua azione ha dato origine al pericolo di un vento dannoso eventualmente permanenti. Un esempio di questi ultimi è costituito dall’usurpazione di funzioni pubbliche. La distinzione fra reati istantanei e i reati permanenti interessa in specie ai fini della prescrizione e di altri istituti come la successione delle leggi, la legittima difesa, il concorso delle persone nel reato, l’amnistia, la querela, la flagranza, ecc. Mentre di regola i reati vengono realizzati con una sola azione od omissione, alcune volte ne esigono più d’una: la ripetizione di azioni della stessa specie. Un esempio si ha nel delitto di sfruttamento di prostitute, dove per l’integrazione del quale non basta un fatto isolato, e cioè che l’agente si faccia consegnare una sola volta del denaro da una prostituta; occorre una certa ripetizione di tali fatti, ed in particolare una serie di consegne di denaro ricavato dalla prostituzione. Reati del genere sono i maltrattamenti, la relazione incestuosa e varie contravvenzioni. I reati di questa specie cono comunemente detti abituali o meglio reati a condotta plurima. E’ da rilevare che, mentre alcune di queste figure criminose consistono in una ripetizione di atti che, presi isolatamente, non sono punibili, come avviene per lo sfruttamento della prostituzione, o possono non esserlo, come avviene nei maltrattamenti, altre (come la relazione incestuosa) presuppongono più fatti ciascuno dei quali costituisce già di per sé reato. Da tempo nella dottrina si fa la distinzione tra i reati unisussistenti e plurisussistenti. Questa distinzione trae origine dal fatto che il reato, se talvolta può essere realizzato con un solo atto, il più delle volte esige il compimento di una purità di atti. Ancora nella nostra dottrina si fa una distinzione dei reati in due classi: a forma libera e a forma vincolata. Quelli a forma vincolata si hanno quando la legge descrive in modo particolareggiato l’attività occorrente per la loro realizzazione; a forma libera quelli che possono essere realizzati con qualsiasi attività che produca un determinato evento. Esempio tipico per quest’ultimo caso è l’omicidio, il quale può essere commesso nei modi più diversi e sussiste sempre che con un’azione od omissione sia stata cagionata la morte di un uomo. Reati a forma libera sono anche la truffa. In ogni caso c’è da considerare che una tale distinzione abbia scarsa importanza. ▲ LE CAUSE OGGETTIVE DI ESCLUSIONE DEL REATO sono denominate comunemente cause di giustificazione e sono situazioni particolari, nelle quali un fatto, che di regola è vietato, viene imposto o consentito dalla legge e, quindi, non è antigiuridico, rimanendo esente da pena. Es. la persona ingiustamente aggredita è autorizzata, in determinate condizioni e in certi limiti, a difendersi mediante azioni che costituiscono reato (legittima difesa). In alcuni casi l’atto è senz’altro imposto dal diritto, come nell’ipotesi dell’agente della forza pubblica che, in esecuzione di una sentenza di condanna, priva qualcuno della libertà personale. L’esistenza di un potere riconosciuto dal diritto elimina l’antigiuridicità penale e con essa il reato. Il fatto, in tali condizioni, diviene giuridicamente lecito. Le cause di giustificazione, pertanto, possono definirsi: quelle speciali situazioni nelle quali un fatto, che di regola è vietato dalla legge penale, non costituisce reato per l’esistenza di una norma che lo autorizza o lo impone. Se si cerca la ragione sostanziale per cui queste cause eliminano l’antigiuridicità, non è difficile ravvisala nella mancanza di danno sociale. Ciò appare chiaro nella legittima difesa. Di fronte all’interesse alla vita o all’integrità personale dell’aggressore, sta l’interesse opposto dell’aggredito. Poiché l’aggressore si è posto contro il diritto, non è dubbio che l’interesse dell’aggredito abbia un valore socialmente più elevato. La lesione dell’interesse del primo, essendo indispensabile per evitare un male che dal punto di vista della comunità è maggiore, non è un fatto antisociale. Il contrasto degli interessi è più evidente nell’ipotesi dell’adempimento del dovere. C’è da un lato, ad es., l’interesse del condannato alla libertà personale; dall’altro l’interesse dello Stato alla esecuzione della sentenza di condanna. Il pubblico ufficiale che, per dovere, arresta il condannato agisce proprio nell’interesse della collettività. Le cause di giustificazione, le quali sono dette scriminanti o esimenti, hanno efficacia oggettiva, nel senso che funzionano per il solo fatto che esistono. Così, se taluno crede di compiere una azione illecita, mentre esercita un diritto, non commette reato. Questa efficacia delle cause di liceità è sancita dall’art. 59, primo co. del codice, il quale stabilisce che le circostanze che escludono la pena sono valutate a favore dell’agente, anche se da lui non conosciute o da lui per errore ritenute inesistenti. L’adempimento del dovere (art. 51 c.p.) può essere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità. I casi che rientrano nella disposizione sono numerosissimi. Il soldato che uccide in guerra; l’agente della forza pubblica che nelle ipotesi consentite dalla legge esegue una perquisizione domiciliare contro la volontà del titolare del diritto all’inviolabilità del domicilio. L’ipotesi più importante è quella relativa all’uso legittimo delle armi, regolato dall’art. 53 c.p., il quale al 1° co. stabilisce che non è punibile il PU che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso o ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità. Come si rileva dalla disposizione, l’uso delle ami e di altri mezzi di coazione fisica è consentito anzitutto quando sia indispensabile per respingere una violenza. E’ un potere che trova la sua ragione nella necessità di tutelare l’autorità e il prestigio delle persone che esercitano una pubblica funzione. I deve tenere presente che, anche per i pubblici ufficiali, l’uso delle armi costituisce una estrema ratio, perché la vita umana è sacra, quindi fra i vari mezzi disponibili, idonei allo scopo, deve sempre essere preferito quello che è meno dannoso. Nel nostro ordinamento giuridico esistono altri casi in cui è autorizzato l’uso delle armi. I più notevoli sono quelli previsti dalla legge n. 100/58, quando si tratti di impedire i passaggi abusivi delle frontiere dello Stato o di arrestare persone in attitudine di contrabbando, nonché quello che riguarda le sentinelle nel servizio militare. Per quanto riguarda i doveri derivanti da un ordine dell’Autorità, bisogna dire che per ordine dell’Autorità si intende la manifestazione di volontà che il titolare di un potere di supremazia, riconosciuto dal diritto, rivolge al subordinato per esigere un dato comportamento. Nel diritto penale vengono considerati solo i rapporti di subordinazione che nascono dal diritto pubblico. Quando il rapporto pubblico di subordinazione è generale, si ha l’ordine di polizia o di finanza; quando è particolare, si ha l’ordine gerarchico. L’art. 51 si riferisce tanto all’uno quanto all’altro. L’ordine dell’Autorità per essere vincolante, e cioè, per importare l’obbligo nel subordinato di eseguirlo, di regola deve essere formalmente e sostanzialmente legittimo. La legalità formale dell’ordine implica. 1) la competenza del superiore ad emanarlo; 2) la competenza del subordinato ad eseguirlo; 3) l’emanazione nelle forme prescritte dalla legge. La legalità sostanziale esige il concorso dei presupposti stabiliti dalla legge per l’emanazione dell’ordine. Così il mandato di cattura non era sostanzialmente legittimo se non esistevano sufficienti indizi di colpevolezza a carico della persona contro cui era emesso. E col vigente codice di procedura penale l’ordinanza del giudice che dispone la custodia cautelare diventa illegittima se non sussistano gravi indizi di colpevolezza. Ciò premesso dobbiamo evidenziare che gli organi dello Stato sono subordinati alla legge e non sono in alcun caso autorizzati a violare le norme penali, l’ordine di commettere un fatto che costituisce reato non è vincolante e, in conseguenza, il subordinato che lo esegue non è esente responsabilità. Questo principio è espressamente sancito nell’art. 51 c.p., il quale tra l’altro sancisce che se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’Autorità, del reato risponde sempre il PU che ha dato l’ordine. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine. Alla regola indicata si fa eccezione, quando la legge non consente al subordinato di sindacare la legittimità dell’ordine. Esistono, infatti, degli organi dello Stato che hanno il compito di eseguire ciò che da altri organi viene comandato. Così l’ufficiale di polizia giudiziaria, ricevendo per l’esecuzione un orine di custodia cautelare non ha il potere di accertare se esistono gravi indizi i colpevolezza. Questo divieto di sindacato si verifica specialmente nei confronti dei militai e parificati, ai quali è imposto in modo rigoroso l’obbligo dell’obbedienza. Il sindacato che è interdetto ai subordinati, peraltro, riguarda solo la legalità sostanziale, e cioè l’indagine sul merito del provvedimento. La legalità formale è, invece, sempre sindacabile. Anzi l’obbligo dell’obbedienza non è incondizionato, perché secondo quanto stabilito dall’art. 4 della L.n. 382/78 l’obbligo medesimo cessa di fronte alla manifesta criminosità dell’ordine. Pertanto, ad es., il militare è svincolato dal dovere dell’obbedienza nel caso che un ufficiale, visibilmente ubriaco, comandi di far fuoco su pacifici cittadini. Quando l’ordine sostanzialmente illegittimo è vincolante perché l’inferiore non ha il potere di sindacarne la legalità e il fatto non è in modo palese criminoso, solo il superiore risponde del reato. Il subordinato è esente da pena perché egli ha solo adempiuto un dovere e l’azione da lui compiuta non è antigiuridica. Il subordinato che esegue un ordine illegittimo va esente da pena anche quando per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo. Es. arresto in base ad un provvedimento di custodia cautelare abilmente falsificato. In questa ipotesi l’impunità del subordinato non deriva dalla legittimità del suo operato, ma dal fatto che l’errore in cui è incorso esclude il dolo. L’esercizio del diritto (art. 51) questa scriminante è prevista dall’art. 51, il quale stabilisce che l’esercizio di un diritto esclude la punibilità. In base a tale principio, la persona che nello sporgere una querela riferisce dei fatti che offendono l’onore o il decoro del querelato, non risponde del reato di diffamazione, come non ne risponde l’avvocato che in scritti presentati all’autorità giudiziaria offende l’avversario del proprio cliente, se l’offesa concerne l’oggetto della controversia. L’esercizio del diritto ha efficacia scriminante per la ragione che, se l’ordinamento giuridico ha attribuito ad una persona una determinata facoltà, vuol dire che ha riconosciuto la prevalenza del suo interesse sugli interessi contrari. Il concetto di diritto comprende tutte le specie di diritti soggettivi, a qualsiasi categoria appartengano o da qualsiasi ramo dell’ordinamento giuridico siano direttamente o indirettamente riconosciuti. Il diritto può nascere non solo da una norma giuridica, ma anche da altre fonti, come, ad es., da una sentenza od altro provvedimento giurisdizionale del magistrato, da un atto dell’amministrazione e da un negozio di diritto privato. La scriminante dell’esercizio del diritto non opera se il titolare supera i limiti stabiliti dalla legge. Tali limiti si desumono non solo dalla fonte da cui il diritto promana, ma dal complesso dell’ordinamento giuridico. Così, per quanto il diritto di proprietà implichi la facoltà di distruggere la cosa propria, l’art. 423 c.p., punisce colui che incendia la cosa propria, qualora dal fatto derivi pericolo per l’incolumità pubblica. Fra i casi più importanti di esercizio di un diritto abbiamo: 1) attività giornalistica, quando i giornali obiettivamente riferiscono i fatti che ledono l’onore di una persona o rivolgono critiche che pregiudicano l’altrui reputazione. La punibilità è esclusa perché il giornalista esercita un diritto che trova la sua base nella libertà di stampa riconosciuta dall’ordinamento giuridico (art. 21 Cost.); 2) disciplina familiare dove i genitori che esercitano la potestà sui figli possono compiere, nell’interesse dell’educazione, azioni che di regola costituiscono reato (offese, percosse, limitazione della libertà personale). Tale facoltà si desume dall’art. 571 c.p., il quale incrimina l’abuso dei mezzi di correzione, venendo così implicitamente ad ammettere che l’uso deve ritenersi legittimo; 3) difesa della proprietà. Tra le facoltà inerenti al diritto di proprietà è compresa quella di predisporre i mezzi idonei alla tutela del diritto medesimo, e cioè i c.d. offendicoli: vetri sporgenti sui muri di cinta, ecc. in conseguenza il proprietario non risponde della lesione che il ladro riporti nel tentare di superare quegli ostacoli. Il diritto in questione non è illimitato: esso non autorizza l’uso di mezzi che possono offendere anche fuori del caso i necessità e in genere l’uso di mezzi insidiosi, come il filo spinato percorso da corrente elettrica ad alta tensione. pericolo presente. Perciò non vengono considerati né il pericolo passato né quello futuro. Il pericolo, inoltre, può sussistere ed essere attuale anche dopo la consumazione del delitto, se l’azione dell’aggressore perdura ancora, rendendo più intensa l’offesa del bene giuridico, come accade nei reati permanenti (es. sequestro di persona). Per analoga ragione la legittima difesa è ammissibile contro il ladro che fugge con la preda. Sui requisiti dell’aggressione il giudizio dovrà essere espresso ex ante e tener conto di tutte le modalità di fatto note all’aggredito nel momento in cui la subisce. Per quanto riguarda i requisiti della reazione bisogna dire che quando si verifichi la situazione di pericolo attuale dell’offesa ingiusta ad un diritto, è consentito di compiere a danno dell’aggressore un’azione che normalmente costituisce reato alle seguenti condizioni: 1) la reazione deve essere necessaria per salvare il diritto minacciato. In questo caso le situazioni sono tante e devono, perciò, volta per volta essere considerate nel concreto facendo stretto riferimento al caso in questione. In tali situazioni molto rimane affidato al saggio apprezzamento del giudice. 2) La reazione deve essere proporzionata all’offesa. Il codice parla di proporzione fra difesa ed offesa. La proporzione va senza dubbio giudicata ex ante, vale a dire riportandosi al momento dell’azione e tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto. Va, infine, notato che la reazione difensiva è ammessa non solo per salvare un diritto proprio, ma anche a favore di terzi. Per tal modo è consentito di compiere un fatto che normalmente costituisce reato per impedire ad es che sia commessa una violenza carnale a danno di una ragazza. Lo stato di necessità è sancito dall’art. 54 c.p., il quale nel primo co statuisce: “ Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente cagionato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. E’ il caso del naufrago che, per salvarsi, respinge in mare un individuo che si è aggrappato alla stessa tavola capace di sostenere una sola persona, o dell’alpinista che fa precipitare il compagno sospeso con lui ad una corda che minaccia di trascinare entrambi nell’abisso. L’ipotesi presenta molta affinità con la legittima difesa, ma se ne differenzia perché in essa non viene leso il diritto dell’aggressore; è offeso un estraneo, e cioè una persona che non ha determinato la situazione di pericolo. A noi sembra che il fondamento dello stato di necessità possa ravvisarsi, come nella legittima difesa, nella mancanza di danno sociale. Questa mancanza appare evidente allorché il bene sacrificato ha un valore minore di quello salvato. Essa però si verifica anche quando i due beni hanno lo stesso valore. L’azione della persona in pericolo, infatti, in tal caso non peggiora la situazione nei confronti della comunità sociale, perché ha il solo effetto di far incidere l’offesa in un soggetto anziché in un altro. Siccome uno dei due beni doveva necessariamente soccombere e siccome essi si equivalgono, non vi è danno per la comunità sociale. E’ quindi naturale e logico che lo Stato rimanga indifferente. Da quanto si è detto consegue che l’azione necessitata non solo non è punibile, ma non può neppure considerarsi illecita. Per la sussistenza della scriminante dello stato di necessità occorre il concorso di vari requisiti, alcuni dei quali riguardano la situazione di pericolo, mentre altri concernono l’azione lesiva. Esaminiamoli. Requisiti della situazione di pericolo: 1) occorre un pericolo attuale, cioè si richiede che la probabilità dell’evento temuto sussista nel momento del fatto; 2) oggetto del pericolo deve essere un danno grave alla persona. La gravità del danno viene stabilita dal giudice con criteri oggettivi desunti dalle valutazioni proprie dell’ordinamento giuridico-penale; 3) è necessario, inoltre, che la situazione di pericolo non sia causata volontariamente dall’agente; 4) si esige, infine, che il soggetto non abbia un particolare dovere di esporsi al pericolo. Per tal modo non potranno essere esentati da pena, ad es, il capitano della nave o il vigile del fuoco, i quali, rispettivamente in un naufragio o in un incendio, per salvarsi abbiano sacrificato la vita di una persona. Del pari il medico ufficiale sanitario che si rifiuti di apprestare le sue cure ad un infermo per timore di contagiarsi, non potrà sottrarsi alla sanzione. Requisiti dell’azione lesiva: 1) il fatto commesso deve essere assolutamente necessario per salvarsi. Il codice esprime questo concetto dicendo che il pericolo non deve essere altrimenti evitabile. Si esige, quindi, non una semplice necessità, ma una necessità cogente, una vera e propria inevitabilità, il che significa che non deve essere in alcun modo possibile schivare il pericolo con altri fatti. 2) Occorre, inoltre, che l’azione lesiva sia proporzionata al pericolo. Il danno recato, quindi, potrà essere minore, ma mai maggiore di quello minacciato. L’art. 54 all’ultimo comma stabilisce:” La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo”. L’ipotesi configurata in questa disposizione va sotto il nome di costringimento psichico. Esso si verifica allorché un individuo è indotto da un altro a compiere o ad omettere una data azione sotto l’impulso di una minaccia. Dalla norma in esame si desume che la minaccia deve creare in lui un vero stato di necessità: bisogna che ricorrano i requisiti di questa causa di giustificazione, cioè il pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo non volontariamente causato né altrimenti evitabile, e la proporzione tra il fatto commesso e il pericolo minacciato. Verificandosi queste condizioni, del fatto posto in essere non risponde il coartato, ma la persona che ha esercitato la minaccia. Cause di giustificazione non codificate Abbiamo visto che nel nostro ordinamento giuridico l’applicazione del procedimento analogico è vietata solo per le norme penali in senso stretto, cioè per le disposizioni che prevedono i singoli reati e stabiliscono le relative pene oppure in altro modo limitano i diritti dell’individuo. Le cause di giustificazione più notevoli, che si desumono applicando il procedimento analogico e che, per non essere previste dalla legge, possono dirsi non codificate, sono le seguenti: informazioni commerciali, quando tali informazioni vengono fornite dietro richiesta a più persone e per il contenuto sono offensive per l’altrui reputazione, formalmente ricorrerebbero gli estremi del reato previsto dell’art. 595 c.p. (diffamazione), il fatto, tuttavia, non è punibile; trattamento medico-chirurgico: l’attività sanitaria, e particolarmente quella chirurgica diretta a guarire o circoscrivere gli effetti di una malattia, dà luogo a controversie in ordine alla liceità della stessa. A nostro parere, il fondamento della liceità deve ravvisarsi nel fatto che l’attività medico-chirurgica corrisponde ad un alto interesse sociale: la cura degli infermi, interesse che lo Stato riconosce, autorizzando, disciplinando e favorendo l’attività medesima; attività sportiva: nell’esercizio degli sports violenti che importano l’applicazione di forza muscolare contro le persone (pugilato), si verificano con grande frequenza, dei fatti che di per se costituiscono reato. Può anche derivarne la morte di uno dei competitori. Allorché l’esito dannoso si verifica a causa della violazione delle regole del gioco, la responsabilità penale sussiste senza ombra di dubbio. Qualora, invece, le regole di gioco siano state osservate, secondo l’opinione prevalente il fatto non può considerarsi illecito e quindi non è punibile. In conclusione, le cause di giustificazione di cui ora abbiamo parlato, consentono di affermare il principio generale che l’esercizio di un’attività autorizzata dallo Stato perché rispondente all’interesse della comunità sociale, importa l’impunità dei fatti lesivi o pericolosi che eventualmente ne derivano, quando tutte le regole che disciplinano l’attività medesima siano osservate. Eccesso ed errore nelle cause di giustificazione Nelle situazioni che danno origine alle cause di liceità può verificarsi da parte del soggetto un eccesso o un errore. L’eccesso si ha quando esistono i presupposti delle cause di giustificazione: un diritto, un dovere, un’aggressione ingiusta o una situazione di necessità, ma vengono oltrepassati i limiti stabiliti. Esempio: alcuni agenti della forza pubblica, mentre hanno avuto l’ordine di sparare in alto per fare sgomberare una piazza, presi dal panico sparano contro la folla. L’eccesso nelle cause di giustificazione è regolato dall’art. 55 c.p. L’errore, invece, si verifica allorché le condizioni di fatto che danno luogo alle cause di giustificazione non esistono, ma per equivoco sono ritenute esistenti: come nel caso di colui che creda erroneamente di vantare un diritto che invece non possiede. Tale concetto è contenuto nell’ultimo co. dell’art. 59.
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