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Caratteri fondamentali e maggiori esponenti dei movimenti artistici dal Neoclassicismo all'Astrattismo, Sintesi del corso di Arte

.... con descrizione delle relative opere

Tipologia: Sintesi del corso

2013/2014

In vendita dal 06/11/2014

fuji20095
fuji20095 🇮🇹

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Scarica Caratteri fondamentali e maggiori esponenti dei movimenti artistici dal Neoclassicismo all'Astrattismo e più Sintesi del corso in PDF di Arte solo su Docsity! NEOCLASSICISMO -Caratteri fondamentali La vicenda del neoclassicismo inizia alla metà del XVIII secolo (1750), per concludersi con la fine dell’impero napoleonico nel 1815. Ciò che contraddistinse lo stile artistico di quegli anni fu l’adesione ai principi dell’arte classica. Quei principi di armonia, equilibrio, compostezza, proporzione, serenità, che erano presenti nell’arte degli antichi greci e degli antichi romani che, proprio in questo periodo, fu riscoperta e ristudiata con maggior attenzione ed interesse grazie alle numerose scoperte archeologiche. I caratteri principali del neoclassicismo sono diversi: 1. esprime il rifiuto dell’arte barocca e della sua eccessiva irregolarità; 2. fu un movimento teorico, grazie soprattutto al Winckelmann che teorizzò il ritorno al principio classico del «bello ideale»; 3. fu una riscoperta dei valori etici della romanità, e ciò soprattutto in David e negli intellettuali della Rivoluzione Francese; 4. fu l’immagine del potere imperiale di Napoleone che ai segni della romanità affidava la consacrazione dei suoi successi politico-militari; 5. fu un vasto movimento di gusto che finì per riempire con i suoi segni anche gli oggetti d’uso e d’arredamento. I principali protagonisti del neoclassicismo furono il pittore Anton Raphael Mengs (1728-1779), lo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), che furono anche i teorici del neoclassicismo, gli scultori Antonio Canova (1757-1822) e Bertel Thorvaldsen (1770-1844), il pittore francese Jacques-Louis David (1748-1825), i pittori italiani Andrea Appiani (1754-1817) e Vincenzo Camuccini (1771-1844). Winckelmann, Mengs, Canova, Thorvaldsen, operarono tutti a Roma, che divenne, nella seconda metà del Settecento, la capitale incontrastata del neoclassicismo, il baricentro dal quale questo nuovo gusto si irradiò per tutta Europa. A Roma, nello stesso periodo, operava un altro originale artista italiano, Giovan Battista Piranesi che, con le sue incisioni a stampa, diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane. L’Italia nel Settecento fu la destinazione obbligata di quel «Grand Tour» che rappresentava, per la nobiltà e gli intellettuali europei, una fondamentale esperienza di formazione del gusto e dell’estetica artistica. Roma, in particolare, ove si stabilirono scuole ed accademie di tutta Europa, divenne la città dove avveniva l’educazione artistica di intere generazioni di pittori e scultori. Tra questi vi fu anche il David che rappresentò il pittore più ortodosso del nuovo gusto neoclassico. Con l’opera del David il neoclassicismo divenne lo stile della Rivoluzione Francese ed ancor più divenne, in seguito, lo stile ufficiale dell’impero di Napoleone. E dalla fine del Settecento la nuova capitale del neoclassicismo non fu più Roma, ma Parigi. Il neoclassicismo tende a scomparire subito dopo il 1815 con la sconfitta di Napoleone. Nei decenni successivi venne progressivamente sostituito dal Romanticismo che, al 1830, ha definitivamente soppiantato il neoclassicismo. Tuttavia, pur se non rappresenta più l’immagine di un’epoca, il neoclassicismo di fatto sopravvisse, come fatto stilistico, per quasi tutto l’Ottocento, soprattutto nella produzione aulica dell’arte ufficiale e di stato e nelle Accademie di Belle Arti. E questa sopravvivenza stilistica, oltre ai consueti limiti cronologici, è riscontrabile soprattutto nella produzione di un artista come Ingres, la cui opera si è sempre attenuta ai canoni estetici della grazia e della perfezione, capisaldi di qualsiasi classicismo. -Jacques-Louis David- Jacques-Louis David (1748-1825), dopo un apprendistato presso il pittore tardo-rococò Vien, si recò a Roma nel 1775 avendo vinto il Prix de Rome. Il Prix de Rome era una borsa di studio che l’Accademia di Francia assegnava ai giovani artisti più promettenti per consentire loro un periodo di soggiorno e di studio nella città eterna. Il David si trattenne a Roma fino al 1780. Qui ebbe modo sia di conoscere le teorie artistiche del Winckelmann, sia di studiare l’arte antica e rinascimentale. Predilesse le pitture di storia, utilizzando episodi classici da proporre come «esempi di virtù» al mondo contemporaneo. Infatti il suo fu un neoclassicismo di grossi contenuti etici e virili che egli opponeva alle mollezze ed effeminatezze del mondo rococò. In un suo secondo soggiorno romano, nel 1784, dipinse «Il giuramento degli Orazi» che gli diede notevoli successi. Per le sue idee e temperamento partecipò attivamente alla Rivoluzione Francese e al periodo napoleonico, producendo sempre quadri storici (anche quando raffiguravano eventi a lui coevi) ma dai contenuti di stringente appello civile. Quadri come «Il giuramento della pallacorda» (1790-91), rimasto incompiuto, la «Morte di Marat» (1793), «Il ratto delle Sabine» (1799), «Napoleone che valica il San Bernardo» (1800), «Incoronazione di Napoleone» (1805-07). Dopo la Restaurazione, David concluse la sua vita a Bruxelles dedicandosi alla pittura di soggetti mitologici, allineandosi a quel gusto di accademismo neoclassico che proseguì per tutto l’Ottocento, ma che nella storia classica e nella mitologia non cercava più alcuna finalità etica. [Il giuramento degli Orazi] Il giuramento degli Orazi è di certo il quadro neoclassico più famoso e quello che meglio sintetizza le nuove concezioni artistiche di David. L’immagine è costruita con perfetto equilibrio, con linee nette e colori freddi. La scena è collocata in un ambiente di severa e spartana solidità. L’ambiente è raffigurato secondo i principi della prospettiva centrale. Ciò dà un senso di equilibrio orizzontale che accentua la solennità del momento rappresentato. Il quadro si divide idealmente in tre riquadri distinti, segnati dai tre archi a tutto sesto dello sfondo. Nel primo riquadro ci sono i tre fratelli Orazi. Sono visti di scorcio così che sembrano quasi formare un corpo solo. Hanno le gambe leggermente divaricate in avanti, il braccio proteso. I loro lineamenti sono tesi, le espressioni sono concentrate: esprimono tutta la determinazione che li porta a sacrificare la loro vita per la patria. Al centro, nel secondo riquadro, c’è il padre. Ha un aspetto solenne. Ha in mano le tre spade che sta per consegnare ai figli dopo aver raccolto il loro giuramento. L’altra mano è sollevata in alto, a simboleggiare la superiorità del principio per il quale vanno a combattere: la difesa della patria e delle loro famiglie. Nel terzo riquadro ci sono le moglie degli Orazi con due figli. Sono accasciate ed addolorate anche se non compiono gesti di teatrale disperazione. Non piangono neppure. La loro sofferenza è intensa ma composta. Sopportata con grande dignità, perché comprendono la necessità del sacrificio dei loro uomini. Il soggetto storico è qui utilizzato con un unico contenuto: l’esaltazione dell’eroismo. Eroi sono coloro che volontariamente scelgono di mettere a rischio la propria vita per il bene comune dei propri familiari e della propria terra. L’eroe, in questo quadro, ha caratteri di intensa virilità che contrastano con i molli caratteri dei tanti damerini che affollavano la società aristocratica del Settecento. Ma non è un attributo solo degli uomini. Eroiche sono anche le donne che devono pagare il prezzo del dolore. La differenza psicologica dei personaggi viene resa in forme visibile dalle loro pose: diritte e tese le linee che formano gli uomini, curve e sinuose le linee che disegnano le donne. Rispetto alla pittura rococò, che cercava la sensualità della visione con colori tonali, luci calde e ombre accoglienti, la pittura di David si mostra al contrario fortemente idealizzata. La luce che illumina la scena è netta e tagliente, le forme sono disegnate con grossa precisione, il rilievo dei corpi è affidato al più classico del trattamento chiaroscurale. Nulla deve essere seducente per l’occhio o i sensi. L’immagine deve invece colpire la coscienza dell’osservatore. Non deve offrirgli consolanti sensazioni estetiche ma deve smuovergli il cuore. Deve richiamarlo a valori forti. Valori come l’eroismo. Valori tanto necessari in una fase storica come questa in cui la società francese si prepara a quella rivoluzione destinata a cambiare il corso della storia europea. Il richiamo all’eroismo è il grande contenuto di questo quadro. Un contenuto etico. Un contenuto forte. E, per far ciò, il David abbandona del tutto quella sensazione di attimo fuggente che caratterizza tutta la pittura del Settecento rococò. Egli sceglie di rappresentare la vicenda secondo la tecnica del momento pregnante. Il momento eterno. Quel momento in cui la coscienza cambia per sempre per una scelta che non può più farci tornare indietro. Quel momento da consegnare per sempre alla storia. Il quadro di David fu realizzato a Roma e poi trasportato a Parigi. Il successo che ebbe fu immenso e decretò la fama di David. La data della sua esecuzione, a soli quattro anni dallo scoppio della Rivoluzione Francese, fanno sì che questo quadro ben rappresenti il clima prerivoluzionario della Francia. Un clima in cui, anche grazie ai quadri di David, si avvertiva la necessità di un ritorno ai valori etici forti che avrebbero consentito ai francesi il sacrificio di tante vite umane pur di affermare i nuovi valori di libertà, uguaglianza e fraternità. Il David ha utilizzato la storia classica per altri quadri simili a questo. Ricordiamo «Belisario riconosciuto» (1781), «Il dolore di Andromaca», «Le Termopili», «I Littori portano a Bruto i corpi dei suoi figli» (1789), e «Il Ratto delle Sabine» (1799). Ma in nessuno di questi quadri David riesce a raggiungere un uguale livello di comunicatività e di sintesi tra contenuto e forma. Nelle sue altre opere di soggetto storico si avverte un’ispirazione più di maniera ed una eccessiva teatralità scenica che stemperano l’emozione che l’immagine vuole trasmettere. [La morte di Marat] Se il giuramento degli Orazi è di certo il quadro neoclassico per eccellenza, la morte di Marat è il quadro che più di ogni altro dà immagine al dramma della Rivoluzione Francese. Anche qui il contenuto del quadro è l’eroismo, ma nel doloroso prezzo che tale scelta impone: il sacrificio della propria vita. La Rivoluzione Francese era scoppiata nel 1789. Dopo la deposizione della monarchia si ebbe in Francia un periodo di grossa instabilità politica, caratterizzata da un periodo violento e sanguinoso. Tra i protagonisti di questa cruenta fase della Rivoluzione, che culminò con la condanna e l’esecuzione del re Luigi XVI, ci fu anche Jean-Paul Marat. L’uomo politico fu assassinato nel 1793 da Carlotta Corday. Marat, che soffriva di dolori reumatici, trascorreva la maggior parte del suo tempo immerso in una vasca con l’acqua calda. Carlotta Corday lo sorprese mentre era nella vasca, e lo pugnalò con un coltello. David, che era amico di Marat, ricordò la sua morte con un quadro che divenne immediatamente famoso. L’artista voleva esaltare le virtù eroiche di Marat e, nel contempo, rendere emozionante e densa di significato la sua morte. Scelse così, come «momento pregnante», non il momento in cui venne assassinato, ma il momento successivo in cui il corpo inanimato ci mostra tutta la cruda realtà della morte. Marat è solo. Il quadro nella parte superiore è completamente vuoto e scuro. Nella parte inferiore ci mostra il corpo in tutta la solitudine e il silenzio della morte. Tutta la composizione è giocata su pochissimi elementi rappresentanti con linee orizzontali e verticali. Marat, nel momento in cui fu assassinato, stava rispondendo ad una donna che gli aveva scritto perché era in difficoltà finanziarie. Marat, pur non essendo ricco, le stava inviando un assegno che si intravede sul piccolo tavolino affianco al calamaio. Il coltello, usato dalla donna, è a terra sporco di sangue. Marat ha ancora in una mano la lettera e nell’altra la penna per scrivere. Questo braccio, che ricorda il braccio del Cristo nel quadro della Deposizione di Caravaggio, è abbandonato a terra, creando l’unica linea diagonale della scena. La testa, appoggiata sul bordo della vasca, è reclinata così da mostrarci il viso di Marat. Tutto il quadro ispira un silenzio che non può essere rotto in alcun modo. Esso rimane come la testimonianza più lucida e commovente di quel periodo del Terrore che avrebbe portato al sacrificio di tante vite umane. -Antonio Canova- Antonio Canova (1757-1822), è il maggior artista italiano ad aver partecipato alla vicenda del neoclassicismo ed è anche l’ultimo grande artista italiano di livello europeo. Dopo di lui, per tutto il corso del XIX secolo, l’Italia ha svolto un ruolo molto marginale e periferico nell’ambito della formulazione delle nuove teorie e pratiche artistiche. Formatosi in ambiente veneziano, le sue prime opere rivelano la influenza dello scultore barocco del Seicento Gian Lorenzo Bernini. Trasferitosi a Roma, partecipò al clima cosmopolita della capitale in cui si incontravano i maggiori protagonisti dell’arte neoclassica. A Roma svolse la maggior parte della sua attività, raggiungendo una fama immensa. Fu anche pittore, ma produsse opere di livello decisamente inferiore rispetto alle sue opere scultoree. Nelle sue sculture Canova, più di ogni altro, fece rivivere la bellezza delle antiche statue greche secondo i canoni che insegnava Winckelmann: «la nobile semplicità e la quieta grandezza». Le sculture di Canova sono realizzate in marmo bianco e con un modellato armonioso ed estremamente levigato. Si presentano come oggetti puri ed incontaminati secondo i principi del classicismo più puro: oggetti di una bellezza ideale, universale ed eterna. I soggetti delle sue sculture si dividono in due tipologie principali: le allegorie mitologiche e i monumenti funebri. Al primo gruppo appartengono: «Teseo sul Minotauro», «Amore e Psiche», «Ercole e Lica», «Le tre Grazie»; al secondo gruppo appartengono i monumenti funebri a Clemente XIV, a Clemente XIII, a Maria Cristina d’Austria. Nei monumenti di soggetto mitologico i riferimenti alle sculture greche classiche è scoperto ed immediato: le anatomie sono perfette, i gesti misurati, le psicologie sono assenti o silenziose, le composizioni molto equilibrate e statiche. Il momento scelto per la rappresentazione è quello classico del «momento pregnante», evidente ad esempio nel gruppo di «Teseo sul Minotauro». Canova, invece di rappresentare la lotta tra Teseo e l’essere metà uomo e metà toro, sceglie di rappresentare il momento in cui Teseo, dopo aver sconfitto il Minotauro, ha scaricato tutte le sue energie offensive per lasciar posto ad un vago senso di pietà per l’avversario ucciso. È un momento di quiete assoluta in cui il tempo si congela per sempre. È quello il momento in cui la storia diventa mito universale ed eterno. Nei monumenti funebri Canova parte dallo schema classico a tre piani sovrapposti. Nei monumenti dei due papa Clemente XIII e XIV al primo livello ci sono le immagini allegoriche che rappresentano il senso della morte; al secondo livello vi è il sarcofago; al terzo livello vi è la figura del papa. Questo schema, che dal Trecento aveva caratterizzato tutta la produzione di monumenti funebri, venne dal Canova variata con il monumento a Maria Cristina d’Austria – in esso un corteo funebre si accinge a varcare la soglia dell’oltretomba raffigurata come una piramide – e nei monumenti a stele in cui è evidente il ricordo delle tante stele funerarie provenienti dall’antica Roma. I monumenti funerari rappresentano un tema molto sentito dagli artisti neoclassici. Da ricordare che, negli stessi anni, l’importanza dei «sepolcri» veniva affermata anche dal poeta Ugo Foscolo. Per il Foscolo il sepolcro doveva conservarci la memoria dei grandi personaggi della storia esaltandone il valore quali esempi di virtù. La morte, che nella precedente stagione barocca veniva visto come qualcosa di orrido e di macabro, dall’arte neoclassica era vista come il «momento pregnante» per eccellenza. Il momento in cui si scaricano tutte le contingenze terrene per entrare nel silenzio assoluto ed eterno. Il Canova nel periodo napoleonico divenne il ritrattista ufficiale di Napoleone producendo per l’imperatore diversi ritratti, tra cui quello in bronzo, ora collocato a Brera, che fu rifiutato dall’imperatore perché Canova lo aveva ritratto nudo. Tra i ritratti eseguiti per la famiglia imperiale famoso rimane quello di Paolina Borghese semidistesa su un triclino, seminuda e con una mela in mano, secondo una iconografia di chiara derivazione tizianesca, pur se caricata di significati mitologici. Oltre all’attività di scultore, Canova fu anche impegnato nella tutela e valorizzazione del patrimonio artistico. Nel 1802 ebbe l’incarico di Ispettore Generale delle Antichità e Belle Arti dello Stato della Chiesa. Nel 1815, dopo la caduta di Napoleone, ottenne di riportare in Italia le tante opere d’arte che l’imperatore aveva trasportato illegalmente in Francia. Morto nel 1822, il suo sepolcro è a Possagno, il paesino in provincia di Treviso dove era nato, e dove egli, a sue spese, fece erigere un tempio dove nel 1830 furono traslate le sue spoglie. [Monumento a Maria Cristina d’Austria] Il monumento funerario a Maria Cristina d’Austria rappresenta una grossa novità nella tipologia dei monumenti funerari. Il monumento funebre ha sempre avuto come centro compositivo il sarcofago o l’urna in cui materialmente venivano conservare le spoglie del defunto. Al di sopra dell’urna veniva collocata l’effige statuaria del defunto; di sotto o di fianco venivano poste immagini allegoriche sul significato della morte. Nel monumento a Maria Cristina d’Austria l’urna scompare per essere sostituita dalla immagine triangolare di una piramide. L’effigie statuaria viene sostituita da un ritratto di profilo a bassorilievo, inserito in un medaglione di chiara derivazione classica. Notevole importanza assumono le figure allegoriche che, nella intenzione dell’artista, non sono puri e semplici simboli ma devono commuovere per l’azione in divenire che stanno rappresentando. In questo caso, infatti, le figure compongono un singolare corteo funebre che si accinge a salire i gradini che portano alla porta della piramide. Da questa porta fuoriesce un tappeto che scorre sui gradini come un velo leggero e impalpabile. Il corteo è aperto da una giovane ragazza che ha già un piede oltre la soglia della tomba. È seguita da una donna che rappresenta la Pietà con in mano l’urna delle ceneri della defunta. Un’altra ragazzina la sta seguendo. Più indietro un’altra giovane donna avanza, aiutando un vecchio uomo a salire le scale. Sono rappresentate tutte le tre età della vita, dalla gioventù alla vecchiaia, a simboleggiare che la Morte non risparmia nessuno. Le figure procedono con incedere lento e mesto. Hanno tutti la testa chinata in avanti, a simboleggiare che nei confronti della Morte la superbia umana non può nulla. Di fianco la porta della piramide, che quindi simboleggia la porta di passaggio dal mondo terreno al mondo dei morti, c’è l’allegoria del Genio della Morte poggiato sul Leone della Fortezza. In alto, il medaglione con il ritratto di Maria Cristina d’Austria è circondato da un Sull'opera: "Il 3 maggio 1808: Fucilazione alla Montana del principe Pio" è un dipinto autografo di Francisco Goya realizzato con tecnica ad olio su tela nel 1814 , misura 266 x 345 cm. ed è custodito nel Museo del Prado a Madrid. Si sa con certezza che la zona dove avvenivano le fucilazioni degli insorti da parte delle milizie francesi era chiamata Monoica. Nel 1936, nel periodo dello sfollamento, l'opera fu sfregiata con sei tagli, che fortunatamente non riuscirono a compromettere superficie dipinta. ROMANTICISMO – Caratteri generali e differenze con il neoclassicismo Il romanticismo è un movimento artistico dai contorni meno definiti rispetto al neoclassicismo. Benché si affermi in Europa dopo che il neoclassicismo ha esaurito la sua vitalità, ossia intorno al 1830, in realtà era nato molto prima. Le prime tematiche che lo preannunciavano sorsero già verso la metà del XVIII secolo. Esse, tuttavia, rimasero in incubazione durante tutto lo sviluppo del neoclassicismo, per riapparire e consolidarsi solo nei primi decenni dell’Ottocento. Il romanticismo ha poi cominciato ad affievolirsi verso la metà del XIX secolo, anche se alcune sue suggestioni e propaggini giungono fino alla fine del secolo. Il romanticismo è un movimento che si definisce bene proprio confrontandolo con il neoclassicismo. In sostanza, mentre il neoclassicismo dà importanza alla razionalità umana, il romanticismo rivaluta la sfera del sentimento, della passione ed anche della irrazionalità. Il neoclassicismo è profondamente laico e persino ateo; per contro il romanticismo è un movimento di grandi suggestioni religiose. Il neoclassicismo aveva preso come riferimento la storia classica; il romanticismo, invece, guarda alla storia del medioevo, rivalutando questo periodo che, fino ad allora, era stato considerato buio e barbarico. Infine, mentre il neoclassicismo impostava la pratica artistica sulle regole e sul metodo, il romanticismo rivalutava l’ispirazione ed il genio individuale. È da considerare, inoltre che, mentre il neoclassicismo è uno stile internazionale, ed in ciò rifiuta le espressioni locali considerandole folkloristiche, ossia di livello inferiore, il romanticismo si presenta con caratteristiche differenziate da nazione a nazione. Così, di fatto, risultano differenti il romanticismo inglese da quello francese, o il romanticismo italiano da quello tedesco, e così via. Il romanticismo, in realtà, a differenza del neoclassicismo, non è uno stile, in quanto non si fonda su dei principi formali definiti. Esso può essere invece considerato una poetica, in quanto, più che alla omogeneità stilistica, tende alla omogeneità dei contenuti. Questi contenuti della poetica romantica sono sintetizzabili in quattro grandi categorie: -l’armonia dell’uomo nella natura -il sentimento della religione -la rivalutazione dei caratteri nazionali dei popoli -il riferimento alle storie del medioevo. -Théodore Géricault- Théodore Gericault (1791-1824) svolse le sue prime esperienze pittoriche nell’ambiente neoclassico francese che in quegli anni era influenzato dalle figure di David e Ingres. Dopo un periodo di soggiorno a Roma, dove ebbe modo di studiare le opere di Michelangelo e di Caravaggio, fece ritorno a Parigi, nel 1817, dove conobbe Delacroix. In quegli anni realizzò il suo quadro più famoso: «La zattera della Medusa», che fu esposto nel Salone d’Autunno del 1819 ricevendo aspre critiche. Negli anni successivi, il suo interesse per un naturalismo nudo e crudo lo portò a prediligere temi dal gusto macabro, quali le teste dei decapitati o i ritratti di pazzi e alienati mentali rinchiusi nei manicomi. Di carattere molto introverso, Gericault rappresenta già il prototipo del successivo artista romantico: amorale e asociale, disperato e maledetto, che alimenta il proprio genio di eccessi e trasgressioni. Il gusto per l’orrido e il rifiuto della bellezza dà immediatamente il senso della sua poetica: un’arte che non vuole essere facile e consolatoria ma che deve scuotere i sentimenti più profondi dell’animo umano, proponendogli immagini raccapriccianti. La sua vita si concluse nel 1824, a soli 33 anni. La sua eredità, in campo figurativo, fu presa soprattutto dall’amico Eugene Delacroix. [La zattera della Medusa] Il quadro di Gericault, la zattera della Medusa, prende spunto, nel suo soggetto, da un fatto di cronaca successo nel 1816: l’affondamento della nave francese Medusa. Gli occupanti della nave si rifugiarono su una zattera che rimase abbandonata alle onde del mare per diverse settimane. Gli sfortunati occupanti di quella zattera vissero una esperienza terribile che condusse alla morte la gran parte di loro. Solo una quindicina di uomini furono tratti in salvo da una nave di passaggio, dopo che su quella zattera era avvenuto di tutto, anche fenomeni di cannibalismo. L’episodio colpì molto l’immaginazione di Gericault che, immediatamente, si mise al lavoro per la realizzazione di questa che rimane la sua opera più famosa. Bisogna ricordare il periodo storico in cui è nata questa tela. La Francia era appena uscita da una esperienza storica che l’aveva profondamente segnata: prima la Rivoluzione e poi l’impero napoleonico. Napoleone, nel 1815, a Waterloo era stato definitivamente sconfitto e confinato nell’isola di Sant’Elena. Nel 1816, con il Congresso di Vienna, gli stati europei avevano ripristinato la situazione geo-politica antecedente la Rivoluzione Francese. Tutto ciò che era successo con questa esperienza francese sembrava definitivamente cancellato con un colpo di spugna. Lo stato d’animo dei francesi, in quegli anni, era soprattutto di sconforto e di delusione. Sentimenti originati dalla constatazione che ciò che essi avevano fatto non era servito a nulla. Il senso di disagio e di deriva finiva per rispecchiarsi direttamente in un quadro che rappresentava appunto un naufragio. Così, volutamente o casualmente, la zattera della Medusa divenne la metafora di un naufragio che, simbolicamente, vedeva coinvolta tutta la nazione francese. Se «Il giuramento degli Orazi» di David rappresenta la Francia prima della Rivoluzione, «La zattera della Medusa» dà l’immagine psicologica della Francia dopo che la Rivoluzione si è conclusa con il fallimento dell’impero. Il quadro di Gericault, dunque, usa un episodio di cronaca quotidiana per esprimere un contenuto preciso: la vita umana in bilico tra speranza e disperazione. Formalmente il quadro è costruito secondo il classico sviluppo piramidale. Nel quadro di Gericault le piramidi sono in realtà due ed esprimono due direzioni che si incrociano tra loro opponendosi. La prima piramide parte dall’uomo morto in basso a sinistra ed ha il vertice nell’uomo che, di spalle, sta agitando un panno. È la direzione umana cha va dalla disperazione, di coloro che sono morti, alla speranza di chi ha ancora la forza di agitarsi con la speranza di essere visto da qualcuno che vada a salvarli. La seconda piramide parte dalle onde del mare per giungere all’albero che sorregge la vela. Questa è la direzione del mare che spinge in direzione opposta rispetto alla direzione delle speranze umane. È proprio la tensione visibile tra queste due forze opposte a dare un primo tratto drammatico alla scena. Nei primi studi, preliminari alla realizzazione finale del quadro, Gericault mise una nave all’orizzonte nella direzione in cui guarda l’uomo che agita il panno. La presenza della nave all’orizzonte dava in realtà la sensazione del lieto fine. La sensazione che oramai, per i sopravvissuti, la brutta avventura stava per volgere all’epilogo. Ciò comportava lo scioglimento della tensione psicologica. Nella stesura definitiva la nave all’orizzonte scompare, proprio per aumentare il senso del pathos. Chi guarda non sa come la vicenda andrà a finire e quindi deve cogliere la sensazione drammatica di chi ancora non sa se verrà salvato o meno. E lo spettatore non può saperlo, anche perché vede lo stesso orizzonte che guarda l’uomo che agita il panno. Se la composizione fosse stata ruotata di 180 gradi, e l’uomo guardava verso lo spettatore del quadro, avrebbe idealmente chiesto a lui aiuto. In questo caso si sarebbe aumentato il senso di pietà da parte dello spettatore nei confronti di chi, dal quadro, gli chiedeva aiuto. Invece, vedendo l’uomo di spalle, è costretto a compenetrarsi nel suo punto di vista. E all’orizzonte di quel punto di vista lo spettatore non vede, e non potrebbe vedere, nulla. Così che deve vivere totalmente il dubbio dell’uomo che non sa quale sarà il finale, la morte o la salvezza, che lo aspetta. In quest’opera, di altissima tensione drammatica, Gericault usa più riferimenti alla storia dell’arte. L’atmosfera e i contrasti luministici rimandano inevitabilmente a Caravaggio. Anche il braccio abbandonato nell’acqua, dell’uomo morto in basso a sinistra, è copiato da Caravaggio. Lo stesso braccio che copiò David nella «Morte di Marat». Le figure hanno una tensione muscolare, e una torsione, che rimandano immediatamente a Michelangelo. Le figure in basso a sinistra, del ragazzo morto e del padre che lo sorregge pensoso, sembrano due statue greche. Da notare il particolare del ragazzo che, benché nudo, ha le calze arrotolate ai piedi. Questo particolare, di crudo realismo, sgombera il campo da qualsiasi lettura mitologica o idealizzata. Quelle calze, così comuni e banali, danno il senso tragico della umanità violata, ossia della morte vera che spegne le persone vere in carne ed ossa. -Eugene Delacroix- Eugène Delacroix (1798-1863) è il pittore che più di ogni altro ha interpretato il romanticismo in Francia. Dopo una formazione giovanile presso il pittore neoclassico Guerin, entrò in contatto con Gericault per il quale posò nella «Zattera della Medusa». Suggestionato dalla pittura di Michelangelo e di Rubens, sviluppò la sua pittura in due direzioni fondamentali: il colore espressivo, sul versante formale, ed i soggetti esotici, sul versante poetico. Partecipò per la prima volta al Salone d’Autunno nel 1822 con il quadro «La barca di Dante» che mostra una diretta connessione con le suggestioni letterarie del romanticismo. Di due anni dopo è la tela «Il Massacro di Scio» che illustra un episodio della guerra di liberazione dei greci dai turchi. Il crudo realismo e la singolare forza espressiva testimoniano che Delacroix si pone come artista impegnato sui problemi del suo tempo. Ma il quadro che più rappresenta questo suo aspetto è la tela «La Libertà che guida il popolo» del 1830. Delacroix si schiera apertamente dal lato degli oppressi che insorgono per rivendicare una nuova importanza sociale e politica. Dopo questo periodo, anche per via di suoi viaggi in Marocco e in Spagna, la pittura di Delacroix si porta su soggetti sempre più esotici, quali «Le donne di Algeri», per poi passare a soggetti più legati alla storia. L’importanza di Delacroix nella pittura francese dell’Ottocento è notevole soprattutto per gli sviluppi successivi. Egli, molto suggestionato dagli effetti cromatici dei quadri dell’inglese Constable, inizia a sperimentare quella divisione dei colori che sarà il motivo fondamentale di tutta la successiva esperienza impressionista e neo-impressionista. Benché usi una tavolozza di molteplici colori, sia puri sia smorti, la sua tecnica si basa sull’esaltazione cromatica data dall’accostamento di tinte e toni diversi secondo il principio del contrasto luministico. [La libertà che guida il popolo] Questa tela di Delacroix ha tanti riferimenti visivi e compositivi alla «Zattera della Medusa» che non si può parlare di questo quadro se prima non lo si confronta con la tela di Gericault. La composizione ha lo stesso sviluppo piramidale, però in questo caso il gruppo ha un orientamento ruotato di 180 gradi. Nella «Zattera» l’uomo che fa da vertice alla piramide guarda verso l’orizzonte interno al quadro, nella «Libertà che guida il popolo» il vertice della piramide, la donna con la bandiera, guarda verso lo spettatore. Questa rotazione ribalta completamente il senso del contenuto: nella «Zattera» il contenuto è pessimistico; nella «Libertà che guida il popolo» il contenuto è ottimista. Nel primo caso, infatti, la «Zattera» esprime il senso di sconforto che è la nota dominante della Francia nel 1818: una nazione che ha perso una rivoluzione ed un impero. Nel 1830 un’altra rivoluzione, meno cruenta, si è svolta: i parigini sono ritornati sulle barricate e ciò significa che hanno ritrovato fiducia in sé. Sono quindi ispirati da ottimismo. Nel quadro di Gericault lo spettatore è portato a guardare nella stessa direzione verso la quale guarda l’uomo che agita il panno. E, come lui, anche lo spettatore non vede nulla all’orizzonte. Il quadro, quindi, gioca sul dubbio per ispirare ansia ed angoscia. Nel caso della «Libertà che guida il popolo» la donna guarda verso lo spettatore. Conduce la sua marcia per coinvolgerlo nella sua azione. Il quadro ha quindi una funzione esortatrice tesa ad ispirare sentimenti di forza e di giusta ribellione. Da considerare inoltre che il quadro di Gericault usa questa rappresentazione così intensa e drammatica utilizzandola come metafora. Il naufragio della Medusa è la metafora del naufragio della Francia e delle idee rivoluzionarie di libertà, uguaglianza e fraternità. La «Libertà che guida il popolo» non è una metafora ma una allegoria. Usa cioè una immagine, quella della donna con la bandiera in mano, per visualizzare un sentimento. Vi è infine un particolare, che Delacroix usa quasi come citazione, per dichiarare apertamente la sua derivazione dall’opera di Gericault: nel suo quadro l’uomo ucciso in basso a sinistra ha le calze ai piedi. Lo stesso particolare che ritroviamo nel giovane morto della «Zattera». Da ricordare che Delacroix aveva posato per l’amico Gericault quando questi aveva realizzato la sua grande tela. L’uomo con la barba in basso a sinistra della zattera, con il braccio destra semi-immerso nell’acqua, è appunto Delacroix. Ricordiamo, infine, che il soggetto del quadro fu ispirato dalle reali vicende storiche che si svolsero in Francia in quegli anni. Dopo la caduta di Napoleone, con il Congresso di Vienna, la Francia venne restituita alla monarchia borbonica di Luigi XVIII che fu re dal 1816 al 1824. Nel 1824 gli successe Carlo X, la cui monarchia dal carattere assolutistico finì per suscitare nuovi sentimenti di ribellione. Egli, infatti, fu destituito nel 1830 con la rivoluzione di luglio. Ed è questo l’episodio che diede a Delacroix lo spunto per il suo quadro. Abbattuta la monarchia borbonica si instaurò in Francia una monarchia costituzionale che fu affidata a Luigi Filippo d’Orleans. Ciò, dunque, che contraddistingue il romanticismo francese di Gericault e Delacroix, è questa aderenza agli episodi della loro storia contemporanea, senza far ricorso a metafore storiche tratte dal medioevo. Questa tendenza tutta francese, di legare la pittura alla storia del presente e non del passato, è una costante che attraversa tutta l’arte dell’Ottocento francese, anche quando si affermò il realismo, l’impressionismo e il post impressionismo. -Camille Corot- e La Scuola di Barbizon Nasce a Parigi da una famiglia di commercianti. La sua formazione artistica inizia tardi, quando a 26 anni il padre lo affranca dal negozio; nel suo primo viaggio in Italia che mette a punto la sua indole paesaggista. Già era stato colpito dalla libertà di ispirazione di John Constable, che ebbe modo di ammirare al Salon del 1824. Durante il suo primo Gran Tour egli scrisse: “Ho un solo scopo nella vita: fare paesaggi”. Rientrato a Parigi, dovette assoggettarsi ad una produzione di compromesso, incentrata sul paesaggio storico e mitologico, allora tanto di moda. Dalla metà degli anni trenta, entrò in contatto con la Scuola di Barbizon, influenzandola. Anche quando, dopo il 1855, la sua fama aumentò, non perse mai il gusto per il girovagare. Il rapporto tra luce e natura, è alla base delle esperienze che maturano nell’ambito della cosiddetta Scuola di Barbizon. Non si tratta di nulla di accademico, quanto piuttosto di un gruppo di artisti, con affinità di ispirazione, si riuniscono nel villaggio di Barbizon, sul limitare della foresta di Fontainebleau. L’animatore del gruppo è il paesaggista Théodore Rosseau, considerato uno dei massimi pittori dell’ottocento. Egli parte dall’ammirazione per Constable, dal quale apprende l’uso di una pennellata libera e morbida. Deluso dagli esiti dei moti del 1830, si rifugia nella visione di una natura nostalgica, della quale approfondisce la resa dei fenomeni atmosferici. [La Cattedrale di Chartres] Gli stessi temi di sopra, qui sono arricchiti dalla presenza di un’architettura gotica, in linea con i gusti romantici del tempo. La composizione è misurata e controllatissima. Alle torri campanarie, si contrappongono gli alberi sulla destra, così come alla mole muraria fanno riscontro le due montagnole erbose e il cumulo di pietre. qualche originalità, Edgar Degas. Un posto separato lo occupano, tra la schiera dei pittori definiti impressionisti, Edouard Manet, che fu in realtà il precursore del movimento, e Paul Cézanne, la cui opera è quella che per prima supera l’impressionismo degli inizi. Date fondamentali per seguire lo sviluppo dell’impressionismo sono: • 1863: Edouard Manet espone «La colazione sull’erba»; • 1874: anno della prima mostra dei pittori impressionisti presso lo studio del fotografo Nadar; • 1886: anno dell’ottava e ultima mostra impressionista. L’impressionismo non nacque dal nulla. Esperienze fondamentali, per la sua nascita, sono da rintracciarsi nelle esperienze pittoriche della prima metà del secolo: soprattutto nella pittura di Delacroix e dei pittori inglesi Constable e Turner. Tuttavia, la profonda opzione per una pittura legata alla realtà sensibile portò gli impressionisti, e soprattutto il loro precursore Manet, a rimeditare tutta la pittura dei secoli precedenti che hanno esaltato il tonalismo coloristico: dai pittori veneziani del Cinquecento ai fiamminghi del Seicento, alla pittura degli spagnoli Velazquez e Goya. Punti fondamentali per seguire le specificità dell’impressionismo sono: • il problema della luce e del colore; • la pittura en plein air; • la esaltazione dell’attimo fuggente; • i soggetti urbani. -Edouard Manet- Édouard Manet (1832-1883), nato in una famiglia borghese, dopo gli studi classici si arruolò in Marina. Respinto agli esami, decise di iniziare la carriera artistica. Dal 1850 al 1856 studiò presso il pittore accademico Couture, pur non condividendone gli insegnamenti. Viaggiò molto in Italia, Olanda, Germania, Austria, studiando soprattutto i pittori che avevano scelto il linguaggio tonale quali Giorgione, Tiziano, gli olandesi del Seicento, Goya e Velazquez. Notevole influenza ebbe sulla definizione del suo stile anche la conoscenza delle stampe giapponesi. Nell’arte giapponese, infatti, il problema della simulazione tridimensionale viene quasi sempre ignorato, risolvendo la figurazione solo con la linea di contorno sul piano bidimensionale. Manet è stato un pittore poco incline alle posizioni avanguardistiche. Egli voleva giungere al rinnovamento della pittura operando all’interno delle istituzioni accademiche. E, per questo motivo, egli, pur essendo il primo dei pittori moderni, non espose mai con gli altri pittori impressionisti. Rimase sempre su posizione individuale e solitaria anche quando i suoi quadri non furono più accettati dalla giuria del Salon. Le sue prime opere non ebbero problemi ad essere accettate. La rottura con la critica avvenne solo dopo il 1863, quando Manet propose il quadro «La colazione sull’erba». In questa tela sono già evidenti i germi dell’impressionismo. Manet aveva abbandonato del tutto gli strumenti classici del chiaroscuro e della prospettiva per proporre un quadro realizzato con macchie di colori puri e stesi uniformemente. In esso, tuttavia, l’occhio riesce a cogliere una simulazione spaziale precisa se osservato ad una distanza non ravvicinata. Nello stesso anno realizzò l’«Olympia». Come «La colazione sull’erba», anche questo deriva da un soggetto tratto da Tiziano. Da questo momento, infatti, molte delle opere più famose di Manet derivano da soggetti di pittori del passato, quasi a rendere omaggio a quei pittori tonali a cui lui aveva sempre guardato. Ne «Il balcone» riprende un analogo soggetto dipinto da Goya. E sempre da Goya («La fucilazione dell’8 maggio 1808») deriva il suo «Esecuzione dell’imperatore Massimiliano». Da Velazquez («Las meninas») riprende le visioni riflesse che si ritrovano nel suo celeberrimo «Bar aux Folies Bergère». Tutti questi quadri sono la dimostrazione inequivocabile di come la pittura di Manet sia decisamente moderna, sul piano della visione, rispetto a quella del passato. Tuttavia, questo progresso non fu compreso proprio dal mondo accademico del tempo, al quale in realtà Manet si rivolgeva. Fu invece compreso da quei giovani pittori, gli impressionisti, anche loro denigrati e rifiutati dal mondo ufficiale dell’arte. Nei confronti degli impressionisti Manet ebbe sempre un atteggiamento distaccato. Partecipava alle loro discussioni, che si svolgevano soprattutto al Cafè Guerbois, e, in seguito, al Cafè della Nouvelle Athènes, ma non espose mai ad una mostra di pittura impressionista. Egli, tuttavia, non rimase impermeabile allo stile che egli stesso aveva contribuito a far nascere. Dal 1873 in poi, sono evidenti nei suoi quadri le influenze della pittura impressionista. Il tocco diviene più simile a quello di Monet, così come la scelta di soggetti urbani («Bar aux Folies Bergère») rientra appieno nella poetica dell’impressionismo. Egli, tuttavia, conserva sempre una maggior attenzione alla figura e continuerà sempre ad utilizzare il nero come colore, cosa che gli impressionisti non fecero mai. Tra tutti i pittori dell’Ottocento francese, Manet è quello che più ha creato una cesura con l’arte precedente. Dopo di lui la pittura non è stata più la stessa. E la sua importanza va ben al di là del suo contributo alla nascita dell’impressionismo. [La colazione sull’erba] Il quadro di Edouard Manet venne presentato al Salon del 1863. La giuria lo rifiutò. Proprio quell’anno gli artisti rifiutati al Salon furono ben 300. Napoleone III, per contenere le loro proteste, fece aprire un altro salone: il Salon dés Refusée. In esso venne esposto anche «La colazione sull’erba» di Manet. Ma, anche qui, le accoglienze del pubblico e della critica furono negative. Il quadro scandalizzava sia per il soggetto, sia per lo stile. In esso vi sono raffigurati, in primo piano, una donna completamente nuda che conversa con due uomini completamente vestiti. In secondo piano vi è una seconda donna che si sta bagnando in uno stagno. Non è il nudo della donna a scandalizzare, ma la sua rappresentazione troppo realistica in una situazione apparentemente quotidiana ma decisamente insolita. Ciò che in sostanza urta è che la nudità della donna rende volgare una conversazione tra normali borghesi. Il soggetto del quadro è una rilettura del «Concerto campestre» di Tiziano. Nel quadro del pittore veneziano le figure hanno un preciso significato allegorico. La donna nuda di spalle, con il flauto in mano, sta insegnando la musica ai due pastorelli innanzi a lei. L’altra sta versando dell’acqua in una vaschetta, per simboleggiare un rito di purificazione. Le due donne sono nude perché rappresentano due ninfe. Sono la natura, mentre i due uomini appartengono alla civiltà e perciò sono vestiti. Il significato allegorico dell’immagine sta in ciò: l’uomo civile riceve dalla natura il dono della musica, che rimane la più trascendentale tra le arti, solo dopo essersi purificato. Questo tipo di allegoria, carica di significati alchemici (l’acqua che purifica), andava molto di moda nel Cinquecento. Il soggetto aveva un significato nascosto ma ben individuabile da chi aveva la cultura per leggere una simile immagine. Nel caso di Manet il soggetto non ha un messaggio così preciso da comunicare. È solo un pretesto per evidenziare la modernità della sua pittura rispetto a quella del passato. Il contenuto del quadro di Manet è solo la novità tecnica della sua pittura. Ma ciò determinò un ulteriore sconcerto da parte del pubblico e della critica. La tecnica pittorica di Manet apparve decisamente poco elaborata e quasi rozza rispetto ai canoni della pittura accademica di quegli anni. Il suo quadro vuole cercare il più possibile la sensazione luminosa della visione dal vero, e per fare ciò Manet evita il più possibile la sintesi sottrattiva dei colori. Accosta solo colori puri, stesi senza alcuna diluizione o velatura per dar loro l’effetto chiaroscurale. Ad una visione ravvicinata il quadro si presenta come una somma di macchie. Acquista maggior suggestione, e senso di verità, solo ad una visione distanziata. Il pubblico del tempo non era, in realtà, abituata a considerare i quadri in questo modo. Per loro uno dei parametri per giudicare la bravura di un pittore era proprio la verifica a distanza ravvicinata che consentiva di apprezzare il livello di definizione e perfezione della stesura pittorica. Tutto ciò era negato nel quadro di Manet che, al contrario, a distanza ravvicinata rendeva manifesto come l’occhio riesce a percepire un’immagine anche tra colori che non definiscono una forma precisa. Fu questo che, in realtà, suscitò notevole entusiasmo tra i giovani pittori che presero insegnamento da Manet: la possibilità di usare i colori in totale libertà, svincolandosi dal problema di creare prima una forma e poi attribuirgli un colore. [Olympia] L’altra grande realizzazione di Manet, nel 1863, fu il quadro raffigurante Olympia. Anche questo è il rifacimento di un tema inventato da Giorgione e Tiziano, poi ripreso da Goya nella «Maja desnuda». Il quadro di Manet è realizzato con la stessa tecnica del contrasto cromatico e luministico, qui usato quasi con intento dimostrativo. «Olympia» è di maggior rottura che non la «Colazione sull’erba», anche per la voluta ambiguità dei passaggi tonali bianco su bianco e nero su nero che rendono difficile una immediata comprensione dell’immagine. La testa della serva e il gattino ai piedi della donna scompaiono quasi nella oscurità dello sfondo. Il bianco delle lenzuola viene rilevato con sovrapposizioni di pennellate grigie, mentre il corpo nudo della donna si presenta di un bianco uniforme, la cui piattezza è però compensata dalla ben calibrata posizione degli arti. È un esercizio di virtuosismo stilistico, in cui le piccole macchie di colore rosso e verde danno il punto di saturazione del tono luminoso in bilico tra il bianco-luce e il nero-oscurità. Anche questo quadro di Manet scandalizzò per il soggetto. Olympia, infatti, era una nota prostituta parigina che qui si mostra con una sfrontatezza decisamente volgare. Lo sguardo così diretto della donna, la sua posa, i particolari eccessivamente realistici, come le pantofole ai piedi, non permettono all’osservatore di trascendere la vera realtà di ciò che è rappresentato sul quadro. «La Venere di Urbino » di Tiziano – il quadro a cui direttamente si ispira Manet nel dipingere l’Olympia – aveva ben altro significato. Questo tipo di quadro nasceva come dono di nozze e l’immagine della donna nuda, oltre ad esaltare le qualità estetiche della futura moglie, serviva ad una nuova allegoria. La sensualità e la seduzione rappresentano sicuramente uno dei fascini maggiori del matrimonio. La scena in fondo a destra, ove si vede una nurse con una bambina, con il suo carattere familiare serve a ricordare che la seduzione femminile è un bene da consumarsi nelle coordinate del focolare domestico. La rosa che la donna ha in mano serve, invece, a ricordare che la bellezza fisica tende a sfiorire. Il cagnolino ai piedi, infine, indica l’attributo più richiesto ad una moglie: la fedeltà. Nel quadro di Manet viene tutto invertito. La nurse diviene una serva per altre funzioni. Il mazzo di rose è il chiaro segno di una richiesta galante di tipo non nunziale. Il cagnolino diviene qui un gattino che, nella stessa logica simbolica, è attributo demoniaco (il gatto, nelle mitologie antiche, veniva considerato il messaggero che le streghe utilizzavano per comunicare con il diavolo). Il quadro, esposto al Salon del 1865, subì la stessa sorte della «Colazione», ricevendo aspre e violente critiche. [Il bar alle Folies-Bergère] In questa che è l’ultima opera importante realizzata de Manet, assistiamo ad una adesione piena allo stile impressionista, stile che il pittore aveva contribuito a far nascere, ma dal quale aveva sempre mantenuto le distanze. Il soggetto raffigura l’interno del bar delle Folies-Bergère, locale alla moda di Parigi. Lo spazio di rappresentazione è molto ristretto, comprendente appena il piano del bancone, e lo spazio retrostante in cui è raffigurata la cameriera Suzon, personaggio reale che Manet rappresenta in diversi quadri. L’effetto di grande spazialità è dato dal grande specchio sulla parete di fronte nel quale si riflette lo spazio dilatato del locale. Questo effetto illusionistico di spazialità riflessa è probabilmente un omaggio al capolavoro di Velazquez «Les meninas» dove un analogo gioco di riflessi costruisce la spazialità completa del quadro. Manet si concede ulteriori libertà di rappresentazione, venendo meno per la prima volta alla unicità del punto di vista. Nel riflesso dello specchio vediamo infatti a destra, molto decentrati, il riflesso della donna di spalle e il riflesso di un uomo che le sta di fronte. Questa visione non è possibile dal punto di vista frontale, e ci attesta come Manet, nei suoi ultimi quadri è ormai al superamento definitivo delle leggi della prospettiva, superamento che negli anni successivi sarà anche sperimentazione di Cezanne. Benché Manet anche in questo quadro resti fedele all’uso del colore nero, le abbreviazioni formali che vi introduce, insieme al gioco di luci e colori sapientemente ottenuti, lo portano a realizzare una delle più belle opere in assoluto dell’impressionismo. -Claude Monet- Claude Monet (1840-1926), tra tutti i pittori dell’impressionismo, può essere considerato il più impressionista di tutti. La sua personale ricerca pittorica non uscirà mai dai confini di questo stile, benché egli sopravviva molto più a lungo dell’impressionismo. La sua formazione avvenne in maniera composita, trovando insegnamento ed ispirazione in numerosi artisti del tempo. A diciotto anni iniziò a dipingere, sotto la direzione di Boudin, che lo indirizzò al paesaggio en plain air. Recatosi a Parigi, ebbe modo di conoscere Pissarro, Sisley, Renoir, Bazille. In questo periodo agisce su di lui soprattutto l’influenza di Courbet e della Scuola di Barbizon. Nel 1863 si entusiasmò per «La Colazione sull’erba» di Manet e cercò di apprenderne il segreto. Nel 1870 conobbe la pittura di Constable e Turner. In questo periodo si definisce sempre più il suo stile impressionistico, fatto di tocchi di colore a rappresentare autonomi effetti di luce senza preoccupazione per le forme. Nel 1872 dipinse il quadro che poi diede il nome al gruppo: «Impression. Soleil levant». Questo quadro fu esposto nella prima mostra tenuta dagli impressionisti nel 1874.In questo periodo lo stile di Monet raggiunge una maturazione che si conserva inalterata per tutta la sua attività posteriore. Partecipa a tutte le otto mostre di pittura impressionista, tenute fino al 1886. I suoi soggetti sono sempre ripetuti infinite volte per esplorarne tutte le varianti coloristiche e luministiche. Tra le sue serie più famose vi è quella che raffigura la cattedrale di Rouen. La facciata di questa cattedrale viene replicata in ore e condizioni di luminosità diverse. Ogni quadro risulta così diverso dall’altro, anche se ne rimane riconoscibile la forma di base pur come traccia evanescente e vaporizzata. Dal 1909 al 1926, anno della sua morte, esegue una serie di quadri aventi a soggetto «Le ninfee». In questi fiori acquatici sono sintetizzati i suoi interessi di pittore, che rimane impressionista anche quando le avanguardie storiche hanno già totalmente demolito la precedente pittura ottocentesca. [Impression. Soleil levant] I quadri dei pittori impressionisti venivano sistematicamente rifiutati dai Saloni ufficiali. Alcuni giovani pittori decisero quindi di autopromuovere una loro esposizione. Nel 1874 questi pittori – Claude Monet, Auguste Renoir, Camille Pissarro, Alfred Sisley, Edgar Degas e Paul Cezanne – si unirono in società e realizzarono una loro mostra presso lo studio del fotografo Nadar. A questo gruppo gli artisti diedero il nome di: «Società anonima di pittori, scultori, incisori». Il nome «Impressionisti» fu loro dato dal critico francese Louis Leroy che coniò il termine con intento dispregiativo. E il nome derivava proprio dal titolo di questo quadro dipinto da Claude Monet. Esso è divenuto uno dei simboli della pittura impressionista. In questo quadro ci sono molti degli elementi caratteristici di questa pittura: la luce che svolge il ruolo da protagonista, il colore steso a tocchi e macchie, la sensazione visiva che fa a meno della definizione degli oggetti e delle forme, il soggetto del tutto casuale e al di fuori della ordinaria categoria di paesaggio. Il quadro rappresenta uno scorcio del porto di Le Havre. L’immagine è colta all’aurora quando il sole inizia a filtrare attraverso la nebbia mattutina. Monet è del tutto indifferente a ciò che ha innanzi. Non ne cerca la riconoscibilità ma abbozza forme indistinte. Due barche sono solo due ombre scure, il cerchio del sole rimanda alcuni riflessi nell’acqua, un insieme di gru e ciminiere fumose si intravedono in lontananza. Egli, tuttavia, è attento a registrare con immediatezza e verità solo l’impressione visiva che si coglie guardando una immagine del genere. Nella sua pittura esiste solo la realtà sensibile, ossia solo ciò che l’occhio coglie d’istinto: la luce e il colore. Alle forme e allo spazio egli è del tutto indifferente.In questo quadro la sensazione, o meglio l’impressione, visiva è data dalla sintesi di luce e di colore. Ed è una sintesi che si basa sulla percezione istantanea. La registrazione che dà il quadro della percezione riguarda un attimo fuggente. Un istante dopo la visione può essere già diversa, perché la luce è cambiata e, con sé, anche la tonalità di colore che essa diffonde nell’atmosfera. Ma rimane una sensazione, fatta di suggestioni ambientali e atmosferiche, che il pittore coglie come testimonianza del suo vedere e del suo sentire. Da notare che, in questo quadro, benché poco evidente un ruolo essenziale lo svolge lo specchio d’acqua del porto. In moltissima parte della pittura impressionista, e di Monet in particolare, l’acqua svolge sempre un ruolo fondamentale. Essa riflette le immagini distorcendole. E il riflesso varia in continuazione. Questa visione tremolante che si coglie di riflesso nell’acqua è già una immagine impressionista per eccellenza. E permetteva ai pittori di rappresentare le immagini con una libertà di tocco, fatto in genere a tratteggi e virgole, che sintetizzano immediatamente la loro poetica dell’attimo fuggente. Questo quadro è stato rubato nel 1985 dal Musée Marmottan di Parigi. -Edgar Degas- Edgar Degas (1834-1917) tra tutti i pittori impressionisti è quello che conserva la maggiore originalità e distanza dagli altri. I suoi quadri non propongono mai immagini di evanescente luminosità ma rimangono ancorati ad una solidità formale assente negli altri pittori. Ciò fu, probabilmente, originato dalla sua formazione giovanile che lo portava ad essere un pittore più borghese degli altri. Degas era infatti figlio di un banchiere e compì, a differenza di altri suoi amici, regolari studi classici. Viaggiò molto in Italia, suggestionato dalla pittura rinascimentale di Raffaello e Botticelli. Nel 1862 realizzò il suo primo quadro che lo rese famoso: «La famiglia Bellelli». In esso raffigura la famiglia della sorella sposata ad un fiorentino di nome Bellelli. Nel quadro compaiono il marito, la moglie e due figlie. L’inedito taglio compositivo, insieme ad una precisa introspezione psicologica dei personaggi, ne fanno un’opera di un realismo e di una modernità che addirittura anticipa alcune delle successive conquiste di Edouard Manet.Negli anni successivi iniziò ad uscire dal suo ambiente borghese per frequentare il Café Guerbois dove strinse amicizia con Manet e gli altri pittori che avrebbero formato il gruppo degli impressionisti. Fu tra i fondatori del gruppo e fu proprio egli ad organizzare la mostra presso il fotografo Nadar.E partecipò a tutte le otto successive mostre impressioniste, tranne quella del 1882. Le sue differenze con gli altri impressionisti sono legate soprattutto alla costruzione disegnata e prospettica dei suoi quadri. Le forme non si dissolvono e non si confondono con la luce. Sono invece rese plastiche con la luce tonale e non con il chiaroscuro, e in questo segue la tecnica impressionista. Ciò che contraddistingue i suoi quadri sono sempre dei tagli prospettici molto arditi. Per questi scorci si è molto parlato dell’influenza delle stampe giapponesi, anche se appare evidente che i suoi quadri hanno una inquadratura tipicamente fotografica. Tra i suoi soggetti preferiti ci sono le ballerine, (che costituiscono un tema del tutto personale), e le scene di teatro. Anche in questo, Degas coincide con l’impressionismo: la scelta poetica di dar immagine alla vita urbana, con i suoi riti e i suoi miti, a volte borghesi, a volte bohemiène. [L’absinthe] La scena di questo quadro è ambientata in un bar. Per l’esattezza è il «Cafè de la Nouvelle-Athènes». In questo bar si trasferì il gruppo dei pittori impressionisti dopo gli iniziali incontri nel «Cafè Guerbois». Nel quadro sono raffigurate due persone. Si tratta di due amici di Degas. La donna è l’attrice Ellen Andrée, l’uomo è l’incisore Marcellin Desboutin. Il titolo del quadro si riferisce ad un liquore diffuso in Francia: l’assenzio. Esso è nel bicchiere che la donna ha davanti a sé. Rispetto ai quadri impressionisti, qui permane una certa abbreviazione esecutiva, fatta di campiture piatte di colore accostate con contrasto tonale. È invece assente qualsiasi indagine sulla luce. Il quadro ha un senso cupo, differente dalla leggerezza della gran parte dei quadri impressionisti. Il pittore, più che indagare sull’istante della visione ottica, cerca di cogliere un istante di sensazione psicologica. Le due persone nel bar sono vicine ma si ignorano completamente. La solitudine della donna viene accentuata proprio dal bicchiere che ha innanzi. La donna ha lo sguardo perso nel vuoto, l’uomo è una vicinanza che non le dà compagnia, beve da sola: è l’immagine stessa della solitudine. Ciò che risulta tipico della pittura di Degas è questo taglio insolito, che sembra decisamente la inquadratura, a distanza ravvicinata, di una macchina fotografica con un grandangolo. Il taglio compositivo è evidenziato dai piani verdi dei tavoli. Formano un angolo retto che porta fino allo spettatore. Un giornale posto a cavallo di due tavoli dà l’indicazione della prosecuzione del piano orizzontale. Sul tavolino in primo piano c’è un archetto per suonare il violino. Se ne deduce che nella scena c’è un terzo personaggio e che ha il punto di vista del pittore. Un musicista, probabilmente, che sta guardando la donna che beve e l’uomo che fuma. Questa ripresa dal vero è un singolare documento di vita. Degas, il più legato tra tutti i pittori impressionisti alla città di Parigi, scava a fondo nei piaceri e nelle solitudini di una grande città, presentandoci qui il rovescio della medaglia. Questo quadro è l’esatto opposto del Moulin de la Galette di Renoir. Il bar non è più un luogo per incontri piacevoli ma per solitudini confortate solo dall’alcol. «sintetista». Nel 1887 andò a Panama e in Martinica. L’anno dopo era di nuovo a Pont-Aven. Nel 1888 trascorse un periodo anche ad Arles dove dipinse insieme a Vincent Van Gogh. Ruppe con il pittore olandese per ritornare a Pont-Aven. Nel 1891 andò per la prima volta a Tahiti, trattenendosi tre anni. Fece ritorno a Pont-Aven, ma per poco. Nel 1895 si trasferì nuovamente nei mari del Sud e non fece più ritorno in Francia. Morì nel 1903 nelle Isole Marchesi. La pittura di Gauguin è una sintesi delle principali correnti che attraversano il variegato e complesso panorama della pittura francese di fine secolo. Egli partì dalle stesse posizioni impressioniste, comuni a tutti i protagonisti delle nuove ricerche pittoriche di quegli anni. Superò l’impressionismo per ricercare una pittura più intensa sul piano espressivo. Fornì, dunque, soprattutto per i suoi colori forti ed intensi, stesi a campiture piatte, notevoli suggestioni agli espressionisti francesi del gruppo dei «Fauves». Ma, soprattutto per l’intensa spiritualità delle sue immagini, diede un importante contributo a quella pittura «simbolista», che si sviluppò in Francia ed oltre, in polemica con il naturalismo letterario di Zola e Flaubert e con il realismo pittorico di Courbet, Manet e degli impressionisti. Il suo contributo al «simbolismo» avvenne attraverso la formazione del gruppo detto «scuola di Pont-Aven». Fonte di ispirazione per questa pittura erano le vetrate gotiche e gli smalti cloisonne medievali. Prendendo spunto da essi i pittori di Pont-Aven stendevano colori puri e uniformi, contornati da un netto segno nero. Ne derivò una pittura dai toni intimistici che rifiutava la copia dal vero e l’imitazione della visione naturalistica. [Il Cristo giallo] «Il Cristo giallo», al pari della «Visione dopo il Sermone», è una tela di intenso valore mistico. La scena è dominata da un grande crocefisso, come spesso compaiono nella campagna, sotto il quale tre donne, nei tradizionali costumi bretoni, sono inginocchiate a pregare. Fa da sfondo un paesaggio rurale che trasmette un sentimento di calma e di serenità. La composizione riprende quello della «Crocefissione» comune a tante immagini medievali, dove però al posto del Cristo vi è un Crocefisso e al posto della Madonna, la Maddalena e gli apostoli, vi sono delle contadine moderne. Il significato è ben chiaro: rivivere nell'esperienza quotidiana il mistero del sacrificio come dimensione sacra della rinascita della vita. Da questa visione proviene anche il colore giallo che domina nel quadro, assumendo il valore di unione simbolica tra le messi di grano e il Messia. Stilisticamente l'opera deve molto al "cloissonisme", ovvero ad uno stile che, prendendo ispirazione dalle vetrate gotiche, tende a delimitare le figure con spessi tratti neri, quali le piombature che circondano le figure delle vetrate, e a campirle con colori uniformi e saturi. -Paul Cezanne- Paul Cezanne (1839-1906) è il pittore francese più singolare ed enigmatico di tutta la pittura francese post-impressionista. Nato ad Aix-en- Provence, nel meridione della Francia, proviene da una famiglia benestante (il padre era proprietario della banca locale). Egli quindi ebbe modo di condurre una vita agiata, a differenza degli altri pittori impressionisti, e di svolgere una ricerca solitaria e del tutto indifferente ai problemi della critica e del mercato. Egli, infatti, nella sua vita, al pari di Van Gogh, vendette una sola tela, solo qualche anno prima di morire. Pur vivendo quasi sempre a Aix-en-Provence, trascorse diversi periodi a Parigi dove ebbe modo di venire a contatto con i pittori impressionisti della prima ora quali Pissarro, Degas, Renoir, Monet e gli altri. Egli, come gli altri impressionisti, si vedeva rifiutato le sue opere dalla giuria del Salon. E così anche egli partecipò alla prima mostra che gli impressionisti tennero nello studio del pittore Nadar nel 1874. A questa mostra egli espose la sua famosissima opera «La casa dell’impiccato a Auvers». La sua aderenza al movimento fu però sempre distaccata. La sua pittura seguiva già agli inizi un diverso cammino che la differenziava nettamente da quella di un Monet o di un Renoir. Mentre questi ultimi erano interessati solo ai fenomeni percettivi della luce e del colore, Cezanne cerca di sintetizzare nella sua pittura anche i fenomeni della interpretazione razionale che portano a riconoscere le forme e lo spazio. Ma, per far ciò, egli non ricorse mai agli strumenti tradizionali del disegno, del chiaroscuro e della prospettiva, ma solo al colore. La sua grande ambizione era di risolvere tutto solo con il colore, arrivando lì dove nessun pittore era mai arrivato: sintetizzare nel colore la visione ottica e la coscienza delle cose. Egli disse infatti che «nella pittura ci sono due cose: l’occhio e il cervello, ed entrambe devono aiutarsi tra loro». Da questa sua ricerca parte proprio la più grande rivoluzione del ventesimo secolo: la pittura cubista di Picasso. Con il cubismo si perde completamente il primo termine della sintesi di Cezanne (visione-coscienza), per ricercare solo quella rappresentazione che ha la coscienza delle cose. Perdendosi il primo termine il cubismo romperà definitivamente con il naturalismo e la rappresentazione mimetica della realtà per introdurre sempre più l’arte nei territori dell’astrazione e del non figurativo. In Cezanne tutto ciò è però ancora assente. Egli non perde mai di vista la realtà e il suo aspetto visivo. Come per i pittori impressionisti, egli è del tutto indifferente ai soggetti. Li utilizza solo per condurre i suoi esperimenti sul colore. Ed i suoi soggetti sono in realtà riducibili a poche tipologie: i paesaggi, le nature morte, i ritratti a figura intera. I paesaggi sono, tra la produzione di Cezanne, quella più emozionante e poetica. Vi dominano i colori verdi, distesi in infinite tonalità diverse, tra cui si inseriscono tenue tinte di colore diverso. Sono paesaggi che nascono da una grande sensibilità d’animo e che cercano nella natura la serenità e l’equilibrio senza tempo. Le nature morte di Cezanne sono quasi sempre dominate dalla frutta. Inconfondibili sono le sue mele che, come perfette sfere rosse, compaiono un po’ ovunque. In questi quadri gli elementi si pongono con grande libertà, cominciando già a mostrare le prime volute rotture con la visione prospettiva. Cezanne è interessato solo ai volumi non allo spazio. Tanto che egli affermò che tutta la realtà può essere sempre riconducibile a tre solidi geometrici fondamentali: il cono, il cilindro e la sfera. Questa sua attenzione alla geometria solida ritorna anche nei suoi ritratti a figura intera, tra cui spiccano le composizioni delle Grandi Bagnanti. La sua tecnica pittorica è decisamente originale ed inconfondibile. Egli sovrapponeva i colori con spalmature successive, senza mai mischiarle. Per far ciò, aspettava che il primo strato di colore si asciugasse per poi intersecarlo con nuove spalmature di colore. Era un metodo molto lento e meticoloso, per certi versi simile a quello di Seurat e dei neoimpressionisti che accostavano infiniti e minuscoli puntini. Cezanne è, tuttavia, molto lontano dai risultati e dagli intenti dei puntinisti. Egli non ricercava una pittura scientifica, bensì poetica. La sua rimane però una pittura molto difficile da decifrare e spiegare. Ma basti il giudizio di Renoir che di lui disse: «Ma come fa? Non mette neanche due macchie di colore su una tela, senza fare una cosa eccezionale!» La sua ricerca fu estremamente solitaria e scevra di clamori. Anche per il suo carattere schivo e introverso condusse una vita molto ritirata nella sua Aix-en-Provence. La sua attività di pittore è del resto contraddistinta da una insoddisfazione perenne. Egli si sentiva sempre alla ricerca di qualcosa che non riusciva mai pienamente a raggiungere. La sua riscoperta e rivalutazione avvenne solo negli ultimi anni della sua vita. Nel 1904, due anni prima della morte, il Salon d’Automne espose le sue opere dedicandogli un’intera sala. Dal 1906, anno della sua morte, la sua eredità venne ripresa soprattutto dai cubisti che in Cezanne videro il loro precursore. [La montagna Sainte-Victorie] Numerose sono le tele che Cezanne ha dedicato alla montagna Saint-Victorie, soprattutto negli ultimi anni della sua vita. Si può quindi ritenere che, in questi quadri, si sintetizzi molto della sua ricerca pittorica. L’immagine è ottenuta solo con il colore che viene steso a piccole pezzature con direzioni e orientamenti diversi. Prevalgono nel basso i toni arancio e verde, mentre il profilo della montagna è della stessa tonalità azzurrina del cielo in cui si staglia. Ma il verde ritorna anche nel cielo, come riflesso capovolto della terra verso l’alto. Il quadro ha un’idea compositiva molto semplice. Una linea orizzontale, a due terzi dalla base, definisce l’orizzonte dividendo il quadro in due parti distinte e separate. Nella parte inferiore il colore definisce la multiforme varietà dei campi coltivati, degli alberi e delle case inserite tra essi. Nella parte superiore domina, quasi come un simbolo totemico, l’inconfondibile profilo della montagna. Di per sé, il soggetto non ha una forma precisa. Non può essere trattato volumetricamente ma solo spazialmente. Sono quindi elementi imprescindibili della rappresentazione la luce e l’aria. E qui il colore che stende Cezanne sembra compiere il miracolo: socchiudendo gli occhi, ed allontanandosi dal quadro, l’immagine si forma nella nostra percezione come dotato di vera luce e di vera aria. Ma la visione è ferma, immobile, dotata di una sua precisa staticità che rende questo quadro del tutto diverso dai quadri impressionisti. Non c’è la ricerca dell’attimo fuggente né la rappresentazione della mobilità della luce. Gli oggetti non vibrano né si sfaldano. Ogni cosa è al suo posto con un ordine ed un equilibrio ben precisi. Eppure il quadro tende ad una rappresentazione quasi astratta. Le macchie sono colori puri che non permettono la riconoscibilità di un oggetto preciso. Le macchie di colore hanno valore solo nel loro mutuo rapporto. Da qui all’arte astratta il passo è molto breve. Un percorso simile lo svolgeranno molti astrattisti del XX secolo: dalla forma alla stilizzazione segnica. Cezanne cercava invece un diversa costruzione dell’immagine: dalla forma al colore-luce, senza però perdere la forma. E per questo, egli non divenne mai un pittore astratto pur anticipando anche questo sviluppo dell’arte del Novecento. [La casa dell’impiccato] Il quadro appartiene alla fase impressionista di Cezanne, quando egli, da poco giunto a Parigi, entra in contatto con Camille Pissarro. L'amico lo sollecita infatti a schiarire la sua tavolozza e a dipingere «en plein air», secondo la tecnica che in quegli anni utilizzano i pittori impressionisti. E con Pissarro, Cezanne si reca nel paesino di Auvers-sur-Oise ove risiedeva il dottor Gachet, amico di Pissarro, anch'egli pittore dilettante nonché collezionista d'arte. Da ricordare che in questo stesso paese, circa venti anni dopo, si recò Vincent Van Gogh, per farsi curare dal dottor Gachet, e qui nel 1890 si suicidò. Nel soggiorno a Auvers-sur-Oise Cezanne realizza diverse tele e questa, il cui titolo peraltro rimane misterioso, fu scelta dall'artista per la prima mostra tenuta dai pittori impressionisti nel salone di Nadar nel 1874. Da ricordare che questa fu una delle pochissime tele a trovare un acquirente nella mostra del 1874: fu infatti acquistata dal conte Doria di Torino. Il quadro è stilisticamente diverso dalle successive tele di Cezanne e testimonia della influenza che in questa fase egli subisce da Pissarro. La forma geometrica rimane ancora salda, ma la sua visione si sfalda in un colore più filamentoso che vuol rendere gli effetti cangianti della luce, così come praticato dagli altri impressionisti. In seguito l'attività pittorica di Cezanne lo porta ad abbandonare completamente le ricerche del rapporto colore-luce per soffermarsi solo sul rapporto colore-forma. L’ESPRESSIONISMO -Significato generale di espressionismo e differenze con l’impressionismo Il termine espressionismo indica, in senso molto generale, un’arte dove prevale la deformazione di alcuni aspetti della realtà, così da accentuarne i valori emozionali ed espressivi. In tal senso, il termine espressionismo prende una valenza molto universale. Al pari del termine «classico», che esprime sempre il concetto di misura ed armonia, o di «barocco», che caratterizza ogni manifestazione legata al fantasioso o all’irregolare, il termine «espressionismo» è sinonimo di deformazione. Nell’ambito delle avanguardie storiche con il termine espressionismo indichiamo una serie di esperienze sorte soprattutto in Germania, che divenne la nazione che più si identificò, in senso non solo artistico, con questo fenomeno culturale. Alla nascita dell’espressionismo contribuirono diversi artisti operanti negli ultimi decenni dell’Ottocento. In particolare possono essere considerati dei pre-espressionisti Van Gogh, Gauguin, Munch ed Ensor. In questi pittori sono già presenti molti degli elementi che costituiscono le caratteristiche più tipiche dell’espressionismo: l’accentuazione cromatica, il tratto forte ed inciso, la drammaticità dei contenuti. Il primo movimento che può essere considerato espressionistico nacque in Francia nel 1905: i Fauves. Con questo termine vennero spregiativamente indicati alcuni pittori che esposero presso il Salon d’Automne quadri dall’impatto cromatico molto violento. Fauves, in francese, significa «belve». Di questo gruppo facevano parte Matisse, Vlaminck, Derain, Marquet ed altri. La loro caratteristica era il colore steso in tonalità pure. Le immagini che loro ottenevano erano sempre autonome rispetto alla realtà. Il dato visibile veniva reinterpretato con molta libertà, traducendo il tutto in segni colorati che creavano una pittura molto decorativa. Alla definizione dello stile concorsero soprattutto la conoscenza della pittura di Van Gogh e Gauguin. Da questi due pittori i fauves presero la sensibilità per il colore acceso e la risoluzione dell’immagine solo sul piano bidimensionale. Nello stesso 1905 che comparvero i Fauves si costituì a Dresda, in Germania, un gruppo di artisti che si diede il nome «Die Brücke» (il Ponte). I principali protagonisti di questo gruppo furono Ernest Ludwig Kirchner e Emil Nolde. In essi sono presenti i tratti tipici dell’espressionismo: la violenza cromatica e la deformazione caricaturale, ma in più vi è una forte carica di drammaticità che, ad esempio, nei Fauves non era presente. Nell’espressionismo nordico, infatti, prevalgono sempre temi quali il disagio esistenziale, l’angoscia psicologica, la critica ad una società borghese ipocrita e ad uno stato militarista e violento. Alla definizione dell’espressionismo nordico fu determinante il contributo di pittori quali Munch ed Ensor. E, proprio da Munch, i pittori espressionisti presero la suggestione del fare pittura come esplosione di un grido interiore. Un grido che portasse in superficie tutti i dolori e le sofferenze umane ed intellettuali degli artisti del tempo. Un secondo gruppo espressionistico si costituì a Monaco nel 1911: «Der Blaue Reiter» (Il Cavaliere Azzurro). Principali ispiratori del movimento furono Wassilj Kandinskij e Franz Marc. Con questo movimento l’espressionismo prese una svolta decisiva. Nella pittura fauvista, o dei pittori del gruppo Die Brücke, la tecnica era di rendere «espressiva» la realtà esterna così da farla coincidere con le risonanze interiori dell’artista. Der Blaue Reiter propose invece un’arte dove la componente principale era l’espressione interiore dell’artista che, al limite, poteva anche ignorare totalmente la realtà esterna a se stesso. Da qui, ad una pittura totalmente astratta, il passo era breve. Ed infatti fu proprio Wassilj Kandiskij il primo pittore a scegliere la strada dell’astrattismo totale. Il gruppo Der Blaue Reiter si disciolse in breve tempo. La loro ultima mostra avvenne nel 1914. In quell’anno scoppiò la guerra e Franz Marc, partito per il fronte, morì nel 1916. Alle attività del gruppo partecipò anche il pittore svizzero Paul Klee, che si sarebbe reincontrato con Wassilj Kandiskij nell’ambito della Bauhaus, la scuola d’arte applicata fondata nel 1919 dall’architetto Walter Gropius. All’interno di questa scuola, l’attività didattica di Kandiskij e Klee contribuì in maniera determinante a fondare i principi di una estetica moderna, trasformando l’espressionismo e l’astrattismo da un movimento di intonazione lirica ad un metodo di progettazione razionale di una nuova sensibilità estetica. Il termine espressionismo nacque come alternativa alla definizione di impressionismo. Le differenze tra i due movimenti sono sostanziali e profonde. L’impressionismo rimase sempre legato alla realtà esteriore. L’artista impressionista limitava la sua sfera di azione all’interazione che c’è tra la luce e l’occhio. In tal modo cercava di rappresentare la realtà con una nuova sensibilità, cogliendo solo quegli effetti luministici e coloristici che rendono piacevole ed interessante uno sguardo sul mondo esterno. L’espressionismo, invece, rifiutava il concetto di una pittura sensuale (ossia di una pittura tesa al piacere del senso della vista), spostando la visione dall’occhio all’interiorità più profonda dell’animo umano. L’occhio, secondo l’espressionismo, è solo un mezzo per giungere all’interno, dove la visione interagisce con la nostra sensibilità psicologica. E la pittura che nasce in questo modo, non deve fermarsi all’occhio dell’osservatore, ma deve giungere al suo interno. Un’altra profonda differenza divide i due movimenti. L’impressionismo è stato sempre connotato da un atteggiamento positivo nei confronti della vita. Era alla ricerca del bello, e proponeva immagini di indubbia gradevolezza. I soggetti erano scelti con l’intento di illustrare la gioia di vivere. Di una vita connotata da ritmi piacevoli e vissuta quasi con spensieratezza. Totalmente opposto è l’atteggiamento dell’espressionismo. La sua matrice di fondo rimane sempre profondamente drammatica. Quando l’artista espressionista vuol guardare dentro di sé, o dentro gli altri, trova sempre toni foschi e cupi. Al suo interno trova l’angoscia, dentro gli altri trova la bruttura mascherata dall’ipocrisia borghese. E per rappresentare tutto ciò, l’artista espressionista non esita a ricorre ad immagini «brutte» e sgradevoli. Anzi, con l’espressionismo il «brutto» diviene una vera e propria categoria estetica, cosa mai prima avvenuta con tanta enfasi nella storia dell’arte occidentale. Da un punto di vista stilistico la pittura espressionista muove soprattutto da Van Gogh e da Gauguin. Dal primo prende il segno profondo e gestuale, dal secondo il colore come simbolo interiore. La pittura espressionistica risulta quindi totalmente antinaturalistica, lì dove l’aderenza alla realtà dell’impressionismo collocava quest’ultimo movimento ancora nei limiti di un naturalismo seppure inteso solo come percezione della realtà. -Henri Matisse- Henri Matisse (1869-1954), pittore francese, è il rappresentante più noto del fauvismo. Il movimento dei Fauves è il contributo francese alla nascita dell’espressionismo. Ma, rispetto agli analoghi movimenti tedeschi, connotati da atmosfere fosche e contenuti drammatici, il fauvismo rappresenta una variante «mediterranea» e solare dell’espressionismo. La vivezza coloristica, che è il vero tratto caratteristico di questo movimento, esprime un’autentica «gioia di vivere» che resterà costante in tutta la produzione di Matisse. Il gruppo dei Fauves, pur non essendo un movimento organico, si riconosceva in alcune comuni convinzioni: soprattutto, il dipinto deve comporsi unicamente di colore. Senza ricercare la verosimiglianza con la natura, il colore deve nascere dal proprio sentire interiore. Il colore viene quindi svincolato dalla realtà che rappresenta ma esprime le sensazioni che l’artista prova di fronte all’oggetto che riproduce. Il fauvismo rappresenta la prima vera rottura con l’impressionismo ed è la prima esperienza moderna che svincola il rapporto tra colore reale delle cose e colore impiegato per la loro rappresentazione pittorica. I presupposti per queste scelte derivarono dalla conoscenza della pittura di Cezanne, Van Gogh e Gauguin. Da Cezanne presero l’idea della scomposizione e ricomposizione non prospettica delle forme, e da Van Gogh e Gauguin l’uso del colore come autonoma espressione interiore. Henri Matisse iniziò la sua attività di pittore a Parigi intorno al 1890. Studiò presso il pittore simbolista Gustave Moreau e presso l’École des Beaux-arts di Parigi. In questi anni conobbe Albert Marquet, André Derain e Maurice de Vlaminck. Dalla loro amicizia nacque il gruppo dei Fauves. La loro prima comparsa pubblica avvenne nel 1905 al Salon d’Automne. Lo stile di Matisse già si definisce in questa fase della sua attività. I suoi quadri sono tutti risolti sul piano della bidimensionalità, sacrificando al colore sia la tridimensionalità, sia la definizione dei dettagli. L’uso del colore in Matisse è quanto di più intenso è vivace si sia mai visto in pittura. Usa colori primari stesi con forza e senza alcuna stemperatura tonale. Ad essi accosta i colori complementari con l’evidente intento di rafforzarne il contrasto timbrico. Ne risulta un insieme molto vivace con un evidente gusto per la decoratività. La sua attività pittorica si svolse per decenni, nel suo quieto ambiente familiare, lontano dai clamori della vita mondana. Svolse la sua ricerca portando il suo stile ad un affinamento progressivo fino a farlo giungere, in tarda età, alle soglie dell’astrattismo. Ma senza mai perdere il gusto per la forza espressiva del colore. [La danza] Questo quadro di Matisse, tra i più famosi della sua produzione espressionistica, sintetizza in maniera esemplare la sua poetica e il suo stile. Il quadro trasmette una suggestione immediata. Il senso della danza, che unisce in girotondo cinque persone, è qui sintetizzato con pochi tratti e con appena tre colori. Ne risulta una immagine quasi simbolica che può essere suscettibile di più letture ed interpretazioni. Il verde che occupa la parte inferiore del quadro simboleggia la Terra. Segue la curvatura del nostro mondo e sembra fatto di materiale elastico: il piede di uno dei danzatori imprime alla curvatura una deformazione dovuta al suo peso. Il blu nella parte superiore è ovviamente il cielo. Ma si tratta di un blu così denso e carico che non rappresenta la nostra atmosfera terrestre bensì uno spazio siderale più ampio e vasto da contenere tutto l’universo. E sul confine tra terra e cielo, o tra mondo ed universo, stanno compiendo la loro danza le cinque figure. Le loro braccia sono tese nello slancio di tenere chiuso un cerchio che sta per aprirsi tra le due figure poste in basso a sinistra. Una delle figure è infatti tutta protesa in avanti per afferrare la mano dell’uomo, mentre quest’ultimo ha una torsione del busto per allungare la propria mano alla donna. La loro danza può essere vista come allegoria della vita umana, fatta di un movimento continuo in cui la tensione è sempre tesa all’unione con gli altri. E tutto ciò avviene sul confine del mondo, in quello spazio precario tra l’essere e il non essere. Il vortice circolare in cui sono trascinati ha sia i caratteri gioiosi della vita in movimento, sia il senso angoscioso della necessità di dovere per forza danzare senza sosta. In questo quadro Matisse giunge ad una sintesi totale tra contenuto e forma, riuscendo ad esprimere alcune delle profonde verità che regolano, non solo la vita dell’uomo, ma dell’intero universo. -Edvard Munch- Edvard Munch (1863-1944) è senz’altro il pittore che più di ogni altro anticipa l’espressionismo, soprattutto in ambito tedesco e nord-europeo. Egli nacque in Norvegia e svolse la sua attività soprattutto ad Oslo. In una città che, in realtà, era estranea ai grandi circuiti artistici che, in quegli anni, gravitavano soprattutto su Parigi e sulle altre capitali del centro Europa. Nella pittura di Munch troviamo anticipati tutti i grandi temi del successivo espressionismo: dall’angoscia esistenziale alla crisi dei valori etici e religiosi, dalla solitudine umana all’incombere della morte, dalla incertezza del futuro alla disumanizzazione di una società borghese e militarista. nello stesso periodo, come molti altri artisti del tempo, anche Picasso si interessò alla scultura africana, sulla scorta di quella riscoperta quell’esotico primitivo che aveva suggestionato molta cultura artistica europea da Gauguin in poi. Da questi incontri, e dalla volontà di continua sperimentazione che ha sempre caratterizzato l’indole del pittore, nacque nel 1907 il quadro «Les demoiselles de Avignon» che segnò l’avvio della stagione cubista di Picasso. In quegli anni fu legato da un intenso sodalizio artistico con George Braque. I due artisti lavorarono a stretto contatto di gomito, producendo opere che sono spesso indistinguibili tra loro. In questo periodo avvenne la definitiva consacrazione dell’artista che raggiunse livelli di notorietà mai raggiunti da altro pittore in questo secolo. La fase cubista fu un periodo di grande sperimentazione, in cui Picasso rimise in discussione il concetto stesso di rappresentazione artistica. Il passaggio dal cubismo analitico al cubismo sintetico rappresentò un momento fondamentale della sua evoluzione artistica. Il pittore appariva sempre più interessato alla semplificazione della forma, per giungere al segno puro che contenesse in sé la struttura della cosa e la sua riconoscibilità concettuale. La fase cubista di Picasso durò circa dieci anni. Nel 1917, anche a seguito di un suo viaggio in Italia, vi fu una inversione totale nel suo stile. Abbandonò la sperimentazione per passare ad una pittura più tradizionale. Le figure divennero solide e quasi monumentali. Questo suo ritorno alla figuratività anticipò di qualche anno un analogo fenomeno che, dalla metà degli anni ’20 in poi, si diffuse in tutta Europa segnando la fine delle Avanguardie Storiche. Ma la vitalità di Picasso non si arrestò lì. La sua capacità di sperimentazione continua lo portarono ad avvicinarsi ai linguaggi dell’espressionismo e del surrealismo, specie nella scultura, che in questo periodo lo vide particolarmente impegnato. Nel 1937 partecipò all’Esposizione Mondiale di Parigi, esponendo nel Padiglione della Spagna il quadro «Guernica» che rimane probabilmente la sua opera più celebre ed una delle più simboliche di tutto il Novecento. Negli anni immediatamente successivi la seconda guerra mondiale si dedicò con impegno alla ceramica, mentre la sua opera pittorica fu caratterizzata da lavori «d’après»: ossia rivisitazioni, in chiave del tutto personale, di famosi quadri del passato quali «Les meninas» di Velazquez, «La colazione sull’erba» di Manet o «Le signorine in riva alla Senna» di Courbet. Picasso è morto nel 1973 all’età di novantadue anni. [Les demoiselles d’Avignon] L’opera che inaugura la stagione cubista di Picasso è il quadro «Les demoiselles d’Avignon». Il quadro è stato realizzato tra il 1906 e il 1907. Le numerose rielaborazioni e ridipinture ne fanno quasi un gigantesco «foglio da schizzo» sul quale Picasso ha lavorato per provare le nuove idee che stava elaborando. Il quadro non rappresenta un risultato definitivo: semplicemente ad un certo punto Picasso ha smesso di lavorarci. Lo abbandona nel suo studio, e quasi per caso suscita la curiosità e l’interesse dei suoi amici. Segno che forse neppure l’artista era sicuro del risultato a cui quell’opera era giunta. Anche il titolo in realtà è posticcio, avendolo attribuito il suo amico André Salmon. Il soggetto del quadro è la visione di una casa d’appuntamento in cui figurano cinque donne. In origine doveva contenere anche due uomini, poi scomparsi nelle successive modifiche apportate al quadro da Picasso. L’analogia più evidente è con i quadri di Cézanne del ciclo «Le grandi bagnanti». Ed è praticamente certo che Picasso modifiche continuamente questo quadro proprio per le sollecitazioni che gli vengono dalla conoscenza delle opere di Cézanne. Il risultato a cui giunge è in realtà disomogeneo. Le due figure centrali hanno un aspetto molto diverso dalle figure ai lati. In queste ultime, specie le due di destra, la modellazione dei volti ricorda le sculture africane che in quel periodo conoscevano un momento di grande popolarità tra gli artisti europei. Ciò che costituisce la grande novità dell’opera è l’annullamento di differenza tra pieni e vuoti. L’immagine si compone di una serie di piani solidi che si intersecano secondo angolazioni diverse. Ogni angolazione è il frutto di una visione parziale per cui lo spazio si satura di materia annullando la separazione tra un corpo ed un altro. Le singole figure, costruite secondo il criterio della visione simultanea da più lati, si presentano con un aspetto decisamente inconsueto che sembra ignorare qualsiasi legge anatomica. Vediamo così apparire su un volto frontale un naso di profilo, oppure, come nella figura in basso a destra, la testa appare ruotata sulle spalle di un angolo innaturale. Tutto ciò è comunque la premessa di quella grande svolta, che Picasso compie con il cubismo, per cui la rappresentazione tiene conto non solo di ciò che si vede in un solo istante, ma di tutta la percezione e conoscenza che l’artista ha del soggetto che rappresenta. [Guernica] Guernica è il nome di una cittadina spagnola che ha un triste primato. È stata la prima città in assoluto ad aver subìto un bombardamento aereo. Ciò avvenne la sera del 26 aprile del 1937 ad opera dell’aviazione militare tedesca. L’operazione fu decisa con freddo cinismo dai comandi militari nazisti semplicemente come esperimento. In quegli anni era in corso la guerra civile in Spagna, con la quale il generale Franco cercava di attuare un colpo di stato per sostituirsi al legittimo governo. In questa guerra aveva come alleati gli italiani e i tedeschi. Tuttavia la cittadina di Guernica non era teatro di azioni belliche, così che la furia distruttrice del primo bombardamento aereo della storia si abbatté sulla popolazione civile uccidendo soprattutto donne e bambini. Quando la notizia di un tale efferato crimine contro l’umanità si diffuse tra l’opinione pubblica, Picasso era impegnato alla realizzazione di un’opera che rappresentasse la Spagna all’Esposizione Universale di Parigi del 1937. Decide così di realizzare questo pannello che denunciasse l’atrocità del bombardamento su Guernica. L’opera di notevoli dimensioni (metri 3,5 x 8) fu realizzata in appena due mesi, ma fu preceduta da un’intensa fase di studio, testimoniata da ben 45 schizzi preparatori che Picasso ci ha lasciato. Il quadro è realizzato secondo gli stilemi del cubismo: lo spazio è annullato per consentire la visione simultanea dei vari frammenti che Picasso intende rappresentare. Il colore è del tutto assente per accentuare la carica drammatica di quanto è rappresentato. Il posto centrale è occupato dalla figura di un cavallo. Ha un aspetto allucinato da animale impazzito. Nella bocca ha una sagoma che ricorda quella di una bomba. È lui la figura che simboleggia la violenza della furia omicida, la cui irruzione sconvolge gli spazi della vita quotidiana della cittadina basca. Sopra di lui è posta un lampadario con una banalissima lampadina a filamento. È questo il primo elemento di contrasto che rende intensamente drammatica la presenza di un cavallo così imbizzarrito in uno spazio che era fatto di affetti semplici e quotidiani. Il lampadario, unito al lume che gli è di fianco sostenuto dalla mano di un uomo, ha evidenti analogie formali con il lampadario posto al centro in alto nel quadro di Van Gogh «I mangiatori di patate». Di questo quadro è l’unica cosa che Picasso cita, quasi a rendere più esplicito come il resto dell’atmosfera del quadro di Van Gogh – la serenità carica di valori umani di un pasto serale consumato da persone semplici – è stata drammaticamente spazzata via. Al cavallo Picasso contrappone sulla sinistra la figura di un toro. È esso il simbolo della Spagna offesa. Di una Spagna che concepiva la lotta come scontro leale e ad armi pari. Uno scontro leale come quello della corrida dove un uomo ingaggia la lotta con un animale più forte di lui rischiando la propria vita. Invece il bombardamento aereo rappresenta quanto di più vile l’uomo possa attuare, perché la distruzione piove dal cielo senza che gli si possa opporre resistenza. La fine di un modo di concepire la guerra viene rappresentato, anche in basso, da un braccio che ha in mano una spada spezzata: la spada, come simbolo dell’arma bianca, ricorda la lealtà di uno scontro che vede affrontarsi degli uomini ad armi pari. Il pannello si compone quindi di una serie di figure che, senza alcun riferimento allegorico, raccontano tutta la drammaticità di quanto è avvenuto. Le figure hanno tratti deformati per accentuare espressionisticamente la brutalità dell’evento. Sulla sinistra una donna si dispera con in braccio il figlio morto. In basso è la testa mutilata di un uomo. Sulla sinistra, tra case e finestre, appaiono altre figure. Alcune hanno il volto incerto di chi si interroga cercando di capire cosa sta succedendo. Un’ultima figura sulla destra mostra il terrore di chi cerca di fuggire da case che si sono improvvisamente incendiate. Guernica è l’opera che emblematicamente rappresenta l’impegno morale di Picasso nelle scelte democratiche e civili. E quest’opera è stata di riferimento per più artisti europei, soprattutto nel periodo post-bellico, quale monito a non esentarsi da un impegno diretto nella vita civile e politica. [Ambroise Vollard] Ambroise Vollard è stato uno dei maggiori galleristi e mercanti d’arte parigini nel periodo tra fine Ottocento e inizi Novecento. La sua attività è stata molto importante per consentire la conoscenza e la diffusione di molti artisti del periodo postimpressionista e delle avanguardie storiche. In contatto quindi con grandi talenti, di lui ci rimangono numerosi ritratti, tra cui uno eseguito da Paul Cezanne. Tuttavia questo di Picasso, se confrontato con le foto di Vollard, appare straordinariamente somigliante, pur con una tecnica di realizzazione molto poco ortodossa per un ritratto. Siamo, ovviamente, nel periodo del cubismo analitico, e lo stile di Picasso si riconosce soprattutto per queste numerose sfaccettature. I suoi quadri appaiono un po’ come un’immagine riflessa in uno specchio rotto, i cui frammenti riflettono porzioni dell’immagine da diverse angolazioni, ma che riescono a comporsi lo stesso nel nostro occhio per farci capire qual è la cosa riflessa dallo specchio in frantumi. [Poveri in riva al mare] Se la produzione cubista è stata sicuramente quella che più ha portato Picasso alla ribalta internazionale, grande fortuna critica hanno ricevuto anche i periodi iniziali della sua attività. Quei periodi che normalmente sono definiti «blu» e «rosa». Questo quadro appartiene al periodo «blu», come facilmente si può vedere dalla tonalità dominante nel quadro. Una famiglia povera, padre madre e figlio, sono su una spiaggia solitaria, a piedi nudi e con il capo chino. È un’immagine di grande mestizia, ed è questo il sentimento che prevale in tutta la produzione del periodo «blu». Da notare, ovviamente, la grande padronanza dei mezzi tecnici di Picasso e la sua grande capacità di essere, già a 22 anni, padrone del linguaggio pittorico. FUTURISMO -La rottura con il passato Il futurismo è un’avanguardia storica di matrice totalmente italiana. Nato nel 1909, grazie al poeta e scrittore Filippo Tommaso Marinetti, il futurismo divenne in breve tempo il movimento artistico di maggior novità nel panorama culturale italiano. Si rivolgeva a tutte le arti, comprendendo sia poeti che pittori, scultori, musicisti, e così via, proponendo in sostanza un nuovo atteggiamento nei confronti del concetto stesso di arte. Ciò che il futurismo rifiutava era il concetto di un’arte élitaria e decadente, confinata nei musei e negli spazi della cultura aulica. Proponeva invece un balzo in avanti, per esplorare il mondo del futuro, fatto di parametri quali la modernità contro l’antico, la velocità contro la stasi, la violenza contro la quiete, e così via. In sostanza il futurismo si connota già al suo nascere come un movimento che ha due caratteri fondamentali: • l’esaltazione della modernità; • l’impeto irruento del fare artistico. Il futurismo ha una data di nascita precisa: il 20 febbraio 1909. In quel giorno, infatti, Marinetti pubblicò sul «Figaro», giornale parigino, il Manifesto del Futurismo. In questo scritto sono già contenuti tutti i caratteri del nuovo movimento. Dopo una parte introduttiva, Marinetti sintetizza in undici punti i principi del nuovo movimento. 1. Noi vogliamo cantar l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. 2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. 3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno. 4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia. 5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita. 6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e magnificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali. 7. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo. 8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente. 9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertarî, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. 10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica. 11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta. In un altro suo scritto, Marinetti disse come doveva essere l’artista futurista. «Chi pensa e si esprime con originalità, forza, vivacità, entusiasmo, chiarezza, semplicità, agilità e sintesi. Chi odia i ruderi, i musei, i cimiteri, le biblioteche, il culturismo, il professoralismo, l’accademismo, l’imitazione del passato, il purismo, le lungaggini e le meticolosità. Chi vuole svecchiare, rinvigorire e rallegrare l’arte italiana, liberandola dalle imitazioni del passato, dal tradizionalismo e dall’accademismo e incoraggiando tutte le creazioni audaci dei giovani». Il fenomeno del futurismo ha quindi una spiegazione genetica molto chiara. La cultura dell’Ottocento era stata troppo condizionata dai modelli storici. Il passato, specie in Italia, era divenuto un vincolo dal quale sembrava impossibile affrancarsi. Oltre ciò, la tarda cultura ottocentesca si era anche caratterizzata per quel decadentismo che proponeva un’arte fatta di estasi pensose quale fuga dalla realtà nel mondo dei sogni. Contro tutto ciò insorse il futurismo, cercando un’arte che esprimesse vitalità e ottimismo per costruire un mondo nuovo basato su una nuova estetica. L’adesione al futurismo coinvolse molte delle giovani leve di artisti, tra cui numerosi pittori che crearono nel giro di pochi anni uno stile futurista ben chiaro e preciso. Tra essi, il maggior protagonista fu Umberto Boccioni al quale si affiancarono Giacomo Balla, Gino Severini, Luigi Russolo e Carlo Carrà. Il movimento ebbe due fasi, separate dalla prima guerra mondiale. Lo scoppio della guerra disperse molti degli artisti protagonisti della prima fase del futurismo. Boccioni morì nel 1916 in guerra. Carrà, dopo aver incontrato De Chirico, si rivolse alla pittura metafisica e come lui, altri giovani pittori, quali Mario Sironi e Giorgio Morandi, i cui esordi erano stati da pittori futuristi. Nel dopoguerra il carattere di virile forza di questo movimento finì per farlo integrare nell’ideologia del fascismo, esaurendo così la sua spinta rinnovatrice e finire paradossalmente assorbito negli schemi di una cultura ufficiale e reazionaria. Questa sua adesione al fascismo ne ha molto limitato la critica riscoperta da parte della cultura italiana che ha sempre visto questo movimento come qualcosa di folkloristico e provinciale. La sua rivalutazione sta avvenendo solo da pochi anni e solo dopo che soprattutto la storiografia inglese ha storicamente rivalutato questo fenomeno artistico. Il futurismo, tuttavia, nonostante il suo limite di essere un movimento solo italiano, e non internazionale, ha esercitato notevole influenza nel dibattito artistico di quegli anni, contribuendo in maniera determinante alla nascita delle avanguardie russe, quali il Cubofuturismo, il Suprematismo e il Costruttivismo. Uno dei tratti più tipici del futurismo è proprio la grande produzione di manifesti. Attraverso questi scritti gli artisti dichiaravano i propri obiettivi e gli strumenti per ottenerli. Essi risultano, quindi, molto importanti per la comprensione del futurismo. Da essi è possibile non solo valutare le intenzioni degli artisti, ma anche in che misura le intenzioni si sono attuate nella loro produzione reale. Il primo manifesto sulla pittura futurista risale al 1910. A firmarlo furono Boccioni, Carrà, Russolo, Severini e Balla. In esso non si va molto oltre della semplici enunciazioni di principi che ricalcano gli obiettivi fondamentali del movimento. Si ribadisce il rifiuto del passato, dell’accademismo, delle convenzioni e delle imitazioni. Molto più interessante appare il secondo manifesto che gli stessi artisti redassero l’anno successivo, e datato 11 febbraio 1911. In esso – La pittura futurista. Manifesto tecnico – si legge: Il gesto, per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale. Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza delle immagini nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo da corsa non ha quattro gambe: ne ha venti, e i loro movimenti sono triangolari. In questo passo si coglie già uno dei principali fondamenti della pittura futurista: l’intenzione di rappresentare non degli oggetti statici ma degli oggetti in continuo movimento. E cercando soprattutto di rappresentarli conservando l’immagine visiva del loro dinamismo. La sensazione dinamica doveva ricercarsi moltiplicando le immagini, scomponendole e ricomponendole secondo le direzioni del loro movimento. Più oltre segue un passo che ci fornisce un altro dei parametri fondamentali della pittura futurista. Lo spazio non esiste più; una strada bagnata dalla pioggia e illuminata da globi elettrici s’inabissa fino al centro della terra. Il Sole dista da noi migliaia di chilometri; ma la casa che ci sta davanti non ci appare forse incastonata nel disco solare? […] Le sedici persone che avete intorno a voi in un tram che corre sono una, dieci, quattro tre: stanno ferme e si muovo; vanno e vengono, rimbalzano sulla strada, divorate da una zona di sole, indi tornano a sedersi, simboli persistenti della vibrazione universale. E, talvolta, sulla guancia della persona con cui parliamo nella via noi vediamo il cavallo che passa oltre. I nostri corpi entrano nei divani su cui ci sediamo, e i divani entrano in noi, così che il tram che passa entra nelle case, le quali alla loro volta si scaraventano sul tram e con esso si amalgamano. «I nostri corpi entrano nei divani, e i divani entrano in noi»: la frase esprime con estrema chiarezza uno dei tratti più tipici del futurismo: la scelta di intersecare le immagini, arrivando ad una rappresentazione di sintesi dove tutte le cose si compenetrano tra loro creando un nuovo tipo di spazialità. Parte del manifesto è ovviamente dedicata allo stile, affermando che la nuova pittura deve basarsi sulla scomposizione del colore già attuata dai divisionisti. Ma il divisionismo deve essere solo uno strumento, non un fine della rappresentazione. La scomposizione dei colori (che loro definiscono «complementarismo congenito»), non solo deve esaltare la sensazione di dinamicità, ma deve contribuire a quella nuova spazialità dove è proprio la luce, insieme al moto, a far compenetrare gli oggetti tra loro. Il manifesto si conclude con una sintesi finale espressa in quattro punti: NOI PROCLAMIAMO: 1. Che il complementarismo congenito è una necessità assoluta nella pittura, come il verso libero nella poesia e come la polifonia nella musica; 2. Che il dinamismo universale deve essere reso come sensazione dinamica; 3. Che nell’interpretazione della Natura occorre sincerità e verginità; 4. Che il moto e la luce distruggono la materialità dei corpi. comuni (quale l’intento dissacratorio e la ricerca di meccanismi nuovi del fare arte) ma anche qualche punto di notevole differenza: soprattutto il diverso atteggiamento nei confronti della guerra. I futuristi, nella loro posizione interventista, sono tutto sommato favorevoli alla guerra, mentre ne sono del tutto contrari i dadaisti. Questa diversa impostazione conduce ad una facile, anche se non proprio esatta, valutazione per cui il futurismo è un movimento di destra, mentre il dadaismo è di sinistra. Altri punti in comune tra i due movimenti sono inoltre l’uso dei "manifesti" quale momento di dichiarazione di intenti. Ma veniamo ai contenuti principali del dadaismo. Innanzitutto il titolo. La parola Dada, che identificò il movimento, non significava assolutamente nulla, e già in ciò vi è una prima caratteristica del movimento: quella di rifiutare ogni atteggiamento razionalistico. Il rifiuto della razionalità è ovviamente provocatorio e viene usato come una clava per abbattere le convenzioni borghesi intorno all’arte. Pur di rinnegare la razionalità i dadaisti non rifiutano alcun atteggiamento dissacratorio, e tutti i mezzi sono idonei per giungere al loro fine ultimo: distruggere l’arte. Distruzione assolutamente necessaria per poter ripartire con una nuova arte non più sul piedistallo dei valori borghesi ma coincidente con la vita stessa e non separata da essa. Il movimento, dopo il suo esordio a Zurigo, si diffonde ben presto in Europa, soprattutto in Germania e quindi a Parigi. Benché il dadaismo è un movimento ben circoscritto e definito in area europea, vi è la tendenza di far ricadere nel medesimo ambito anche alcune esperienze artistiche che, negli stessi anni, ebbero luogo a New York negli Stati Uniti. L’esperienza dadaista americana nacque dall’incontro di alcune notevoli personalità artistiche: il pittore francese Marcel Duchamp, il pittore e fotografo americano Man Ray, il pittore franco-spagnolo Francis Picabia e il gallerista americano Alfred Stieglitz. Ma la vita del movimento è abbastanza breve. Del resto non poteva essere diversamente. La funzione principale del dadaismo era quello di distruggere una concezione oramai vecchia e desueta dell’arte. E questa è una funzione che svolge in maniera egregia, ma per poter divenire propositiva necessitava di una trasformazione, e ciò avvenne tra il 1922 e il 1924, quando il dadaismo scomparve e nacque il surrealismo. Il dadaismo rifiuta ogni atteggiamento razionale, e per poter continuare a produrre opere d’arte si affida ad un meccanismo ben preciso: la casualità. Il "caso", in seguito, troverà diverse applicazioni in arte: lo useranno sia i surrealisti, per far emergere l’inconscio umano, sia gli espressionisti astratti, per giungere a nuove rappresentazioni del caos, come farà Jackson Polloch con l’action painting. Ma torniamo al dadaismo. In un suo scritto, il poeta Tristan Tzara descrive il modo dadaista di produrre una poesia. Il passo, che di seguito riportiamo, è decisamente esplicativo del loro modo di procedere. Per fare un poema dadaista. Prendete un giornale. Prendete delle forbici. Scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che contate di dare al vostro poema. Ritagliate l’articolo. Ritagliate quindi con cura ognuna delle parole che formano questo articolo e mettetele in un sacco. Agitate piano. Tirate fuori quindi ogni ritaglio, uno dopo l’altro, disponendoli nell’ordine in cui hanno lasciato il sacco. Copiate coscienziosamente. Il poema vi assomiglierà. Ed eccovi "uno scrittore infinitamente originale e d’una sensibilità affascinante, sebbene incompresa dall’uomo della strada". In un suo passo Hans Arp afferma: «La legge del caso, che racchiude in sé tutte le leggi e resta a noi incomprensibile come la causa prima onde origina la vita, può essere conosciuta soltanto in un completo abbandono all’inconscio. Io affermo che chi segue questa legge creerà la vita vera e propria». Si capisce come il dadaismo non muore del tutto, ma si trasforma, in effetti, nel surrealismo, movimento, quest’ultimo, che può quasi considerarsi una naturale evoluzione del primo. Un notevole contributo dato alla definizione di una nuova estetica sono i «ready-made». Il termine indica opere realizzate con oggetti reali, non prodotti con finalità estetiche, e presentati come opere d’arte. In pratica i «ready-made» sono un’invenzione di Marcel Duchamp, il quale inventa anche il termine per definirli che in italiano significa approssimativamente «già fatti», «già pronti». I «ready-made» nascono ancor prima del movimento dadaista, dato che il primo «ready-made» di Duchamp, la ruota di bicicletta, è del 1913. Essi diventano, nell’ambito dell’estetica dadaista, uno dei meccanismi di maggior dissacrazione dei concetti tradizionali di arte. Soprattutto quando Duchamp, nel 1917, propose uno dei suoi più noti «ready-made»: fontana. In pratica, con i «ready-made» si ruppe il concetto per cui l’arte era il prodotto di una attività manuale coltivata e ben finalizzata. Opera d’arte poteva essere qualsiasi cosa: posizione che aveva la sua conseguenza che nulla è arte. Ma questa evidente tautologia era superata dal capire che, innanzitutto l’arte non deve separarsi altezzosamente dalla vita reale ma confondersi con questa, e che l’opera dell’artista non consiste nella sua abilità manuale, ma nelle idee che riesce a proporre. Infatti, il valore dei «ready-made» era solo nell’idea. Abolendo qualsiasi significato o valore alla manualità dell’artista, l’artista, non è più colui che sa fare delle cose con le proprie mani, ma è colui che sa proporre nuovi significati alle cose, anche per quelle già esistenti. -Marcel Duchamp- L’artista francese Marcel Duchamp (1887-1968) viene considerato uno dei maggiori rappresentanti del dadaismo, benché egli non abbia mai accettato l’appartenenza a questo gruppo. La cosa, conoscendo il personaggio, non stupisce affatto: la personalità di Duchamp è impossibile da inquadrare in un qualsiasi schema. Egli, in realtà, è stato uno dei più grandi artisti del Novecento, proprio per il suo modo di essere. Ha, di fatto, costruito un nuovo prototipo di artista da intendersi come intellettuale sempre pronto a proporsi in maniera inaspettata, anche solo per il piacere di essere diverso dal normale. Ha elevato l’anormalità, intesa come rifiuto di qualsiasi norma, a pratica sia di arte sia di vita. Nato in un paese della Normandia in una famiglia composta da sette figli, insieme ad alcuni fratelli ed una sorella, si avvia alla professione artistica. Sin dall’inizio mostra tuttavia una irrequietezza culturale che lo porta a sommare esperienze in maniera molto eterogenea. Dal 1904 è a Parigi e qui si occupa di cose diverse: esegue caricature per i giornali, si interessa di teatro, gioca a biliardo, lavora presso una biblioteca, viaggia in automobile. Le sue prime esperienze pittoriche mostrano una facilità di assimilazione delle principali notivà stilistiche del momento: dal neoimpressionismo al fauvismo, dal simbolismo al futurismo. Ma è soprattutto nell’ambito del cubismo che egli si muove con maggior disinvoltura. Ma nel 1912, il suo quadro «Nudo che scende le scale n. 2» fu rifiutato dal Salon des Indépendants, proprio perché l’opera sembrava più futurista che cubista. Ciò provocò il definitivo distacco di Duchamp dai cubisti. L’opera, tuttavia, l’anno successivo fu esposta a New York, e qui divenne famosa. Nella capitale statunitense Duchamp vi arriva nel 1915 già preceduto dalla notorietà procuratagli dal «Nudo che scende le scale n. 2». In America entra in contatto con il gallerista Alfred Stieglitz ma soprattutto con Man Ray e con Francis Picabia, quest’ultimo già conosciuto a Parigi. Duchamp in questi anni diviene soprattutto un operatore artistico, impegnato più come consulente di collezionisti e gallerie che non come artista. La sua attività, pur saltuaria, non perde mai il gusto della provocazione, e l’invenzione dei «ready-made» ne è uno degli esempi più classici. Ma l’attività americana di quegli anni si concretizza soprattutto nella realizzazione del «Grande Vetro», opera alla quale smette di lavorare, lasciandola incompiuta, nel 1923. Da quest’anno egli smette sostanzialmente di fare l’artista. Nei decenni successivi si dedica soprattutto agli scacchi, partecipando anche a tornei professionistici internazionali. Ma ad un’ultima opera egli si dedica, in assoluta segretezza, per circa venti anni, dal 1946 al 1966: «Etant donnés: 1. la chute d’eau, 2. le gaz d’éclairage». L’opera, enigmatica sin dal titolo, consiste in una porta di legno consunta, dalle cui fessure, sbirciando oltre, si coglie una visione parziale di una ragazza distesa nuda con una lampada a gas in mano. Quest’ultima opera, della cui esistenza si è appreso solo dopo la morte di Duchamp, chiude il percorso di un artista che, con la sua attività, ha continuamente stupito, contribuendo come pochi a definire un concetto totalmente nuovo di arte, la cui eredità sarà colta soprattutto dai diversi movimenti di ispirazione concettuale sorti nel secondo dopoguerra. [Fontana] Il «ready-made» dal titolo «Fontana» rappresenta il momento di maggior provocazione dell’opera di Duchamp. Nel 1917 egli era negli Stati Uniti e in quell’anno, sul modello del Salon des Indépendants, venne creata la Society of Independent Artists. Duchamp faceva parte del direttivo di questa associazione. Alla mostra organizzata dal gruppo poteva partecipare chiunque, pagando sei dollari, ed esponendo al massimo due opere. Duchamp mise in atto la sua provocazione in incognito. Presentò alla giuria della mostra un orinatoio firmandolo con lo pseudonimo R. Mutt. La giuria non capì e, sull’imbarazzo di come considerare la cosa, non fece esporre il pezzo. Una fotografia dell’opera fu tuttavia pubblicata sulla rivista «The Blind Man», edita dallo stesso Duchamp, il quale, fingendo di difendere l’ignoto autore dell’opera, scrisse: «Non è importante se Mr. Mutt abbia fatto Fontana con le sue mani o no. Egli l’ha SCELTA. Egli ha preso un articolo ordinario della vita di ogni giorno, lo ha collocato in modo tale che il suo significato d’uso è scomparso sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista – ha creato un nuovo modo di pensare quell’oggetto». L’orinatoio originale utilizzato da Duchamp stranamente andò smarrito quando fu smontata la mostra nel 1917. Solo nel 1964 Duchamp autorizzò una replica di quel suo «ready-made» che fu acquistata dal collezionista milanese Arturo Schwarz. Da qualche anno esso è esposto nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. L’idea dei «ready-made» Duchamp l’aveva avuta qualche anno prima, quando era ancora in Francia. Ma dei diversi «ready-made» da lui realizzati, questo rimane di certo il più provocatorio ed irridente al mondo dell’arte. Opera che segna un punto di non ritorno: accettarla tra i capolavori d’arte significa essere disponibili al gioco ironico del non prendersi mai sul serio. Posizione che, tutto sommato, è da considerarsi con grande attenzione. -Man Ray- “dipingo ciò che non può essere fotografato” Fondatore della corrente americana del dadaismo, nel 1925 aderì al movimento surrealista e ne divenne la figura di spicco in ambito fotografico. Giocò sulle ambiguità di un genere ancora sconosciuto, la fotografia, e ne esaltò l'intelligenza del materiale utilizzando tecniche sperimentali come la solarizzazione, il collage e le rayografie. Poetico e dissacratore, esplorò la sensualità dei corpi, i simboli e gli effetti sognanti dell'arte. L’opera pittorica di Man Ray non presenta alcun ordine cronologico, alcuna evoluzione stilistica e nessuna vocazione di tipo estetico o decorativo: vi sono solo momenti diversi e variazioni su temi diversi. “Non si può far meglio degli antichi maestri, si può solo essere diversi. Non so che cosa sia originale o moderno. Non sono in anticipo rispetto al mio tempo: vivo solo nel mio tempo e cerco di essere me stesso.” Egli alternò il suo fare pittura con l’arte della fotografia: due mezzi espressivi che spesso si sovrapposero e si intersecarono nel vocabolario dell’artista. “Mi sono spesso divertito a fare fotografie che possano essere scambiate per riproduzioni di dipinti e dipinti che sono stati ispirati da fotografie.” In realtà molto più spesso il pittore influenzò il fotografo mentre, solo raramente, il fotografo influenzò il pittore. [Man Ray, La Fortuna, 1938] Anche se negli anni Trenta del Novecento Man Ray era più noto come fotografo che come pittore, egli considerava la fotografia come un modo per guadagnarsi da vivere, privilegiando la pittura come arte che più gli interessava: “l’arte non è fotografia.” Emmanuel Rudnitzky, più comunemente noto come Man Ray, nacque a Filadelfia nel 1890, ma fu a New York, dove si trasferì con la famiglia all’età di sette anni, che crebbe e fece i suoi studi d’arte. Egli provò subito un certo disgusto per gli insegnamenti tradizionali dimostrando, così, un carattere ostinato e ribelle: “era come quando andavo a scuola da bambino: quando tutti mi dicevano che cosa dovevo fare. Io invece volevo già fare ciò che uno non dovrebbe fare.” Man Ray trovò una maggiore libertà quando cominciò a frequentare i corsi serali all’istituto d’arte Francisco Ferrer Social Center, luogo di incontro degli intellettuali più avanzati dell’epoca. Qui potè dare sfogo al suo genio creativo dimostrando, nel contempo, una spiccata individualità e libertà di concezione: caratteristiche queste che lo contraddistinsero nel suo essere artista. Egli, infatti, non può essere univocamente annoverato all’interno di un gruppo o di movimento artistico: nonostante i rapporti che lo legarono ai surrealisti e ai dadaisti, Man Ray aveva troppo in considerazione la propria autonomia di pensiero per poter essere a pieno tipo un surrealista o un dadaista; come nessuna delle sue opere rispose appieno allo spirito dada o surrealista. “Quanto a me, io mi sforzo semplicemente di essere il più libero possibile: nel mio modo di lavorare; nella scelta del mio soggetto. Nessuno può dettarmi norme o guidarmi. Possono criticarmi, dopo, ma allora è troppo tardi. A quel punto il lavoro è fatto e io ho assaporato la libertà.” [Man Ray, Portemanteau, 1920, readymade aiutato: manichino e nudo] L’opera di Man Ray rivela poca influenza da parte dei grandi maestri o dai suoi contemporanei, poiché l’ammirazione che provava verso di loro non si risolse mai nel desiderio di imitarli, ma piuttosto nella volontà di trarne ispirazione. Egli sperimentò così, indifferentemente, stili e tecniche: “per esprimere ciò che sento mi servo del mezzo più adatto per esprimere quell’idea, mezzo che è sempre anche quello più economico. Non mi interessa affatto essere coerente come pittore, come creatore di oggetti o come fotografo. Posso servirmi di varie tecniche diverse, come gli antichi maestri che erano ingegneri, musicisti e poeti nello stesso tempo.” Con le tele, gli assemblage, i collages, i ready made, le fotografie, Man Ray rivelò la sua grande duttilità ed originalità, tanto è vero che ogni opera merita di un commento a se stante, perché autonoma e particolare è ogni sua creazione: una volta padroneggiato uno stile, cessava il piacere della novità e Man Ray passava rapidamente ad un altro. [Man Ray, Boardwalk, 1917-1973, assemblage] Il 14 luglio 1921 Man Ray sbarcò a Parigi; vi giunse quando il Dadaismo si stava avviando verso la sua naturale fine ed il Surrealismo stava prendendo forma attorno a poeti quali Breton, Eluard e ad artisti quali Ernst, Duchamp, Arp e Masson. Nel corso dello stesso anno Man Ray tenne la sua prima personale in Europa alla Librairie Six: la mostra comprendeva molte fra le opere più importanti di Man Ray eseguite a New York. L’esito fu del tutto deludente, anzi, fu un completo fiasco: l’artista non vendette nulla e si trovò quindi nella condizione di intensificare l’attività di fotografo da cui traeva fama e sostentamento. Durante gli anni del suo primo soggiorno a Parigi (1921-1940), Man Ray si affermò come fotografo professionista divenendo collaboratore di importanti riviste di moda ed il ritrattista ufficiale della ricca borghesia francese. Nonostante tutto Man Ray non amò mai particolarmente il mezzo fotografico, ai suoi studenti diceva: “se volete fare fotografie, gettate via la macchina fotografica.” [Man Ray, Venere restaurata, 1936, assemblage] Anche se erano tempi duri per le avanguardie e per il loro riconoscimento in ambito artistico, a quest’epoca risalgono gli assemblage più famosi di Man Ray come il Dono (1921), l’Oggetto indistruttibile (1923) o la Venere restaurata (1936), solo per citarne alcuni, oggetti comuni riproposti e ricontestualizzati, pregni di significati simbolici ed onirici, di fantasie erotiche e sadiche. Anche le tele del primo soggiorno parigino sono tra le più significative nel catalogo dell’artista: All’ora dell’osservatorio. Gli amanti (1932-1934) è forse la più nota fra le opere di Man Ray e la sua notorietà non è immeritata. [Man Ray, Dono, 1921-1963, ferro da stiro e chiodi] Nel giugno del 1940, quando il governo francese aveva dichiarato l’armistizio, molti degli amici di Man Ray avevano già abbandonato Parigi. Durante le sue ultime settimane di permanenza nella capitale, l’artista mise al sicuro le sue opere e quindi si mise in viaggio verso gli Stati Uniti: la situazione dell’Europa stava precipitando negli abissi di quello che sarà il secondo conflitto mondiale. [Carl Van Vechten, Man Ray, 1934] Ritornato in America, oramai cinquantenne, dopo aver lasciato gli amici di una vita, Man Ray si isolò nella sua arte, affiancato da quella che poi diventerà la sua compagna fino alla fine dei suoi giorni: Juliet Browner, una ballerina che aveva studiato danza con Martha Graham. Con lei si trasferì in California e si dedicò a ricreare molte delle sue opere credute perdute durante la guerra e a disegnare diverse scacchiere, riprendendo la sua antica passione per gli scacchi. Oltre che affascinato dal gioco, Man Ray era anche attratto dal significato simbolico della scacchiera: il terreno su cui si svolge la battaglia della vita, ragione ed ordine contro conflitto e caso. [Man Ray, Juliet e Margaret, 1948] Tra gli oggetti più notevoli elaborati durante il secondo periodo americano di Man Ray (1940-1951) vi è certamente la serie delle Maschere ridipinte. Una delle funzioni della maschera è di nascondere l’identità di chi le indossa: “dipinsi maschere di cartapesta per le ragazze che le mettevano e facevano strani balli, in un completo abbandono, sicure della loro anonimità” – ricorda Man Ray a proposito degli sfrenati party di Hollywood dell’inizio degli anni Quaranta. Una funzione, dunque, disinibitoria a cui si sovrappose, nell’immaginario dell’artista, un significato antropologico e psicologico di grande pregnanza e tradizione letteraria: la maschera dà a chi la indossa gli attributi del personaggio rappresentato. Man Ray non si era mai trovato a suo agio negli Stati Uniti: molti suoi amici, a guerra conclusa, erano tornati in Europa e nella società hollywoodiana si era sempre sentito un escluso, la pecora nera. “Le persone che avevo visto più spesso lasciarono la scena una a una come nella sinfonia di Haydn in cui i musicisti alla fine escono uno alla volta, spegnendo le loro candele[…]. Hollywood cominciava a perdere il suo fascino.” [Man Ray, All’ora dell’osservatorio. Gli amanti, 1932-1934] All’inizio del 1951 Man Ray sbarcò per la seconda volta a Le Havre, questa volta accompagnato dall’amata Juliet. una caratteristica che dipende dalla singola individualità, ma è sensazione certamente universale quella di avvertire lo scorrere del tempo secondo metri assolutamente personali. -René Magritte- Il pittore belga René Magritte (1898-1967) è tra i pittori surrealisti più originali e famosi. Dopo aver studiato all’Accademia di Bruxelles, i suoi inizi di pittore si muovono nell’ambito delle avanguardie del Novecento, assimilando influenze dal cubismo e dal futurismo. Secondo quando egli stesso ha scritto, la svolta surrealista avvenne dopo aver visto il quadro di De Chirico «Canto d’amore», dove sul lato di un edificio sono accostati la testa enorme di una statua greca e un gigantesco guanto di lattice. Nel 1926 prese contatto con Breton, capo del movimento surrealista, e l’anno successivo si trasferì a Parigi, per restarvi tre anni. Dopo di che la sua vita artistica si è svolta interamente in Belgio. Magritte è l’artista surrealista che, più di ogni altro, gioca con gli spostamenti del senso, utilizzando sia gli accostamenti inconsueti, sia le deformazioni irreali. Ciò che invece è del tutto estraneo al suo metodo è l’automatismo psichico, in quanto egli, con la sua pittura, non per vuole far emergere l’inconscio dell’uomo ma vuole svelare i lati misteriosi dell’universo. Ed è proprio su questo punto che la sua poetica conserva lati molto affini con quelli della Metafisica. I suoi quadri sono realizzati in uno stile da illustratore, di evidenza quasi infantile. Volutamente le sue immagini conservano un aspetto "pittorico", senza alcuna ricerca di illusionismo fotografico. Già in ciò si avverte una delle costanti poetiche di Magritte: l’insanabile distanza che separa la realtà dalla rappresentazione. E spesso il suo surrealismo nasce proprio dalla confusione che egli opera tra i due termini. È il caso del quadro «Ceci n’est pas une pipe», dove una riproduzione perfetta di una pipa è accompagnata dalla scritta "questa non è una pipa". L’iniziale mistero di una simile incongruenza va ovviamente sciolto nella constatazione che un quadro, anche se rappresenta una pipa, è qualcosa di molto diverso da una pipa reale. In altri quadri Magritte gioca con il rapporto tra immagine naturalistica e realtà, proponendo immagini dove il quadro nel quadro ha lo stesso identico aspetto della realtà che rappresenta, al punto da confondersi con esso. Di notevole suggestione poetica sono anche i suoi accostamenti o le sue metamorfosi. Combina, nel medesimo quadro, cieli diurni e paesaggi notturni. Accosta, sospesi nel cielo, una nuvola ed un enorme masso di pietra. Trasforma gli animali in foglie o in pietra. Il suo surrealismo è dunque uno sguardo molto lucido e sveglio sulla realtà che lo circonda, dove non trovano spazio né il sogno né le pulsioni inconsce. L’unico desiderio che la sua pittura manifesta è quello di "sentire il silenzio del mondo", come egli stesso scrisse. In ciò quindi il surrealismo di Magritte si colloca agli antipodi di quello di Dalí, mancandovi qualsiasi esasperazione onirica o egocentrica. [Le passeggiate di Euclide] Il quadro appartiene ad una numerosa serie che Magritte ha realizzato sul tema del quadro nel quadro. In esso è raffigurato l’interno di una stanza in cui si apre una finestra. Davanti la finestra è collocato un cavalletto e su di esso una tela che riproduce fedelmente una porzione dell’immagine esterna incorniciata dalla finestra. Il quadro è così fedele che diventa quasi impercettibile: lo si riconosce giusto per una sottile linea bianca sulla sinistra che corrisponde allo spessore del telaio su cui è montata la tela. Già questa coincidenza tra immagine reale e riproduzione pittorica induce ad un attimo di perplessità. La nostra esperienza sa che è impossibile confondere un’immagine tridimensionale con una bidimensionale, ma se qui appare possibile è perché di fatto anche l’immagine "reale" è in realtà un’immagine pittorica: una cosa del genere, in sostanza, può avvenire solo in un quadro. Il titolo, con il richiamo al noto matematico greco Euclide, allude alle geometrie dei due elementi di spicco del quadro nel quadro: due triangoli dove quello a sinistra è il tetto di una torre cilindrica e quello a destra è un viale cittadino tra due file di caseggiati. I due triangoli hanno la stessa forma e dimensione, pur rappresentando due elementi completamenti diversi: un cono quello a sinistra, una lunga striscia rettangolare piana vista in prospettiva quella a destra. Anche in questo caso Magritte gioca sul rapporto tra realtà e rappresentazione, dove la seconda, per essere bidimensionale, può confondere l’apparenza di ciò che nella realtà è tridimensionale. In questo sottile gioco che Magritte instaura tra l’essere e l’apparire, il compito della pittura non è far vedere, ma far pensare. Anche lo stile, tipico di Magritte, rientra in questo obiettivo: pur nella nitidezza fotografica, l’immagine non perde la sua apparenza di dipinto, e ciò contribuisce a tener separata la realtà dalla rappresentazione. Il mondo dell’arte, in sostanza, è altro rispetto al mondo reale, e solo in esso possiamo trovare delle possibilità che reali non sono, ma che meglio ci aiutano a comprendere e penetrare i misteri della realtà. [Gli amanti] Uno dei meccanismi utilizzati da Magritte, per giungere alla rappresentazione surreale, è quello di coprire il volto dei personaggi ritratti per cancellarne l’identità. Ai volti sovrappone delle colombe, a volte delle mele, in questo caso copre i due volti con due lenzuoli. L’effetto è tanto più sorprendente se, come in questo caso, i due personaggi si stanno baciando. La sensazione che ne deriva è di malinconia per la crudeltà imposta ai due personaggi, ai quali viene negata la piena potenzialità del gesto compiuto. ASTRATTISMO -Il significato di astratto e di astrazione Nelle arti figurative il concetto di astratto assume il significato di «non reale». L’arte astratta è quella che non rappresenta la realtà. L’arte astratta crea immagini che non appartengono alla nostra esperienza visiva. Essa, cioè, cerca di esprimere i propri contenuti nella libera composizione di linee, forme, colori, senza imitare la realtà concreta in cui noi viviamo. L’astratto, in tal senso, nasce agli inizi di questo secolo. Ma esso era già presente in molta produzione estetica precedente, anche molto antica. Sono astratte sia le figurazioni che compaiono sui vasi greci più antichi, sia le miniature altomedievali, solo per fare alcuni esempi. In questi casi, però, la figurazione astratta aveva un solo fine estetico ben preciso: quello della decorazione. L’arte astratta di questo secolo ha, invece, un fine completamente diverso: quello della comunicazione. Vuole esprimere contenuti e significati, senza prendere in prestito nulla dalle immagini già esistenti intorno a noi. All’astratto si è arrivati mediante un processo che può essere definito di astrazione. Il concetto di astrazione è molto generale, ed esprime un procedimento mediante il quale l’intelletto umano descrive la realtà solo in alcune sue caratteristiche. Da processi di astrazione nascono le parole, i numeri, i segni, e così via. Nel campo delle immagini, i segni, intesi come simboli che rimandano a cose o idee, è già un modo "astratto" di rappresentare la realtà. Nel campo dell’astrazione entrano anche la stilizzazioni che, ad esempio, proponeva l’arte liberty. Ed, ovviamente, tutta l’esperienza estetica delle avanguardie storiche è un modo tendenzialmente astratto di rappresentare la realtà. La scomposizione di una bottiglia, ad esempio, che effettua Picasso, gli consente di giungere ad una rappresentazione "astratta" di quella bottiglia. Ma nel suo quadro la bottiglia, intesa come realtà esistente, rimane presente. L’astrattismo nasce, invece, quando nei quadri non vi è più alcun riferimento alla realtà. Nasce quando i pittori procedono in maniera totalmente autonoma rispetto alle forme reali, per cercare e trovare forme ed immagini del tutto inedite e diverse da quelle già esistenti. In questo caso, l’astrattismo ha un procedimento che non è più definibile di astrazione, ma diviene totale invenzione. L’astrattismo nasce intorno al 1910, grazie al pittore russo Wassilj Kandinskij. Egli operava, in quegli anni, a Monaco dove aveva fondato il movimento espressionistico «Der Blaue Reiter». Il suo astrattismo conserva infatti una matrice fondamentalmente espressionistica. È teso a suscitare emozioni interiori, utilizzando solo la capacità dei colori di trasmettere delle sensazioni. Da questo momento, la nascita dell’astrattismo ha la forza di liberare la fantasia di molti artisti, che si sentono totalmente svincolati dalle norme e dalle convenzioni fino ad allora imposte al fare artistico. I campi in cui agire per nuove sperimentazioni si aprono a dismisura. E le direzioni in cui si svolge l’arte astratta appaiono decisamente eterogenee, con premesse ed esiti profondamente diversi. Nel campo dell’architettura e del design, l’arte astratta smuove finalmente un grosso vincolo che aveva condizionato tutta la produzione ottocentesca: quella di mascherare le cose e gli edifici, con una "pelle" stilistica a cui affidare la riuscita estetica del manufatto. L’arte astratta sembra dire che può esistere un’estetica delle cose che nasce dalle cose stesse, senza che esse debbano necessariamente imitare qualcosa di altro. E come l’arte astratta possa divenire metodo di una nuova progettazione estetica, nell’architettura e nelle arti applicate, è un processo che si compie nella Bauhaus, negli anni ’20 e ’30, e che vede protagonista ancora Wassilj Kandinskij. Ma l’idea, che l’astratto potesse servire a costruire un mondo nuovo, era già nata qualche anno prima in Russia con quella avanguardia definita Costruttivismo. Negli anni ’30, in coincidenza con quel fenomeno di ritorno alla figuratività, definito «ritorno all’ordine», l’astrattismo subisce dei momenti di pausa. È un’arte che, al pari di quella delle altre avanguardie, non viene accettata dai regimi totalitari che si formano in quegli anni: il nazismo in Germania, il fascimo in Italia, il comunismo in Russia, il franchismo in Spagna. E, in conseguenza di questo atteggiamento, molti artisti europei emigrarono negli Stati Uniti dove portarono l’eredità delle esperienze artistiche dei primi decenni del Novecento europeo. Le esperienze astrattiste hanno ritrovato nuova vitalità nel secondo dopoguerra, dando luogo a diverse correnti, quali l’Action Painting, l’Informale, il Concettuale, l’Optical art. Nuovi campi di sperimentazioni sono stati tentati dagli artisti, uscendo dal campo delle immagini, per rendere esperienza estetica la gestualità, la materia, e così via. Uno degli esiti più interessanti e suggestivi dell’astrattismo, è dato dall’Action Painting del pittore statunitense Jackson Pollock. Egli, a partire dal 1946, inventò il dripping, ossia la tecnica di porre il colore sulla tela posta a terra, mediante sgocciolatura e spruzzi. I quadri così ottenuti risultano delle immagini assolutamente confuse e indecifrabili. Cosa esprimono? Il senso del caos, che è una rappresentazione della realtà, forse, più vera di quelle che ci propone la razionalità umana. L’arte, in questo modo, non solo nega il concetto di immagine, ma nega il fondamento stesso dell’arte. Di un’attività, cioè, che riesce a mettere ordine nelle cose, per giungere a quel prodotto di qualità che è l’opera d’arte. I quadri di Pollock ci rimandano ad un diverso ordine delle cose, della realtà, dell’universo le cui leggi, come ci insegna la fisica, sono razionali, ma il cui esito, come ci insegna il secondo principio della termodinamica, è il caos più assoluto. L’arte astratta nasce come volontà di espressione e di comunicazione, ma lo fa con un linguaggio di cui difficilmente si conoscono le regole. Il problema interpretativo dell’arte astratta è stato in genere impostato su due categorie essenziali: la prima si affida alla psicologia gestaltica, la seconda all’esistenzialismo. La psicologia gestaltica studia l’iterazione tra l’uomo e le forme. Ossia, come la percezione delle forme diviene esperienza psicologica. Il modo come si struttura questa esperienza psicologica segue leggi universali. Ad esempio, il cerchio tende ad esprimere sempre la medesima sensazione, indipendentemente da cosa abbia forma circolare. E così avviene per i colori. E avviene per l’articolazione tra forme e forme, tra colori e colori, e tra forme e colori. In sostanza l’atto percettivo, affidandosi ad esperienze già possedute e a meccanismi di fondo, tende a interpretare le cose che vede indipendentemente da cosa esse rappresentino. Pertanto anche l’immagine astratta trasmette informazioni percettive che stimolano una reazione di tipo psicologico. Se la psicologia gestaltica può spiegare il meccanismo per cui un’opera astratta può apparire bella o brutta, difficilmente può spiegare quale opera apparirà bella e quale brutta. In sostanza, non può fornire elementi di valutazione critica, restando questi comunque pertinenti al campo specifico della storia dell’arte e alla storia del gusto. Tuttavia la psicologia gestaltica ha fornito numerosi elementi per inquadrare il problema, chiarendo come l’arte astratta riesca a comunicare con la psicologia dell’osservatore. E, soprattutto nella sua fase iniziale, l’astrattismo si è ampiamente appoggiata alle categorie interpretative gestaltiche. Altro metodo di decifrazione dell’arte astratta è quello di rintracciare l’esperienza esistenziale da cui è nata la specifica opera. L’artista, come qualsiasi altra persona di questo mondo, vive la medesima realtà di tutti. Riceve le medesime sollecitazioni, le interpreta con la sua specifica sensibilità, e, in più rispetto agli altri, le sa tradurre in forma. Il gesto creativo, sostanziandosi in un’opera, diviene traccia esistenziale. L’opera creata diviene traccia di tutta l’iterazione tra realtà, sollecitazione, sensibilità e creatività, che può essere comune a tutti, ma che solo l’artista, proprio perché è tale, sa esprimere e oggettivare. In questo caso, l’opera non solo è traccia del proprio essere al mondo, che risulta il valore minimo, ma rimane come testimonianza dell’essere al mondo in un particolare momento, in una particolare situazione, in un particolare contesto e così via. Ed assume, pertanto, valore di documento storico-culturale proprio perché è il frutto di quella particolare storia e di quella particolare cultura. -Wassilj Kandinskij- Wassilj Kandinskij (1866-1944) è nato il 4 dicembre 1866. Proviene da una agiata famiglia borghese di Mosca e viene avviato agli studi di legge. Dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza, gli viene offerta una cattedra all’università che egli però rifiuta per dedicarsi alla pittura. In questa fase della sua gioventù egli si dedica allo studio del pianoforte e del violoncello. Il contatto con la musica si rivelerà in seguito fondamentale per la sua evoluzione artistica come pittore. Un altro avvenimento di questi anni fornirà un contributo fondamentale alla formazione della sua arte. Nel 1889 partecipa ad un programma di ricerca della «Società di scienze naturali, di etnografia e antropologia» che si svolge a Vologda. L’occasione è importante per conoscere il fascino e l’intensità dell’arte popolare russa, alla quale spesso Kandinskij si ispirerà in seguito. Nel 1896 si trasferisce a Monaco, in Germania, per intraprendere studi più approfonditi nel campo della pittura. In questa città viene in contatto con l’ambiente artistico che in quegli anni aveva fatto nascere la Secessione di Monaco (1892). Sono i primi fermenti di un rinnovamento artistico che avrebbe in seguito prodotto il fenomeno dell’espressionismo. Kandinskij partecipa attivamente a questo clima avanguardistico. Nel 1901 fonda la prima associazione di artisti monacensi, cui dette il nome di «Phalanx». La sua attività pittorica lo porta in contatto con gli ambienti artistici europei, organizza mostre in Germania, ed espone a Parigi e Mosca. Nel 1909 fonda una nuova associazione di artisti: la «Neue Künstlervereinigung München» (Associazione degli artisti di Monaco). In questa fase la sua arte è sempre più influenzata dall’espressionismo a cui lui fornisce contributi pittorici e critici. Ed è proprio partendo dall’espressionismo che negli anni dopo il 1910 avviene la sua svolta verso una pittura totalmente astratta. Dopo alcuni contrasti con la NKVM, nel 1911 fonda, insieme all’amico pittore Franz Marc, «Der Blaue Raiter» (Il Cavaliere Azzurro). Inizia così il periodo più intenso e produttivo della sua vita artistica. Nel 1910 pubblica il testo fondamentale della sua concenzione artistica: «Lo spirituale nell’arte». È un testo fondamentale per comprendere la sua opera. Al quarto capitolo Kandinskij scrive che in tutte le arti, specie in quelle dei suoi tempi, è avvertibile una tendenza all’antinaturalismo, all’astrazione e all’interiorità. E aggiunge che in un confronto tra le varie arti: «il più ricco insegnamento viene dalla musica. Salvo poche eccezioni, la musica è già da alcuni secoli l’arte che non usa i suoi mezzi per imitare i fenomeni naturali, ma per esprimere la vita psichica dell’artista e creare la vita dei suoni». Le riflessioni sui rapporti tra pittura e musica convincono Kandinskij che la pittura deve essere sempre più simile alla musica e che i colori devono sempre più assimilarsi ai suoni. La musica, infatti, è pura espressione di esigenze interiori e non imita la natura: è astratta. Anche la pittura, secondo Kandinskij, deve essere astratta, abbandonando l’imitazione di un modello. Solamente una pittura astratta, cioè non figurativa, dove le forme non hanno attinenza con alcunché di riconoscibile, liberata dalla dipendenza con l’oggetto fisico, può dare vita alla spiritualità. L’artista affronta la pittura astratta attraverso tre gruppi di opere, che anche nelle loro denominazioni indicano il legame dell’arte di Kandinskij con la musica: "impressioni", "improvvisazioni" e "composizioni". Impressioni sono i quadri nei quali resta ancora visibile l’impressione diretta della natura esteriore; improvvisazioni, quelli nati improvvisamente dall’intimo e inconsciamente; composizioni quelli alla cui costruzione partecipa il cosciente, definiti attraverso una serie di studi. Kandinskij dopo questo passaggio, non ritornerà mai più alla pittura figurativa. Le attività del Cavaliere Azzurro proseguono con l’organizzazione di mostre e la pubblicazione di un almanacco. Si viene così più chiaramente a definire un secondo filone espressionistico, definito "lirico", per distinguerlo da quello più intensamente drammatico che faceva capo al primo gruppo sorto a Dresda nel 1905. Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, Kandinskij rientra in Russia. Qui, dopo la rivoluzione del 1917, viene chiamato a ricoprire importanti cariche pubbliche nel campo dell’arte. Crea l’Istituto per la Cultura Pittorica e fonda l’Accademia di Scienze Artistiche. Partecipa al clima avanguardistico russo che in quegli anni conosce importanti fermenti con la nascita del Suprematismo e del Costruttivismo. Tuttavia, avvertita l’imminente svolta normalizzatrice, che avrebbe di fatto tolto spazio alla ricerca delle avanguardie, nel 1921 ritorna in Germania e non farà più ritorno in Russia. Nel 1922 viene chiamato da Walter Gropius ad insegnare al Bauhaus di Weimar. Questa scuola di arti applicate, fondata nel 1919 dall’architetto tedesco, svolge un ruolo fondamentale nel rinnovamento artistico europeo degli anni ’20 e ’30. Qui Kandinskij ha modo di svolgere la sua attività didattica con grande libertà e serenità, stimolato da un ambiente molto ricco di presenze qualificate. In questa scuola operarono in quegli anni i maggiori architetti, designer ed artisti provenienti da tutta Europa. Kandinskij lega in particolare con il pittore svizzero Paul Klee, il pittore russo Alexej Jawlensky e il pittore e fotografo americano Lyonel Feininger. Con essi fonda il gruppo «Die blaue Vier» (I quattro azzurri), che idealmente si lega al precedente gruppo del Cavaliere Azzurro. In questa fase il suo astrattismo conosce una svolta molto decisa. Nella prima fase i suoi quadri si componevano di figure molto informi mischiate senza alcun ordine geometrico. Anche i colori erano molto vari, mischiati tra loro, ottendendo infinite varietà cromatiche intermedie. Nella nuova fase, coincidente con il suo insegnamento al Bauhaus, i quadri di Kandinskij assumono un ordine molto più preciso. Si compongono di forme dalle geometrie più riconoscibili e dalle tinte più separate tra loro. Ciò segna un passaggio ben preciso nel suo approccio all’arte astratta. Nella prima fase il suo astrattismo risponde solo alle sue esigenze interiori di esprimere emozioni e sentimenti. Nella seconda fase prevale la necessità della didattica, e quindi la razionalizzazione di un metodo che possa essere di insegnamento agli allievi. Anche se ciò è stato spesso interpretato come un impoverimento della sua vena creativa, è questo uno sforzo che egli compie che sarà fondamentale per la nascita di una estetica veramente moderna e attuale. Il periodo trascorso al Bauhaus finisce nel 1933 quando la scuola viene chiuso dal regime nazista. L’anno successivo Kandinskij si trasferisce in Francia. A Parigi vive gli ultimi dieci anni della sua vita. Muore nella residenza di Neuilly-sur-Seine il 13 dicembre 1944. [Primo acquerello astratto] Questo acquerello è la prima opera totalmente astratta di Kandinskij. Nacque come studio per un’opera più complessa, realizzata nel 1913. Esso tuttavia ha una sua organicità, e un suo primato, che lo hanno reso una delle opere più famose dell’artista. Al quadro manca una qualsiasi spazialità. Si compone unicamente di macchie di colore e segni neri che non compongono delle forme precise e riconoscibili. Non è quindi possibile ritrovarvi una organizzazione di lettura precisa. Lo si può guardare partendo da un qualsiasi punto e percorrerlo secondo percorsi a piacere. Ma, come le opere musicali, che hanno un tempo preciso di esecuzione, anche i quadri di Kandinskij hanno un tempo di lettura. Non possono essere guardati con un solo sguardo. Sarebbe come ascoltare un concerto eseguito in un solo istante: tutte le note si sovrapporrebbero senza creare alcuna melodia. I quadri di Kandinskij vanno letti alla stessa maniera. Guardando ogni singolo colore, con il tempo necessario affinché la percezione si traduca in sensazione psicologica, che può far risuonare sensazioni già note, o può farne nascere di nuove. Tenendo presente ciò, i quadri di Kandinskij, soprattutto quelli più complessi a cui diede il nome di Composizioni, si rivelano essere popolati di una quantità infinita di immagini. Ogni frammento, comunque preso, piccolo o grande che sia, ha una sua valenza estetica affidata solo alla capacità del colore di sollecitare una sensazione interiore. Si tratta di un approccio all’opera d’arte assolutamente nuovo ed originale che sconvolge i normali parametri di lettura di un quadro. Ma è un approccio che ci apre mondi figurativi totalmente nuovi ed inediti, dove, per usare una espressione di Paul Klee, «l’arte non rappresenta il visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è». [Giallo, rosso, blu] Il quadro, realizzato nel 1925 e conservato attualmente in Francia, è tra le opere più famose di Kandinskij. Già dal titolo si intuisce come protagonista del quadro è solo il colore, che qui viene impostato soprattutto sui tre primari. Nelle opere di Kandinskij l’armonia dei colore corrisponde a quella dei suoni musicali, con la ricerca di un effetto psicologico che va al di là del soggetto. Così Kandinskij nelle sue variazioni di motivi trasforma il soggetto in una corrispondenza armoniosa secondo ritmi soprattutto diagonali e secondo toni originati dal blu, rosso, giallo, in diverse gradazioni e sfumature. Kandinskij parte dai colori, anzi, dall’accostamento dei colori con i suoni musicali. Nello «Spirituale nell’arte» fa corrispondere il giallo alla tromba, l’azzurro al flauto, al violoncello, al contrabbasso e all’organo, il verde al violino. Sostiene che il rosso richiama alla mente le fanfare, il rosso di cinabro la tuba o il cembalo, l’arancione una campana di suono medio o un contralto che suoni in largo. Che il viola suona come un corno inglese o come i bassi dei legni. Dopo aver collegato ciascun colore ad un suono, un profumo, un’emozione precisa, l’artista afferma che proprio grazie alle sue risonanze interiori, a seconda della sua diversità, ogni colore produce un effetto particolare sull’anima. Il colore rosso per esempio può provocare l’effetto della sofferenza dolorosa, per la sua somiglianza al sangue. Il giallo invece, per semplice associazione col limone, comunica una impressione di acido. Alcuni colori possono avere una apparenza ruvida, pungente, mentre altri vengono sentiti come qualcosa di liscio, di vellutato, così di dar voglia di accarezzarli.
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