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CARDUCCI, SCAPIGLIATURA, VERGA, D'ANNUNZIO E PASCOLI, Appunti di Italiano

Riassunto libro di italiano sul programma del quinto anno dalla scapigliatura a pascoli, passando quindi dal verismo, dal decadentismo e dall'estetismo

Tipologia: Appunti

2018/2019

In vendita dal 24/05/2022

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Scarica CARDUCCI, SCAPIGLIATURA, VERGA, D'ANNUNZIO E PASCOLI e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! IL ROMANZO, GENERE GUIDA DELL’OTTOCENTO Nell’Ottocento il romanzo diventa il genere letterario più importante e diffuso. Nato nel Medioevo e consolidatosi nel XIX secolo, è diventato espressione della borghesia urbana. Il suo orientamento è per lo più realistico, poiché ambisce a rappresentare la vita quotidiana e far comprendere le ragioni delle loro azioni, mostrando gli ostacoli interiori e sociali che si frappongono alla loro realizzazione. Il genere svolge due funzioni complementari: descrivere la realtà contemporanea e fornire al lettore un orientamento ideologico per viverla. Il romanzo ottocentesco è spesso ambientato in città e ha come protagonisti giovani che intrecciano la lotta per l’affermazione personale con la ricerca dell’amore e la scoperta di sé. Questi tratti caratterizzano in particolare il “romanzo di formazione” (Bildungsroman), in cui il protagonista, un giovane, giunge a progressiva maturazione, spesso scontrandosi con le convinzioni sociali. Nel corso del secolo, le tecniche narrative divengono sempre più raffinate ed efficaci, tendono a far “scomparire” il narratore. Egli è (o vuole far credere di essere) impassibile come il testimone diretto di un processo. La sua estraneità non è solo garanzia di obiettività, ma presuppone anche il rifiuto di commentarla e giudicarla. IL ROMANZO IN EUROPA Intorno al 1830 si può collocare la nascita del moderno realismo, ovvero di quel movimento artistico letterario che si caratterizza per: 1. La verosimiglianza dell'intreccio 2. La ricchezza dell’approfondimento psicologico 3. La rappresentazione della società. Con la Commedia Umana di Honoré de Balzac il romanzo dichiara la sua aspirazione a proporsi come ritratto del mondo contemporaneo e modello di analisi di una società in cui dominano passioni, debolezze e spietati interessi economici. Il 1848, con i suoi moti rivoluzionari, segna un nuovo spartiacque nella storia letteraria. Il romanzo simbolo di questa svolta è Madame Bovary di Gustave Flaubert. Destinato a provocare scandalo presso l’opinione pubblica e gli ambienti intellettuali contemporanei, il romanzo ritrae le debolezze della protagonista. Una diversa e ulteriore evoluzione del romanzo si ha con i fratelli Goncourt e con Emile Zola. Negli ultimi decenni del secolo, il romanzo ha una funzione tra" fotografico ": viene Infatti attribuita la capacità di rendere con nitida imparzialità le leggi che regolano il comportamento degli individui. Se la Francia porta all'affermazione del romanzo come genere guida della cultura borghese, non meno importante è il contributo dell’Inghilterra, che era stato nel 1700 luogo di nascita del romanzo moderno. Nell’età denominata “vittoriana” il Paese conosce un vertiginoso sviluppo tecnologico e industriale, accompagnato da rilevanti fenomeni sociali. In questo contesto il romanzo inglese rivolge il proprio interesse alla società e al suo interno esamina il cammino dell’individuo. Non a caso, torna in voga il genere settecentesco del “romanzo di formazione” di cui la scrittrice Jane Austen era stata una delle principali cultrici. Nell’età vittoriana questo modello verrà ripreso nel romanzo di Charles Dickens, i cui eroi sono “raccontati” nel complesso passaggio dalla fanciullezza all’età adulta. Il genere del romanzo si estende fino in Russia, che a differenza della Francia e dell’Inghilterra la società è fondata sull’assolutismo zarista, che si regge principalmente sull’attività agricola: vige ancora la servitù della gleba. In tale contesto è molto attivo un gruppo di intellettuali che trova nel romanzo un inedito veicolo di comunicazione e di analisi. Questa scelta di impegno etico e sociale comporta tuttavia, una buona dose di rischio. Lev Tolstoj si trova a lottare più volte contro la censura imperiale; Fedor Dostoevskij va incontro alla condanna a morte per la sua partecipazione a un circolo socialista, poi commutata in quattro anni di lavoro forzato e sei di confino. STENDHAL E IL ROMANZO Henry Beyle, vero nome di Stendhal, nasce nel 1783 da una famiglia borghese. Nel 1800 si unisce all'esercito napoleonico in Italia ricoprendo diversi incarichi sia civili che militari. Fino al 1814 quando dopo la caduta di Napoleone si stabilisce a Milano. Qui è sospettato di aderire alla carboneria così nel 1821 si trasferisce a Parigi dove morirà nel 1841. L’attività di romanziere inizia con Armance (1827) e prosegue con il rosso e il nero (1830). La sua pubblicazione segna un’importante tappa di passaggio dal romanzo storico tradizionale a quello realista. La novità stendhaliana consiste nella rinuncia ad ambientare le vicende in un passato remoto a favore di una collocazione delle vicende narrate nel tempo presente. Particolarmente significativa è la scelta, in rosso e in nero, di ambientare i fatti narrati nell’età napoleonica. Il titolo si riferisce sia al gioco della roulette, sia il rosso alle battaglie napoleoniche e il nero all’età della Restaurazione. Il protagonista Julien Sorel, figlio di un artigiano ma ambizioso e convinto dell’importanza dell’istruzione viene assunto come precettore dei figli di Monsieur de Renal della cui moglie diviene poi l’amante. Dopo gli studi nel seminario, Julien viene assunto come segretario del Marchese de la Mole. La sua figlia, Mathilde si innamora di Julien e attendendo un figlio da lui, convince il padre ad acconsentire al matrimonio: Julien viene così nominato ufficiale e signore de la Vermeye. Ma una lettera di Madame de Renal in cui denuncia l’amante di un tempo distrugge i progetti di ascesa sociale di Julien. Per vendetta egli ferisce a morte in chiesa Madame de Renal e viene processato e condannato a morte. Mathilde ne bacerà la terra ghigliottinata. BALZAC E LA COMMEDIA UMANA Nato nel 1799, Honoré de Balzac, dopo gli studi giuridici e una breve attività di avvocato, esordisce come saggista. Tra il 1830 e il 1835 matura il progetto della commedia umana, che in qualche modo viene concepito come lo “specchio terrestre” della divina commedia dantesca. Morì a Parigi nel 1850. Obiettivo è mettere in scena l’uomo visto “naturalisticamente”, ovvero come individuo sottoposto alle leggi sociali e all’influenza ambientale. Balzac intende rappresentare una “storia naturale” della società che corrisponde alla Francia del XIX secolo. La commedia umana, nasce dalla volontà di rendere la grande fisionomia di un secolo. Il progetto infatti comprendeva tre parti: studi di costumi, studi filosofici e studi analitici. L’autore istituisce un parallelismo tra le diverse specie zoologiche e le “specie sociali”. I comportamenti di tali specie sociali e l’analisi delle differenze tra le specie costituiscono il compito principale del narratore moderno. Nella “giungla sociale” dove le singole specie si confrontano, il tornaconto personale sviluppa i peggiori istinti dell’individuo: il denaro è l’unico Dio della società. FLAUBERT E IL PRINCIPIO DELL’IMPASSIBILITA’ NARRATIVA Nato a Rouen nel 1821 in una famiglia borghese di idee liberali, era figlio di un chirurgo ma fin da bambino rivela un precoce talento artistico. Abbandonati gli studi di Giurisprudenza, nel 1845 porta a termine la prima versione dell’Educazione sentimentale. Dopo un lungo viaggio in Oriente, nel 1851 inizia la stesura di Madame Bovary, uscito nel 1857. Denunciato per attentato alla morale e alla religione, Flaubert viene assolto nel processo. Il “caso Bovary” provocò un enorme interesse di pubblico e una serie di interventi critici per lo più taglienti e scandalizzati. Muore per un'emorragia cerebrale nel 1880 presso Rouen. L’opera di Flaubert costituisce uno spartiacque fondamentale nella narrativa mondiale, tanto è che esponenti di scuole e movimenti completamente diversi lo hanno riconosciuto come punto di alla sua opera: mette in scena una pluralità di mondi che non si identificano con la sua particolare visione della vita, ma convivono con essa. I protagonisti dei romanzi dostoevskiani sono molto spesso degli “ideologi”, cioè hanno una loro visione della realtà che si evolve nel rapporto con le altre voci presenti. Ne discende l’importanza fondamentale dell’elemento dialogico, che dà forma alla polifonia e varietà dei punti di vista. Particolare nei romanzi dostoevskiani è anche la dimensione temporale, che non risponde ai parametri dell’oggettività e del realismo esteriore, bensì subisce una dilatazione abnorme. Posti continuamente di fronte a scelte morali, molti protagonisti dostoevskiani sono spesso immorali, malvagi e senza freni. Diversi personaggi come i quattro fratelli Karamazov si dibattono sulle opposte sponde del bene e del male, della perversione e della bontà; tutti sono tormentati del rovello interiore. DELITTO E CASTIGO. Pubblicato nel 1866 narra di uno studente a Pietroburgo che per mancanza di soldi è costretto a lasciare l’università; lo mantiene la sorella Dunja che gli invia parte dei suoi scarsi guadagni. Egli spinto dalla miseria, uccide un usuraia e incidentalmente anche la sorella di questa. Il magro bottino non sarà certo sufficiente ai suoi fini umanitari, né la sua coscienza reggerà all’urto del misfatto. Il protagonista oscilla quindi tra l’angoscia di essere scoperto, che lo porta sull’orlo del delirio e della paranoia e la volontà di sfidare il giudice istruttore Porfirij, quasi per metterò sulla strada giusta: quando i sospetti si appunteranno contro di lui lo salverà la falsa confessione di un operaio folle. Sarà soltanto l’incontro con Sonja a convincere il protagonista a confessare. I FRATELLI KARAMAZOV. Pubblicato nel 1880 è incentrato sull’omicidio di Fedor Karamazov, padre di 3 giovani avuti da due matrimoni diversi e di un quarto illegittimo: l’epilettico Smerdjakov, ridotto a fare il servo di casa. L’atmosfera familiare è dominata dall’odio tra il vecchio e i figli per questioni economiche; in particolare lo scontro con Dmitrij. Quando si verifica l’omicidio tutti i sospetti cadono su Dmitrij che viene arrestato e condannato. In realtà l’assassinio è stato compiuto da Smerdjakov che dopo il suicido del fratellastro sarà tormentato dai sensi di colpa. UNA CULTURA E UNA LINGUA PER L’ITALIA UNITA Fino all’Ottocento l’orizzonte politico degli italiani è ancora municipale o al massimo regionale. Ciò nonostante, un’idea di unità culturale e civile degli italiani, era da tempo radicata in Italia. Essa aveva alimentato le riflessioni di molti pensatori e politici che contribuirono a dar forma agli ideali del Risorgimento. Sostenitore della grandezza della tradizione italiana è Vincenzo Gioberti, teorico del movimento neoguelfo. Nel suo scritto l’Italia è vista come la nazione-guida dei popoli nella realizzazione del disegno divino nella storia terrena. All’Italia viene dunque assegnata una missione civilizzatrice in cui convivono i valori del progresso laico e i valori della tradizione cristiana. La linea di Gioberti trova altri sostenitori tra cui Cesare Balbo e Massimo D’Azeglio. Dal 1861 al 1876 il neonato Stato unitario, viene guidato da un governo liberal-conservatore (Destra storica) chiamato a risolvere i problemi di un Paese di circa 22 milioni di abitanti. Il governo sceglie la soluzione dell’accentramento amministrativo, ossia dello stretto controllo del potere centrale sugli organi di governo locale. Lo Statuto Albertino viene imposto in tutto il Regno, assieme ai codici civile e penale del Piemonte, con inevitabili contraccolpi dove la legislazione era ben più moderata. Il sistema amministrativo vigente in Piemonte, prevedeva la divisione in province suddivise in comuni. Il problema maggiore era rappresentato dal divario tra Nord e Sud. Il Meridione, più arretrato, esprime la sua protesta con il brigantaggio, fenomeno duramente represso dal governo italiano. Inoltre il degrado del Meridione comincia ad essere oggetto di indagini da parte di politici e intellettuali, tanto che la cosiddetta “questione meridionale” trasparirà anche nelle opere di Capuana e Verga. SCOLARIZZAZIONE E MODELLI CULTURALI Dopo l’Unità d'Italia più di tre quarti della popolazione non sa né leggere né scrivere, il tasso di analfabetismo è quasi dell’80%. Gli edifici scolastici sono pochi e male organizzati, nelle classi si parla quasi esclusivamente il dialetto e gli insegnanti, quasi tutti di sesso maschile, risultano poco preparati. I governi post-unitari dedicano particolari energie alla questione dell’istruzione: viene creato un sistema scolastico nazionale e con la legge Casati (1859), la scuola elementare diviene gratuita e il primo biennio obbligatorio. Con l’avvento della Sinistra storica di Depretis, nel 1876, si assiste ad una rilevante crescita della scolarità grazie all’introduzione con la legge Coppino della scolarità obbligatoria fino a nove anni. Nei programmi Coppino (1877) il dialetto compare solo in chiave negativa, come imperfezione da correggere. Nel 1880 Francesco De Sanctis, in qualità di ministro dell’istruzione, promuove i programmi per le scuole tecniche e tali programmi stimolano a istituire raffronti sistematici tra lingua e dialetti e auspicano alla pubblicazione di vocabolari dialettali italiani, realizzati solo a partire dal 1890. In questo periodo, I Promessi Sposi diventano un cardine dell’educazione letteraria. GIOSUE CARDUCCI Giosuè Carducci nacque a Valdicastello, in Versilia, nel 1835. Trascorre l’infanzia in Maremma e nel 1849 si sposta a Firenze dove frequenta le scuole dei Padri Scolopi, acquisendo una buona preparazione di retorica e letteratura. Nel 1853 viene ammesso alla Normale di Pisa e fonda con alcuni amici la società “Amici pedanti” che mira alla restaurazione del classicismo. Nel 1856 si laurea in filosofia e filologia e pubblica la sua prima raccolta di “Rime”. Dopo la morte del fratello, deve farsi carico della famiglia, quindi insegna al liceo di Pistoia e sposa Elvira Menicucci. Nel 1860 viene nominato professore di eloquenza all’università di Bologna e in questo periodo matura idee repubblicane e anticlericali. Frutto di questa ideologia è l’”Inno a Satana”. Due gravi lutti funestano la vita del poeta: prima muore la madre e poi il figlio Dante. Nel 1871 esce il volume complessivo delle Poesie, in cui trovano spazio le poesie giovanili, Juvenilia. Nel 1877 invece, escono le Odi barbare. Nel frattempo si avvicina alla monarchia, affascinato dalla figura della regina Margherita e progressivamente si sposta sempre più su posizioni conservatrici aderendo anche alla politica di Crispi. Dieci anni dopo pubblica le Rime Nuove e nel 1890 viene nominato senatore del Regno. Nel 1904 abbandona definitivamente l’insegnamento e due anni dopo riceve il Premio Nobel per la letteratura. Muore a Bologna nel 1907. IL PENSIERO E LA POETICA Carducci venne definito da Benedetto Croce “poeta della storia” e considerato uno degli ultimi rappresentanti della tradizione risorgimentale. Affermatosi come cantore di ideali civili, Carducci assume progressivamente posizioni sempre più conservatrici e filomonarchiche. La parabola ideologica di Carducci si rivela dunque esemplare per comprendere il processo di trasformazione e di crisi che investe la società e la borghesia italiana. Il classicismo carducciano è un atteggiamento culturale complesso e se in un primo momento l’adesione ai classici risente di un approccio scolastico, in una fase successiva l’approfondita conoscenza del mondo classico, alimenta una vena polemica contro il presente, giudicato mediocre e privo di eroismo. Nell’ultima fase della sua produzione poetica prevale un senso di irrecuperabilità del classico, per cui al poeta non resta che cantarne le rovine. La fama di Carducci si lega anche alla sua lunga attività di studioso: egli incarna la figura del professore per eccellenza e da lui prende le mosse la cosiddetta “scuola carducciana”. La specificità di questa scuola risiedeva in un’applicazione agli studi letterari e di un rigoroso approccio positivistico. I suoi scritti in prosa possono essere distinti in tre gruppi: 1) scritti storici e critici su problemi di carattere metrico o aspetti linguistici; 2) scritti polemici di carattere letterario o politico, ma anche autobiografico e celebrativo; 3) epistolario edito in 21 volumi, da cui emerge un Carducci più intimo. LA POESIA Nella sua prima raccolta di liriche, Juvenilia, Carducci propone un ideale di classicismo basato sul rifiuto del sentimentalismo romantico. La raccolta Levia Gravia, invece, è ispirata alla poesia latina di Ovidio e mette in luce un allargamento dell’orizzonte culturale e politico in senso europeo e democratico. Nel 1860 il poeta si accosta agli ideali anticlericali e repubblicani esaltando il libero pensiero laico soprattutto nel celebre Inno a Satana. Già dagli anni Sessanta, Carducci va componendo una serie di liriche che saranno poi riunite sotto il titolo di Rime Nuove. La vena elegiaca e i motivi autobiografici, il senso del tedio e la negazione della solarità, si alternano alle memorie maremmane, che riconducono il poeta alla sua fanciullezza. La Maremma diventa quindi il luogo topico della nostalgia e del rimpianto. Nel 1877 escono le Odi barbare. In questa fase i accentuano nel classicismo carducciano le suggestioni dell’estetismo. Il titolo della raccolta rinvia all’esperimento metrico a cui Carducci lavorava, che consiste nel riprodurre i ritmi e i versi della metrica latina attraverso la metrica italiana. Le Odi sono definite “barbare” perché è così che suonerebbero al giudizio dei greci e dei romani. Divenuto vate della nazione italiana, Carducci sente il peso del ruolo ufficiale e avverte anche un senso di stanchezza della vita: in alcune poesie infatti, si nota un ripiegamento interiore in cui emergono momenti di malinconia o si affaccia il pensiero della morte, un esempio è la poesia “Nevicata”. LA SCAPIGLIATURA Il termine “Scapigliatura”, designa una vita sregolata. Viene recuperato nell’Ottocento da Cletto Arrighi che lo usa per designare un gruppo di giovani ribelli Amicis racconta In Cuore il microcosmo di una classe elementare torinese, Emilio Salgari trascina migliaia di lettori tra i mari dei Caraibi e le foreste Malesi. Il successo di autori così diversi nell’Italia post-unitaria con il progressivo aumento dei lettori che da un lato cercano nella narrativa lo specchio fedele dei propri orizzonti e valori, ma dall’altro vi proiettano anche un bisogno di evasione e di avventura. La moda “esotica” comincia a diffondersi e a far sognare un mondo piccolo-borghese che spesso cerca la compensazione alle frustrazioni socio-economico. Nella maggior parte dei casi si tratta di esotismo creato a tavolino, infatti Salga non vide mai i luoghi di cui tratta. Alcuni narratori fanno del confronto tra moderno e antico il fulcro della propria ispirazione. È il caso dello scrittore Emilio De Marchi, nato e vissuto a Milano, e sempre a Milano ambienta il romanzo Demetrio Pianelli, il cui protagonista è costretto a trasferirsi dalla campagna nella grande città, dove ottiene un modesto impiego e conduce una vita appartata e dimessa. La realtà urbana esercita su di lui un forte fascino, ma presto lo obbligo a difendersi dal progresso e a cercare rifugio in una vita più semplice e isolata. Anche il vicentino Antonio Fogazzaro, che pure accoglie il richiamo delle novità scientifiche e culturali, resta nonostante tutto ancorato al passato. CARLO COLLODI Carlo Lorenzini, vero nome di Carlo Collodi, nasce nel 1826 a Firenze. Di idee laiche e mazziniane, partecipa ai moti rivoluzionari del 1848. Ma a partire dagli anni 50’, scrive stabilmente sui vari giornali cittadini con lo pseudonimo di Collodi, nome del paese di origine della madre. Una svolta importante nella carriera di Collodi avviene quando l’editore paggi gli commissiona la traduzione di fiabe francesi di Charles Perrault. L’opera pubblicata nel 1875 con il titolo “i racconti delle fiabe” è un vero e proprio adattamento: riporta situazioni e personaggi alla realtà toscana del secondo ottocento. Dal 1875 lo scrittore viene coinvolto a pieno ritmo nella produzione di libri nelle scuole. In questo clima si avvia anche la composizione di “Le avventure di Pinocchio”. Il racconto compare a puntate sul “giornali per i bambini” a partire dal 7 Luglio 1881, pubblicato successivamente nel 1883. A quest’opera l’autore deve la sua fame: nel tempo infatti ha avuto moltissime edizioni e traduzioni. Muore a Firenze nel 1890. PINOCCHIO: UNA STORIA DI FORMAZIONE L’anno della prima comparsa del romanzo di collodi è un anno interessante. 1881 hanno luogo a Milano la messa in scena del Ballo Exclsior e l’esposizione nazionale delle arti e delle industrie. 1881 è anche l’anno in cui verga pubblica i malavoglia, romanzo che denuncia l’esistenza di un’altra Italia lontana anni luce da quella avanzata del nord. Quando Collodi lo progetta pensa a un libro rivolto a un pubblico di giovani lettori italiani delle classi medie e medie-basse. La morale è infatti fondata sui valori della cultura contadina. Pinocchio è una storia di formazione: il bambino si trasforma in un adolescente consapevole, pronto ad assumersi le proprie responsabilità di cittadino onesto e operoso. Il messaggio di Collodi si rivolge verso il pubblico vasto dell’Italia post-unitaria: un pubblico da educare al sacrificio e alla dedizione al lavoro, al culto della famiglia e della solidarietà. Questo impianto pedagogico, fondata sull’etica del sacrificio, non rinuncia però all’estro della fantasia: non a caso il mondo povero si popola nel libro di simboli universali e la narrazione si modula sul ritmo della favola. A differenza di quando avviene in Cuore di De Amicis, il messaggio di Collodi si sviluppa in modo ambivalente: attraverso l’impianto pedagogico affiora un’indubbia simpatia irrequieta del protagonista, la sua insofferenza nei confronti delle regole e della scuola. L’ambiguità si riflette anche nella novità del genere letterario: la favola si incrocia con il racconto orale toscano e il romanzo di appendice, il romanzo di formazione con il racconto picaresco. Realtà e fantasia si intersecano anche nella dimensione spazio-temporale. Analogamente si intersecano personaggi verosimili e personaggi di fantasia. L’ambivalenza caratterizza lo stesso protagonista: nasce come un “androide” di legno che prende vita sotto le mani del suo creatore e alla fine della storia si trasforma in un bambino in carne e ossa, divenendo il doppio di se stesso. Nonostante l’apparente semplicità Pinocchio è un libro ricco di memorie letterarie. L’elenco di richiami alla tradizione comincia con la Bibbia, poi con Dante, Ariosto e Manzoni. L’osteria del gambero rosso in cui il gatto e la volpe scroccano una cena a Pinocchio è ridisegnata sull’Osteria della Luna piena dei Promessi Sposi, nella quale Renzo si ubriaca e viene arrestato dalla polizia. Il tema del viaggio è incarnato dal protagonista, eroe del cammino e della fuga. La dimensione del viaggio e quella della strada gli appartengono di diritto. Per quanto riguarda la metamorfosi, l’episodio più chiaro è quello della trasformazione di Pinocchio in asino. Collodi utilizza la metamorfosi nella sua valenza negativa, di punizione. Può essere colto un riferimento alle Metamorfosi o L’asino d’oro, opera dello scrittore latino Apuleio, in cui il protagonista Lucio, si trasforma in asino. In Collodi come in Apuleio, dunque, la metamorfosi ha una sorta di valore iniziatico. EDMUNDO DE AMICIS Nato a Oneglia nel 1846. Avviato alla carriera militare partecipa alla terza guerra d’Indipendenza, mostra da subito interessi letterari e un vivo culto per Manzoni. A partire dagli anni Settanta si avvia alla carriera giornalistica, compiendo diversi viaggi. I reportages di questi viaggi riscuotono notevoli successi presso un pubblico sempre più affascinato dal gusto per l’esotico e per l’Oriente. Nel 1886 esce Cuore, commissionatogli dall’editore Emilio Treves. Il romanzo è ambientato in una scuola elementare: in questa delicata fase della storia italiana, dove è alto il tasso di analfabetismo e le differenze economiche e linguistiche tra le classi, la scuola è percepita come istituzione più consona a formare una coscienza nazionale. L’opera diventa in poco tempo un caso editoriale senza precedenti. Muore nel 1908 a Bordighera, ma sarà sepolto a Torino sua città d’adozione. IL CUORE E L’IDEOLOGIA Quella proposta del libro di De Amicis, è un’educazione sentimentale e un’educazione sociale e politica; entrambe fanno leva su un piano psicologico emotivo che cerca di fornire all’Italia di fine secolo ideali e modelli di comportamento in cui riconoscersi e far crescere i propri figli. Dal punto di vista del genere letterario, Cuore si presenta come una struttura aperta in cui si intersecano almeno tre generi: diaristico, epistolare e novellistico. La struttura e l’impianto, sono quelli di un diario articolato secondo una scansione mensile (da ottobre a luglio). La voce narrante è quella di Enrico Bottini, giovane scolaro di una terza elementare. All’interno del diario sono accolti anche i consigli e gli ammonimenti che i genitori di Enrico, in particolare il padre, rivolgono al figlio in forma di lettera. Chiude poi ciascuna delle sequenze cronologiche un racconto mensile che il maestro legge in classe ai suoi scolari. Il genere diaristico consente di lasciar trapelare l’azione educativa della scuola e la lotta all’analfabetismo come strumento di pacificazione tra le classi; il genere epistolare dà voce alla famiglia, i racconti mensili rifletto infine l’intento di fondo dell’autore, trasmettere alle nuove generazioni l’idea che esiste una patria comune. De Amicis ambienta il suo libro in una scuola e in una classe che prospettano una società interclassista. Il mondo di Cuore è popolato di ragazzi, giovani studenti di una classe elementale che rappresentato tutti i ceti sociali e raffigurano quindi un modello in miniatura della società degli adulti: sono piccoli adulti, futuri cittadini dell’Italia. L’idea di base è quella di presentare la scuola come figura pedagogica della società interna. Il protagonista, Enrico Bottini, riflette il punto di vista della buona borghesia settentrionale. Più che di personaggi si tratta di modelli astratti che incarnano schemi e valori di comportamento. L’enorme successo di cuore si spiega con il progetto di fornire una sorta di nuovo galateo, un manuale di formazione del giovane italiano, in cui si trova chiaramente definiti vizi e virtù, comportamenti impropri e propri del cittadino ideale. Il mondo degli adulti di cuore è prevalentemente maschile e fatto di insegnanti e genitori: i padri sono rappresentati nei loro vizi e nelle loro virtù. Un discorso diverso va fatto per le madri, spesso sottoposte a una sorta di santificazione; non c’è peccato maggiore in Cuore che mancare di rispetto alla propria madre. Il rispetto per la madre è rispetto per la patria. I maestri e le maestre sono considerati eroi, De Amicis ne esalta la dedizione, la pazienza e soprattutto li carica di una funzione fondamentale: insegnare il senso del dovere e lo spirito del sacrificio. ANTONIO FOGAZZARO Nel panorama della narrativa italiana tra Ottocento e Novecento, Antonio Fogazzaro occupa uno spazio particolare. Nato a Vicenza nel 1842, compie studi giuridici a Padova laureandosi nel 1864, ma dal 1869 si dedica alla produzione letteraria. Ristabilendosi a Vicenza, inizia la propria produzione narrativa. Nel 1881 esce il suo primo romanzo “Malombra” cui seguono “Daniele Cortis”, “Piccolo mondo antico” e “Piccolo mondo moderno”. “Leila” è il suo ultimo romanzo, che esce nel 1910. Muore a Vicenza nel 1911. Un cattolico come Fogazzaro, avverte intensamente il lacerante dissidio tra Stato e Chiesa, che si acuisce nei decenni successivi all’Unità. Lo scrittore, che aderisce al modernismo, accoglie il tentativo di aprire il cattolicesimo alla nuova mentalità scientifica. Di qui il vagheggiamento di una possibile armonizzazione tra innovazione e tradizione. IL MONDO NARRATIVO DI FOGAZZARO Il mondo dei romanzi di Fogazzaro, focalizza l’attenzione non tanto sulla realtà storica forzata, i cui modelli sono “La monaca” di Diderot e la storia del personaggio di Gertrude nei Promessi Sposi manzoniani. I primi anni del periodo milanese si contraddistinguono per una intensa attenzione di Verga per l’ambientazione dei romanzi. Le opere appartenenti a questa fase produttiva di Verga costituiscono infatti il “ciclo mondano”. Costante è la presenza di un protagonista maschile i cui ideali e le cui aspirazioni sono sopraffaTte dal contesto in cui vive: egli è un vinto. Risulta evidente da queste opere come il fondamento della scrittura di Verga sia la condanna del conformismo borghese e l’esigenza di verità e di descrizione di casi che hanno in sé qualcosa di irregolare. All’inizio della permanenza a Milano si occupa della revisione del romanzo “Eva” pubblicato nel 1873 e narra la storia di Enrico Lanti, pittore trasferitosi a Firenze dalla Sicilia per realizzare i suoi sogni di gloria ma si innamora di una ballerina chiamata Eva. La donna annoiata da una vita di falsi godimenti, seduce il giovane artista e abbandona per amor suo il teatro, dedicandosi a una vita modesta e fedele. Il trascorrere del tempo spegne la passione di Enrico il quale viene a questo punto abbandonato da Eva che torna alla vita lussuosa e vacua di un tempo. Ferito, torna in Sicilia dai suoi cari dove morirà. Il tema centrale della storia riguarda il conflitto tra purezza dell’artista e mercificazione dell’arte. La figura del protagonista ha risvolti autobiografici: anche Verga, trapiantato a Milano, aveva subito il trauma del distacco dalle origini. Una sconfitta dell’ideale di fronte alle convenzioni sociali è narrata anche in Eros (1875), romanzo che risente del modello di Madame Bovary. Nella storia del marchesino Alberto Alberti risulta essere deluso dalla vita perché tentato da un’esistenza comoda che lo rende troppo debole e sottomesso agli stimoli corruttori di una società galante. Il protagonista è un piccolo eroe della mondanità, vittima di una società aristocratica. Consumato da passioni fittizie e rimasto solo dopo la morte di Adele, si uccide. Da un punto di vista stilistico, in Eros viene applicata la tecnica dell’impassibilità del narratore, che assume un atteggiamento distaccato, aspetto che Verga aveva ammirato in Madame Bovary. L’ultimo romanzo di questo “ciclo mondano” è Tigre Reale (1875) incentrato sulla storia della passione tra Giorgio La Ferlita e Nata, malata di tisi e condannata a una breve esistenza. In antitesi con la donna fatale ed esotica, destinata a morire sola, lo scrittore pone l’attenzione su Erminia, incarnazione delle virtù umili e casalinghe che costituiranno tanta parte dell’universo domestico dei Malavoglia. Come già detto, la produzione di Verga si divide in due fasi: prima e dopo il Verismo. Il momento della “svolta” si identifica con la pubblicazione del lungo racconto Nedda. È possibile evidenziare un’evoluzione costante delle tecniche narrative che vanno dai toni enfatici fino alla descrizione articolata e complessa di ambienti e personaggi. In Nedda, il narratore fa ancora sentire la sua voce più volte e il linguaggio e lo stile mantengono caratteri elevati. Una vera cesura stilistica e di contenuto si registra solo a partire dalla novella Rosso Malpelo. Si ha una nuova poetica, realizzata attraverso dei nuovi canoni stilistici e retorici quali l’oggettività e l’impersonalità. Per comprendere appieno la poetica del Verismo verghiano è necessario soffermarsi sul rapporto con il Naturalismo francese e con Emile Zola. Quando Verga legge il romanzo “L’Assommoir” rimane profondamente colpito e medita a lungo sul metodo introdotto dal francese sviluppando così la propria poetica dell’oggettività. Zola rimane quindi un punto di riferimento anche se fra i due autori sono presenti significative differenze. La prima riguarda proprio la funzione e l’atteggiamento dello scrittore. I criteri dell’oggettività e dell’impersonalità costituiscono i principali punti di contatto con l scuola Naturalistica. L’adesione a questi principi è interpretata però da Verga in modi talvolta diversi. Fra gli aspetti che distinguono l’esperienza di Zola da quella di Verga è la diversa concezione del rapporto fra letteratura, scienza e progresso. Il romanzo naturalista diventa così anche un potente mezzo di denuncia dei mali della società. Zola è su posizioni progressiste s’impegna attivamente in battaglie civili e sociali nel suo Paese. Dall’impostazione di Verga traspare una sostanziale sfiducia nei confronti della scienza, accompagnata da una severa critica al progresso e da un conservatorismo di fondo sul piano ideologico, che esclude qualsiasi trasformazione in positivo della società. Più che un interesse “scientifico”, prevale dunque in Verga l’attenzione a una dimensione antropologica. Egli tenta così di superare lo sperimentalismo naturalista per ritrovare nell’opera letteraria una dimensione che vada al di là del puro documento. STRUMENTI ED ESITI DELLA NARRATIVA VERGHIANA Il Verismo rappresenta per Verga lo strumento per rappresentare la vita morale, sentimentale e affettiva dei ceti più bassi. Verga rinuncia a ogni forma di giudizio grazie alla tecnica narrativa dell’impersonalità e all’adozione di un’ottica estranea: il romanziere deve registrare i dati materiali, la mentalità e la psicologia piuttosto che giudicare i fatti rappresentati. Ma se per ritrarre il mondo dell’emarginazione sociale e dei bassifondi parigini, Zola vi si immerge fisicamente attraversando quei luoghi, Verga opera un percorso opposto: quando infatti decide di raccontare la sua terra d’origine sente di dover mantenere una distanza fisica da quel mondo. Il romanzo deve nascere quale “ricostruzione intellettuale”. Per far questo studia usi e costumi locali, recupera raccolte di proverbi; in altri termini adotta l’artificio della regressione che consiste nell’arretrare dalla propria visione del mondo, per assumere l’ottica della comunità popolare di cui si sta raccontando le vicende. Nelle novelle come nei romanzi veristi, la forma, deve essere inerente al soggetto cioè non si deve avvertire alcuno scarto tra la voce narrante e quella dei personaggi. Verga opta per una sorta di “narratore anonimo popolare”. La rinuncia dello scrittore a far sentire direttamente il proprio giudizio non azzera però la distanza tra il punto di vista del narratore e quello dell’autore. Quest’ultimo arriva ugualmente attraverso l’artificio dello straniamento. La tecnica si basa sul principio di far apparire al lettore “strano” ciò che è normale o viceversa. La distanza tra il narratore anonimo e l’autore conduce il lettore a un’interpretazione diversa dei fatti, persino opposto a rispetto a quella apparentemente proposta. PESSIMISMO E ANTIPROGRESSISMO: IL TEMA DEI VINTI La prospettiva ideologica di Verga è influenzata dalle teorie positivistiche. Nei romanzi naturalisti si riflette pienamente la concezione deterministica della realtà. Anche in Verga agisce una visione sostanzialmente materialistica dell’esistenza dominata dagli egoismi individuali, che lascia spazio all’affermazione del più forte sul più debole. Quella verghiana è una concezione del mondo e della vita umana da cui è esclusa ogni illusione, ogni visione consolatoria dell’esistenza. Di fronte allo sviluppo storico dell’umanità condivide la visione progressiva della storia tipica della sua epoca ma mostra anche come il progresso sia anche una macchina mostruosa, che stritola e distrugge i deboli e i vinti. Cerca di mostrare come dietro il progresso tanto esaltato si nascondano tragedie individuali, drammi e sconfitte collettive. Quando la storia irrompe in situazioni consolidate ne travolge il fragile equilibrio colpendo con crudele determinazione i più indifesi. Verga mette in scena gli istinti comuni ad ogni essere umano: il desiderio di migliorare le proprie condizioni materiali. Ciò che interessa a Verga è l’altra faccia del progresso, tutto quel che di negativo si nasconde dietro la sua esaltazione. Allo scrittore spetta il compito di fare un’analisi lucida e sincera della realtà. La visione del mondo di Verga prende forma nella raccolta di novelle e alimenta l’ambizioso progetto dar vita a un ciclo di cinque romanzi (inizialmente intitolato “La marea” poi mutato in “I Vinti”) in cui studiare gli effetti prodotti dal desiderio di progresso. La spinta a migliorare è infatti la molla fatale e distruttiva che porta gli individui a staccarsi dalle proprie tradizioni. È l’ideale dell’ostrica: come l’ostrica staccata dallo scoglio in cui la natura l’ha chiamata a vivere è destinata a morire, così l’uomo che rinuncia alle proprie radici per star meglio, sarà destinato a piegare il capo sotto l’incalzare dei più forti. Il ciclo dei romanzi doveva essere impostato secondo una logica ascensionale, che partisse dalle classi più basse per arrivare a quelle più elevate. In realtà del progetto videro la luce solo i primi due romanzi: i Malavoglia e Mastro-don Gesualdo. LA PRODUZIONE PER IL TEATRO Il teatro di Verga porta in scena i drammi politici ed economici della Sicilia e svolge anche un’azione di rinnovamento nella storia del teatro della “nuova Italia”, rompendo gli schemi della commedia borghese convenzionale. Il debutto teatrale di Verga risale al 14 gennaio 1884, data della “prima” al Teatro Carignano di Torino di “Cavalleria rusticana”. La rappresentazione segna l’avvento del Verismo sulla scena italiana. Il rinnovamento riguarda soprattutto il livello contenutistico: i drammi veristi rappresentano mondi popolari e periferici. Verga non sfrutta la funzione dirompente di Cavalleria nei confronti del repertorio convenzionale del teatro borghese. La ricerca intorno al romanzo e alla novella riduce lo spazio per la produzione drammaturgica, riprendendo le dichiarazioni di Zola sulla maggiore maturità del genere narrativo nei confronti di quello drammatico. Questa funzione subalterna giustifica il riferimento costante ai modelli letterari: i copioni non sono mai originali, ma vengono ricavati da precedenti novellistici; di derivazione letteraria è anche l’organizzazione ciclica. Verga inoltre, intende dedicare ogni romanzo a un gradino della scala sociale, così progetta tre commedie: una dedicata al mondo contadino (cavalleria rusticana), una al proletariato urbano milanese (in portineria) e un’altra, mai realizzata, alla borghesia. Verga trascrive per il teatro anche “La Lupa” (1896), cui segue “Caccia al lupo” e “Caccia alla volpe”, rappresentati nel 1901. Entrambi sono costruiti intorno al tema del triangolo amoroso e intendono dimostrare la diversa influenza dell’educazione e dei caratteri di fronte al comune tema dell’adulterio: il primo, è incentrato sulla rappresentazione degli istinti biechi e rabbiosi, il secondo, contiene invece una disamina delle relazioni tra gli individui delle classi più elevate. Il periodo teatrale si chiude con la scrittura originale per le scene di “Dal tuo al mio” andato in scena nel 1903. OLTRE IL ROMANZO: VERGA E LA FOTOGRAFIA L’insuccesso di pubblico della sua nuova narrativa, spinge Verga a riflettere sulla reale riproducibilità del vero in letteratura. Per queste vie approderà alle nuova arti di riproduzione della realtà: il cinema e la fotografia. Egli divenne un fotografo dilettante assai attivo e fece inizialmente della sua passione un ulteriore strumento per la preparazione dei suoi romanzi: fissava sulle lastre il mondo dei contadini e i luoghi della sua terra, guidato dalla ricerca della verità del documento umano più che da motivi estetici o etnologici. L’immaginario iconografico che emerge dalle sue fotografie è strettamente legato a quello letterario: entrambi sono sostenuti dalla stessa ricerca di rappresentazione del vero. Man mano, al fotografia prende gradualmente il posto della letteratura, proprio perché gli risulta essere maggiormente in grado di restituire ambienti e figure con il massimo di fedeltà. Nonostante gli stretti rapporti tra fotografia e letteratura, i risultati concreti di Verga nelle due arti sono diversi. La fotografia di Verga è statica, ancorata alla tradizione del ritratto fermo e isolato, le luci non sono dosate e gli sfondi ruvidi denunciano una struggente malinconia. LE NOVELLE È nel genere della narrazione breve che Verga sperimenta per la prima volta uno stile e una per il tempo, si assiste a un “doppio registro” che immette un orizzonte geograficamente preciso in una dimensione mitico-simbolica: il cielo, il mare. Al mondo prossimo del paese, descritto pochissimo, si oppone il mondo grande e lontano, dai confini indefiniti che sfumano nell’ignoto. Oltrepassare la soglia dal noto all’ignoto, significa perdersi, essere inghiottiti in un labirinto. LA PROSPETTIVA ANTI-IDILLICA L’opposizione tra i due diversi codici ideologici (quello dell’idillio e quello del moderno), opera anche all’interno del borgo. Il paese è come diviso in due. Da una parte si collocano i Malavoglia e altri personaggi che condividono una concezione del mondo basata su valori antichi come l’altruismo e la laboriosità. Dall’altra c’è il resto del villaggio, legato all’ottica dell’interesse personale: si tratta di personaggi avari come zio Crocifisso, ottusamente attaccati alle proprie cose come padron Cipolla e ambigui come Piedipapera. L’oscillazione tra le due prospettive non risparmia nemmeno la famiglia dei Malavoglia: al patriarca Padron ‘Ntoni, si oppone il dramma moderno di ‘Ntoni, il maggiore dei nipoti, che non riesce più a conformarsi all’etica del lavoro e della fatica a cui è stato educato. Come il nonno è fedele a un principio di sacralità della famiglia, così il nipote deve fare i conti con più orizzonti di valori che confliggono in lui drammaticamente. Il personaggio di ‘Ntoni è l’ennesima incarnazione del “diverso” verghiano, consapevole della sua condizione di estraneità a un mondo da cui si è allontanato fisicamente e culturalmente. Il finale del romanzo sancisce la trasformazione cui è soggetto ormai anche il mondo di Aci Trezza. I Malavoglia, è un romanzo anti-idillico: l’immobile universo della vita agreste non sopravvive al mutamento della storia. Ogni volontà di cambiamento della propria sorte si risolve in un disastro. È “l’ideale dell’ostrica” di cui si parla nella novella Fantasticheria: solo se si rimane attaccati al proprio scoglio si può sperare di evitare le disgrazie. LE TECNICHE NARRATIVE E STILISTICHE La straordinaria novità dei Malavoglia consiste nei modi e nelle tecniche con cui lo scrittore racconta questo mondo: la forma deve essere inerente al soggetto. Il metodo dell’impassibilità modifica sia l’ottica sia la funzione assegnata al narratore: secondo i principi teorici di Zola i fatti sono presentati come indipendenti dalla volontà dell’autore, dalle sue opinioni e dai suoi giudizi. Ma nei Malavoglia il risultato è ancora più estremo: il punto di vista del racconto è quello di una voce collettiva appartenente al “coro” del paese. La regressione del narratore permette di guardare ai fatti con l’ottica dei personaggi, in modo che nessuna sovrapposizione ideologica “esterna” o letteraria deformi la rappresentazione del reale. L’uso del discorso indiretto libero consente di rappresentare la mentalità non solo dei singoli personaggi ma di tutto un ambiente. La narrazione ha così l’aspetto di un lungo racconto orale. Da un punto di vista linguistico Verga supera l’opposizione tra lingua e dialetto: il dialettismo diventa espressione, non rappresentazione. Per non precludersi un ampio pubblico, Verga decide di adottare una lingua che crea l’illusione di quest’ultimo sono dissimulate in una struttura italiana nel lessico e nelle forme. In più, Verga attinge al patrimonio dei proverbi e dei modi di dire popolari, che condensano la realtà elementare del mondo siciliano e che investono non solo il linguaggio del lavoro ma anche quello affettivo. MASTRO DON GESUALDO Subito dopo la pubblicazione dei Malavoglia, Verga comincia a lavorare a un nuovo romanzo: Mastro-don Gesualdo. Il Mastro è molto diverso dai Malavoglia: è il romanzo dell’eroe moderno del quale vengono messe in risalto l’intelligenza, la tenacia e l’energia, che lo conducono però alla sconfitta. Si svolge inoltre in un ambiente più ricco e vario di quello di Aci Trezza. Viene ridimensionata la funzione innovativa del narratore, che non può più essere orale-popolare, e sperimenta una nuova forma di impersonalità. Anche Mastro-don Gesualdo ha avuto una gestazione faticosa e una lunga serie di riscritture, completate solo nel 1889. Del lungo percorso redazionale sono tre le fasi cronologiche rilevanti: 1) una serie di abbozzi riveduti e corretti 2) una prima stesura apparsa a puntate sulla rivista “Nuova Antologia” (giugno-dicembre 1888) 3) la radicale riscrittura per l’edizione definitiva, uscita a Milano per l’editore Treves nel 1889 Il centro ideativo originario è costituito da un personaggio emblematico, descritto nella sua laboriosa ascesa sociale. Più tardi Verga decide di tralasciare la storia della formazione di Gesualdo, che appare già ricco all’inizio del romanzo: la storia parte nel vivo, con un protagonista in ascesa, e mostra le vicende economiche e gli equilibri di potere all’interno della cittadina di Vizzini. TRAMA Ambientato a Vizzini, cittadina tra Ragusa e Catania, negli anni tra il 1820 e il 1848, il romanzo racconta le vicende di Gesualdo Motta, un uomo nuovo venuto dal nulla che grazie all’intelligenza e alla tenacia, diviene ricchissimo e potente. Ambizioso e dominato da un fortissimo senso di rivalsa economica e sociale. Gesualdo tradisce le sue origini contadine, i propri valori e i propri sentimenti. Nella sua ascesa passa dal titolo di mastro a quello di don. L’ingente fortuna accumulata gli permette di trattare alla pari con i nobili e di sposare un’aristocratica decaduta, Bianca Trao. Il matrimonio segna però l’inizio della parabola discendente della vita di Gesualdo: da una parte spezza i legami con il proprio ambiente e la propria famiglia, abbandonando anche Diodata, l’amante contadina dalla quale ha avuto dei figli, dall’altra non viene accettato dal ceto nobiliare che lo tratto come un intruso. Tutti gli sforzi di Gesualdo per stabilire un’intesa con la moglie falliscono e nessuna gioia gli viene dalla nascita della figlia Isabella, che potrebbe non essere sua. La bambina viene educata in un collegio aristocratico e più tardi contrae un matrimonio di convenienza con l’anziano duca di Leyra che dilapiderà la fortuna del suocero. Disprezzato dalla figlia, emarginato dai nuovi parenti, Gesualdo si rinchiude sempre di più in se stesso, soprattutto dopo la morte della moglie. Solo, ammalato, è accolto a Palermo come ospite non gradito nel palazzetto di Isabella, che continua a vergognarsi di lui e del suo mondo. Il romanzo è suddiviso in due movimenti principali: l’ascesa e la caduta. La figura di Gesualdo domina tutto lo sviluppo della storia. La prospettiva con cui le vicende sono narrate non è più quella di un mondo chiuso e limitato, ma quella di una società articolata e complessa. La vicenda umana di Gesualdo matura in un momento storico ben definito che vede crollare la secolare egemonia della classe nobiliare a cui si contrappone l’ascesa della borghesia fondiaria. Anche la grande storia incide e mina la vita di Gesualdo: dopo i moti del 1848 il popolo insorge contro di lui. Il Mastro è il romanzo della roba: in realtà la vicenda rivela piuttosto il fallimento dell’ideologia della roba. Gesualdo è astuto e intelligente nella gestione degli affari, ma è schiavo della logica che lo ha condotto ad accumulare il suo vasto patrimonio. Il demone della roba lo vincola a comportamenti obbligati, che lui stesso non desidera fino in fondo. La necessità economica si viene così a identificare con il destino. A Gesualdo tocca perciò una morte in solitudine, che giunge dopo un progressivo spossessamento, dall’espropriazione del proprio mondo a quello della roba. La debolezza del morente lo pone alla mercé di chi tenta di appropriarsi dei suoi ultimi giorni. Questa morte anti-idilliaca manifesta l’impossibilità di una conciliazione finale, di un lieto fine. Gesualdo è un “vinto” perché ha voluto abbandonare la situazione sociale ce gli è toccata in sorte. Ha perso ogni possibilità di avere rapporti umani gratificanti, e si ritrova odiato da tutti. Gesualdo muore consapevole del fatto che la sua esistenza è stata priva di senso. UN ROMANZO DI SILENZI Nel nuovo romanzo di Verga siamo sempre in presenza di un osservatore distaccato che accetta il linguaggio di quel mondo ma non ne condivide la logica e il punto di vista. Il narratore abbandona lo stile corretto e guida il racconto: alterna il giudizio critico diretto a momenti di ellissi narrativa. Il romanzo non dispone di una voce collettiva, ma per mantenere l’impersonalità, si rifugia nello spazio non-detto e del non-esplicitato. Nel nuovo romanzo sono assenti sia i meccanismi di straniamento sia la bipolarità: non esiste più un mondo di valori antichi che possa contrapporsi alla logica dell’interesse. L’onore della famiglia è l’ossessione dei Trao, che però sono personaggi ridicoli e patetici, incapaci di rappresentare un’alternativa ideale. Il mito stesso della famiglia contadino-patriarcale si sgretola senza alcuna possibilità di salvezza. Il nucleo familiare a cui appartiene Gesualdo è totalmente estraneo ai valori affettivi e al culto dell’amore. I parenti del protagonista mantengono con lui rapporti improntati unicamente alla logica dell’utile e dello sfruttamento economico. La dinamica oppositiva si sposta all’interno del protagonista, il quale da una parte subordina la propria vita alla volontà di arricchirsi, dall’altra manifesta un bisogno di rapporti umani sinceri e caldi. La psicologia dei personaggi si esprime attraverso la loro gestualità al punto che il critico Vittorio Spinazzola ha definito il Mastro un romanzo di silenzi. LINGUA E STILE Il linguaggio aderisce al parlato dei piccoli-borghesi o dei ricchi. Il registro narrativo è molto diverso da quello epico-lirico del primo romanzo e ogni dimensione mitica è lontana; il tempo è quello rettilineo, incalzante e frenetico della modernità. Nel Mastro siamo immessi nella vicenda direttamente senza alcuna intermediazione dell’autore. I nomi dei personaggi sono dati per conosciuto come se il lettore fosse da sempre partecipe della realtà umana che si agita sulla scena. Il narrato sfuma ora nel discorso indiretto libero nei dialoghi. I periodi sono brevi, frequentemente spezzati, con cadenze rapide e incalzanti. IL DECADENTISMO Nella seconda metà dell'ottocento si assiste all'insorgere di un orientamento artistico-culturale diametralmente opposto al Naturalismo, noto come Decadentismo. Trova la sua manifestazione più profonda nella poetica del Simbolismo. Si tratta di movimenti che raggiungono la piena elaborazione intorno agli anni 70/80 del secolo, ma le cui radici affondano nella figura del poeta francese Charles Baudelaire. Gli autori più rappresentativi del decadentismo sono accumulati dal sentimento della crisi: -crisi storica, gli ultimi decenni del secolo vengono infatti percepiti come un periodo di decadenza -crisi del modello positivistico -crisi della figura dell'artista, che nella società industrializzata ha ormai perso il suo ruolo di guida e può solo investire se stesso del nuovo ruolo di veggente. del brutto e del bello come due facce della stessa medaglia sono temi tipici del Decadentismo. È quanto troviamo nei romanzi come “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signore Hyde” di Robert Louis Stevenson o a soli quattro anni di distanza “Il ritratto di Dorian Gray”. Nel mondo tedesco sono particolarmente evidenti alcuni degli atteggiamenti che caratterizzano il Decadentismo e la figura del decadente, a cominciare dall’estraniamento, l’isolamento dell’opinione pubblica e l’allontanamento dalla vita sociale. Più tardivo è stato il coinvolgimento del Belgio. L’Italia si colloca in una posizione periferica, da cui accoglie e alimenta il Decadentismo principalmente come occasione di rottura con il passato. La nostra vicenda del Decadentismo è però più lenta e lunga: si definisce per gradi passando attraverso la Scapigliatura. Per tutte queste ragioni esso raggiunge i suoi risultati migliori nel primo quarto del Novecento, quando Svevo e Pirandello mettono in scena i fantasmi dell’anima e Ungaretti realizza la “poesia pura”. Anche l’America vive una situazione di sudditanza rispetto all’Europa, che tuttavia contrae non di rado debiti importanti con le sue “colonie”. È quanto accadde nel caso dello scrittore americano Edgar Allan Poe. Sottostimato in patria, in Europa il padre spirituale del Decadentismo. Contrario alle tesi romantiche dell’ispirazione impetuosa e della spontaneità creativa, Poe sviluppa una moderna teoria della scrittura, controllata formalmente in ogni momento della sua elaborazione. DECADENTISMO E SIMBOLISMO La seconda metà dell’Ottocento presenta in Francia due correnti: il Parnassianesimo e il Simbolismo; ma anche importanti esperienze individuali come quella di Charles Baudelaire, Arthur Rimbaud e di Paul Verlaine. Essi rappresentano la fase lirica del Decadentismo francese, che avrà nel Simbolismo la propria fase intellettuale, orientata significativamente alla ricerca teorica e stilistica. Il fulcro della loro poesia sarà la rinuncia programmatica a una lingua esplicita, comprensibile e piana. L’intuizione sostituisce le concatenazioni logiche. Il simbolo, l’analogia e la sinestesia divengono risorse imprescindibili della nuova grammatica simbolista. L’atto ufficiale di nascita di questa nuova poetica è segnato nel 1886 dalla pubblicazione, sul quotidiano “Le Figaro”, del Manifesto del Simbolismo. In esso si sottolineano i caratteri essenziali del movimento: la dimensione intellettuale, la ricerca della musicalità, l’aura di trascendenza e di mistero e l’intreccio della poesia con le altre arti. Com’è evidente fin dal nome, è essenziale il concetto di simbolo, che non identifica un’entità astratta, ma un elemento della natura in cui cogliere per via allusiva il mistero indefinibile a cui la poesia ha il compito di dare espressione. La logica del Simbolismo è dunque quella del sogno basata non sulla consequenzialità causa-effetto, ma sul principio della libera associazione analogica. In essa le immagini assumono grande evidenza, ma i collegamenti risultano spezzati, lo spazio perde consistenza, i legami di tempo, come quelli causali, vengono aboliti o destituiti di senso. CHARLES BAUDELAIRE Charles Pierre Baudelaire Nasce a Parigi nel 1821. Dopo la morte del padre, nel 1827, la madre si risposa con un ufficiale con il quale Charles avrà per tutta la vita un rapporto conflittuale. Nel 1841 compie un lungo viaggio in Oriente e l'anno successivo si stabilisce definitivamente a Parigi. Ha intanto intrapreso la carriera di poeta e scrittore. Nel 1856 pubblica la traduzione delle Histoires extraordinaires dello scrittore americano Edgar Allan Poe; l'anno successivo esce la prima edizione del suo capolavoro, I fiori del male. Malato e debilitato nel fisico, morirà a Parigi il 31 agosto del 1867. La genesi dell'opera è complessa e tripartita. Nel 1849 Baudelaire progetta una raccolta di versi dal titolo Limbi della quale tra il 1850 e il 1851, alcune piccole riviste pubblicano poesie isolate. Finalmente nel 1855 la rivista “Revue Des deux mondes” pubblica 18 nuove poesie sotto il titolo di “i fiori del male”. Fiutando lo scandalo e il successo più di un editore propone a Baudelaire la pubblicazione dell'intera raccolta che esce in volume il 4 giugno 1857. Il libro contiene 100 poesie divise in cinque sezioni: spleen e ideale, fiori del male, rivolta, il vino, la morte. Accusata di immoralità, la raccolta è sottoposta a processo e sei poesie sono condannate ed espunte. I suoi fiori del male sono un canzoniere impossibile, eppure coerente, disaggregato, lacerato dalle tensioni della modernità. Accanto ai fiori del male Baudelaire sogna anche un libro intero e definitivo capace di rispecchiare un pensiero poetante che si affaccia a riflettere sulla modernità esplosa nella Parigi in profonda metamorfosi. La seconda edizione dei fiori del male esce nel 1861 con l'aggiunta di nuove poesie per un totale di 126 testi raggruppati in sei sezioni. Dopo la morte del poeta nel 1868 gli amici pubblicano una terza definitiva edizione con l'aggiunta di altre poesie. La redazione finale comprende pertanto 151 poesie. L'accuratezza con cui il poeta lavora all'organizzazione interna del libro fa dei fiori del male non una raccolta generica, ma bensì un vero e proprio libro che aspira, pur senza poterla raggiungere, a un'organica armonia. lo stesso Baudelaire a precisare che il significato delle singole poesie non può essere compreso estrapolandole dall'insieme di questo libro. “Un libro deve essere giudicato nel suo insieme”. Certamente i fiori del male segnano un’autentica rivoluzione nella storia della poesia: Baudelaire è il primo a intuire in profondità, il malessere dell'uomo contemporaneo. Nell'universo moderno i confini tra bene e il mare appaiono indistinguibili: la colpa ha un innegabile fascino e la percezione della bellezza e dell'amore spingono talvolta all'eccesso e a forme estreme di egoismo e di disperazione. Il senso del libro è già tutto nel titolo, giocato su un ossimoro che tiene insieme il sublime e il grottesco. Baudelaire accosta infatti i “fiori”, immagine allusiva della bellezza, al male simbolo della corruzione. Nel titolo si coglie dunque un’ambigua dichiarazione di poetica: nel mondo contemporaneo dove tutto è corruzione, il poeta è l’unico che possa cercare la Bellezza. La poesia di Baudelaire predilige il mondo artificiale della città rispetto a quello oscuro e segreto della Natura, quasi a segnare il divorzio tra l’uomo moderno e la sua madre-matrigna. Tuttavia Baudelaire non rinuncia a cercare la via per risalire dal molteplice, riflesso nei mille aspetti del reale, all’unità da cui discendono tutte le cose. Dietro l’apparenza mutevole dei fenomeni egli intuisce un’unità segreta e misteriosa, con cui aspira a mettersi in relazione. Questa dimensione molteplice e unitaria è espressa attraverso il linguaggio della sinestesia e dell’analogia, che crea ponti e legami segreti tra le cose. L’ESTETISMO Nella seconda metà dell’Ottocento si diffondono una moda e un atteggiamento eccentrici che prendono il nome di dandismo. Il dandy ricerca e ostenta un’eleganza stravagante, provocatoria, per isolarsi e distinguersi, ma anche per affermare uno stile di vita basato sul rifiuto dell’utilitarismo borghese. Si può considerare il dandismo come un fenomeno di opposizione e di rivolta inteso a combattere la mediocrità del gusto di massa. Se da un lato il dandy esibisce la sua diversità utilizzandola come strumento di sfida alle convezioni sociali e del gusto dominante, dall’altro tende a servirsi di questi stessi atteggiamenti “controcorrente” come strumenti per rendersi visibile sulla scena sociale e culturale del tempo. Per molti versi, il dandy appare simile all’altra grande maschera baudelairiana, quella del flaneur, che passeggia per le strade della città coltivando emozioni, cercando associazioni, ricamando pensieri, spesso a livello onirico. Affine al dandy è anche la figura dell’esteta. In senso generale l’Estetismo è l’atteggiamento di chi considera fondamentali i valori estetici e fa coincidere il culto della bellezza con l’essenza stessa della vita. L’Estetismo può essere letto contemporaneamente come sintomo e come reazione alla cosiddetta “morte dell’arte”, concetto che risale a Hegel ma che troverà piena espressione in Baudelaire, in Nietzsche e nel filosofo Walter Benjamin che ha dedicato alcune riflessioni sul tema della riduzione a merce del prodotto artistico. Manifesto dell’Estetismo decadente è il romanzo di Joris-Karl Huysmans, Controcorrente. Il protagonista del romanzo, Des Esseintes, rifiutando la banilità del mondo in cui vive, si ritira in una sorta di raffinata clausura nutrendosi qui di eleganza e rarità. Egli ama inoltre contemplare la Salomè del simbolista Gustava Moreau, per il quale prova un misto di attrazione e orrore. Assalito da incubi e perso nella solitudine dei sensi, si ammala di una grave forma di nevrosi, per il quale è costretto a rinunciare all’isolamento e volgersi a Dio. Negli stessi anni Oscar Wilde afferma che “l’Arte è più importante della vita”. Il culto della bellezza va al di là di ogni implicazione morale e garantisce a chi lo pratica una fascinosa superiorità. Nato a Dublino nel 1854, figlio di un noto oculista e di una poetessa e traduttrice, Wilde si distingue immediatamente negli studi classici. Terminato il percorso scolastico si trasferisce a Londra, dove nel 1881 pubblica un volume di Poesie, dopo aver già attirato l’attenzione grazie a una serie di atteggiamenti stravaganti. Dopo un viaggio negli Stati Uniti, torna in Inghilterra dove incrementa la fama di arguto conversatore e inventore di paradossi. Sposatosi con Costance May Lloyd, inizia un’ampia e brillante produzione saggistica, novellistica e narrativa che culmina il romanzo di Dorian Gray, pubblicato nel 1891. Fiorente è anche la sua attività di drammaturgo: tra i titoli più importanti ricordiamo il dramma Salome e la commedia L’importanza di chiamarsi Ernesto del 1895. Nello stesso anno la sua fama subisce una battuta d’arresto in seguito ad uno scandalo provocato dalla relazione col giovane Alfred Douglas. Wilde viene processato e condannato a due anni di lavori forzati per omosessualità e corruzione di minorenne. In carcere scriverà il De profundis. Uscito nel 1897, morirà nel 1900 per meningite. Il ritratto di Dorian Gray è la storia di Dorian, un giovane bellissimo, dedito al culto della raffinatezza e all’edonismo, che riceve in dono dall’amico pittore Basil un suo ritratto. Ossessionato dallo scorrere del tempo, Dorian fa un voto che magicamente si realizza: i segni degli anni e dei vizi si trasferiranno sulla tela, lasciando immutato il suo aspetto. Quando Basil lo rimprovera della sua spregevole condotta lo uccide. Nonostante ciò la corruzione del tempo e del costume non cessa di lasciare segni visibili sul quadro, finché, scoprendo nel ritratto il suo vero volto, in un impulso di rabbia Dorian lo trafigge con un pugnale, spezzando il sortilegio e cadendo morto. Al sopraggiungere dei servi, la rivelazione: il quadro è tornato a ritrarre Dorian Gray nello splendore della giovinezza, mentre a terra giace un corpo orribilmente invecchiato. Nonostante il protagonista nasconda il proprio ritratto, relegando in una stanza chiusa, vita e arte sono indissolubilmente intrecciate: il quadro è il suo alter ego, colpendo il quale ferisce anche sé stesso. GABRIELE D’ANNUNZIO Gabriele d’Annunzio nacque il 12 marzo 1863 a Pescara. Nel 1879 esordisce con la sua prima raccolta di versi e traduzioni, Primo vere, ispirata alla lettura dei classici e sollecitata dalla profonda impressione suscitata in lui dalle Odi barbare di Carducci. Nel 1882 pubblica “Canto novo” in metri barbari, raccolta che suscita l’ammirazione di Carducci, e la raccolta “Terra vergine”, suo primo libro di prose. Nel 1883 si sposa con la duchessina Maria Hardouin, che gli darà tre figli. Nello stesso anno pubblica “intermezzo di rime”, cui seguono nel 1886 le “novelle della Pescara” e nel 1889 “Il piacere”, il primo romanzo. Nel 1891 si spregiano la folla e celebrano la bellezza. Tuttavia gli eroi dannunziani alla fine, restano vittime del loro stesso velleitarismo e la loro aspirazione all’autoaffermazione li condanna alla sconfitta. STILE E TECNICA NARRATIVA La prosa dei romanzi di d’Annunzio è caratterizzata dalla varietà di registri e da un’ambiziosa ricchezza sperimentale. Il romanzo dannunziano è una sorta di organismo ibrido costituito da episodi autonomi che poi vengono legati assieme e rielaborati. È inoltre spesso presente la riscrittura e la citazione di testi propri o altrui. Sul piano della tecnica narrativa: 1)notevole risalto dato alla soggettività ottenuto attraverso l’alternanza del punto di vista del narratore onnisciente con il personaggio; 2)il tempo e lo spazio subiscono una dilatazione perché sono filtrati dalla dimensione interiore dei personaggi; 3)il monologo interiore mantiene una struttura sintattica salda; 4)frequente ricorso a sequenze statiche che rallentano l’azione sia di tipo descrittivo che riflessivo. Sul piano stilistico: 1)frequenti figure retoriche; 2)ricorso alla paratassi con effetto impressionistico; 3)suggestioni musicali attraverso ripetizioni di parole; 4)lessico ricercato e prezioso. IL PIACERE “Il piacere” è stato composto tra il luglio 1888 e il gennaio 1889 a Pescara. Viene pubblicato nello stesso 1889, anno in cui esce anche Mastro don Gesualdo. L’opera risente delle esperienze romane dell’autore e ricalca sia i rapporti intrecciati con il mondo intellettuale sia l’atmosfera mondana. Tutti gli avvenimenti trattati si svolgono tra il 25 marzo 1885 e il 20 giugno 1887. Il romanzo è articolato in quattro libri e si apre con il protagonista, Andrea Sperelli, che, chiuso nella sua dimora a Roma, è in attesa di Elena Muti, una donna bellissima da lui un tempo intensamente amata. Egli spera di poter riaccendere la relazione ma l’arrivo di Elena infrange le sue speranze. A questo punto segue un ampio flashback in cui si racconta della vita del protagonista, consumata tra spregiudicati flirt e nel lusso di preziosi oggetti d’arte. Nel 1886 Andrea incontra Maria Ferres, donna di spiritualità elevatissima verso la quale matura un’attrazione opposta a quella provata per Elena. Andrea inizia una relazione con le due donne ma mentre possiede con foga convulsa Maria, il protagonista pronuncia il nome di Elena. Egli quindi viene lasciato dalla Ferres e disgustato da Elena, perciò non gli resta altro che tornare nella sua dimora a Roma. Già il titolo comunica al lettore la centralità dell’eros nella vita del protagonista. D’Annunzio tende a presentare la ricerca del piacere come nuovo mito dell’esistenza (edonismo). Andrea incarna la sintesi tipicamente decadente dell’esteta e del dandy, egli non riconosce le leggi morali ma solo leggi estetiche: la sua è una ricerca senza centro, attratta da quanto gli appare di volta in volta desiderabile. Il protagonista di Sperelli ha il suo antecedente più prossimo nella figura di Des Esseintes, protagonista del romanzo “A rebours” di Huysmans. Nel Piacere il collezionismo e il gusto della trasgressione divengono parti integrante del ritratto di Andrea, che esprime l’esigenza di evadere dalla mediocrità, esibendo comportamenti contro le meschinità piccolo-borghesi. Inoltre, il rapporto tra Sperelli e d’Annunzio, ci consente di riflettere sulla centralità che ha il tema del doppio. Il protagonista può essere considerato un alter ego dell’autore. Il fascino con cui è raccontato il mondo di Sperelli, che molto risente dell’esperienza romana di d’Annunzio, lascia trasparire una profonda attrazione da parte dell’autore. Il tema del doppio si riflette anche nella strana sovrapposizione delle due donne, Elena e Maria, che rappresentano il contrapporsi di sensualità e spiritualità. Il tema del doppio agisce anche su un altro piano, ovvero il legame tra Sperelli e Roma, la città che fa da sondo alla narrazione. L’intera realtà è filtrata attraverso l’arte: non solo i luoghi ma anche i tratti fisici dei personaggi vengono spesso connotati mediante il confronto con opere e oggetti artistici. Le citazioni letterarie e i riferimenti colti ricorrono costantemente nei dialoghi e il filtro dell’arte allontana il mondo contemporaneo verso uno sfondo indistinto. Gli oggetti stessi hanno una valenza simbolica: essi si legano al tema dell’eroicizzazione dell’artista. L’intero romanzo è intessuto di simboli, più che di eventi. Vi si afferma un nuovo modo di leggere la realtà, che privilegia la sensazione. Per questo l’autore si serve spesso della sinestesia. Il romanzo fin dalla sua pubblicazione viene recepito come un manifesto delle nuove tendenze europee. Agli umili e ai disperati, succedono i raffinati, gli esteti e i superuomini. DA L’INNOCENTE AL FORSE CHE Sì FORSE CHE NO “L’innocente”, il secondo romanzo di d’Annunzio, esce a puntate sul quotidiano “Corriere di Napoli” tra il 1891 e il 1892, per poi essere ripubblicato nel 1896. Vi si racconta la storia di Tullio Hermil, ricco proprietario terriero in crisi matrimoniale con la moglie Giuliana. Tullio consuma rapporti amorosi con altre donne ma continua a preferire la sua famiglia. Al contempo Giuliana tempo prima ebbe una relazione con il poeta Filippo Arborio, rimanendone incinta. Tullio la perdona ma non riesce ad accettare il figlio perché è la prova evidente del tradimento. Proprio per questo motivo, lo uccide. La vicenda viene narrata in prima persona, come se fosse un dossier medico: un individuo di grande intelligenza, si studia, si osserva, e alla fine dichiara la sua multanimità, ovvero la compresenza in lui di più personalità da cui è afflitto. “Il Trionfo della morte”, il terzo romanzo di d’Annunzio, viene pubblicato nel 1894 e conclude il ciclo dei Romanzi della Rosa. La vicenda mette in scena il tragico destino di due amanti separati da cultura, sensibilità e visione del mondo. Il protagonista, Giorgio Aurispa, è un raffinato intellettuale abruzzese che fallisce il sogno di affermarsi a Roma. La sua rovina è causata dalla passione per Ippolita Sanzio, una donna bellissima ma sterile. Ritornato al paese natale, Giorgio è preso dal crescente rancore verso la donna che gli considera responsabile di avergli prosciugato la forza di volontà a causa dell’attrazione che esercita su di lui. Anche il ricordo dello zio Demetrio, morto suicida, concorre a spingere Giorgio sulla strada dell’autodistruzione. Così nel finale si uccide insieme all’amante. “Il fuoco”, pubblicato nel 1900, racconta le vicende della relazione tra Stelio Effrena, proiezione dello stesso d’Annunzio, e Foscarina, donna ispirata alla figura di Eleonora Duse. Il titolo, “il fuoco”, rappresenta la metafora della combustione poetica e della ritrovata unità fra arte e vita. Il protagonista, poeta e musicista, aspira a un’opera d’arte totale e il suo modello esplicito è quello del grande musicista Richard Wagner, di cui sono narrati i funerali nell’ultima pagina del romanzo. Venezia diventa la metafora ricorrente della decadenza e della morte, è il luogo dell’acqua e del fuoco, due elementi che si collegano ai caratteri dei personaggi: a Stelio corrisponde la forza del fuoco, a Foscarina l’elemento dell’acqua. “Forse che sì forse che no”, l’ultimo romanzo, viene pubblicato nel 1910. La storia racconta la vicenda amorosa tra Paolo Tarsis e Isabella Inghirami che si conclude con la follia della donna. La figura femminile nel romanzo si sdoppia in Isabella e la sorella Vana: possessiva e sensuale la prima, debole e morbosa la seconda. L’uomo infine parte on il suo aereo in una decisiva sfida alla morte compiendo l’audace impresa di trasvolare il mar Tirreno atterrando ferito sulle coste della Sardegna. È quindi proprio ad una macchina che Paolo affida l’attuazione del suo agonismo: l’aereo diventa lo strumento di uno spericolato individualismo, capace di esaltare la folla. LA PRODUZIONE MINORE:LE NOVELLE E IL TEATRO D’Annunzio pubblica la sua prima raccolta di novelle, Terra Vergine, nel 1882. Si tratta di alcuni bozzetti che si ispirano alle novelle verghiane di Vita dei Campi. All’attenzione sociale di Verga, d’Annunzio sostituisce il proprio Abruzzo mitico e pittorico oltre a scegliere vicende che si trovano del tutto al di fuori della linea verista: storie di sesso e violenza. Nel 1886 escono le novelle del San Pantaleone e nel 1902 le novelle della Pescara. A partire dal 1896 si sviluppa anche l’attività teatrale di d’Annunzio, il cui progetto si fonda sulla teoria estetica della rinascita della tragedia greca e latina. Tuttavia il teatro dannunziano non è stato solo il prodotto dell’ambiziosa sperimentazione di un genere, bensì lo sbocco necessario di una letteratura che aveva una forte vocazione alla propaganda e cercava il consenso di un pubblico sempre più ampio. I risultati più convincenti del teatro dannunziano sono legati al rinnovamento del genere della tragedia pastorale, con “La figlia di Iorio” e “La fiaccola sotto il moggio”, ambientate in un Abruzzo agreste e scandite in versi liberi. Le due opere sono un atto di omaggio al mondo contadino, attraverso il quale il poeta dà forma al suo messaggio di trasfigurazione ideale della vita. Le due opere sono costruite come favole senza tempo, ambientate su uno sfondo regionale arcaico e intriso di magia. LA PROSA “NOTTURNA” Sotto la denominazione di “prosa notturna” si è soliti fare riferimento a una serie di scritti composti in un lungo arco di tempo, dal soggiorno francese alla morte. Si tratta di opere piuttosto eterogenee, il cui denominatore comune è la forte attenuazione della retorica e il parziale venire meno dell’ideologia superomistica. Le tematiche portanti diventano: la malattia, la morte, il ricordo dell’infanzia, l’intimità emotiva dell’individuo. A livello stilistico si nota una frammentazione della prosa che procede con brevi frasi prive di enfasi. “Il notturno”, è l’opera scritta in seguito a un incidente di volo pubblicata nel 1921. L’opera è divisa in tre parti, ognuna delle quali è detta “offerta”. Nella prima viene trattato il tema della sofferenza; nella seconda i ricordi dell’infanzia e nella terza visioni di morte e di guerra. L’opera può essere definita come un diario della malattia ma assume anche il carattere di un diario della scrittura e della memoria. Da un punto di vista formale, la maggiore novità del “Notturno” è la sovrapposizione dei piani temporali e la tendenza a procedere per associazioni mentali. Inoltre in queste prose notturno, il discorso in prima persona si svolge quasi sempre sul filo della memoria, perciò ne deriva il tema della visione interiore. D’ANNUNZIO POETA La prima stagione poetica di d’Annunzio va dalla raccolta “Primo vere” al “Poema paradisiaco”. Nella raccolta “Primo vere”, pubblicata nel 1879, il poeta raccoglie, sotto lo pseudonimo di Eloro, un gruppo di poesie nate dalla lettura delle Odi barbare di Carducci. Tre anni più tardi esce la prima edizione di Canto Novo, di cui d’Annunzio darà una seconda edizione nel 1896. La raccolta rimane per molti aspetti legata al modello carducciano e improntata ai preziosismi dell’Antologia Palatina., una raccolta in lingua greca. Ci sono inoltre riferimenti alla tradizione umanistica, i motivi più caratteristici dell’opera sono infatti la scoperta della sensualità del paesaggio e l’empatia con la natura. L’ISOTTEO E LA CHIMERA La raccolta “L’Isotteo” deriva dalla revisione del Libro d’Isaotta. Esso appare, unito in volume con “La Chimera”, nel 1890. La lode della protagonista Isaotta Guttadauro, è attuata attraverso i modi della poesia medioevale, in particolare lo Stilnovismo e il Petrarchismo. Inoltre in questa raccolta, che si snoda attraverso 21 componimenti, il poeta si avvale della nona rima, un metro di profonde risonanze classiche. A formare l’ultima parte dell’Isotteo sono chiamati quattro sonetti che d’Annunzio aveva pubblicato nel 1887 sotto il titolo unitario di Epodo. I sonetti nascono per celebrare il poeta livornese Giovanni Marradi, e tra i quattro conoscenza scientifica-razionale della realtà, a cui si sostituisce la forma conoscitiva dell’intuizione e la forma espressiva del simbolo. Interessanti sono alcuni punti di contatto con il pensiero di Schopenhauer e Bergson. Del primo, Pascoli apprezza la concezione della musica come linguaggio universale in grado di esprimere attraverso i suoni l’essenza del mondo; del secondo invece, apprezza le teorie sul tempo che secondo il filosofo può essere colto solo con un atto intuitivo. Il sostanziale superamento della linea romantico-positivistica si riflette anche nella presa di distanza dall’idea di progresso. Nel mondo pascoliano infatti, sembra non esserci posto per una dimensione positiva e progressiva della storia, e l’unico rifugio possibile sta nella rete protettiva degli affetti e in una vaga filantropia. Inoltre, nonostante il suo allontanamento dalla militanza politica a causa dell’arresto del padre, resterà vivo in Pascoli un vago ideale socialista improntato a un generico afflato di solidarietà umana. Convivono inoltre, accanto a questi ideali, atteggiamenti di segno apparentemente contrario come la difesa della proprietà privata. Ed anche il nazionalismo, si ispirerà piuttosto a un afflato di difesa della patria come luogo-nido e a un solidarismo sociale che vede nelle nuove colonie un possibile sbocco di lavoro per i ceti più poveri. LA VISIONE DEL MONDO E DELLA POESIA La morte è tema che permea l’universo pascoliano: i numerosi lutti familiari, tornano nella sua lirica sotto varie forme, implicite e esplicite. Una sottile inquietudine pervade ogni descrizione naturale e il peso opprimente dell’ingiustizia umana, torna a turbare continuamente il poeta. L’ossessivo pensiero della morte si manifesta negli oggetti, nei rumori, nelle visioni. Pascoli supera questa condizione di dolore trovando rifugio nell’intimità familiare. Come protezione del mondo intimo, Pascoli utilizza spesso l’immagine metaforica della nebbia, impalpabile ma fitta coltre difensiva; e ricorrente è anche quella della siepe, che esprime il bisogno di protezione e di certezze, configurandosi come il limite che non si vorrebbe mai infranto dalla violenza del mondo esterno. La natura pascoliana, si fa specchio della crisi dell’io e dà voce attraverso le immagini simboliche alle sue ossessioni funebri e ai suoi fantasmi interiori. Nella visione del mondo pascoliana, ha un ruolo centrale il tema dell’infanzia come “paradiso perduto”. L’età della fanciullezza è un eden dove il poeta desidera tornare ricercando uno sguardo innocente, simile a quello di un fanciullo, e tra gli uomini adulti proprio quello del poeta. La poesia diventa così la sola ragione di vita e una forma di consolazione al male dell’esistenza. Il fanciullino, attraverso l’intuizione riesce a vedere ciò che gli adulti non scorgono e queste facoltà le deve saper utilizzare il poeta. Il poeta allora, diventa l’indovino, colui che è in grado di rivelare agli altri le armonie segrete della natura. Questa rivalutazione della capacità conoscitiva e intuitiva della poesia, colloca Pascoli sulla linea del Simbolismo europeo. L’adesione al Simbolismo, comporta anche l’affermazione di un’idea forte di poesia, che affida al poeta un ruolo importante. Pascoli sente la poesia come strumento consolatorio in grado di allentare le tensioni sociali ricostituendo l’armonia attraverso la contemplazione della bellezza. LA “RIVOLUZIONE” STILISTICA E LINGUISTICA DI PASCOLI Mondo interiore e mondo esteriore sono, nella concezione pascoliana, fatti della stessa sostanza. In questo modo gli oggetti diventano simboli di un ricordo, di un’emozione. Da qui deriva la “poetica delle cose” di Pascoli: gli oggetti sono poetici indipendentemente dal loro essere umili o alti, e il loro significato non dipende da una scala di valori ma da un ordine di tipo psichico, da un’esigenza interiore che attribuisce valore agli oggetti. Questa “poetica delle cose”, ha un riflesso anche sul piano della lingua e dello stile, infatti ogni particolare del mondo ha un nome “esatto”. Acquista particolare valore anche il suono, con la sua carica emotiva, di modo che la dimensione uditiva e fonosimbolica della realtà diviene centrale nella lingua di Pascoli. Altrettanto caratteristico della poesia pascoliana è lo sperimentalismo lessicale: i termini tecnici si affiancano a termini preziosi, quotidiani e dialettali. L’effetto è quello di un plurilinguismo che influenzerà sensibilmente la poesia del Novecento. Pascoli usa tre livelli di lingua: un linguaggio pre-grammaticale, costituito dalle onomatopee; un linguaggio grammaticale, che mette in fila parole comprensibili al lettore; e infine un linguaggio post-grammaticale, fatto da termini tecnici, gerghi e dialetti. Anche la sintassi pascoliana è innovativa: si presenta spesso frantumata, con frasi collegate per asindeto, essa si articola dunque in segmenti discontinui e linee spezzate. Anche all’interno della frase il tessuto grammaticale tende a franare silenziosamente per effetto di continue pause. La poesia pascoliana procede dunque per “sottrazione” di materia, per silenzio. La frantumazione è spesso sottolineata anche sul piano metrico dalle cesure e dagli enjambement. IL FANCIULLINO “Il fanciullino” è il titolo dei venti brevi capitoli pubblicati nel 1897 sul “Marzocco”. Il titolo richiama la predilezione per il piccolo e per la dimensione infantile, ovvero per quell’atteggiamento infantile nel guardare il mondo. Ognuno dentro di sé, conserva un fanciullo “eterno”, che guarda la realtà con lo stesso candore dei primi uomini. Ma mentre gli adulti dimenticano il fanciullo che si cela in loro, il poeta riesce ancora a dargli ascolto. La poesia è allora una sorta di “infanzia psichica” che dà voce alla meraviglia con cui il mondo si presenta al poeta. Nel Fanciullino, la poesia scopre il poetico che è nelle cose. Le influenze di questa opera sono molteplici, e in particolare, venne molto influenzata sia da Platone che da Leopardi con le sue teorie sull’immaginazione creatrice dei miti. Il fanciullino si pone in contrapposizione rispetto al superuomo dannunziano nonostante alcuni critici abbiano cercato di cogliere un punto di contatto tra le due poetiche. Inoltre, mentre Pascoli costruiva una poetica al cui centro era il fanciullino, in Europa andava nascendo un nuovo interesse per l’infanzia nella vita umana. Nel cuore dell’Europa, con la psicoanalisi, stava nascendo una teoria che avrebbe rivoluzionato lo sguardo sull’uomo, dichiarando la centralità del periodo dell’infanzia nell’economia di una vita. Ma Freud e Pascoli, affrontavano questo tema da due posizioni opposte: il primo andava scoprendo nell’infanzia, le pulsioni di una sensualità non ancora imbrigliata nelle regole adulte; il secondo, al contrario, del fanciullo sottolinea lo sguardo ingenuo negando a suo carico ogni forma di eros. Eppure, le due posizioni trovano un elemento comune nel risalto che assume la componente non logica e spontanea dell’istinto fanciullesco. MYRICAE E I CANTI Nel complesso della poesia pascoliana è possibile individuare due linee distinte: la prima, presente soprattutto nella raccolta Myricae, è caratterizzata dalla brevità dei componimenti; la seconda, incline alla misura più distesa del verso e della strofa, con il prevalere dell’endecasillabo, è presente soprattutto nelle diverse raccolte dei Poemetti. Questi due diversi orientamenti della poesia pascoliana, hanno poi caratterizzato, a loro volta, due direttrici della fortuna di Pascoli nel Novecento: Saba e Montale hanno guardato principalmente le Myricae, mentre Pasolini i Poemetti. MYRICAE La raccolta poetica, nelle sue varie edizioni fino alla quinta, definitiva, del 1900, condensa in sé i caratteri più originali di tutta la poesia pascoliana. “Myricae” è il nome latino delle tamerici, arbusti comuni nei paesaggi mediterranei. L’ispirazione proviene da un noto verso delle Bucoliche di Virgilio, che però Pascoli riprende rovesciandone il senso. Le sezioni interne sono organizzate in base a raggruppamenti di forme metriche omogenee e si richiamano tra loro con una fitta trama di parallelismi. Le Myricae mostrano, nelle 156 poesie, la decisiva preferenza per la forma poetica breve e per l’illuminazione improvvisa. Questa raccolta è caratterizzata da una notevole varietà di metri e da un linguaggio che aderisce alle cose tramite l’uso di termini precisi. Inoltre il filologo Gianfranco Contini ha sottolineato il prevalere dell’aspetto fonosimbolico e a questa scelta di valorizzazione dei suoni è connesso l’uso dell’onomatopea, della sinestesia e dell’analogia. Nella raccolta, dedicata al padre, è centrale il tema della morte, profondamente legato al mito della tragedia familiare. Il lutto privato, tuttavia, supera la dimensione soggettiva per farsi espressione di un dolore universale che domina nella storia. L’immagine della tomba ricorre con insistenza e il camposanto viene presentato come la casa in cui dimorano tanti familiari. Prevale tuttavia, il senso di smarrimento, il sentimento di una profonda solitudine ed estraneità agli altri esseri umani. Lo spiraglio vitale con cui si chiude la prefazione deve tutto alla natura anche se in Pascoli, al contrario di Leopardi, la natura non è maligna bensì “madre dolcissima”, persino nel momento terribile della morte. Solo gli umani sono responsabili del male che soffrono durante la vita. La visione pascoliana della natura è assai diversa anche da quella verista: il paesaggio naturale è percorso in Pascoli da fremiti e risente dello sguardo dell’osservatore che vi proietta sensazioni e angosce proprie. CANTI DI CASTELVECCHIO I “Canti di Castelvecchio”, vengono pubblicati a Bologna nel 1903 e si arricchiscono di nuovi testi fino alla sesta edizione, uscita postuma nel 1912. Il titolo fa riferimento al paese Castelvecchio e ai Canti leopardiani. L’allusione leopardiana del titolo è la traccia di un rapporto intenso e di un dialogo che si alimenta del lavoro critico svolto in quegli anni dallo stesso Pascoli intorno a due testi leopardiani: La ginestra e Il sabato. Tra la prima raccolta e i Canti esiste una continuità che il poeta stesso vuole mettere in luce nel momento in cui riutilizza il verso virgiliano già comparso in Myricae. La misura breve delle liriche delle Myricae nei Canti è definitivamente abbandonata. Metricamente, il ritorno all’endecasillabo e l’ampiezza delle liriche consentono interessanti sperimentalismi. La struttura della raccolta è organizzata secondo il succedersi delle stagioni dell’anno, da autunno ad autunno, ma si tratta però di una scansione solo apparentemente naturalistica. La seconda edizione dei Canti di Castelvecchio esce con un glossario finale, nel quale si chiariscono i numerosi termini appartenenti al dialetto garfagnino di cui le liriche sono punteggiate. Accanto a questi termini, troviamo i latinismi, gli aulicismi e i tecnicismi. Si propone dunque il consueto plurilinguismo pascoliano. POEMETTI E POEMI CONVIVIALI Usciti in prima edizione nel 1897 con il titolo di Poemetti, diventeranno nell’edizione definitiva, del 1904, Primi Poemetti e saranno dedicati alla sorella Maria. Nel 1909 usciranno i Nuovi Poemetti. In queste raccolte Pascoli sperimenta una lirica di ispirazione narrativa, che si traduce in testi lunghi, divisi in sezioni, in cui grande spazio ha il ricordo di una civiltà agreste ricostruita attraverso l’epos rustico di una famiglia. Le liriche celebrano la vita di campagna, illustrata nelle sue varie fasi: l’alba, il desinare, la notte, il focolare. A differenza delle Myricae, le liriche dei Primi Poemetti sono popolate da personaggi e notevole risalto ha il dialogo. I Poemetti esaltano i valori del mondo contadino e la sua dignitosa accettazione della fatica e della sofferenza. Traluce inoltre, anche l’ombra della morte, della decadenza e della corruzione e proprio per questo la raccolta è stata accostata alle poetiche del
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