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Carlo Magno, Alessandro Barbero, Sintesi del corso di Storia Medievale

riassunto del libro su Carlo Magno scritto da Alessandro Barbero per l'esame di storia medievale dell'anno 2020/2021

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 20/01/2022

Eleonora-Martellenghi
Eleonora-Martellenghi 🇮🇹

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Scarica Carlo Magno, Alessandro Barbero e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! Carlo Magno Il padre dell’Europa Alessandro Barbero prof. Marco Stoffella 2 luglio 2021 Riassunto di 1 57 Carlo Magno, nipote di Carlo Martello e figlio di Pipino il breve. Carlo Magno diventa re dei franchi nel 768 alla morte del padre. I. La memoria dei Franchi Ma cosa significava nell’VIII secolo essere re dei franchi? Fra i popoli germanici che si erano insediati nel territorio dell'impero romano d’Occidente circa quattro secoli prima, i franchi avevano occupato un posto di spicco. Eppure non erano neanche un popolo ma una tribù. Questi "barbari" si erano impadroniti della Gallia, che nell'Occidente impoverito del tardo impero era forse la provincia più prospera e popolosa e avevano subito mostrato di non volerla spartire con nessuno. Quanto ai romani sottomessi ad essi era stato consentito di restare e non solo ai contadini e agli schiavi ma anche i ricchi purché riconoscessero la supremazia del re franco. I franchi erano guerrieri. Il regno franco in Gallia era in realtà costituito da una pluralità di regni. Anche se le diverse tribù si erano assoggettate a un unico re, Clodoveo. La consuetudine di suddividere l'eredità del re fra tutti i suoi figli maschi determinò la formazione di più regni. Il regno più orientale fu detto "il regno dell’est" (Austria), mentre, quello più a uccidente, "il regno nuovo” (Neustria). I più energetici sovrani della famiglia regnante Franca conosciuta come la dinastia merovingia dal nome dell'antenato Meroveo, riuscirono qualche volta a riunificare i diversi regni. Questi re avevano una natura più sacerdotale che guerriera il loro simbolo erano i capelli lunghi segno di prosperità ma dopo la conversione al cristianesimo, la fiducia in questa sacralità pagana si era andata lentamente a perdere, e i re-sacerdoti della dinastia merovingia avevano visto la fine della loro autorità. Il potere effettivo nei due regni principali passò in mano ai cosiddetti maggiordomi o maestri di palazzo: viceré che ufficialmente governavano per conto dei re, ma che di fatto tendevano a soppiantarli. In origine c'era un maestro di palazzo in ogni regno, quindi due, ma nel 688 il potentissimo Pipino di Héristal, il bisnonno di Riassunto di 2 57 In quell'incontro venne solennemente giurato fra il re e il Papa un patto di “amicitia”. Nella stessa occasione il pontefice attribuì a Pipino e ai suoi figli il titolo di Patrizio dei romani, il cui esatto significato giuridico ci rimane a dir la verità piuttosto scuro. Il rituale dell'unzione introdotto da Pipino rappresenta una novità di straordinaria valenza ideologica giacché fino ad allora i re franchi salivano al potere per acclamazione. Pipino non fu soltanto il primo re franco ma il solo re cristiano del suo tempo a introdurre nella propria incoronazione questa nota sacrale. II. La guerra contro i Longobardi Nel settembre 768 Pipino moriva e i suoi due figli, Carlo e Carlomanno, erano destinati a spartirsi il regno paterno: a quel tempo, infatti, non si usava ancora dare la precedenza al primogenito. Nel decidere i criteri della spartizione, il re non volle rispettare l'antica suddivisione dei regni. Carlo ebbe la parte esterna dei domini franchi, una vasta mezzaluna a partire dalle coste atlantiche che risaliva oltre la Loira, parte della Neustria e la maggior parte dell’Austria. Carlomanno invece ebbe il blocco più interno, con una piccola parte dell'Austria, le province germaniche meridionali, buona parte della Neustria, il sud della Gallia e la parte più interna dell’Aquitania. Questa suddivisione in blocchi ribadiva l'unità del regno Franco c'erano due re ma il regno era uno solo. Eppure i loro rapporti apparvero presto tesi, forse anche perché i condizionamenti geopolitici creati dalla spartizione li obbligavano a indirizzare la loro politica in direzioni opposte: a Carlo si aprivano illimitate possibilità di espansione verso la Germania pagana, mentre Carlomanno toccava il confine più pericoloso con gli arabi di Spagna e quello più delicato con il regno dei Longobardi di Italia. In questi anni di divisione del regno nessuno dei due fratelli condusse campagne di Riassunto di 5 57 guerra, anche se, la situazione era instabile. Il mantenimento della pace si pensa riconducibile alla madre. Carlomanno morì dopo una lunga malattia nel 771 e, benché appena ventenne, aveva già due figli che avrebbero potuto prendere il suo posto, ma Carlo approfittò dell'occasione e si fece proclamare unico re dei Franchi impadronendosi quindi dei territori del fratello. Molti dei vescovi, abbati e conti che avevano servito Carlomanno si sottomisero al nuovo padrone; ma altri preferirono seguire la vedova i figli del re morto, che andarono a rifugiarsi in Italia. Dopo pochi mesi dalla morte del fratello, Carlo, era già in armi oltre il Reno, contro i pagani del Nord. La campagna contro i Sassoni dei Franchi consisteva nel penetrare in profondità nel paese nemico, imponendo la propria autorità con la spada, e costrinsero questi a consegnare 12 ostaggi di famiglia principesca, a garanzia della loro sottomissione. In verità per sottomettere davvero i Sassoni avrebbe dovuto combattere per il resto della sua vita. I rapporti dei Franchi con i loro vicini Longobardi erano spesso stati cattivi; soprattutto da quando i papi avevano cominciato a rivolgersi ai re cattolici della Gallia, e ai loro maestri di palazzo, per essere protetti da quella minaccia. Nel 754, la consacrazione di Pipino da parte di Papa Stefano e la concessione del titolo di Patrizio dei romani si accompagnarono egualmente alla promessa di un intervento nella penisola. Nell'estate di quello stesso anno Pipino mosse contro il re Astolfo in Pavia, costringendolo a rinunciare, a vantaggio del Papa, a tutte le conquiste longobarde in Italia centrale e a riconoscere la supremazia franca. Appena due anni dopo, nel 756, Astolfo si era rimangiato tutto e si era spinto in armi fino alle porte di Roma, costringendo Papa Stefano a mandare a Pipino un appello disperato, l'intervento dei Franchi rimise provvisoriamente le cose a posto ma dopo quella vittoria la politica dei re Franchi nei confronti dell'Italia cambiò. Il re longobardo, così duramente umiliato, aveva riconosciuto la supremazia Franca e si era trasformato in un cliente, più che non avversario. Non è un caso se Pipino evitò di usare il titolo di Patrizio dei romani che il papà gli aveva attribuito e che avrebbe potuto Riassunto di 6 57 costringerlo a impegnarsi in Italia più di quello che conveniva nei suoi interessi. L'avvento di Carlo e Carlomanno non cambiò la situazione, entrambi si mostrarono desiderosi di mantenere un buon rapporto con re Desiderio, successore di Astolfo. Che Carlomanno fosse in eccellenti rapporti con Desiderio è dimostrato proprio dal fatto che dopo la sua morte la vedova, i figli e molti seguaci si rifugiarono in Italia; ma anche Carlo allaccia rapporti altrettanto buoni con la corte di Pavia, tanto che si sposò con la figlia di Desiderio di cui non sappiamo il nome (Manzoni secoli più tardi la chiamò “Ermengarda”). Questa alleanza doveva seppellire per sempre la politica filo papale dei Franchi e rendere definitiva la coesistenza con i Longobardi. Ma come mai non più di due o tre anni dopo questa unione Carlo Magno invade l’Italia? L'esatta successione degli eventi non c'è mai stata chiara. Sappiamo che tra il 771-772 si susseguirono 3 eventi : 1) il re Desiderio incoraggiò la vedova di Carlomanno a rivendicare per il figlio l'eredità del re morto e pretese che il bambino fosse consacrato dal pontefice 2) Carlo ripudiò la moglie longobarda che non gli aveva ancora dato un figlio, rispedendola da suo padre, misura legittima, secondo i cronisti Franchi perché la donna era malata e non avrebbe mai potuto partorire un erede. 3) Il Papa Adriano I, da poco eletto, scrisse a Carlo riferendo che Roma era più che mai minacciata dai Longobardi, e lo invita a seguire l'esempio di suo padre, venendo a difendere con le armi in pugno la città santa di cui era pur sempre Patrizio. È chiaro che ciascuno di questi trapassi era suscettibile di provocare la crisi. La situazione è ancora più intricata perché sembra che Carlo tentò fino all'ultimo di mantenere la porta aperta per una soluzione diplomatica, in quanto, la sua preferenza era un'espansione verso il Nord pagano ma quando propose al Papa di pagare un forte risarcimento in cambio del ritiro dei Longobardi dei territori occupati, questo rifiutò e Carlo fu obbligato a pianificare una campagna di guerra in Italia. Riassunto di 7 57 La conquista dell'Italia longobarda aveva provocato ovunque devastazione e povertà. Della fame, e delle sue tragiche conseguenze, riferisce Papa Adriano in una lettera del 776, denunciando l'intensificarsi del traffico di schiavi cristiani, gestito da mercanti greci senza scrupoli: per sfuggire alla fame Longobardi vendevano a costoro i propri schiavi o si imbarcarono essi stessi sulle navi greche, per salvare almeno la vita. Ed è proprio nel 776 che Carlo Magno emanò il suo primo capitolare italico, si tratta di un intervento legislativo del tutto eccezionale. Il re stabiliva che tutte queste alienazioni fossero annullate quando fosse possibile dimostrare che il venditore aveva agito spinto dalla fame. Carlo Magno ci tiene a precisare che questa misura valeva solo la dove fosse passato lui o il suo esercito, prova che l'invasione Franca aveva veramente causato conseguenze catastrofiche. La volontà di mantenere l'autonomia del regno Longobardo all'interno della dominazione franca trova conferma nella Pasqua del 781 quando il figlio secondogenito di Carlo, chiamato Pipino, venne battezzato a Roma e consacrato re dei Longobardi. A partire da questo momento quindi, si ebbero due re il padre che soggiornava aldilà delle Alpi e il figlio che invece si insediò a Pavia. Pipino aveva appena quattro anni, il governo effettivo del paese venne gestito dal padre oppure per mezzo di uomini di fiducia che operavano al suo fianco. In seguito, tuttavia, il giovane crebbe e fu in grado di comandare personalmente l'esercito del suo regno, mise in atto diverse campagne militari anche vincenti, ma morì prematuramente nell’810. III. Le guerre contro i pagani All'indomani della sua vittoria contro i Longobardi, Carlo Magno si ritrovò ad essere in pratica l'unico re cristiano d’Occidente. I piccoli re anglosassoni e spagnoli, non esercitavano che un potere locale, Carlo, invece era padrone di due grandi regni e i suoi domini si allargavano dal mare del Nord all’Adriatico. Tutto intorno a lui erano insediati i nemici di Dio: i sassoni, i danesi, gli slavi, gli arabi musulmani e gli avari. Riassunto di 10 57 Già in passato Carlo Martello prima e poi Pipino si erano conquistati il consenso con valorose spedizioni militari ma adesso, più che in passato, tutte le guerre di aggressione si presentavano come un inequivocabile legittimazione religiosa. Ogni qualvolta Carlo avesse levato la spada contro i suoi vicini, la benedizione del Papa avrebbe accompagnato e così, quella di Dio. Fallì assai raramente ma il prezzo che pagò fu alto. La guerra lo accompagnò quasi ogni anno della sua vita la più dura, e quella più gravida di conseguenze, fu la guerra contro i Sassoni, che durò oltre vent’anni. Carlo si era posto come obiettivo dichiarato la conversione dei Sassoni al cristianesimo, cosa che già suo padre e suo nonno, avevano cercato di ottenere. È comunque chiaro che le motivazioni religiose si intrecciavano con quelle politiche. Fu una guerra atroce, in un paese poco nulla civilizzato, senza strade, senza città, interamente ricoperto da foreste e paludi, i Sassoni, come sempre avevano fatto i germani prima di convertirsi al cristianesimo sacrificavano ai loro dei prigionieri di guerra, e i Franchi non esitavano a mettere a morte chiunque rifiutasse il battesimo forzato. Più e più volte, logorati da quella guerra senza quartiere, i capi Sassoni chiesero la pace, offrirono ostaggi, accettarono il battesimo e si impegnarono a consentire l'opera dei missionari, ma ogni volta che la vigilanza si allentava e Carlo era personalmente impegnato su qualche altro fronte esplodevano puntualmente le rivolte. Nel corso di queste ribellioni, emerse fra i Sassoni, per la prima volta la figura di un capo unitario: il principe Witichindo. Fu lui, proprio nel momento in cui Carlo era più sicuro d'aver pacificato la regione e guadagnato la fedeltà dei nobili Sassoni, a scatenare la ribellione più clamorosa. Fuori di sé per un tradimento che oltretutto era costato la vita a due dei suoi più stretti collaboratori, Carlo, rispose con gesto che rappresenta tuttora la macchia più grave della sua reputazione: intervenuto con un nuovo esercito, costrinse i ribelli alla capitolazione e ottenne che consegnassero le armi, ad eccezione di Witichindo che si salvò riparandosi fra i danesi, poi, quando li ebbe il suo potere, ne fece decapitare in un solo giorno 4500. Più di uno storico ha cercato di Riassunto di 11 57 attenuare la responsabilità di Carlo nel massacro. Negli anni successivi al 782 Carlo condusse la guerra con una spietatezza ineguagliata, nello stesso tempo pubblicò la più feroce fra tutte le leggi emanate durante la sua vita, il cosiddetto “capitulare de partibus Saxonie” che impone la pena capitale per chiunque offendesse la religione cristiana e i suoi sacerdoti. Questo capitolare è uno dei provvedimenti con cui un generale esasperato cerca di stroncare con terrore la resistenza di un intero popolo, e Carlo ne porta la responsabilità morale. La politica del terrore e della terra bruciata sembrò dapprima pagare: nel 785 dopo che i franchi avevano devastato il paese fino all'Elba Witichindo fu costretto a scendere a patti e venne in Francia per ricevere il battesimo. Ma il battesimo imposto con la forza si rivelò poco efficace la durezza del governo franco, teso a reprimere con la massima ferocia ogni ritorno a rituali pagani, provocò una nuova insurrezione in massa nelle regioni settentrionali della Sassonia. I Sassoni bruciarono le chiese, massacrarono gli ecclesiastici e si preparavano ancora una volta a resistere nelle loro foreste. Carlo intervenne con una ferocia ormai abituale ma anziché limitarsi a devastare il paese ribelle e a prenderne per fame la popolazione, la deportò in massa e pianificò il ripopolamento di quelle zone con coloni franchi o slavi. Al tempo stesso Carlo era un politico abile, e compreso la necessità di intensificare i contatti e rapporti con l'aristocrazia sassone, ne risultò una collaborazione riconoscibile nella grande assemblea di Aquisgrana del 797 dove egli emanò, con loro consiglio, una nuova versione del capitolare Saxonicum. Simbolo di questa integrazione fu la nuova città che Carlo fece costruire a Paderborn, nel cuore del paese conquistato, eretta su paludi bonificate e munita di un palazzo reale e di una grandiosa cattedrale. Nei confronti degli arabi di Spagna Carlo Magno mantenne per gran parte del suo regno un atteggiamento prevalentemente difensivo. Nella primavera del 778, tuttavia, le lotte interne che indebolivano la dominazione musulmana in Spagna apparvero offrire occasione d'oro per un intervento offensivo. Carlo Magno decise così di organizzare Riassunto di 12 57 sconfinavano in Baviera e nel Friuli e si spinsero nella pianura veneta fino a Verona dove incendiarono la basilica di San Zeno, ma Carlo era un politico metodico e non intendeva lasciare aperto un problema senza trovare una soluzione e ora che il ducato Avaro aveva perduto la sua autonomia ed era direttamente incorporata nel regno franco era necessario garantire la sicurezza oltre che guadagnare una volta per tutte la fedeltà degli Avari. Carlo aveva già in mente una guerra contro gli avari ma l'intervento venne ritardato dall'arrivo di ambasciatori a cui il re franco detto le sue condizioni: La guerra o l'accettazione della modifica dei confini in modo pacifico. Alla fine gli avari preferirono la guerra piuttosto che una sottomissione vergognosa. Nel 791 il re franco radunò i suoi guerrieri nel paese dei barbari deciso di attaccare per primo. Sulla carta la sfida era all'altezza della fama di Carlo. Procedette con la solita tecnica a tenaglia sulle due sponde del Danubio quella settentrione e quella a mezzogiorno sotto il suo stesso comando. In più un’altra forza avrebbe dovuto colpire gli avari alle spalle, dal confine friulano, al cui comando c'era suo figlio il re d'Italia Pipino. Davanti ai franchi che avanzavano lungo le sponde del Danubio la popolazione fuggiva abbandonando le case il bestiame e senza offrire resistenza, in più Pipino, dall'Italia, era riuscito ad assegnare e a conquistare una fortezza avara a protezione del confine. Il morale dunque inizialmente era molto alto. Ben presto però apparve chiaro che gli avari rifiutavano il combattimento e preferivano opporre al nemico la strategia della terra bruciata, l'ampiezza della pianura pannonica permetteva di ritirarsi davanti all'invasore, evacuando le popolazioni per rinchiudere in luoghi fortificati capace di offrire prolungata resistenza. In più, la stagione era già avanzata e quando Carlo giunse al fiume Raab lasciando dietro di sé devastazione era già la metà di ottobre e il foraggio scarseggiava. Accorgendosi che i suoi cavalli cominciavano a morire di fame il cattivo nutrimento uccideva anche gli uomini Carlo decise di sospendere le operazioni di ritornare in patria. Aveva devastato una provincia che corrispondeva però soltanto una piccola parte del territorio avaro e non era riuscito a costringere il nemico a Riassunto di 15 57 una battaglia decisiva in più, aveva perduto parecchi uomini tra cui due vescovi e gran parte dei cavalli. La campagna del 791 si concludeva quindi con un successo inferiore alle aspettative. Ma è anche vero che diversi capi avari cominciarono ad allora condurre una politica indipendente, uno di costoro che portava il titolo turco di Tudun mandò nel 795 degli ambasciatori da Carlo manifestando la sua intenzione di sottomettersi a lui e farsi cristiano. L'anno dopo questo tradimento il regno avaro crollò perché il suo capo venne assassinato e e il re d'Italia Pipino invase il paese e si sottomise a lui senza opporre resistenza. La sottomissione del regno però non si tradusse come accaduto con regno longobardo in un'annessione a regno dei franchi. Dopo tutto gli avari erano ancora in maggior parte i pagani e, nel 796, si comincia seriamente a pianificare la futura evangelizzazione di quei barbari. Anche in questo caso come era già avvenuto in Italia in Sassonia una conquista relativamente facile fu poi seguita da una vasta insurrezione. La rivolta durò molti anni tanto che Carlo si decise a tornare nella sua vecchia base di operazioni in Baviera e da lì manda una spedizione non però sotto il suo personale comando, con l'ordine di risolvere una volta per tutte la questione avara. Il tutto si concluse con una sottomissione e il popolo fu ancora una volta perdonato. IV. La rinascita dell’impero Grazie alle conquiste contro i Longobardi, i Sassoni, gli Arabi e gli Avari, i possedimenti di Carlo non avevano più comune misura. Il re franco governava ormai quasi la totalità dei regni cristiani di rito latino tanto che nell'anno ottocento il patriarca di Gerusalemme lo riconobbe protettore dei luoghi santi e gli inviò le chiavi del Santo sepolcro. Se Carlo era davvero nuovo Costantino come l'aveva salutato Papa Adriano I all'indomani della sua vittoria sui Longobardi, era giusto che ne portasse il titolo e la corona. Il problema si poneva in relazione al legittimo successore degli imperatori romani, il Basileus che sedeva a Costantinopoli e che in quanto erede diretto e indiscusso di Costantino. La tendenza a contrapporre Carlo al Basileus denunciando l'ineguatezza di quest'ultimo e rivendicando per il re dei franchi un Riassunto di 16 57 ruolo di guida della cristianità, era largamente rappresentata anche alla corte franca oltre che a San Pietro. Eppure nei suoi primi anni di regno Carlo si era proposto di mantenere buoni rapporti con Costantinopoli e c'era anche riuscito. Una coesistenza pacifica fra le due potenze cristiane, ad occidente d'oriente, sembrava dunque possibile; eppure nella primavera del 787 quando un ambasceria bizantina venne a prendere la principessa promessa sposa per il figlio dell'imperatrice di Bisanzio per portarla via Carlo Magno rifiutò di lasciarla andare, in quell'anno cruciale, in effetti, la situazione politica era improvvisamente cambiata tanto da guastare i rapporti fra le due corti e far rinviare senza data la celebrazione del matrimonio. Il re franco aveva infatti condotto una spedizione nell'Italia meridionale e aveva messo sotto attacco il duca di Benevento al quale l'imperatrice Irene diede il suo appoggio. Così la diffidenza reciproca fra occidentali e orientali si era riaccesa. Ma il difficile equilibrio di potere in Italia non è la sola ragione per cui Carlo preferì rompere il fidanzamento: altrettanto importante fu la svolta impressa dall'imperatrice Irene alla controversia teologica che infuriava in oriente. Proprio in quell'anno, 787, l'imperatrice Irene riuscì dopo anni di lotte a far condannare come eretica la politica iconoclasta dei suoi predecessori. Il secondo concilio di Nicea stabilì che la venerazione dei fedeli per le icone non era rivolta all'immagine, ma alla persona in esse rappresentate, e che in questi termini il culto delle immagini era dovere di un buon cristiano. In linea di massima, nelle conclusioni del concilio non c'era proprio niente che non potesse essere accettato in Occidente tant'è che lavori avevano visto la partecipazione anche di rappresentanti del Papa, però, Carlo Magno le cose con estremo mal umore. Contro il parere del Papa, Carlo Magno respinse le conclusioni di Nicea e diede ordine a uno dei suoi consiglieri di confutarle per iscritto; il risultato furono i libri Carolini che furono alla base del concilio di Francoforte. Questi sostennero che distruggere le icone era sbagliato ma che lo era anche imporne la venerazione. Questi libri ebbero anche una risposta politica, infatti, durante il concilio di Francoforte si dice che le conclusioni del consiglio di Nicea Riassunto di 17 57 rischiavano di derivarne. Nonostante le umiliazioni subite, Leone III, era riuscito alla fine a realizzare il suo programma, attuando la restaurazione dell'impero come sa dirigere ogni cosa fosse stata la Chiesa. Mettendo con le sue mani la corona sul capo del nuovo imperatore, il Papa rivendicava di fatto la supremazia dell'autorità pontificia su quella imperiale. Per il momento si trattava di una rivendicazione puramente teorica. Un politico dell'intelligenza di Carlo Magno non potevano cogliere al volo le implicazioni di questo gesto, e ciò basta e avanza per spiegare il suo disagio. Non è un caso che 13 anni dopo, Ludovico il Pio, suo figlio quando fu incoronato imperatore la cerimonia e venne ad Aquisgrana, ad acclamarlo non c'erano i romani ma i franchi, e soprattutto, il nuovo imperatore non si inginocchia davanti al Papa ma venne incoronato dal padre o, secondo un altro cronista, impose da solo sul capo la corona. La notizia dell'incoronazione venne accolta a Costantinopoli con derisione e disprezzo. Fino ad allora, gli imperatori romani avevano riconosciuto ai capi germanici, soltanto il titolo subordinato di Rex, ma era impensabile che uno di costoro potesse assumere il titolo di imperator. Lo stesso Carlo Magno sembra essersi preoccupato delle reazioni ostili che il gesto di Leone III avrebbe potuto provocare ad oriente, e già nell'ottocento due mando degli ambasciatori a Costantinopoli per assicurare l'imperatrice sulle sue intenzioni pacifiche. Poco tempo dopo l'imperatrice Irene venne cacciata con un colpo di Stato e al suo posto fu messo Niceforo I. Benché sia Carlo, sia il nuovo Basileus non avessero alcuna voglia di farsi guerra, il confine fra le due potenze nord-est e nel sud della penisola italiana era abbastanza fragile e provocava continui scontri. Nell’811 Niceforo fu ucciso e al suo posto fu messo Michele I che cercò di garantirsi la pace con l'Occidente in modo costante: un ambasceria bizantina raggiunse Aquisgrana e riconobbe a Carlo il titolo di imperatore. Carlo rispose con una lettera in cui si rallegrava della pace raggiunta. Carlo dopo la sua incoronazione venne acclamato imperatore dei romani ma egli preferì introdurre una modifica in questo titolo e nei Riassunto di 20 57 suoi diplomi si intitola “governante l'impero romano”, si mostrava così sensibile alle preoccupazioni dei bizantini almeno in apparenza infatti la simbologia del potere carolingio a partire dall'anno 800 si richiamo sempre a quella dell'impero romano: Carlo si fece rappresentare sulle monete con la corona d'alloro e il mantello di porpora, e fece scrivere sul suo sigillo quello che doveva restare per secoli uno slogan politico di straordinaria efficacia: Renovatio romani Imperii. La scelta di non definirsi in modo esplicito "imperatore dei romani" risale probabilmente al fatto che gli premeva non sminuire il suo titolo di re dei franchi, che era pur sempre la vera base del suo potere, e, in più, non voleva dare adito al sospetto , politicamente pericoloso, che i preti di Roma, e non i magnati franchi, fossero l'Elitè politica dell'impero rinnovato. Nonostante l'ambiguità che aveva saputo introdurvi Leone III, l'incoronazione imperiale sanciva la supremazia di Carlo sulla Chiesa latina e sullo stesso pontefice. anche se in pratica già prima dell'ottocento Carlo si comportava tutti gli effetti come capo della cristianità. L'aiuto che egli prestava alla chiesa ora consisteva nel decidere le nomine dei vescovi e abati, nel sorvegliare severamente il comportamento, e nel radunarli in consiglio quando lo giudicavo opportuno, tutte responsabilità che oggi siamo abituati a vedere esercitare dal Papa. V. Carlo Magno e l’Europa. Dall'ottocento l'insieme dei territori su cui si allargava l'autorità di Carlo Magno si identificava ufficialmente con un rinnovato impero romano. Il problema di Carlo Magno come padre dell'Europa si può analizzare sotto un punto di vista "nazionale", oppure, “economico-istituzionale". E soprattutto per gli studiosi francesi e tedeschi, portavoce intellettuali di due nazioni ferocemente rivali, che il problema si poneva in termini nazionali: nell'impero di Carlo Magno prevaleva la componente romana, di cui la Francia era l'erede, o quella germanica, finalmente rivendicata dal nuovo Reich tedesco? È facile capire le passioni sollevate da questo dibattito nel clima nazionalista dominante in Riassunto di 21 57 Europa fra l'otto e il 900: dichiarare che Carlo Magno era in fondo in tedesco, Karl Der grosse, significava affermare la centralità della Germania piuttosto che della Francia, Charlemagne, nell’Europa moderna. Allo stesso modo, dichiarare che l'impero edificato da Carlo non si reggeva sull'eredità di Roma, ma sulle fresche energie dei giovani popoli germanici era una presa di posizione politica dalle risonanze contemporanee fin troppo evidenti. La questione, oggi, non si può più porre a questo modo. Carlo Magno non era, e non poteva essere, né tedesco né francese, perché nessuno di questi due popoli era ancora nato. Non solo i tedeschi, a quel tempo, non esistevano affatto; ma in sede scientifica si dubita persino che i diversi popoli germanici così chiamati da noi moderni per ragioni esclusivamente linguistiche, avessero davvero un'identità collettiva superiore a quella di una singola etnia , e riconoscessero fra loro una qualche forma di solidarietà. Quale che sia il nostro giudizio sull'importanza di Carlo Magno nel processo di formazione dell'Europa moderna, la dimensione nazionale come la intendeva la storiografia ottocentesca deve essere lasciata da parte: le nazioni europee così come noi la conosciamo si costituiscono soltanto dopo la dissoluzione del suo impero. Il che non significa che l'Europa di Carlo Magno non fosse attraversata da una spaccatura etnica di cui è impossibile negare l'importanza.in questo impero che pure si definiva ufficialmente romano, i romani erano considerati poco meno che stranieri. Lo stesso Carlo Magno non era romano ma un franco e ne era ben consapevole, era fiero di esserlo; si guardava anche bene dall’imitare nell'aspetto gli imperatori romani di cui portava il nome e si limitava indossare gli abiti tradizionali solo quando si trovava nella città eterna. Ma un impero non si descrive soltanto con i sentimenti di appartenenza nazionale e nemmeno con i sentimenti personali dell’imperatore. Infatti quando dettò il suo testamento non fece distinzione tra territori franchi, avari, germani e romani ma dettò un elenco che era lo specchio di un impero nuovo, l'impero cristiano. Nel 1937, Henri Pirenne, pubblicò il libro "Maometto e Carlo Magno" e il dibattito sull'Europa carolingia ebbe una svolta decisiva rispetto ai Riassunto di 22 57 sua vita dei Cesari. Nel fisico di Carlo, così come ce lo descrive, riconosciamo tutti i danni che l'età e la dieta infliggevano un uomo di quel tempo. Era un uomo corpulento, dal collo grasso i baffi spioventi, con i capelli tagliati corti sulle orecchie, e il capo coronato da alloro al modo degli imperatori romani. Potremmo, dubitare della veridicità del biografo la dove attribuisce all'imperatore la statura di circa 1 m 90; una statura addirittura erculea in un'epoca in cui gli uomini era un po' più piccoli di noi ma nel 1861, la tomba di Carlo Magno venne aperta e gli scienziati ricostruendo il suo scheletro trovarono che misurava per l'appunto 192 cm. Che lingua parlava Carlo Magno? Il Francone, un dialetto germanico. Ma egli sapeva anche latino tanto da riuscirlo ad usare correttamente tanto quanto la sua lingua materna. Ma com'era la sua giornata quotidiana? Se oggi la nostra giornata è scandita soprattutto dalla successione dei pasti, quella di Carlo Magno, dipendeva in misura maggiore dalla sequenza dei servizi liturgici cui il re si imponeva di assistere, con zelo quasi pari a quello di un monaco. Si faceva svegliare all'alba, e prima ancora di vestirsi andava ad assistere all'ufficio mattutino, avvolto in un mantello lungo fino ai piedi, sotto infilava soltanto la camicia e le mutande di lino, che peraltro non erano una raffinatezza nobiliare ma erano indossatate da tutti. Terminato il servizio, l'imperatore tornava nella camera dove il fuoco ardeva nel camino, li si vestiva più o meno lussuosamente a seconda delle circostanze. Sopra la biancheria indossava una tunica lunga fino al ginocchio stretta in vita è una cintura. Era l'abito comune di tutti i franchi e solo il peso delle stoffe la presenza di galloni distinguevano il nobili dei contadini. Se era necessario aggiungeva poi un pellicciotto, di lontra, di ratto o di agnello. Parte integrante dell'abbigliamento quotidiano, infine, erano la spada alla cintura e una mazza nodosa di legno di melo, col pomo d’oro o d’argento. Già mentre si vestiva il re era in piena attività, tanto che gli capitava di ricevere i ministri, dare disposizioni e addirittura pronunciare sentenze. Non si è parlato di colazione perché i tempi non era usanza farla non Riassunto di 25 57 c'erano né il caffè, nè il te, né la nella cioccolata e dunque è verosimile che mangiasse un po' di minestra del pane inzuppato nel latte verso metà mattina. La mattinata si concludeva con la messa che Carlo ascoltava tutti i giorni. Il pasto principale era la coena, servita dopo la messa, dunque, nel primo pomeriggio. Eginardo ci dice anche che a Carlo Magno piaceva mangiare benché non si ubriacasse, cosa assai degna di nota per un barbaro e a cui potremmo tranquillamente non credere. Mentre mangiava gli piaceva sentir leggere le antiche storie, le imprese dei suoi antenati o anche buoni libri morali. Anche qui è verosimile pensare che di fianco alle storie di Agostino ci fossero anche i giorni in cui Carlo Magno voleva ascoltare canzoni conviviali e storielle grossolane. Mangiare, dormire, lavorare e sentir messa sembra che Carlo Magno vivesse la vita di un Papa ma era un re e, nella vita di un re, c'è anche spazio al piacere, pensiamo sia quello fisico che prendeva con le concubine ma dobbiamo pensare anche all'equitazione alla caccia passatempi che Carlo amava praticare. Frequentava anche volentieri le terme. Nei lunghi inverni, la poesia offriva un passatempo e l'occasione per accese competizioni, che l'imperatore si compiaceva giudicare. Qual era il carattere di Carlo Magno? Un uomo al tempo stesso bonario e violento, sensuale e capace di godersi i piaceri della vita. Lo storico austriaco Fichtenau ma ha suggerito che il temperamento di Carlo fosse quello di un ciclotimico, anche se privo di tratti propriamente patologici. Chi rientra in questa categoria dimostra secondo gli psicologi, spiccato senso pratico, capacità d'azione e amore per il piacere fisico, ma anche una sicurezza di sé e perfino eccessiva, una scarsa capacità di imporsi dei limiti, una tendenza a deprimersi nella solitudine e nel silenzio e occasionali sbocchi di brutalità. Amava molto parlare in pubblico tanto che il suo biografo lo giudicò addirittura troppo loquace, non voleva mai stare da solo e si faceva prendere talvolta da funeste scoppi di ira. Le fonti dicono però che aveva anche senso dell'umorismo e che talvolta il suo linguaggio risultava volgare. Riassunto di 26 57 L'immagine di robusta sensualità e amore per il piacere fisico emerge nel ritratto di Carlo ed è confermato dalla vita sessuale dell'imperatore, circondato per tutta la vita da una moltitudine di mogli e concubine. Il matrimonio come concepito da Carlo, soprattutto durante la sua giovinezza, corrisponde ancora la tradizionale concezione germanica, che non gli riconosce alcun valore sacrale ma lo considera esclusivamente come un accordo legale. Ora si sposava per avere dei figli che garantissero alla successione. Il matrimonio era anche un mezzo per stringere alleanze politiche. Vi è una reticenza generale sul parlare della nascita di Carlo Magno questo perché quando sua madre lo partorì ella non era ancora sposata pubblicamente con il padre di Carlo, Pipino, era unita con lui solo in un matrimonio d'amore e solo qualche anno dopo ne diventò la moglie pieno titolo questo significa anche Carlo Magno era nato fuori dal matrimonio; era un figlio illegittimo il suo stesso diritto di successione avrebbe potuto essere messo in dubbio a favore del secondogenito Carlomanno. Carlo ebbe il suo primo legame non con una moglie sposata pubblicamente in forma ufficiale ma si era unito con lei tramite un matrimonio d’amore (friedelfrau). Si chiamava Imiltrude. Da lei ebbe un figlio che fu battezzato con il nome del nonno, Pipino conferma che Carlo lo considerava il proprio erede. La scelta dei nomi dei figli aveva una valenza politica. Alla nascita di Pipino il fratello, e rivale, Carlomanno aveva già un figlio e l'aveva anche agli chiamato Pipino; questa idea deve aver spinto Carlo a bruciare i tempi a chiamare così anche suo figlio, per assicurarsi comunque un erede, senza troppo preoccuparsi che fosse nato da una relazione privata e non da un matrimonio pubblico. Dopo tutto, suo padre aveva poi finito per sposare pubblicamente Bertarda, sua madre, e nulla impediva a Carlo di fare la stessa cosa con Imiltrude. Ma la politica lo costrinse a un'altra scelta; non senza provocare una ferita che fatico a rimarginarsi. Carlo accettò di sposare su consiglio della madre la figlia del re dei longobardi, Desiderio. Il matrimonio durò ben poco, perché la politica di Carlo Magno divenne ostile ai longobardi, e per avere le mani libere il Riassunto di 27 57 Come riusciva a Carlo Magno governare un paese così immenso? Il regno era diviso in parecchie centinaia di province, ciascuna delle quali aveva capo un delegato dell'imperatore, il conte. Il sistema, di per sé, non era nuovo, perché già in precedenza i re franchi si servivano di rappresentanti locali designati con questo titolo, la cui origine risale addirittura all'amministrazione della Gallia tardo romana. Deve essere dunque ben chiaro che Carlo Magno non divise affatto il suo impero in contee, ma si limitò a potenziare il sistema di deleghe già ben radicato nel governo locale del regno franco. Nel linguaggio amministrativo, la provincia affidata a un conte si chiamava Pagus (da qui il nostro “paese") ed era perlopiù equivalente al territorio di una città romana. Al tempo di Carlo Magno cominciava ad affermarsi anche un altro termine, comitatus, che in italiano corrente traduciamo con contee. La contea poteva coincidere con la diocesi ecclesiastica o in altre zone la diocesi ecclesiastica poteva contenere al suo interno più contee. Ogni conte si trovava perciò a dover convivere con un vescovo. Nella sua provincia il conte era a tutti gli effetti il rappresentante del sovrano: riscuoteva le entrate fiscali, manteneva l'ordine pubblico e amministrava la giustizia, pubblicata e metteva in esecuzione le ordinanze regie in caso di bisogno convocava gli uomini in grado di portare le armi e le conduceva luogo di riunione dell’esercito. Il conte però non è mai padrone ma sempre delegato dell'imperatore che poteva licenziarlo a suo piacimento. I conti erano uomini con capacità di comando, ampi mezzi e parentele influenti. Oltre alle contee vi erano anche le marche, un termine che designava le aree di frontiera del regno franco, quelle in cui il mondo cristiano confinava con quello pagano. Quindi è scorretto dire che il regno franco era diviso in contee e marchesati. In queste zone di frontiera è normale che i conti avessero dei problemi a coordinare la difesa contro eventuali aggressioni. Perciò ovunque possibile vennero creati sui confini dei comandi militari, dei limes. In molti capitolari, Carlo Magno, Riassunto di 30 57 indica come i suoi rappresentanti nelle province, immediatamente sotto i conti, fossero i vassi Dominici. Costoro non erano altro che quei notabili o figli di notabili che entravano al servizio del re raccomandandosi a lui e giurandogli fedeltà; essi si impegnavano a servirlo in guerra con armi e cavalli e con una squadra di seguaci armati a loro spese, ma più in generale, finché restavano a palazzo, erano a sua disposizione per servirlo in qualsiasi incarico. Il vero punto debole del sistema, che avrebbero scoperto i successori di Carlo Magno, era il controllo sull'operato dei conti. L'istituzione deputata a riferire sull'operato dei conti era quella dei missi dominici. Un inviato del re, munito di pieni poteri, che riceveva l'incarico di recarsi sul territorio, e seguire una missione specifica ad esempio sentenziare su una causa importante, oppure per controllare l'operato dell'autorità locali soprattutto da dove proveniva notizia di abusi. In quest'ultimo caso la procedura era semplicissima: il messo doveva installarsi in casa del conte colpevole di non aver ben amministrato la giustizia, e restarci a spese di quest'ultimo fino a quando tutti i torti non fossero stati raddrizzati. Questi poi dovevano rendere conto per iscritto del loro operato, presentando, a ritorno al palazzo un rapporto sulla loro missione. Per gran parte del regno di Carlo, i messi Dominici vennero nominati di volta in volta al momento del bisogno, in gruppi di due e a volte di tre o quattro, ma occasionalmente anche da soli, soprattutto per missioni carattere più specifico. Il vero problema stava nel fatto che questi non erano affatto insensibile alla corruzione in quanto operavano molto lontano dall'occhio del padrone. Venivano spesso corrotti anche perché il re li sceglieva tra i vassalli che vivevano a palazzo, addetti direttamente al suo servizio domestico, e non ancora ricompensati con un beneficio che permettesse loro di vivere del proprio; sicché erano inevitabilmente più sensibili alla corruzione. Accorgendosi di questa realtà dall'802 Carlo Magno iniziò ad affidare questi compiti a prelati e conti. Riassunto di 31 57 Altra importante novità dell'802, nel senso di una razionalizzazione del sistema, fu che introdusse il concetto della legazione o missaticum, ossia della circoscrizione territoriale assegnata in permanenza a una coppia di missi. I confini di queste zone di missione vennero fissati con criteri essenzialmente geografici e i messi venivano scelti fra i vescovi, gli abati e i conti che erano già attivi in quell'area o nelle sue immediate adiacenze. In pratica possiamo dire che dall'802 Carlo affidò un certo numero di arcivescovi, abati e conti di cui si fidava maggiormente l'incarico di sorvegliare il funzionamento di tutto l'apparato amministrativo ed ecclesiastico, ciascuno in quest'area assai ampia e comoda a partire dalla sede in cui operavano abitualmente. Secondo quel che si afferma di solito, avrebbe avuto inizio allora un'involuzione del sistema, giacché i messi si configuravano sempre meno come veri e propri inviati del palazzo, estranei nella zona che dovevano controllare. La garanzia della loro correttezza non dipendeva da ignoranza delle situazioni locali, che anzi avrebbe potuto rivelarsi controproducente ma dalla fiducia che l'imperatore aveva individualmente in ciascuno di loro. Non bisogna del resto esagerare la regolarità del sistema. Nell'802 e negli anni seguenti e documentato l'invio di commissioni composte di tre o anche quattro membri, in aree designate per l’occasione. Il sistema, insomma, non si era ancora burocratizzato come avverrà sotto Ludovico il Pio, quando ogni arcivescovo si vedrà attribuire le funzioni di messo nel territorio della sua arcidiocesi. L'uso dello scritto aveva un ruolo importante nell'amministrazione dell’impero. Questa descrizione del governo dell'impero è soltanto parziale, giacché il controllo del territorio, l'inquadramento delle popolazioni, il mantenimento dell'ordine pubblico erano esercitati da Carlo, attraverso la chiesa. Nessuno se ne stupiva. Vescovi e abati erano pilastri dell'ordinamento pubblico e rispondevano all'imperatore come se fossero anch'essi dei funzionari nominati da lui. Sta in questo coinvolgimento dei prelati nell'attività di governo, fine i Riassunto di 32 57 Il ruolo giudiziario degli avvocati nasceva dal fatto che vescovi e monasteri godevano, normalmente, dell'immunità; la concessione regia, per cui nessun conte o altro giudice poteva entrare sulle terre ecclesiastiche a giudicare i malfattori. L'immunità, del resto, aveva precisi limiti. Se un ladro o un assassino si rifugiava sotto la protezione della Chiesa, il conte intimava al vescovo all'abate di consegnarlo; in caso di rifiuto, era prevista una multa e la richiesta era reiterata; a un nuovo rifiuto seguivano il raddoppio della multa e la ripetizione, per la terza volta, dell'ordine di consegnare il reo; se anche questa volta l’immunista rifiutava, il conte aveva il diritto di entrare a forza nell'immunità per impadronirsi del ricercato. Un uso particolare dei possedimenti demaniali consisteva nell'assegnare quelle terre in beneficio, i conti, che dovevano poter disporre di ampie risorse per far fronte al loro ministero, e ai vassi Dominici che si impegnavano a servire il re con armi e cavalli. Anche in questo caso il patrimonio della Chiesa viene messo a contribuzione su richiesta. La Chiesa non sopportava volentieri queste assegnazioni, che andavano pericolosamente vicini a un'alienazione perpetua del suo patrimonio, e Carlo Magno, per salvare la faccia, si interessava che i beneficiari pagassero almeno l'affitto previsto dalla legge; ma si guarda bene dallo smantellare il sistema, come probabilmente avrebbero voluto i prelati. Concessioni di terre ecclesiastiche su richiesta e di terre fiscali in beneficio, i conti che rappresentavano l'autorità regia nelle province o a notabili che giuravano fedeltà al re e si impegnavano a servirlo in guerra con armi e cavalli, sono uno degli aspetti in cui comincia a crearsi, al tempo di Carlo Magno, quello che sarà poi il feudalesimo. Al tempo di Carlo Magno esistevano un insieme di prestazioni obbligatorie che gravavano su tutti i sudditi e che possono essere assimilati a delle imposte, sia pure con un po' di forzatura. I messi e gli ambasciatori del re, come pure gli inviati stranieri che si recavano presso di lui, e più in generale tutti i giudici dell’esercizio delle loro funzioni, hanno il diritto di essere ospitati e di requisire i cavalli presso gli abitanti. Le prestazioni cui erano tenuti gli abitanti Riassunto di 35 57 dell'impero erano direttamente finalizzati al funzionamento dell'amministrazione, e non implicavano mai il versamento di somme destinate a confluire, senza destinazione specifica, nel tesoro imperiale. Dobbiamo quindi dedurre che il fisco, nel senso romano del termine, aveva cessato di esistere? L'imposta fondiaria antica, da cui gli ultimi imperatori romani traevano gran parte dei loro redditi, non era affatto scomparsa ed è anche vero che la legislazione di Carlo Magno si preoccupava molto dei pagamenti, chiamati censi, cui un gran numero di sudditi sono tenuti nei confronti del re. In realtà i censi sono semplicemente i canoni pagati dagli uomini liberi che possiedono su richiesta i beni del re (in precaria) e perciò devono pagare una tassa. Imposte a tutti gli effetti erano invece i cosiddetti Telonei prelevati sulla circolazione e la vendita delle merci. Erano contributi richiesti e mercanti laddove il governo, in cambio, offrivo reale servizio, ad esempio la manutenzione di un ponte o la sorveglianza del mercato. È poi difficile quantificare il peso che il mantenimento del governo imperiale rappresentava per i sudditi. In altre epoche, ad esempio per il tardo impero romano dopo le riforme di Diocleziano, gli storici hanno potuto sostenere che la fiscalità imperiale era così onerosa da intralciare realmente lo sviluppo dell'economia e creare un diffuso malessere sociale. Anche per l'epoca di Carlo Magno, l'impressione è che il peso delle imposte fosse sentito e anche piuttosto gravoso. IX. La giustizia. La principale attività di governo svolta dai funzionari (iudices) carolingi, a parte naturalmente l'inquadramento militare della popolazione, era il mantenimento della giustizia. Con il termine “iudices” si intendevano genericamente tutti coloro a cui il re aveva delegato una quota della propria autorità. Questo uso linguistico era reso possibile dal fatto che la giustizia non era affidata a specialisti, e non costituiva dunque, un potere separato, Riassunto di 36 57 ma era direttamente amministrata, a livello locale, dei funzionari che rappresentavano il re, e innanzitutto dai conti. Ogni conte era tenuto a presiedere periodicamente un'assemblea politica, detta mallus, occasione ascoltava le cause che gli venivano presentate con la collaborazione di una giuria gli abitanti del luogo i cosiddetti boni homines. Ogni sessione prendeva il nome di placito. Poiché la convocazione di un placito rappresentava un onere non indifferente Carlo Magno stabilì che ciascun conte avrebbe dovuto tenerne solamente tre all’anno. L'imperatore ordinò che ogni causa in cui fossero in gioco la proprietà o la libertà dell’uomo, indipendentemente dalla condizione sociale, si dovesse discutere alla presenza del conte. Alla giustizia locale si aggiungeva la giustizia personale del sovrano, amministrata nel palatium. A più riprese Carlo Magno specificò i tipi di processi che intendeva esaminare personalmente, e che perciò dovevano essere deferite al palazzo. A volte si ha l'impressione che l'imperatore pretendesse di tenere troppe cose sotto il proprio controllo. Il palazzo regio funzionava anche come supremo tribunale d'appello per tutto il regno. Anche se a dire la verità i diritti germanici non conoscevano l'appello propriamente detto, nel senso ancora oggi familiare definito dal diritto romano; si poteva però rivolgersi al re quando si riteneva che il giudice avesse giudicato ingiustamente. Le querele erano esaminate dal conte di palazzo, che poteva sentenziare nei casi più semplici e presentava il re quelli che richiedevano una sua decisione personale. Nei processi importanti, però, il re non giudicava da solo, ma con il consiglio dei suoi fedeli. Sapendo come va il mondo, potremmo dubitare che la gente povera avesse davvero la possibilità di accedere alla giustizia personale dell'imperatore; e invece, con nostra sorpresa, non mancano esempi di gruppi di contadini che si appellano al palatium protestando contro gli abusi dei padroni, e trovano ascolto presso il tribunale supremo. Fai pregiudizi correnti circa la giustizia medievale cioè quello di una profonda irrazionalità delle procedure; in realtà nei tribunali di Carlo Magno la prova scritta e sempre e ovunque decisiva. Qualunque causa Riassunto di 37 57 venire a corte Pietro da Pisa perché gli insegnasse la grammatica latina, che corrispondeva, allora all'insegnamento elementare; poi si rivolse a un intellettuale venuto dall'Inghilterra, Alcuino, per ricevere un insegnamento di livello, diremmo noi liceale, incentrato sulle cosiddette arti liberali. Studiò retorica, dialettica, aritmetica e astronomia. Dopo aver compreso la grammatica latina, Carlo comincia a comporre una grammatica della lingua franca, che non esisteva fino a quel momento. Avvertiva chiaramente, si direbbe, che la lingua materna, se non avesse raggiunto lo status di lingua scritta, rischiava di scomparire, trascinando con sé nell'oblio le antiche tradizioni del suo popolo; e cerco in tutti modi di impedirlo. Carlo però non sapeva scrivere. Eginardo ci dice che cercò di imparare, e che ci si dedicò molto seriamente ma era un'impresa troppo gravosa per un uomo già avanti negli anni, infatti i risultati furono scarsi. Bisogna anche ricordare che al tempo di Carlo Magno leggere scrivere non era un'attività autonomamente connessi; Carlo sapeva leggere scrivere era un'altra faccenda. L'apprendimento scolastico ai tempi era basato sulla recitazione ad alta voce e l'esercizio della memoria. Sul piano culturale, Carlo Magno poté godere della collaborazione di un'ampia cerchia di dotti. Il più importante fra loro, Alcuino, coniò per quella cerchia il nome di Accademia palatina. Nonostante il genuino interesse di Carlo per i diversi ambiti culturali, il programma di riforme da lui intrapreso e che indichiamo con il nome di "rinascita carolingia" a una natura essenzialmente religiosa. Migliorare l'educazione del clero e correggerne i costumi erano gli ideali di fondo; e non erano neppure ideali nuovi. Carlo ereditò dal padre una chiesa già impegnata, sia pure faticosamente, in uno sforzo di riforma. Non sorprende che i primi interventi del giovane re abbiano largamente seguito il solco già tracciato da suo padre, preoccupandosi soprattutto della moralità e della disciplina del clero, oltre che introdurre qualche regolamentazione religiosa in una faccenda essenzialmente secolare Riassunto di 40 57 come era stato fino allora il matrimonio; e infine di garantire alla Chiesa le risorse necessarie per espletare decorosamente le sue funzioni, obbligando tutti a pagare le decime per il sostentamento del clero. Anche nella restaurazione delle province ecclesiastiche completò l'operato dei suoi predecessori. Al tempo di Pipino accadeva spesso che un episcopato, rimasto vacante o magari usurpato da un potente laico, fosse attribuito in supplenza all'abate di un monastero della zona; Carlo riuscì ottenere che in tutte le diocesi si insediasse un vescovo a pieno titolo, mettendo fine una volta per tutte alle vecchie irregolarità. Nel 789 è promulgata la cosiddetta Adbomitio Generalis che coinvolgeva tutti, laici ed ecclesiastici, in uno sforzo di correzione universale, condotto di intesa con il Papa. Era un insieme di norme emanate nel corso dei secoli da una moltitudine di papi e di concili, i raccolti sotto la direzione della curia romana, così da diventare, per volontà del re, il fondamento della vita cristiana in tutto l’Occidente. Nell'802, all'indomani dell'incoronazione imperiale, il sovrano emana un'ampia serie di provvedimenti, che nel loro insieme richiamano e forse anche superano l'impegno moralizzante dell’Admonitio generalis. L'imperatore chiede a tutti i sudditi di collaborare con lui e di impegnarsi personalmente, ognuno secondo le proprie possibilità, affinché regnino fra i cristiani la pace e la giustizia. Carlo Magno attuò anche una riforma del sistema scolastico e riservò la sua attenzione alle biblioteche. Un libro a quel tempo rappresentava un investimento, dato il prezzo della pergamena e della manodopera specializzata; la linea del sovrano fu precisamente quella di incoraggiare tali investimenti, favorendo e se necessario finanziando quindi abati che intendevano ampliare le loro biblioteche. All'inizio degli anni 80, nello stesso momento in cui la corte diventava un centro di discussioni intellettuali e di produzione poetica, il re rinvia una circolare chiedendo a tutti coloro che ne disponevano di regalargli, o far copiare per lui, le opere degli autori classici e dei padri della Chiesa. La produzione di libri conobbe così una decisiva accelerazione. Si nota invece come meno sviluppato Riassunto di 41 57 l'istinto di costruire biblioteche permanenti, destinate a durare attraverso le generazioni. Fra i lasciti più duraturi della rinascita carolingia ci sono anche i caratteri che ancora oggi usiamo per la stampa. Quando Carlo Magno salì al trono, la scrittura più comunemente usata dagli amanuensi era volutamente complicata, ma in alcuni script Oria monastici della Gallia si stava sperimentando una scrittura assai più pratica, dai caratteri uniformi e ben allineati, con un effetto complessivo di molto maggiore leggibilità. Questa scrittura, che gli specialisti chiamano con il nome di minuscola Carolina, conobbe sotto Carlo Magno un successo senza precedenti, sostituendo gradualmente su tutto l'immenso territorio dell’impero ogni altra scrittura precedentemente usata. Gli specialisti tendono ad escludere che l'affermazione della minuscola Carolina possa essere attribuita una volontà di Carlo Magno, di cui non esistono testimonianze dirette. In più ed è manoscritti di quest'epoca che compare per la prima volta un segno di interpunzione fino allora sconosciuto e il “?”, realizzato con un tratto ondulato che annuncia la forma attuale. Per quanto riguarda la tutela della fede fin dal tempo del nonno di Carlo Magno, l'idea di riforma era legata a quella dell'evangelizzazione dei pagani del Nord. Sotto Carlo Magno, come sappiamo, il problema della conversione dei pagani venne affrontato assai più drasticamente; ma non dobbiamo credere che agli occhi del re franco e dei suoi consiglieri ecclesiastici, l'acquisizione dei sassoni al cristianesimo si sia potuta risolvere semplicemente col battesimo forzato. In realtà quel risultato richiese sforzo di predicazione missionaria e di organizzazione ecclesiastica. Il primo obiettivo dei missionari era di battezzare i pagani, e gli annali testimoniano che a più riprese si ebbero in effetti battesimi di massa. Non si tratta sempre di conversioni imposti con la forza ma non meno numerosi erano i Sassoni che dopo aver accettato il battesimo in modo forzato, approfittavano della prima occasione per ribellarsi; ed è significativo che ogni insurrezione significasse sempre, innanzitutto, Riassunto di 42 57 L'argomento del combattente a piedi si era semplificato rispetto al passato, anche la spada, lunga o corta che sia, appare ormai riservata ai combattenti a cavallo. Il punto più importante è l'insistenza sull'arco, che nelle intenzioni di Carlo Magno sembra dover rappresentare l'arma comune a tutti i combattenti a piedi, e per i più poveri addirittura l’unica. Organizzati erano anche i carri dei rifornimenti per l'esercito: ogni carro, oltre al suo carico di farina o vino, deve essere equipaggiato con scudo, lancia, faretra e arco, evidentemente per armare l'uomo di scorta. In linea di principio, combattere quando il re chiamava era dovere di tutti gli uomini liberi. Il che non significa, ovviamente, che ad ogni convocazione tutti quanti gli uomini liberi partissero davvero per la guerra; ma semplicemente che in linea di principio ognuno poteva essere chiamato, se il re o i suoi rappresentanti locali lo ritenevano necessario. I funzionari locali che ricevevano la convocazione erano comunque tenuti a reclutare tutti gli uomini disponibili e anzi erano minacciati di severissime punizioni nel caso in cui concedessero esenzioni con troppa facilità. Nelle istruzioni di Carlo Magno cominciano, verso la fine del suo regno, a comparire disposizioni che limitano l'obbligo di armarsi e partire soltanto chi dispone di mezzi sufficienti, escludendo gli uomini meno agiati. Il criterio utilizzato dall'imperatore è il numero di famiglie contadine che lavorano per ciascun possessore. Gli altri non sono esentati, ma devono organizzarsi in modo che le loro risorse contribuiscano ad equipaggiare un combattente. A questa innovazione nel reclutamento, si accompagna un'altra, che testimonia l'importanza assunta dalle clientele vassallatiche nella società franca. Attorno ogni potente esiste un gruppetto di vassalli, il cui servizio è innanzitutto un servizio armato, e comporta il possesso di armi e cavalli, magari anche regalati dal signore, nonché la capacità di usarli. Per tutti costoro, Carlo Magno giudica inutile soffermarsi a calcolare l'entità del possesso, e commisurare il possesso dell'armamento richiesto: ai suoi occhi è ovvio che chiunque Riassunto di 45 57 appartenga a una clientela vassallatica, soprattutto quando abbia ricevuto dal suo signore un beneficio, è innanzitutto un combattente e come tale deve essere convocato comunque. Ognuna di queste squadre di vassalli rappresenta un gruppo di combattenti allenato e affiatato. Gli obblighi militari erano così gravosi che ovunque si cercava di sfuggirli. Fra i piccoli proprietari, in effetti, c'è chi era disposto a tutto pur di sfuggire a questo obbligo che si rinnovava inesorabilmente ogni anno. L'imperatore arrivò a proibire agli uomini liberi di donare se stessi e i propri beni alla chiesa, secondo un'usanza frequentissima per sfuggire all’esercito, allo stesso modo c'era chi si raccomandava un potente o addirittura si assoggettava come schiavo. Sulla carta, chi non assolveva gli obblighi militari era tenuto a pagare una multa enorme il cosiddetto eribanno o multa dell'esercito. Chi non poteva pagare, nel peggiore dei casi, veniva costretto a servire il fisco come schiavo finché non avesse ripagato il re della somma dovuta. Per evitare che la riscossione dell’eribanno si trasformasse in un'occasione di abusi, essa non poteva mai comportare il sequestro di beni immobili o la confisca di schiavi. Inoltre la riscossione non era mai affidata ai conti locali ma a funzionari specializzati. Serviva molto tempo per radunare l'esercito, infatti, la convocazione doveva essere spedita diversi mesi prima della data prevista per l'inizio delle operazioni. Così allo stesso modo andrà considerata la difficoltà di far marciare su un solo asse stradale una forza superiore a 10 o 12.000 uomini, di cui solo una parte a cavallo. Questa doveva essere la dimensione ottimale di un'armata, anche se, per le campagne più impegnative, due e anche tre armate potevano essere mobilitate contemporaneamente. Quindi una forza di circa 10.000 uomini, di cui forse 3000 cavallo, al momento di entrare in paese nemico doveva essere accompagnata anche da più di 6000 carri, tirati da 12.000 buoi si capiscono, allora, certi aspetti essenziali della strategia di Carlo Magno, come la divisione delle sue armate in due o anche tre eserciti avviati lungo itinerari separati. In qualche caso potrà trattarsi di una consapevole manovra tenaglia ma più generalmente questa Riassunto di 46 57 suddivisione doveva rappresentare l'unico modo pratico di sfruttare la superiorità numerica degli eserciti franchi, senza esaurire troppo in fretta le magre risorse. Come pure si capisce che quando era possibile Carlo Magno abbia cercato di servirsi delle vie d’acqua per trasportare , su chiatte, i rifornimenti dell'esercito. I carri con le risorse condizionavano la mobilità dell'esercito che non marciava quindi a passo di fanteria ma a quello dei buoi che trainavano i carri quindi non più di 15 km al giorno. Parlando della guerra di Carlo, bisogna però evitare quella deformazione frequente che la identifica senz'altro con il combattimento in campo aperto. L'importanza che la battaglia campale aveva nell'antichità, e ha di nuovo assunto nell'Europa moderna, fa sì che troppo spesso non ci accorgiamo che per lunghi periodi la guerra non è stata affatto incentrata sulla battaglia. Le campagne di Carlo furono quasi sempre guerre di invasione condotte con forze superiori, contro cui nemico preferiva rinchiudersi in luoghi fortificati. Lo scopo di una campagna non era dunque giungere in una battaglia in campo aperto ma di occupare il territorio, assediando e conquistando le fortezze nemiche. Le indicazioni dirette sull'uso delle macchine d'assedio, e in particolare di catapulte, sono però singolarmente rare. Il silenzio su questo argomento si può spiegare supponendo che catapulte e macchine di questo genere fossero costruite sul posto. XII. Una nuova economia La cosiddetta economia chiusa ha trovato largo credito nella manualistica, perpetuando una rappresentazione angusta anche della vita agricola durante il regno di Carlo Magno. Quello che serve è un'interpretazione che riesca dare un senso complessivo ai diversi elementi in gioco, dall'organizzazione produttiva della grande proprietà agli interventi economici e monetari del governo imperiale fino al ruolo propulsivo dei grandi monasteri; e che dunque ci permette di parlare dell'economia carolingia come di un aspetto vivo e vitale. L'economia è dominato dall'agricoltura; la stragrande maggioranza della popolazione è composta da contadini. Molti di costoro sono piccoli proprietari, che Riassunto di 47 57 Per quanto riguarda gli scambi in parte erano organizzati in modo locale direttamente dai contadini, invece quelli a lunga distanza erano gestiti da mercanti. In certe zone dell'impero i mercanti costituivano un gruppo ricco e influente. La zona più alta concentrazione di mercanti era la costa del Mare del Nord. Le scarse importazioni di generi di lusso che ancora giungevano in Francia dai mercati d'oriente erano invece in mano agli ebrei che importavano attraverso la Spagna musulmana. Carlo Magno fece standardizzare pesi e misure e fece una riforma monetaria. La riforma consiste innanzitutto nell'impostazione di un sistema mono-metallico dove cioè negli scambi commerciali si utilizzava esclusivamente la moneta d'argento, al posto del sistema bimetallico ereditato dall'impero romano, in cui circolavano anche monete d'oro. La riforma varata impose in tutta l'Europa occidentale l'adozione di un unico sistema monetario, destinato a sopravvivere nei suoi tratti essenziali fino alla rivoluzione francese. Fondamento del sistema fu la decisione di coniare il denaro con un tasso fisso, che doveva essere rispettato in tutte le zecche del regno. Il denaro d’argento doveva essere l'unica moneta coniata dall’impero. Ma il provvedimento più importante preso da Carlo Magno nei confronti della moneta fu rialzo del peso del denaro, e dunque della libra. Fino ad allora il peso del denaro si basava sull’orzo, Carlo Magno decise di passare a un sistema basato, invece, sul chicco di frumento. Ciò significa modificare anche il valore della libra. L'effetto collaterale fu che le monete del re, che circolavano in tutto l'impero, risultarono più grosse, più pesanti e più apprezzate di quelle dei suoi predecessori. Carlo Magno adottò l'impero di uno strumento monetario omogeneo, tale da garantire la qualità della moneta e dunque la piena circolazione. Sulle monete vi era il nome e il ritratto dell’imperatore. La scelta di Carlo Magno a favore del monometallismo non significa del resto che nelle zone dell'impero ancora aperte ai traffici con il Mediterraneo non continuassero a circolare monete d’oro. Riassunto di 50 57 XIII. I raccomandati e gli asserviti Conti, vescovi e abati, secondo l'usanza, si raccomandavano al re nel momento in cui prendevano servizio; si affidavano cioè alla sua protezione e promettevano di servirlo con modalità specificamente clientelari. In pratica chiunque entrava a contatto con il re e lo serviva in qualsiasi capacità, purché si trattasse di un servizio libero e volontario e non della servitù ereditaria cui erano tenuti schiavi e liberti, si metteva nelle sue mani raccomandando sia la sua benevolenza, ed entrando quindi ufficialmente a far parte della più potente di tutte le clientele. All'interno delle clientele vi era un tessuto di amicizie, di favori e di raccomandazioni e questo si replicava intorno ad ogni potente. Il re non se ne preoccupava, del resto avrebbe potuto intervenire a scardinare una delle strutture portanti della società in cui viveva. Su un aspetto, però, di queste clientele private Carlo Magno volle intervenire, e con la massima decisione. Era normale che un potente si circondasse di una squadra di armati; era consuetudine fin dai tempi antichissimi questi venivano chiamati Trustis. Carlo Magno volle evitare che queste clientele armate potessero assumere una connotazione eversiva, e ordinò che d'ora in poi si dovessero legalizzare secondo la procedura del vassallaggio, la stessa che egli usava per legare a sé i vassi Dominici. Ciò significava che il giuramento di fedeltà doveva essere prestato pubblicamente, e che chiunque entrasse in vassallaggio si impegnava perciò a servire non soltanto il signore ma anche l’imperatore. Contadini che lavoravano sotto padrone, gli schiavi, costituivano ancora una proporzione importante, in ogni villa, erano schiavi non solo i lavoratori impiegati sulla riserva ma anche una parte di quelli cui erano affidati i poderi, chiamati servi Casati. Sul piano giuridico, lo schiavo è ancor sempre una proprietà del padrone, e può essere comprato e venduto, esattamente come nel mondo romano. In termini economici gli schiavi erano una merce, e c'erano mercanti che si arricchivano con loro commercio, anche se la religione, spalleggiata dalla legge, poneva parecchi vincoli al traffico, scoraggiando la vendita separata di marito e moglie e vietando espressamente di esportare Riassunto di 51 57 schiavi cristiani al di fuori della cristianità. Per evitare questi abusi, Carlo magno ordinò che ogni vendita di schiavi avvenisse alla presenza del vescovo o del conte. Il commercio di schiavi, per sfuggire a queste limitazioni, tendeva a concentrarsi sui prigionieri di guerra pagani. La disponibilità di schiavi era cresciuta dalla possibilità, ammesso dalla legge, di vendere se stessi in schiavitù, come capitava i contadini che morivano di fame, o anche di diventare schiavi del fisco quando non si è in grado di pagare una multa. Il limite più forte al libero commercio degli schiavi era piuttosto di natura economica. Quando un padrone aveva provveduto ad accasare una famiglia di schiavi, affidando loro un podere, come avveniva con estrema frequenza, perdevo ovviamente ogni interesse a venderli; poteva farlo se vendeva la terra, già che qualsiasi acquirente era interessato ad acquistare la manodopera insieme al fondo, ma altrimenti non gli sarebbe mai venuto in mente di farlo. I servi Casati, insomma, avevano di fatto la sicurezza di non essere più strappati alla loro terra. Con l’accasamento giungeva per il servo anche la possibilità, riconosciuta prima nella pratica e poi dalla legge, di disporre di quel po' di guadagni extra che riusciva a mettere da parte lavorando duro. Gli schiavi, in quanto cristiani, avevano il diritto di sposarsi e il padrone doveva rispettare il loro matrimonio. Per influenza della religione venne anche abolito il diritto di vita o di morte che il padrone aveva un tempo. Ancor più numerosi degli schiavi, e non troppo diversi come condizione sociale, erano i liberti. La figura dello schiavo manomesso, che conservavo rapporto di ossequio nei confronti dell'antico padrone, divenuto ora patrono, era familiare già nell'antichità; ma con l'affermazione del cristianesimo la liberazione degli schiavi espressamente incoraggiata dalla Chiesa aveva assunto un ritmo molto intenso. Nella maggior parte dei casi il liberto restava legato al padrone che l'aveva liberato. La legge ne faceva addirittura una questione morale. Il vero dramma, per i liberti così affrancati, è che alla lunga la distinzione fra loro gli schiavi si riduceva il nome, e basta. Obbligati a risiedere in permanenza sulle terre del padrone, e a servirlo come quando voleva, senza poter neppure strappare quelle condizioni contrattuali più favorevoli che è un contadino libero poteva ancor Riassunto di 52 57 Corsica, e questa volta sconfissero la squadra mandata a intercettarli dal re d'Italia a Pipino, uccidendo il conte di Genova che la comandava; ma l'anno seguente un'altra squadra cristiana riuscì a batterli. Nell’812 fra i cristiani e iniziò a diffondersi la voce che i saraceni da Africa e di Spagna preparavano una grande flotta per saccheggiare l’Italia. Allora l’Imperatore sembrava aver realizzato allora che le risorse investite nella difesa navale del Mediterraneo erano insufficienti, e mandò sul posto il cugino Wala con l'incarico di provvedere. Le misure prese ebbero una certa efficacia. L'anno seguente i pirati vennero intercettati presso Maiorca da una squadra cristiana e nello stesso anno per la prima volta, i mori apparvero sulla terraferma, saccheggiando luoghi come Nizza. Ancor prima che Carlo Magno morisse, la cristianità era sulla difensiva nel Mediterraneo; ma il resoconto di queste operazioni, con il suo susseguirsi di vittorie e di sconfitte, dimostra che le capacità dei franchi sul mare e la loro volontà di battersi per mantenere il controllo erano comunque superiore a quello che tradizionalmente si pensava. Fra le molte preoccupazioni che assorbirono Carlo Magno nei suoi ultimi anni di vita, la più pressante era la divisione dell'eredità fra i suoi figli. La legge Franca dava diritto a ciascun maschio di spartire l'eredità paterna, e nessuno, neppure l'imperatore poteva ignorarla. Nell'806 Carlo emanò il provvedimento noto come la diviso regnum, stabilendo che dopo la sua morte i paesi su cui governava sarebbero stati suddivisi in tre regni da attribuire ai tre figli maschi che restavano: Carlo, Pipino e Ludovico; il primogenito, Pipino il gobbo, era ancor vivo nel monastero in cui era stato costretto a rinchiuderci dopo aver congiurato contro il padre ma la sua esclusione dall'eredità era stata decisa ancor prima, giacché le nuove regole matrimoniali predicata dall'episcopato e incluse dallo stesso Carlo Magno nei suoi capitolari obbligavano a considerarlo illegittimo. È chiaro quindi che il giovane Carlo era destinato ad ereditare il principale fra i regni paterni, il regno francorum, sicché la duplice incoronazione del 781 era già difatto una dichiarazione programmatica che regolamentava la sua successione. Mentre Pipino e Ludovico si installarono nei loro regni assistiti Riassunto di 55 57 ovviamente da tutori e consiglieri già da bambini. Familiarizzando progressivamente con i problemi locali. La diviso regnum non fece insomma che ufficializzare una spartizione già prevista da molto tempo e anzi di fatto già operante, per cui i due regni di Italia di Aquitania risultavano parzialmente autonomi, ma pur sempre subordinati a quello dei franchi; anche sia giusto dire che Carlo Magno si preoccupò di ridurre il più possibile la diseguaglianza fra i fratelli. A Pipino, venne assegnato il regno italico ma accresciuto dalla Baviera mentre, a Ludovico venne assegnata l'Aquitania con l'aggiunta della Provenza e parte della Borgogna. Nell’806, quando emanò queste disposizioni, l'imperatore aveva già passato i sessant’anni e aveva tutte le giustificazioni per credere che questi provvedimenti non sarebbero dovuti essere modificati ma il destino vuole diversamente. Carlo vide morire uno dopo l'altro prima nell'810 e poi nell'812 due dei suoi tre figli Pipino re d'Italia e Carlo che era destinato al trono Franco. Quindi il compito di raccogliere tutta la successione gravava su Ludovico il Pio. Nell'813 in presenza dell'assemblea generale dei magnati dei vescovi franchi, Carlo riconobbe nel figlio e il suo erede e lo associò nell'impero, imponendogli sul capo la corona imperiale e ordinando di chiamarlo d'ora in poi col titolo di Augusto. Il figlio dell'imperatore quando il padre era ancora vivo, così da facilitare la transizione grazie a un periodo dico reggenza in cui l'impero era governato a tutti gli effetti una due sovrani, era nato nell'impero d'oriente e non c'è dubbio che Carlo vuole consapevolmente imitarla, copiando dal cerimoniale bizantino il rito dell'incoronazione di Ludovico. Riassunto di 56 57 All'impero, Carlo Magno lasciava anche una cospicua fortuna privata, di cui poteva disporre Ludovico senza regole precise; si parla di gioielli libri e beni di lusso conservati nel palazzo di Aquisgrana. Eginardo ci informa poiché l'imperatore intendeva dettare un testamento in piena regola, secondo le norme del diritto romano, assegnando un lascito a ciascuna delle sue figlie, oltre che ai figli nati fuori dal matrimonio ufficiale; ma la faccenda era lunga e complessa e Carlo che si era deciso troppo tardi non riuscì a completarlo. Carlo Magno morì nell'814 causa di una polmonite. Non aveva lasciato disposizioni per la propria sepoltura, ma si convenne che nessun luogo poteva essere più adatto della magnifica basilica che gli stesso aveva fatto edificare sue spese. Venne seppellito il giorno stesso della morte, in un sarcofago di marmo proveniente dalla città eterna. Riassunto di 57 57
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