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Carmelo Samonà- L'età di Carlo V, Sintesi del corso di Letteratura Spagnola

Sintesi del manuale l'età di Carlo V

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 28/01/2022

gaia-cantarelli
gaia-cantarelli 🇮🇹

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Scarica Carmelo Samonà- L'età di Carlo V e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Spagnola solo su Docsity! L’ETA DI CARLO V Capitolo Primo: Idea Imperiale, eterodossia, nuovo ascetismo. Umanesimo e Religiosità di ispirazione erasmiana: Juan Luis Vives, Alfonso e Juan de Valdès. Il valore della fortuna spagnola di Erasmo, sta nella forza dell’illusione che si viene creando attorno a un nome ea un’idea. Erasmo è la prima grande suggestione della Spagna moderna. Agli inizi del secolo, al tempo in cui la corte castigliana è ancora per metà fiamminga e le università cominciano a dar vita a un grande dibattito sulla teologia medievale, avvengono i primi contatti della cultura spagnola col pensiero di Erasmo. L’università di Alcalà de Henares rimane il centro propulsore di queste inquietudini anche dopo la morte di ‘Cisneros’. A partire dal 1520, l’opera di Erasmo, si diffonde rapidamente nella penisola; un fatto è subito chiaro: la penetrazione delle nuove idee interessa anche i centri di potere e la corte stessa, e si propaga con la forza di un mito popolare in ogni ceto ed ambiente. Il segreto della parola di Erasmo, sta nell’offrire un messaggio per tutti i fedeli più che una dottrina destinata solo a gli ecclesiastici. I campi d’azione della sua influenza sono molteplici e tutti collegati fra loro a livelli diversi. Fra i religiosi, l’erasmismo alimenta le speranze in una riforma del clero e in un ritorno alla purezza del cristianesimo primitivo, ispirandosi ai principi della ‘devotio moderna’, diffusasi nel tardo medioevo, la quale favori una crisi della liturgia e dell’apparato rituale, difese le validità della preghiera fatta mentalmente, combatte gli artefici e i formalismi sottili della vecchia scolastica in nome di un’autentica riflessione interiore. L’azione di Erasmo, non si muove nell’ambito di un evangelismo ingenuo ed attratto: utilizza un modello di comportamento più complesso, che si diffonde al di fuori del clero e influisce sulla morale pratica con la forza dell’esempio. La creazione del ‘manuale’ è un aspetto della cultura cinquecentesca che Erasmo fa proprio, e con cui va incontro a una precisa attesa del suo pubblico; ma in questo modello c’è qualcosa di più profondo: la sua efficacia è dovuta anche alla capacità di sfuggire alla cristallizzazione che minaccia ogni forma sentita come perfetta. La satira contro i falsi filosofi, gli attacchi ai vizi dei potenti, la predicazione attiva rendono il seguace di Erasmo, il perfetto cavaliere cristiano, intento a purificarsi e a scoprire sé stesso attraverso un contatto senza tregua con le cose reali. Il suo messaggio si identifica con la nuova filologia umanistica, perché quel modello di perfetto cristiano dev’essere aiutato dalla sapienza e deve combattere la menzogna e le mistificazioni. La sua morale si costruisce soprattutto sullo studio dei testi biblici, questo comporta la conoscenza del greco e del latino. Attraverso i circoli erasmiani, e col tramite del nuovo evangelismo, si fa strada, una possibilità di contatto più vero e nutrito col mondo classico; basti pensare ai criteri con cui l’Università di Alcalà de Henares, durante e dopo la guida di Cisneros, accoglie tutti quegli insegnanti, dando la preminenza alle lingue classiche, accanto all’ebraico e all’arabo. Dopo la morte di Cisneros, la Spagna vive all’insegna di Erasmo il suo momento di olimpica fusione e circolazione di cultura; questo rigore di verifiche intellettuali ha i suoi effetti sul piano dell’esperienza letteraria, inoltre vi è il dominio di una forma precisa, che si avvantaggia sulle ampie strutture retoriche del trattato: quella del dialogo. Quasi tutti gli umanisti spagnoli seguaci di Erasmo scrivono in forma dialogata, perché il dialogo viene visto come l’involucro in cui meglio si insedia la disputa teorica, ed è lo strumento ideale della comunicazione con i proseliti, con i dotti, con l’intera comunità cristiana: da un lato esso implica un esercizio letterario nutrito di ricordi classici, dall’altro possiede una capacità dinamica che favorisce la polemica astratta e sottile. 1 L’ETA DI CARLO V Ciò è evidente nei ‘dialoghi’ di Juan Luis Vives, che anche se scrive in latino dimostra di essere fra gli eterodossi spagnoli quello che più profondamente assimila la parte comunicativa pragmatica, della lezione di Erasmo; Teologo e pedagogista di rinomanza europea, Vives incarna l’aspetto etico-pratico della dottrina erasmiana con grande ricchezza di testimonianze. Si volge a studiare gli effetti della falsa filosofia sulle istituzioni sociali e sull'uomo, rifiutandosi di accertare i termini puramente speculativi del conflitto di idee: evitando di combattere la religiosità tradizionale col suo linguaggio. La grande intuizione di Vives, sta nella sua dottrina che conferisce al comportamento dell'uomo nella società come oggetto prioritario di ricerca, nel muovere Insomma dall'osservazione del costume per costruire un modello etico, la sua preoccupazione religiosa. In un'opera come "Exercitatio latinae linguae", tradotta più tardi con il titolo "Diálogos", si muove lungo lo schema aperto di una giornata esemplare, vissuta per episodi scene significative, articolata al di là della forma e dei singoli apprezzamenti moralistici. Il dialogo sa trasformare i temi di una lezione scolastica, di un'attività ludica, di una passeggiata, di un aspetto della vita domestica in altrettanti quadri disegnati dal vero, nei quali ogni astrazione teorica e subordinata alla dinamica dei gesti e delle situazioni individuali. L'autore stesso stabilisce un circolo continua fra il particolare e il suggerimento etico generale come discretismo spunto di una dimensione retorica ed esemplativa. La prosa del moralista riesce ad affrontare tutti i rischi concreti della tematica, dei cibi e della fame, rientrando in un sistema di segni che comprende, all'indietro, il sapido e realismo della Tinellaria di Tormes Naharro, e in avanti, la crudeltà dei primi episodi del Lazarillo de tormes. L'impegno di scrittore, dell'attività intellettuale, ne costituisce consapevolmente lo strumento essenziale; con la sua ambivalenza di dotto classicista e di osservatore attento della realtà, il poeta dimostra che in questa cultura anche la prosa di impianto più speculativo nei confronti e nelle intenzioni, coinvolge sempre interessi primari dell'uomo; col propagarsi del messaggio erasmiano dai circoli religiosi e dei conventi dei francescani 'alumbrados', versità e agli umanisti emerge anche un punto di riferimento geografico, un'ipotesi di cosmopolitismo europeo che si lega il mito del predicatore viaggiante. In questi anni troviamo Vives che dimora a Bruges e insegna a Parigi. L'eterodossia spagnola appare legata un'ampia dimensione geografica, a una mappa di itinerari, che ha come teatro l'Europa ed ha il segno della capacità espansiva del movimento; ed è su questo allargamento di orizzonti che si manifesta l'idea di un grande impero cristiano governato dal re spagnolo e guidato dai principi di integrità e di fratellanza propri dell'erasmismo, inoltre si deve ancora una volta alla pressione dei seguaci spagnoli di Erasmo. La Spagna sta per assumere la sua funzione egemonica nell'Europa travagliata dalla riforma; il più tenace assertore della nuova dottrina è un altro campione dell'erasmismo, Alfonso de Valdes, cancelliere della segreteria Imperiale e mediatore delle nuove idee nell'ambito della corte; Egli additò in Carlo V il rovescio dell'ipotesi machiavelliana del nuovo politico, un principe illuminato che sa giungere alla guida del popolo per elezione, senza violenza né inganni. È il momento culminante della fiducia in un Umanesimo liberale che si identifica con l'impero e rifiuta il centralismo morale e temporale di Roma. In entrambe le opere di Alfonso, "il Diálogo de Mercurio y Caron" e il "Diálogo de Lactancio y un Arcediano", la speranza nella comunità Cristiana universale emerge da una violenta polemica contro la chiesa romana, che acquista ancora una volta accenti altamente drammatici. Antitesi del tiranno spregiudicato di Machiavelli, l'imperatore giusto di Valdes e però anche lontano dal saggio governante, ad esempio, dell'Utopia di Thomas More, proprio a causa della sua identità politica precisa e dalla cornice di imprese guerresche che gli sta attorno; Alfonso sogna un impero ecumenico che crede già alla portata delle milizie spagnole e in cui si avverte, un residuo è una nostalgia di universalismo medievale. La fragilità di questa concezione sta proprio nella sua apparente concretezza: nella pretesa di dare un emblema di pace di fratellanza il volto di un sovrano vivente. Valdes non ha bisogno di allegorie né 2 L’ETA DI CARLO V per lo storico, e me l'ha ancora per il lettore comune. Alla formazione dei letterati moralisti del secolo d'oro darà più una pagina degli esercizi spirituali che cento perette di invenzione fantastica o di specifico impianto letterario. Egli compose i famosi esercizi prima in spagnolo in una stesura non definita fra il 1322 e il 1323, e poi li riscrisse in latino, e solo nel 1548, a Roma li dà alle stampe. Al di là di ogni schema di genere letterario queste opere posseggono una profonda ambivalenza: hanno tutti i caratteri dell'ascetismo primitivo e sono già alle soglie di un ordinamento diverso. Con le lettere con gli ‘esercizi’ abbiamo, un nuovo esempio di quell’accento esistenziale, di quella ‘storia di cose’ che nella cultura spagnola investe e delimita sempre ogni elaborazione astratta. Ignazio usa la lingua dei cavalieri con la coscienza di questi limiti; quella traccia di ideale cortese che poteva affacciarsi ancora nel suo stile di ‘miles christianus’ finisce con l'essere formalizzata, e perciò negata nella sostanza di ‘servizio’ in una concreta capillare ‘istituzione ascetica’. Una lettera famosa, indirizzata ai Gesuiti della provincia di Portogallo, il santo chiarisce il valore dell'obbedienza e fa del concetto di autorità vicaria, il perno del nuovo organismo religioso. All'origine dell'ascetismo spagnolo moderno e della sua grande fortuna, c'è questa vittoria dell'obbedienza e dell'Istruzione sul rischio della Libertà del dibattito. Ed è un punto di forza: perché rappresenta la situazione della Spagna, e anche la vittoria della concretezza sul pensiero astratto nella convinzione profonda che il legame tra chiesa e società può essere conservato solo il nome di una religiosità tangibile, una fede ardente ma anche stabilizzata e sicura. Il puro dialogo fra la coscienza del cristiano e il suo addio e visto come la forma di individualismo etico che minaccia la compattezza dei fedeli e ne impedisce il controllo. In quest'ultimo periodo troveremo in Spagna, due espressioni culturali, in certo modo distinte, sotto lo scudo di una sola autorità e con l'apparenza di un'unica fede: da un lato, troveremo, le varie forme di letteratura apologetica degli Asburgo, la prova finale dell'esperienza neoagostiniane e scolastica, il romanzo pastorale, la poesia lirica dei circoli italianisti e della corte; allo stesso tempo troveremo le espressioni dell'inquietudine castigata e repressa, della rivolta non consumata, della coscienza del fallimento dell’economia e del primato politico, della risorsa del soggettivismo estremo e abnorme, fino al demoniaco e al folle. I confini non saranno mai netti; le due ‘Spagna’ si troveranno nella biografia di uno stesso autore, perfino all'interno di una sola opera sua. Tant'è che per individuare i segni di quella nascosta non basterà fermarsi su alcune tipiche espressioni di rottura come il Lazarillo de Tormes. I legami fra le correnti ascetiche del tardo 500 è un'ampia cerchia di fedeli di ogni ceto si spiegheranno che ho le origini ortodosse della riforma primitiva; Cervantes darà a Don Chisciotte nell'avventura dei forzati, l'energia di collocare due piani distinti e contrapposti la giustizia delle leggi terrene è il sentimento di giustizia cristiana che è proprio e inalienabile della coscienza. Capitolo secondo: poeti colti e posatori aulici alla corte di Carlo V. La poetica del classicismo e la nuova poesia italianista. Questi sono gli anni in cui Wyatt e Surrey in Inghilterra, Garcilaso e Boscan in Spagna, utilizzeranno l’endecasillabo italiano, sulla terzina, sul sonetto e la stessa imminenza di crisi all’interno degli schemi classici si avverte anche in queste scuole poetiche. La serietà di cui gli artisti danno prova nell’addestramento tecnico che essa comporta è garanzia di innovazione stabile, non segno di moda passeggera. Attorno ai casi letterari sta anche un profondo mutamento del ruolo sociale che il poeta va assumendo nella corte, e nei confronti del suo pubblico. La figura del sofisticato autore di ‘dezires’ dei Canzonieri più tardi, va scomparendo, con la formazione di una corte centralizzata e potente; e fa posto a un personaggio di letterato che è consapevole della sua funzione intellettuale e del privilegio che si conviene a un umanista, comincia a crearsi la coscienza d’una 5 L’ETA DI CARLO V propria autonomia di produttore di cultura. Questa condizione traspare con chiarezza, per la prima volta nella scuola poetica italianista. Juan Boscan Almogaver e Andrea Navagero, si incontrano a Granada e conversano sui comuni problemi di cultura; la nuova poesia nasce dal dialetto di questa chiacchierata, questa fu una sollecitazione culturale che non ha altro fine che la nobiltà della scelta. Sembra quasi, uno dei tanti pretesti narrativi che introducono ‘artes de trovar’ e ‘poetiche’ del Cinquecento. La Spagna, vittoriosa nella grande politica degli equilibri in Europa, centro di cultura e sua volta, ha una responsabilità ulteriore, fosse un’urgenza di confronti più pungente. I contatti con gli umanisti italiani sono così frequenti e diversi che creano occasioni di scambi di idee e mode intellettuali prima ancora che scuole di poesia, possano creare un nuovo stile di vita. È il momento del neoplatonismo> opere dottrinali che hanno poco a che vedere coi problemi della poesia in senso specifico, riescono a influenzare atteggiamenti e scelte dei poeti, perché offrono sussidi teorici al loro modo di rappresentare il mondo, d’indirizzo insieme classico e cristiano, alla finzione pagana della loro arcadia, “la dottrina” di Marsilio Ficino sull’amore come strumento di perfezione e attraverso i “Dialoghi d’amore” di Guida Abravanel, detto Leone Ebreo, si dimostra la più efficace premessa ideologica alla poesia petrarchista: parecchie sue tesi potrebbero figurare da glosse alle maggiori opere di Garcilaso e di Boscan. Nessun poeta di questi anni vuole offrire una trascrizione in versi dell’ideologia ficiniana; nuovi poeti vi cercano una conferma teorica, e anche una tesi, alla quale esprima che vi sia un nesso tra l’esercizio poetico e la coscienza del mondo, fra la nozione della natura e la percezione di Dio. Dal 1525, troviamo in Spagna un altro maestro dell’umanesimo italiano, Baldesar Castiglione, ambasciatore del papa presso Carlo V: la sua influenza sulla formazione di una cultura rinascimentale spagnola, e à saldare per sempre il rapporto fra l’intellettuale e la corte. Il “Cortegiano”, stampato a Venezia nel 1528, farà il giro della nobiltà europea e sarà d’esempio a cavalieri e poeti fino alla fine del secolo. Questo è un altro aspetto fondamentale che caratterizza così il cosmopolitismo dei primi anni dell’Impero; in questo periodo, alcuni poeti, per lo più vicini alle corti, mutano dall’Italia il modello del perfetto cortigiano, sintesi di nobiltà cavalleresca, di equilibrio e di perizia nelle arti. Nei seguaci di Erasmo non c’è nulla, a prima vista, che sembri incoraggiare un nesso con la poesia di ispirazione italiana, eppure, tra i circoli dei petrarchisti e i cenacoli dei riformatori erasmiani vi sono, convergenti intellettuali che vanno al di là di alcuni aspetti più prevedibili, entrambi condividono l’utopia di un impero degli Asburgo e sognano di collocarvi i propri sistemi religiosi e linguistico-letterari. Alfonso de Valdés lavora all’idea di una forte comunità cristiana sotto la guida di Carlo V; il poeta Garcilaso ne rappresenta, mentre Alfonso scrive il suddito ideale, Il combattente perfetto. L’ideale neoplatonico, il modulo petrarchista, il concetto dell’armonia del mondo, trovano un riscontro immediato nel sentimento della <<nuova Spagna>>, perché riflettono attraverso la metafora e la rappresentazione di mondi illusori, ciò che in esso è desiderio di pace durevole, ansia di stabilità. La nuova metrica s’impone anche come forma adatta, alla rappresentazione del potere del nuovo stato e del suo centralismo culturale. È sintomatico che in questi anni la più splendente apologia del nome di Carlo V, come portatore di una nuova era di pace nel mondo, sia pensata in endecasillabi e nella forma del più classico componimento. La crisi del linguaggio avrà il compito di dichiarare il tramonto del classicismo anche quando i temi continueranno a essere quelli neoplatonici e petrarcheschi; così il poeta dimostrerà di rifiutare il falso obiettivo dell’armonia del mondo, anche solo esasperando un campo metaforico, anche solo intensificando il gioco di contrasti che la stessa idea del bello reca, in sé, in quanto genere per conseguenza logica un’idea del brutto è una tentazione dell’assurdo. 6 L’ETA DI CARLO V Successivamente all’epoca di Carlo V, si capirà, quanto fosse fragili apparente anche agli inizi il legame fra la poesia di ispirazione italiana e la cultura ufficiale, Voluta o propagandata dalla corte. Non sarà raro individuare i germi di un atteggiamento opposto, in cui l’arcadia e lamento d’amore appariranno come le testimonianze di un ‘viaggio’ oltre i confini di una realtà non condivisa e non accetta dal poeta. Garcilaso De La Vega. L’opera di Garcilaso, sembra proporre un universo concluso e stabile nel quale si raccolgono tutti i motivi che la cultura cinquecentesca vorrà smentire più tardi: la conquista di una lingua poetica misurata e fluente, l’idea di un equilibrio fra creazione artistica e mito biografico del poeta, un’intesa perfetta fra l’intellettuale e la corte. Garcilaso appare, come la contraddizione che nega o interrompe con la sua certezza quell’ipotesi di turbamento perenne. Prima di Garcilaso il classicismo è in Spagna, un’etichetta confusa, nella quale si mescolano alcuni saggi di versificazione ‘italiana’; dopo Garcilaso è una formula che già tende a superarsi, e non conserva di sé che il mito e qualche segno esteriore. Persino nella scuola italianista, Garcilaso è un’eccezione: il classicismo, inafferrabile sempre nei suoi predecessori e discepoli, si identifica con la sua opera; egli è un emblema vivente per la sua epoca, il luogo comune che indica in lui il perfetto cortigiano ideato del Castiglione, che si fonda su circostanze obbiettive: all’ammirazione dei suoi contemporanei, e offre un esempio di quell’urgenza di incarnazione del modello che negli stessi anni faceva pensare al Borgia come ‘principe’ o a Carlo V come supremo ‘cavaliere cristiano’. La ‘cavalleria’ nei poeti combattenti mira a esteriorizzarsi nella diversa disciplina della mondanità di corte: l’avventura individuale si concreta in piccole ambascerie politiche e in viaggi per incombenze di fiducia di principi e monarchi; cosi i nuovi ‘cavalieri viaggianti’, rappresentano una tappa intermedia nel cammino che conduce da Erec e Lancillotto, ai moschettieri e spadaccini delle corti seicentesche. Garcilaso combatte prima con i comuneros, poi contro i francesi al seguito di Carlo V, a Tunisi, in Italia, in Provenza, con lo stesso stile con cui veste i panni di guardia reale e di Cavaliere di Santiago, assorbe mansioni di fiducia per l'imperatore della corte di Castiglia e poi dal 33 in quella di Napoli a servizio del Viceré Toledo. La sua biografia impone un modello di classicità perfino nella disgrazia, quando il poeta e confinato in un'isoletta del Danubio, per un intervento a favore di certe nozze non gradite dall'imperatore, la segregazione assurge nella sua fantasia, combino video, a occasione di raccoglimento e di aristocratico esilio. L'esercizio poetico rispecchia il modello suggerito dalla biografia, poiché con Garcilaso ci troviamo per la prima volta avanti a un poeta che ha piena consapevolezza dei valori letterari, e formali delle sue opere. Attuò l'ideale del "Diálogo de la lengua", bastano i suoi versi a offrire la testimonianza di una poesia vissuta finalmente come storia interna di sentimenti e come congegno di architetture di forme. Nessuno prima di Garcilaso aveva abbracciato esperienze formali così numerose e diverse, in lui conta soprattutto la coscienza di aver assunto una nuova responsabilità culturale, anche in questo egli va subito più in là di Boscan: Non gli basta più la corretta imitazione dell'endecasillabo, ma gli occorre la sperimentazione della sua capacità dinamica. Infatti il sole 5 canzoni prova quattro combinazioni diverse, e nelle tre egloghe arriva impiegare 5 forme metriche: stanze di endecasillabi e settenari nella prima; ottave nella terza, eccetera. La varietà metrica assume il significato di una ricerca, che è anche un modo di collocarsi di fronte alla tradizione. In Garcilaso i metri della vecchia poesia castigliana non lasciano quasi traccia di sé, ma se ne avverte la presenza punto a questa ricerca incessante ti spiega, in qualche modo come risposta al confronto con una tradizione sottintesa, è come se in Garcilaso si fronteggiassero due forme: quella respinta tipica del 'verso de Arte Mayor' e soprattutto del 'Romance', e questa severa è obbligata di nuovi componimenti in cui il valore e strutturale diviene il primo custode autorizzato del discorso poetico. 7 L’ETA DI CARLO V Salacio e Nemoroso si ripresentano in vesti di comprimari di una azione principale che è affidata al giovane Albanio; questi è protagonista non più solo di una passione rievocata, ma anche di un incontro vissuto sulla scena, con l’intervento della ninfa Camila. Il poeta elimina dedicatorie e didascalie introduttive, si affida unicamente alla parola dei pastori, tenta la favola drammatica: e spiega la maggiore lunghezza dell’opera, il maggior numero di personaggi e dei mutamenti di scena e le insistenze su forme di dialogo serrato e veloce, ma anche una certa macchiosità, fra una prima parte ‘recitata’ e una seconda ‘declamata o detta’. Nella terza egloga, Garcilaso ristabilisce l’equilibrio fra parti introduttive e racconto, e mortifica le tentazioni drammatiche a favore di una scena quasi ferma come ritratta a distanza. Le ninfe che ne sono le protagoniste vengono ‘guardate’ dal poeta mentre una di loro si bagna nel Tajo: guardate, ma da ua lontananza ormai priva di rischi, con voluttà contenuta. Esse non declamano le loro parti a differenza dei patri, tessono lungo il fiume una tela che narra i casi di Orfeo ed Euridice, di Apollo e Dafne, di Venere e Adone, della ninfa Elisa morta. Il Garcilaso-amante dei sonetti e delle canzoni s’innalza al rango degli eroi mitici, che non soffrono dei loro eventi, perché li vivono nell’incanto raggelato di un arazzo. La mitologia della terza Egloga, significa ansia di risolvere il dolore d’amore nell’idea della fama, e quindi dell’eterno. La poesia del poeta tocca il momento più rinascimentale. Il 19 settembre del 1536, durante l’assedio della fortezza di Muy in Provenza, un sasso scagliato dall’alto della torre colpisce Garcilaso quasi sotto gli occhi dell’imperatore: la fine arriva velocemente, a Nizza, qualche settimana dopo; egli muore in realtà senza eroismo, quasi per caso. Nelle egloghe vi sono come due rappresentazioni della morte: l’una ‘fenomenologica’, di una morte nella natura, l’altra piena di sgomento per la definitiva scomparsa di un oggetto amato. L'eroismo è tutto nella poesia e nella lingua, non nell’esercizio della guerra: è in quest’ipotesi di perfezione che nasce dall’insicurezza, perciò, in essa, i grandi assenti sono i temi che ne sconvolgerebbero l’effimera attuazione, la religiosità come trascendenza intera del reale e la realtà quotidiana come punto di partenza della religiosità. La scuola di Garcilaso: Boscàn, Cetina, Hurtado de Mendoza. L’esperienza di Garcilaso è irripetibile, e i primi a dimostrarlo sono i petrarchisti più fedeli della scuola, come ad esempio Juan Boscàn, il teorico e divulgatore della nuova poesia, che fin oltre il ‘40 ne prova e riprova le diverse forme metriche e i temi in un canzoniere dignitoso quanto privo di bagliori, non bastano le ambascerie amorose e né il petrarchismo galante delle canzoni. Quando prende sul serio i materiali della nuova cultura umanistica, Boscàn riuscì ad essere all’altezza del suo compito, una sola volta: questo lo ritroviamo in una prosa, nella tradizione spagnola del “Cortegiano”. L’endecasillabo, comincia ad unirsi a degli aspetti esterni della poesia tradizionale; la sua opera è importante proprio per questa franchezza; i momenti più felici sono, quelli in cui il poeta ha il coraggio di rinunciare ai toni celebrativi del mito pagano e dell’arcadia per costringere questi temi in una sobria, cornice domestica, come ad esempio in “Respuesta a Don Diego Hurtado de Mendoza”, un poemetto che è quasi il bilancio di un’esistenza consacrata alla grande poesia e che si schiude ora all’inclinazione per una più segreta saggezza, poiché invece di inventarsi un amore arcadico nel teatro del mito, di trasferirsi fra le ninfe e di chiamarsi egli stesso pastore, parla di sé e della sua famiglia quali sono nella realtà, tenendo le ninfe e i pastori come modelli di ‘buona mediania’, come punti di riferimento ideali, riducendo così Dafne ed Apollo, Venere e Adone alle proporzioni di una tranquilla unione, al formato ridotto di una passeggiata festiva nei campi. 10 L’ETA DI CARLO V ‘Beatus ille’ → dimensione antieroica a tal punto di rovesciare il proprio stesso codice fino a sfiorare un’ironia che, il poeta non ha l’energia linguistica, di assumere interamente, rimanendo cosi nell’ambito che gli suggerisce lo schema letterario più ovvio, ma con la responsabilità di un messaggio diverso. Tutti i migliori poeti, seguaci di Garcilaso, che oltre a Boscàn sono: Gutierre de Cetina, Diego Hurtado de Mendoza, Heranando de Acuna, dimostrano di trovarsi in una situazione analoga, poiché cantano i loro amori con modi petrarchisti, assumono i metri italiani disinvoltamente; la lingua poetica, va perdendo l’incanto della forma levigata e classica e cede a una maniera, in cui è tanto più vivo il gusto dell’accorgimento tecnico quanto più si prospetta una crisi della cultura. Nell’opera del sivigliano Gutierre de Cetina, il centro della poetica petrarchista si sposta, dal tema alle variazioni, cioè passa da una ricerca esistenziale con cui il poeta interrogava, sé stesso, a una rassegna di stati d’animo oggettivati; evoca la dolcezza, l’assurdità, la melanconia dell’amore col distacco di un giullare che sta inventando per altri, nella corte, un linguaggio galante. È in quest’autore che la corte merge come un fondale ravvicinato al lettore, nel teatro in cui il poeta declama la sua parte, ed è con lui che il petrarchismo diventa la poesia ufficiale dei convegni mondani. Egli ama 3 dame diverse, e questa pluralità accentua nella sua opera gli aspetti del virtuosismo e del gioco: è come se il linguaggio dell’autore-amante, vivesse un momento di deconcentrazione, allontanandosi dal forte e unitario soggettivismo del maestro e non raggiunge ancora la ricchezza concettuale di un Herrera. Concetti e immagini-tipo vengono ribaditi in continuazione da Cetina fino al limite della loro compattezza, tanto da arrivare a dare al mal d’amore, in un sonetto sette o otto attributi diversi: lo chiama ‘madrastra del cuitado sufrimento’. I sonetti del poeta meritano un posto di rilievo nella storia del genere, fra Garilaso ed Herrera, per questo rischio linguistico che nasce dal ‘nominare’ più volte gli oggetti di un patrimonio ormai scontato e per l’eleganza, tipicamente italiana in senso classico, delle molte similitudini. È anche un caso biografico particolare nella sequenza ininterrotta dei modelli rinascimentali; fino a 25 anni il poeta, soldato e cortigiano brillante, parte successivamente per il Messico, dove decise di non scrivere più versi e scompare dalla scena letteraria. Appena si esce dai toni celebrativi, qualsiasi circostanza delimitata e reale, entra in conflitto coi modelli suggeriti dal rinascimento, ma questi non decadono subito, però poi successivamente finiscono per snaturarsi e smentire la loro origine, o vengono affiancati da modelli contrapposti, che ne mettono in scacco la grandezza e l’esemplarità. Di tutta l’esperienza italianista, il pilastro più saldo si rivela nell’esercizio metrico. Castillejo e la poesia tradizionalista. Ai margini della corte di Carlo V e dei circoli petrarchisti divampa una piccola fermata di tradizionalismo poetico che si intreccia con le prove di Boscàn, di Cetina, di Hurtado de Mendoza, ed è un tradizionalismo di forme del mondo cortese e versificazione al mondo antico: qualcosa che rappresenta una sfida aperta alla scuola di Garcilaso e al trionfo dell'endecasillabo; a questo proposito è opportuno citare due voci molto importanti, quelle di Cristobal De Castillejo e Gregorio Silvestre. Castillejo non si limita a seguire il modello dei canzonieri quattrocenteschi e del verso de ‘Arte Menor’, che era in auge alla corte dei Trastamàra, ma passa l'offensiva contro Garcilaso e gli altri autori, nominandoli più volte, e additando contro di loro termini come transfughi della grande tradizione spagnola. In una delle sue invettive non esita a chiamare in causa l'inquisizione, le sette religiose, gli anabattisti e persino Lutero. Mette a nudo un disagio che pervade tutta la letteratura dell'età Imperiale: quello che nasce dal rapporto fra il poeta e i suoi lettori, come scoperta di una corrispondenza virtuale; in una parola, il problema della comprensibilità del messaggio scritto. Attaccare i petrarchisti in difesa delle vecchie ‘coplas’, 11 L’ETA DI CARLO V ‘romances’ e dei ‘villancicos’, non significa solo combattere una forma di ‘extranejerismo’ letterario, ma significa per Castillejo, smascherare un groviglio di sottigliezze e di ‘rodeos’ linguistici non aderenti alla verità dei sentimenti, denunciare una mancanza di chiarezza che pregiudica il contatto con la poesia. In questo senso la sua limitata protesta si affianca alle considerazioni di Valdés sulla ‘llaneza’ dal punto di vista radicale, e magari un po' semplicistico, di un ritorno all'antico. Sconfitto in questa battaglia, l'autore si appresta a vincere, senza sconfitto in questa battaglia, l'autore si appresta a vincere, senza saperlo, la guerra a più lunga scadenza. La poesia di tipo tradizionale tornerà imporsi gradatamente anche fuori dalle collane dei ‘romances’ e dai testi di qualche commedia o farsa: tornerà a impegnare l'immaginazione dei poeti colti e a reclamare il suo posto accanto al sonetto e alla canzone petrarchesca; e nel grande teatro barocco, superando i divieti della precettistica rinascimentale, avrà la sua consacrazione definitiva di poesia dell'accadimento drammatico e delle immediate vocazioni del gesto e del sentimento. Poeti celebrativi, storiografi e moralisti alla corte di Carlo V: Antonio de Guevara. La storia del classicismo nella Spagna di Carlo V è storia di un disadattamento, di una menzogna, ma in Spagna le attrattive dell’esperienze quotidiana, le vendette dall’irrazionale, nelle sue punte religiose o laiche, non lasciano tregua all’illusione della perfezione e dell’integrità delle forme. Quando si esce dalla tematica amorosa, si iniziano a guardare gli altri generi, generi che fioriscono alla persona mitica di Carlo V; qui il classicismo è sconfitto, in partenza. Il paese è modello dell’Europa di virtù militari ed ha il gusto, dell’avventura guerresca, non possiede nel Cinquecento una letteratura epica di rango; il gusto dell’epica è decaduto nell’Europa da quando si è congedato per sempre dalle sue origini medievali e giullaresche, ma la cultura spagnola taglia anche più corto: producendo un’epica travestita, un racconto eroico senza i modelli che gli sono propri: qualcosa che tradisce l’etichetta del genere per confluire in altri modelli e in diversi codici letterari. Si può dire che la Spagna non ha avuto una poesia epica colta perché ha avuto il ‘Romancero’, i libri di cavalleria, le cronache della conquista dell’America e anche la commedia d’argomento storico, ma non meraviglia che il poema di respiro classico si riduca a una pianticina anemica e intrusa. Il maggior cronista dell’epoca ‘Pero Mexìa’, il quale riflette questo dualismo di universale e particolare proprio nelle due fasi della sua opera: pria indulge a una grande e ambiziosa “Historia imperial y cesarea”, fondata sul concetto universalistico del nuovo impero come ultima espressione dell’impero romano, e in seguito si dedica a un racconto che è documentazione di fatti recenti, cioè una dettagliata “Historia del Emperador Carlos V”. Questo equilibrio storiografico è l'espressione di una fase avanzata dell'età Imperiale e dello spirito della croce. Le nuove cronache sono il riflesso di quello spazio culturale che il vertice del potere crea torno a sé quando incomincia ad affievolirsi l'influenza dei cortigiani seguaci di Erasmo e l'impero si assesta a spese delle prime ipotesi eterodosse. E allora che Carlo chiama il rango di consiglieri aulici, e di cronisti, scrittori capaci di trasmettere il messaggio di una cultura vittoriosa senza i rischi dell'incertezza e della disputa intellettuale, ma con l'abito della più rigorosa obiettività e con uno smaccato e sottointeso rinvio alle grandi storie di Roma. Questo rinascimento sui 'generis', specchio di una corte imperiale non del tutto convinta del proprio rilancio umanistico, ha il suo autentico campione in un'abile arrangiatore di modelli culturali; e lo seleziona dalla schiera dei religiosi e dei predicatori rimasti in equilibrio fra le crisi del vecchio clero e il trionfo dei nuovi miti mondani dello stato-guida: Il frate francescano Antonio de Guevara, con lui nasce la figura del moralista di corte: un personaggio che non ha la tempra del riformatore autentico alla Loyola, né la sincerità dell'inquietudine di un Valdes e neppure la nobiltà dell'idealismo neoplatonico di Garcilaso; ma 12 L’ETA DI CARLO V conventi, seminari e università di nuova istituzione. Qui per lungo tempo, l’autoritarismo della vecchia tradizione vescovile avrà ragione dei tentativi di acculturazione ‘dal basso’. Tutto ciò si riflette nella storiografia posteriore a Colombo e ne forma l’incentivo al disordine, all’interesse umano, all’intima ambiguità, alla varietà dei temi difensivi e aggressivi: creando una storiografia conflittuale per eccellenza, dove il vitalismo si alterna con una candida illusione di un universalismo da crociata cristiana. I cronisti delle Indie subiscono tutti il contraccolpo, del fatto che la loro opera è sede storica dell’incontro fra una cultura preborghese, collaudata nei suoi codici e rigida e conservatrice nei contatti col mondo, e questa proposta di cultura nuova che viene da terre inesplorate e da insediamenti umani ancora incerti, realtà ipotetica eppure già alla portata dei sensi, affascinate e irriducibile, in cui essi cercano di riconoscersi o di negarsi. Ai relatori, come Colombo o Cortès, si affiancano gli storici veri e propri, e anche i cronisti di eventi e situazioni particolari, e tutti sembrano egualmente importanti, se pur in modo diverso gli uni dagli altri. È l’epoca dei pionieri. E sarebbe difficile tracciare divisioni sommarie e gerarchie di valori in un patrimonio cosi tutto determinato da un generale principio di necessità; le partizioni suggerite da motivi di spazio e di tempo aiutano a muoversi più agevolmente, tuttavia non toccando i nodi essenziali della crescita e della varietà dell’esperienza. Scoperta e conquista si muovono su un unico teatro; il criterio migliore è quello di assumere i vari autori come tanti testimoni più o meno oculari, che hanno assistito ai grandi avvenimenti da punti di osservazione diversi. I ‘relatori’: Colombo, Cortés. Storici conquistatori dichinarono ad ogni passo la loro attenzione in merito alla verità, e tentano di farla passare per storia. Il primo a risentirne di questa fonte fu Colombo, dove in lui vi era una collaborazione apparente, e un contrasto tra spirito di osservazione e dottrina. La dottrina è il punto di partenza, è la sicurezza; ed è raro che si dichiari sconfitta. Colombo è orgoglioso di poter correggere, scoperte alla mano, errori e miopie della tradizione. Nello stesso tempo il suo spirito d’osservazione è totale, è quello di uno scienziato empirico, intollerante dell’assoluto, ansioso di guardare, cosi la sua curiosità analitica è una continua sfida al passato, che getta, senza parere, le prime basi del relativismo moderno. Nulla impedirà all’esploratore di associare l’immensità della stessa sorgente o di altre simili, pur vedute e alle fonti magiche dei libri di cavalleria, e perciò magari a un sé stesso metaforizzato in cavaliere errante, da mercenario e semplice soldato quale l’avventura reale l’ha fatto. Ed è su queste basi che nasce uno stile realistico: uno stile che sfrutta subito il sentimento di ‘realizzazione’ del mito, l’illusione di tangibilità del simbolo, che può illustrare fenomeni termici accanto a immagini di sirene e a mostri vegetali e animali. Colombo, definito il solo autore capace di descrivere la realtà mentre è ancora in movimento, con l’effimera ma confidenza di un disegno del vero. Non c’è idea di paradiso terrestre che ostacoli, nelle sue ‘cartas’, il flusso delle più minute e naturalistiche descrizioni: in nessuna cronaca posteriore si ripeterà il miracolo di questa trattenuta emozione d’incontri, di questa ostinata volontà connotativa. Tutto ciò è possibile osservarlo nelle ‘cartas de relacion’ del conquistatore del Messico Hernan Cortés, egli scrisse le sue lettere direttamente al monarca le sue lettere al monarca, per l’esattezza 5, sulle fasi più 15 L’ETA DI CARLO V importanti della campagna messicana fino alla conquista definitiva dell’Impero di Montezuma, fra il 1519 e il 1526; e perciò, come Colombo, utilizzò un ‘yo’ pieno di significato storico, ma con alcune differenze:  ‘L'io’ di Colombo era quello del primo testimone vivente che, scopre e segnala le nuove terre a nome delle regina ‘armatrice’, ma anche per la cultura di tutti gli uomini, considerato un ‘io’ schietto.  Quello di Cortés è la mediazione del potere affermato, lo si ostenta a nome del re, ma vince e possiede in persona propria, con esso entra in gioco l’idea della ‘relazione’ come epopea; inoltre trova il tempo di fare una scelta linguistica; in lui la semplicità espositiva, la rapidità del disegno, sono il frutto di un atteggiamento intellettuale e non solo di una pratica urgenza. Le ‘cartas de relaciòn’ non sono solo il rendiconto di una campagna di guerra. Toccano una materia che Colombo sfiorò: quella del primo scontro prolungato fra una cultura dell'occidente europeo, e una comunità umana remota: una comunità che appare illustrata anch'essa da opere di creazione organizzata secondo legge e convinzioni precise, e che pure si lascia assimilare o annientare. Questo è il motivo di fondo delle ‘relaciones’. Dietro tutto ciò, vi è quest’ombra di mistero, che affermerà ed incanta chi non esita a distruggere. La cultura che porta fra l'Indios è irriducibilmente egemonica; e però è chiaro che sulla sua prosa agiscono modelli culturali precisi. L'immagine del buon guerriero che vince il nome di una superiore giustizia, che risente dello spirito ‘hidalgo’ del Cid. Infine sul racconto delle imprese guerresche volge un certo gusto dell'esorbitante, cui non è estraneo il ricordo dei libri di cavalleria. Anche il riconoscimento del coraggio degli indios diviene uno strumento di assimilazione dell'antagonista al linguaggio dell'epoca tradizionale, un modo calcolato per nobilitare la propria vittoria, assai più che un atto di coscienza obiettiva. Cortés indugia in descrizioni delle meraviglie della capitale azteca e poi non esita a distruggerne i simboli religiosi di cui riconosce perfino esalta. Non dubita di schiacciare Montezuma, di cui umilia la dignità imperiale. Egli è lo storico della circolarità, fra la tradizione come potere e l'ignoto. Il suo stile cronistico, detto anche della notizia, vale più di un dotto commento: fa apparire la conquista così come, proprio perché assimila e livella tutti i contrasti, trattenendo le emozioni sul piano innocente della meraviglia estetica per il nuovo. Las Casas, Oviedo, Cabeza de Vaga. La cultura cattolica ha in serbo, l’alternativa di un atteggiamento autocritico e umanitario. Dopo aver letto Cortés ci si imbatte in una voce che arriva dal versante opposto: quella del domenicano Bartolomé de las Casas; venuto in America, verso il 1505 al seguito di un nobile, Las Casas prende gli ordini dopo una crisi spirituale connessa con le sue funzioni di ‘ecomendero’; e diviene appassionato predicatore di tendenza evangelista e osservatore ‘dal di dentro’ dei costumi degli indios coi quali cerca di organizzare le prime comunità gestite autonomamente. Le sue opere “Historia de las Indias” e “Brevisima relacion de la destruycion de las Indias”, rappresentano l'altra faccia della medaglia: il punto di vista del religioso e del vescovo illuminato, che condanna il genocidio dei conquistatori e gli abusi delle ‘encomiendas’ e si fa ideologo delle popolazioni soggette, rovesciando clamorosamente la logica della civiltà superiore. Con quest’autore si entra nella storiografia delle indie, e si va alla ricerca che procede per gradi e si arricchisce formando l'interesse di tutta una vita. Colombo e Cortés contavano unicamente, forse in modi diverse, sul linguaggio di fatti e di cose; Las Casas, costruisce attorno ai fatti e alle cose muraglie di avvertimenti, valutazioni e riflessioni teoriche, armature di classificazioni e suddivisioni. Il suo io narrativo è riassorbito nel mare della storia, di cui non scandisce più i tempi. Attorno alla cronaca della conquista nasce ora il problema di una forma letteraria precisa. Nelle 16 L’ETA DI CARLO V ‘cartas’ e ‘relaciones’ il problema non si poneva neppure; Las Casas avvia fonda prima il disegno narrativo, o didattico, e poi vi cala dentro la sequenza di fatti. La “Apologéetica historia” è divisa in 267 capitoli che corrispondono a una completa illustrazione dei costumi, modi di vita e credenze religiose dei popoli conquistati, secondo specie e sottospecie diverse, e nel rispetto di criteri che ricordano molto le tecniche prostatiche della didattica medievale. Il punto d'incontro è sempre lo stesso: la straordinaria capacità di tenere lo sguardo aggrappato alle circostanze minute e alla vita delle cose in sé. Las Casas, procede per associazioni più che per opposti, per differenziazioni più che per antinomie, illustrando la morigeratezza degli indios, facendo una larga digressione sulle ‘potencias interiores aprehensivas’ in tutto consona linguaggio della teologia scolastica, ma la risolve in un accurato inventario di cibi, bevande e condimenti, che introduce rapidamente nella dimensione della vita domestica. Allo stesso modo, è di scena la cavalleria: non come traslato vago e immaginoso, ma come istituto che si vuole storicamente omologo rispetto a quello indio del Tecuitl. La ‘leyenda negra’ della dominazione spagnola in America, è una scintilla che scoppia all’interno di un ampio e generale dibattito, durante il quale l'imperialismo carlista, sostenuto dai cesariani, entra in conflitto aperto coi principi dell'etica erasemiana . Sono in gioco il diritto di guerra e di conquista, la personalità giuridica, in senso cristiano degli indios, la liceità del potere che si esercita su di essi da parte degli spagnoli. La disputa allarga già nei primi 50 anni del secolo; l'atto di accusa non è solo sulle labbra del ‘clerigos’; fra i teologi di professione dogmatica se ne fa portavoce Francisco de Vitoria, e ne derivano testi, contrasti e polemiche interminabili. La ‘quaestio de Indiis’ diventa uno dei nodi della spiritualità riformata dell'età imperiale, e si proietta sull’intera civilizzazione spagnola del nuovo mondo. il fatto che la condanna si propone, come ‘pars destruens’ di una grande epopea, fa di essa un atteggiamento minoritario: almeno in Spagna la nuova storiografia si muove nel senso opposto della legittimità del dominio spagnolo e di un diritto fondato sulla superiorità della razza. È il caso di Gonzaldo Fernandez de Oviedo, il quale ottenne il ruolo di cronista ufficiale d’America; a lui si deve la prima ‘Historia general y natural de las Indias’, poderoso excursus enciclopedico che comincia a stamparsi nel 1535. La particolarità di quest'opera sta nel fatto che il cronista può collocarsi dinanzi alla natura, ai costumi e agli oggetti locali con sguardo, di prolungata e libera osservazioni, egli non è privo di scrupoli morali nei confronti degli indios. Alcuni argomenti dei primi capitoli spiegano come fatta l'isola e come ci vivono gli indios, e i costumi che hanno; come si fa il pane; quali sono i riti di guerra dell'Indios; come si seppelliscono i re, e così via. È la lunga serie degli animali e delle piante: con la realtà propria. La verità è che in questi primi cronisti c'è un ulissismo spontaneo, prima di essere un fatto etico vi è un impulso a guardare e ad annotare. I viaggi si susseguono interrotti, la conoscenza dei territori e dei loro abitanti comincia a uscire dalla fase della conquista guerreggiata per entrare in quella del contatto individuale. ‘L’adelantado’ Alvar Nùnez Cabeza de Vaca e la cronaca memoria che ne deriva sembra il modello vissuto di un romanzo ottocentesco, storia di protagonisti solitari della propria avventura, emarginati dei segni della civiltà europea e per la prima volta in balia di una natura sconosciuta e dei suoi favolosi abitanti. Alvar Nùnez non scrive di sé all'interno di un esercito organizzato o mentre svolge le sue funzioni di governatore a palazzo. Questo tramite si rompe nel momento in cui egli rimane isolato, con un pugno di uomini, in una costa della Florida, ed è qui prende le mosse della sua relazione: è importante anche solo il fatto di averla delimitata nel tempo e nello spazio di una peregrinazione che non è un atto di colonialismo né un episodio di guerra. Tornato dall’avventura dei ‘naufragios’ e nominato governatore del Rio de la Plata, l'autore decide all'improvviso di raggiungere la sua sede con un lungo e rischioso itinerario per via di terra, attraversando zone inesplorate del Brasile e del Paraguay. Questa volta sarà il suo segretario Fernandez a raccontare i particolari della nuova spedizione: ciò che conta è la nascita di una mentalità nuova a ridosso della conquista. 17 L’ETA DI CARLO V estese a ogni forma di spettacolo; ma l’apporto che dà al teatro spagnolo si realizzerà a un livello di scelte linguistiche, di stereotipi letterari, con particolare espansione dei generi drammatici. La tematica religiosa sarà aperta alle più aspre censure anticlericali, con una metrica cavalleresca già resa popolare del romanzo su scala europea. Una volta assunto lo spagnolo in un ‘auto’ o in una commedia, il drammaturgo vi penetra con la stessa carica di umore e di violenza che riesce a sfoderare nella lingua madre. Così il teatro di lingua spagnola si arricchisce di alcune fra le opere più incisive della sua storia grazie al contributo di un artista che lavora fuori dalla Spagna, all’ombra e al servizio di una corona che non è quella di Ferdinando il Cattolico o Carlo V. D’altronde quest’occhio è anche la migliore garanzia della modernità che cova sotto l’abito un po' arcaizzante, o tradizionalista dell’opera di Gil Vicente: ne svela quella tendenza al realismo quotidiano, di cui più tardi vorrà alimentarsi anche il teatro spagnolo dell'età barocca. Gil Vicente mostro anche un certo uso della tradizione che incontra sempre i favori del pubblico; e che certi meccanismi antichi funzionano ancora. Il suo apporto al teatro spagnolo del ‘secolo d’oro’ va oltre l'ambito delle scelte di lingua, la sua opera è come una prova generale della capacità dello spettacolo di assorbire temi e ingredienti del passato senza impedirsi la rivelazione di un mondo nuovo; luoghi comuni di sapore medievale, realismo quotidiano, tentativi di stilizzazione popolare delle scritture, incombono anche sul teatro propriamente castigliano. In Spagna mancano le grandi opere, ma tuttavia ritroviamo dei mutamenti decisivi nel rapporto col pubblico, e sono tali che può metterli in luce anche una serie di mediocri commedie umanistiche. Il teatro diventa una delle espressioni culturali della città, creando una dimensione nuova. Torres e Gil erano stati dei drammaturghi di corte. Ora una parte dell'attività dei comici comincia a svolgersi ed acquistare prestigio muovendosi entro una mappa diversa da quella dei centri di potere, collaudando modi di recitazioni repertori avanti a un pubblico più vasto. L'assunzione dei ‘corrales’ (cioè di ampi cortili dei palazzi o degli ospedali pubblici) è l'evento più significativo di questa situazione nuova. Dalle sale della corte e dalle navate della chiesa si passa alla strada e alla piazza, e quindi all'interno di un nuovo perimetro. Si può dire che in questi anni proprio dai ‘corrales’ e dalla loro grezza volontà di comunicazione, si manifesta disegni più tangibili di un'integrazione dell'arte nella vita sociale, come ad esempio nelle rappresentazioni religiose, per lo più legate le feste di precetto, che assicurano l'ampia partecipazione di più classi sociali, grazie al linguaggio figurativo carico di effetti e un didatticismo rapido ed elementare. I carri allegorici, che raffigurano Gesù, la Vergine e i santi, si fermano davanti alle case dei notabili, dove gli attori in seduta stante rappresentano un episodio delle sacre scritture; l'aspetto religioso si identifica così finalmente con quello spettacolare e musicale. Agli ultimi anni del Regno di Carlo V risalgono i più antichi esemplari di quegli ‘autos viejos’ del codice di Madrid che soprattutto agli inizi del regno di Filippo II, porteranno i segni di una propaganda religiosa di stile contro riformistico. Fino agli anni 30 e gli anni 40 verranno rappresentate le scene spagnole contro il clero non meno che contro luterani. La Lozana Andalusa. La satira anticlericale offre altre testimonianze che quelle dei comici e delle loro farse, la tendenza a penetrare nella vita domestica, fra le strade di una città e in mezzo ai traffici dei suoi abitanti, e cosa che richiede un impianto di discorso più mobile e complesso di quello che può offrire il teatro in versi dei 20 L’ETA DI CARLO V ‘corrales’ e delle allegorie figurate. Questo lo dimostra il “Retrato de la lozana andalusa” di Francisco Delicado, affresco della vita dei bordelli e delle cortigiane della Roma cinquecentesca, scritto con moduli narrativi e con una lingua che lo pongono subito in una situazione si stravaganza rispetto alla letteratura coetanea. Delicato, fu un chierico cordovese che si trasferì in Italia, viene subito visto come un esempio di anticonformismo letterario olimpico e radicale, con quest'opera scrive un'opera quasi sperimentale, esplosiva per la singolare sfida che lancia alle più prevedibili scelte culturali e linguistiche. La sua prosa non paga tributi evidenti alla retorica classica. L'interesse della Lozana sta altrove: pensare di vestirla coi panni di un qualsiasi genere romanzesco o teatrale, è come privarla della sua più schietta vitalità. Delicado è partito proprio da questa negazione di una scelta risoluta e da un atto di disobbedienza; il vero protagonista del libro è la marginalità dell’esistenza in un contesto sociale privo gli eroi. Ma all'interno del romanzo non troviamo zone di riposo, e non siamo edificati da riscatti di eloquenza e di saggezza; tutto nel libro procede senza soste, il racconto si identifica con la misura di una squallida esperienza suburbana, i suoi tempi sono quelli del vissuto di una giornata, la sua lingua sembra sgorgare da una comunicazione orale trascritta più che da un'invenzione culta. L'andirivieni, in questo caso, è il perno della struttura dell'opera. Quest'opera nasce dal dispettoso divertimento di un letterato escluso, di un chierico irregolare che trasporta nella finzione tutto le esperienze della sua cultura disadattata: il risentimento dell'ebrea in esilio, che ritrova fuori dal suo paese una mentalità di mercante e poi esibire una certa dottrina di medico e di guaritore, la pratica quotidiana dello straniero che si fa avvezzo ai costumi del luogo e alla frequentazione di fattucchiere e bordelli. È possibile capire che da questo gruppo di elementi deriva una sfida alla cultura ufficiale, un qualcosa come un primo esempio di rovesciamento dell’ispanocentrismo nel folclore dell’età asburgica. Fra narrativa e satira lucianesca: il ‘crotalòn’ e le ‘transformaaciones’. Negli ultimi decenni del regno di Carlo V, la parte più inquieta della cultura spagnola si esprime diversamente, essa procede sul filo di una professione di fede erasmista disingannata o ridotta al silenzio. Verso la metà del secolo esplode la satira sociale, si presenta ancora nella forma del dialogo; si tratta di un dialogo di stampo umanistico, poco a che fare con le chiacchierate della Lozana. I temi sono quelli dibattuti dalla cultura universitaria dopo la Riforma, e sul tronco della disputa si fanno luce spunti novelleschi sempre più rigogliosi, che arrivano ad assumere dimensioni di apologo, di breve romanzo. L’impianto del dibattito offre la copertura tradizionale e garantisce un sostegno, cosicché la rivolta si possa espandere, all’interno delle parti narrate. Molti dei dialoghi che fiorirono tra il ‘40 e il ‘60 presentavano queste caratteristiche. Verso la metà del secolo opere come il “Crotalòn”, “Dialogo de las transformaciones”, “Viaje de Turquìa”, presentano un rapporto precario col pubblico. Per il “Crotalòn”e “Transformaciones”, l’identità dell’autore è ancora avvolta nel mistero. Il “Crotalòn”, si colloca in un’area ben precisa della letteratura erasmista; l’autore sconosciuto non si limita a generiche censure contro i potenti, ma adatta personaggi e situazioni delle sue opere a un altro genere di moda del 500: la satira di ispirazione lucianesca, ed è questo uno dei punti focali nell’incontro fra il mondo classico e l’umanesimo più critico e spregiudicato. 21 L’ETA DI CARLO V La finzione è quella del mito: reincarnazione, metamorfosi, sono temi già presenti nella letteratura medievale. il “Crotalòn” e “Transformaciones”, raccolgono l’eco di questa attrattiva, con un filo di emozione. Un incentivo alla satira più unico che raro si nasconde nell’idea della pluralità delle vite. Quando il protagonista di un’opera cambia volto così spesso, insieme si moltiplicano le occasioni di viaggio in più mondi, classi sociali, epoche e misteri; questi nuovi eroi vengono mossi da un istinto che li spinge a guardare oltre le porte chiuse dei palazzi. Più tardi il barocco, non si lascerà sfuggire l’occasione di un’esperienza tale, tant’è che la porterà al livello di un meccanismo perfetto. Il “Viaje de Turquìa”. Qui la sequenza delle escursioni e dei viaggi e i conflitti fra i personaggi dialoganti danno vita a un’opera ricca di materiali eterogenei, ma tenuto tutto sotto il controllo di una saggia economia strutturale e di una cultura più raffinata. Laguna, medico e scienziato di fama europea, umanista di formazione erasmiana, si offre come candidato ideale a dar un volto all’anonimo creatore del Viaje; frequenta le università di Salamanca, Parigi, Colonia, Bologna, inoltre scrisse le sue opere fuori dalla Spagna, e stabilisce contatti coi circoli umanistici di Francia, Fiandra, Germania e Italia; ritorna in patria pochi anni prima della sua morte. Negli anni più maturi, il suo vagabondare per l’Europa diventa parte avventurosa di questo Viaje in forma dialogata. Malgrado la varietà, il racconto non ha un vero e proprio andamento romanzesco, la storia individuale può lasciare il passo a lunghe descrizioni di città, costumi, modi di vita dei turchi o degli italiani. Ciò che spinge il pellegrino a soddisfare la curiosità dei suoi compagni è un’ansia di documentazione più forte del coinvolgimento stesso nell’avventura. Il dialogo si sviluppa con l’eleganza di una dissertazione su cose rare, o mai udite, di una relazione oggettiva su modi sconosciuti: “mi ha stancato di più raccontarvi il mio viaggio che farlo”, disse Pedro verso la fine del racconto, eppure alle nuove domande dei compagni, non esita a riprendere il discorso sulla vita dei turchi come in un lento riepilogo, illustrandone via via le pratiche religiose familiari, giustizia, alle norme del potere, l'esercito, alle armi, la mobilia, con un zelo informativo. Il valore del Viaje, non si esaurisce nell’informazione esatta su una materia che era di moda in quegli anni; la Turchia di Laguna, e cosi l’Italia, fanno da teatro a un confronto di culture da cui trapela la crisi del centralismo ispanico in Europa. Il senso di superiorità della propria cultura non gli impedisce di vivere la ‘stranezza’ degli usi ottomani con la partecipazione di un visitatore coinvolto; nella satira sui medici e sulle loro pratiche mette in discussione il concetto stesso di scienze, e non ha peli sulla lingua in materia di corruzione del clero. Il tema iniziale dell’opera è quello del ritorno: il dialogo comincia quando la peregrinazione è finita. Lo sguardo sulle cose di Spagna diventa, uno dei motivi di fondo di questo libro che parla, per 4/5, della Turchia e dell’Italia. Alla curiosità dei due compari, si intreccia la sua ansia per questa Spagna ritrovata che è subito per lui fonte di stupore e di riflessione. Prima che incominci il racconto si conversa di ciò che è accaduto in patria durante gli anni di assenza; si parla di frati, di mendicanti, di poveri in cerca di asilo. Sono solo pagine introduttive al racconto dei viaggi, ma ne formano anche la cornice ideologica. Il “Lazarillo de Tormes”. 22 L’ETA DI CARLO V 3) Ma successivamente eccolo alle prese con un nuovo padrone: uno scudiero con tanto di cappa e spada, col quale sembra che non debba far altro che andare avanti indietro per le vie di Toledo e rispettare il decoro di certe forme, ma questo è povero e gli abiti sono vecchi e bisogna portarli con un sussiego che incute rispetto, la casa è vuota di mobilia e di suppellettili, non c'è denaro per far la spesa e ogni giorno si fa finta di aver mangiato. Il nuovo signore e di modi così gentili ed amabili che a Lazàro non viene in mente di beffarlo poiché lo vede già come una persona ridicola provandone perfino pena. Finché un giorno il cavaliere se la svigna per non tornare mai più, e poco manca che il ragazzo non debba patire per lui le vendette dei creditori. Altri 5 padroni gli toccheranno prima che possa giungere al compimento della carriera di servo: 4) un frate mercedario, gran trafficante consumatore di scarpe per il continuo viaggiare; 5) uno spacciatore di bolle per le indulgenze virgola che esegue ingegnose trovate per rifilarle la sua merce ai fedeli; 6) un maestro pittore di tamburelli 7)un cappellano virgola che lo manda in giro per la città a vender acqua in uno archo 8) e un ‘alguacil’ che cerca di farne uno sbirro A questo punto Lazzaro è ormai un giovanotto ed è passato, nel suo addestramento dalla fase dell'astuzia e dalla vigilanza istintiva a una più solida mentalità commerciale: trova un buon impiego come banditore di vini per conto di un arciprete, e riesce a mettere assieme un po' di denaro e si procura anche una moglie, sposando la serva del suo facoltoso padrone, e adattandosi, in cambio di un sicuro benessere, al ménage a tre che la nuova situazione comporta. I meccanismi del racconto. Per capire come si è formato, un romanzo, bisogna tener conto che dietro le singole avventure c’è un’ampia tradizione folclorica, ricca di motivi di satira e realismo, spunti della novellistica medievale, personaggi e farse, ‘fabliaux’, e persino motti e proverbi che incombono sulla prima pagina bianca del Lazarillo. Il Lazarillo ha un rapporto simile a quello di un'opera storiografica organizzata rispetto a una tradizione di piccole cronache e documenti disseminati nel tempo. Le rubriche ci dicono che ad ogni ‘tratado’ o a ogni capitolo, corrisponde grosso modo un servizio di Lazzaro. Ogni episodio è sentito come unità strutturale che correda un principio ad una fine e dà luogo a un intervallo fra sé e l'episodio successivo; nel Lazarillo manca ogni traccia di cornice esterna, ogni legame fittizio tra le parti, dal momento che non vi è un narratore è né un moralista che debba introdurre le sue storie giustificarle. Il narratore, è anche l'eroe, il protagonista di ogni nuovo racconto, e chi salda una storia con l'altra è lui stesso: ogni avventura forma con tutte le altre quel continuum definito romanzo. Ci sono nel Lazarillo due moduli narrativi in uno solo: da un lato siamo praticamente alle soglie del romanzo moderno; dall'altro ogni storia di Lazzaro si realizza di ‘tratado’ o in ‘tratado’, obbedendo a una logica elementare che ancora quella della tradizione favolistica. C'è uno schema binario servo-padrone, in cui il servo figura come costante, mentre i padroni si avvicendano, e c'è una trama di opposizioni che ruota attorno a un tema centrale, la fame, assumendo i modi che di volta in volta impongono la personalità dei padroni, le circostanze e l'ambiente. Alla luce di questo schema la parte più estesa del romanzo può essere definita come quella della violazione di una forma chiusa: prima è la sacca di tela dove il cieco richiude il pane e tutte le altre cose, poi la brocca del vino, oggetti che sfilano in una progressione di misura e di consistenza amplificando sempre più i meccanismi di violazione da parte di Lazzaro e l'entità dei castighi che egli subisce. 25 L’ETA DI CARLO V Il Lazarillo valorizza all'estremo una dinamica di oggetti materiali, corposi localizzati uno spazio e in un tempo; lo stile si fonda su una semplice relazione fra cose: i personaggi comunicano fra loro attraverso gli oggetti e benché l'eroe sia di famiglia contadina e viaggi da un punto all'altro della Castiglia, la natura come paesaggio stagioni, è quasi assente dei suoi ricordi: si può ricostruire una mappa dell'itinerario di Lazzaro ma non si va oltre i nomi di poche città e villaggi, questo perché il motivo è semplice, Lazzaro non allude alla natura perché non ha il tempo di scoprirla, di inserire negli spazi aperti nella tensione della sua storia ed è per questo che non nomina né città e né i corsi d'acqua, tranne che per il Tormes, e un ruscello che gli serve per ingannare il cieco all'uscita da Escalona. È che egli ha compiuto un lavoro di semplificazione e di snellimento; alle spalle del romanzo non ci sono solo le piccole farse medievali, ma vi è anche l'astuzia e la crudeltà, la ruffianeria e il senso del profitto, le ambientazioni suburbane o popolari del teatro del primo Cinquecento. La prosa dell'opera rinuncia a un tipo di violenza figurativa per una violenza non meno radicale: una violenza oggettiva in agguato nelle cose di ogni giorno più che in quelle che la fantasia e la parola disegnano già come difformi, insita nella storia vera o verosimile di un uomo più che nella rabbia linguistica, nel furore immaginativo di un autore. I servizi di Lazaro, parodia di un processo educativo. L’autore del Lazarillo non è uomo da versare lacrime o intonare sermoni sul male della società; guidato da un buon senso, non trova di meglio che prestare alle avventure del suo eroe i modi, di una carriera mondana. Egli fa in modo che la serie di furti possa essere letta, come storia di un addestramento alla vita, come un lungo processo educativo che ha per oggetto, il soddisfacimento dei bisogni primari. Gli istituti sociali assenti e l’eredità del romanzo picaresco. Da qualsiasi parte nel romanzo emerge una cosa molto importante: la fame di Lazaro de Tormes, che storicamente datata. Quella del libro di intrattenimento è un'etichetta che l'autore esibisce con blanda ipocrisia di umanista; il suo tono divertimento colpisce nel segno perché simulato: perché nasconde dietro la sequenza discreta dei ritratti e la finta innocenza da letteratura per l'infanzia, un’acre e sfiduciata concezione del mondo. La prima morale che lettore apprezza nello schema del rapporto servo-padrone è quella del castigo; l'ultima morale che ci viene proposta in ordine di tempo è il naturale corollario della prima, solo quando l'eroe, ormai adulto, riduce i margini di errore nella conquista del profitto, viene premiato con inserimento sociale col benessere. La rinuncia all'onore all'innocenza equivale per lui ad 'arrimarse a los buenos'; è la patente che lo introduce nel mondo degli onesti, ‘los buenos’, gli onesti, sono nell'ultima morale del romanzo i ricchi e i potenti, cioè quelli che commerciano abilmente, possedendo una casa signorile e godendo le mogli dei propri servitori. Dietro l'educazione deviata di Lazzaro, c'è un ambiente anch’esso formato da personaggi disadattati o corrotti, i quali non possiedono un retroterra di cultura e lo prendono in prestito alla società istituzionali di cui stanno i margini. Il rapporto tra il protagonista e i padroni acquista il significato ulteriore di un inventario di ruoli sociali che usurpano, la loro identità. Il primo a dimostrarlo è lo stesso Lazzaro, iscritto formalmente nella categoria dei servi, egli assolve ad alcuni compiti precisi, ma allo stesso tempo è disegnato come l'apprendista di ‘un'arte del vivere’, ed è vissuto unicamente in funzione di quell'arte. Accompagnare il cieco, servire messa al prete, far da valletto allo scudiero: mansioni dietro le quali si suppongono gesti inconfondibili, competenze, lessici adeguati. Eppure lo scrittore si limita a pochi cenni frettolosi. 26 L’ETA DI CARLO V Questo cieco del Lazarillo è una Celestina ulteriormente spregevole, che conserva qualche nozione di stregoneria, ma ha perduto la clientela signorile e lusso della retorica. Dalla sua cecità Lazzaro apprende la destrezza dell'inganno; ancor più evidente è la degradazione dei ruoli sociali nel prete e nello scudiero. Il primo è una sentina di vizi del basso clero, ennesimo oggetto della satira; il secondo è un fantasma di sé stesso: è la metafora vivente di un'apparenza di casta. Dovrebbe essere uno scudiero, ma per goderne i privilegi gli manca il requisito essenziale: un nobile cui prestare i suoi servizi. Non è un caso che i mestieri autentici e ruoli sociali si affaccino appena, e solo la fine del romanzo, quasi a suggellare un inserimento sociale del pìcaro i cui dettagli restano esclusi dalla narrazione vera e propria. Ma che senso hanno il padre e la madre di Lazzaro hai finito il racconto? In un'opera in cui tutti vivono e si nutrono di ciò che non sono e non hanno, ogni cenno in materia di vincoli affettivi e calcolato; il problema si avverte nei silenzi, è chiaro che sul destino del pìcaro pesa un’originaria mancanza di paternità dove il protagonista è il primo fanciullo orfano della letteratura moderna. L'esistenza di un padre, benché solo accennata, è un perno della sua vita proprio in quanto sussiste come previazione ed assenza. È un viaggio senza ritorno: e lascia un voto che si proietta in modo latente non solo sull'infanzia di Lazzaro ma sul significato stesso delle sue avventure. Scomparso il vero padre nasce di fatto una piccola serie di paternità sostitutive: l'amante della madre, il cieco, lo scudiero, che secondo la morale comune, il padre è per definizione uno solo, e i padri di Lazzaro sono molti; del padre si invoca e si rispetta l'autorità, e Lazzaro ne conosce solo la ferocia o l'inconsistenza, se ne prendono affetto e virtù, e degli ne riceve o strappa solo di che sfamarsi. Ispirato inizialmente al dramma della fame, il Lazarillo, si congeda dei lettori come romanzo della solitudine affettiva. L'assenza del padre, la rinuncia alla madre, e l'adulterio della moglie come prezzo del benessere di garanzia di matrimonio stabile, sono i motivi che fanno da cornice la parabola economica del servitore randagio: in merito al suo matrimonio, egli non solo chiude un occhio sull'arrangiamento coniugale che gli viene imposto, ma se ne fa custode per il suo vantaggio, con una specie di sfrontata e sorridente saggezza da eroe settecentesco. È l'ultimo tocco di genio dell'artista: costruire un lieto fine sull'infedeltà coniugale e sul morso della solitudine, una vittoria sociale su un definitivo fallimento umano punto l'eredità del Lazarillo e raccolta dei continuatori del Cinque e del 600 con scarti e modifiche strutturali anche profonde. A garantire la fortuna del nuovo romanzo c'è la vitalità di questo personaggio, inteso come eroe precario che sta al centro di un sistema di opposizioni. Il suo successo si fonda anche sulla ripetibilità di alcuni schemi essenziali. 27
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