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Caroli-Gatti, Storia del Giappone (capp. 5-10), Schemi e mappe concettuali di Storia dell'Asia

Riassunto dei capitoli dal 5 al 10 (da Oda Nobunaga ai giorni nostri) del volume "Storia del Giappone", Caroli-Gatti.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2022/2023

Caricato il 17/09/2023

UmbertoLongo
UmbertoLongo 🇮🇹

4.6

(90)

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Scarica Caroli-Gatti, Storia del Giappone (capp. 5-10) e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia dell'Asia solo su Docsity! STORIA DEL GIAPPONE INTRODUZIONE Gli europei in Asia orientale fino al Settecento si limitarono a rapporti commerciali, subendo anche un fascino per la cultura (soprattutto cinese). Un cambio di paradigma si ha col colonialismo: - una penetrazione commerciale attuata con gli strumenti propri del colonialismo e, se necessario, con l'uso delle armi, che incontrò forme di resistenza più o meno aperte e vigorose; - un tentativo di liberarsi dalla propria condizione di subalternità attraverso la ricerca del «segreto» della superiorità economica e militare delle Potenze, che aprì la strada a forme di imitazione quali l'industrializzazione, la modernizzazione o la «occidentalizzazione»; - il consolidamento di una coscienza nazionale e lo sviluppo di movimenti di liberazione nazionale che avrebbero aperto la strada a rivendicazioni anticoloniali e a prospettive di indipendenza. A partire dagli anni Ottanta del diciannovesimo secolo, la transizione dal colonialismo all'imperialismo coincise con la trasformazione degli obiettivi dei Paesi occidentali (non più limitati all'ottenimento di nuovi mercati e aree di investimento, ma volti piuttosto ad acquisire il diretto controllo delle fonti di materie prime ricorrendo a nuove forme di penetrazione economica, dirigendo un crescente flusso di investimenti di capitale nelle colonie e mantenendo le regioni periferiche in condizioni di subordinazione), implicando un ulteriore decadimento dell'Oriente agli occhi del mondo europeo. Le visioni nazionaliste, xenofobe e razziste sorte allora perdurarono fino alla metà del Novecento. Dagli anni ’70 fine della visione eurocentrica (con qualche rimasuglio) negli studi sull’Oriente. Per Asia Orientale si intende un'area geografica comprendente alcuni Paesi (Cina, Corea, Giappone e Vietnam), i quali presentano taluni caratteri culturali comuni, trasmessi da un centro verso le zone periferiche attraverso una specifica forma di relazioni interstatali. Per molti secoli, infatti, l'ordine «mondiale» nella regione fu dominato dal sistema tributario, il quale si articolava attraverso una rete di rapporti gerarchici atta a regolare i contatti intrattenuti dalla Cina con le popolazioni esterne. La diffusione della cultura cinese verso le zone periferiche non si presenta, dunque, come un fenomeno spontaneo, rientrando in un processo che vide, da un lato, l'edificazione di un governo imperiale in Cina e la definizione di un sistema sinocentrico di relazioni interstatali e, dall'altro, l'attiva partecipazione a questo ordine «mondiale» da parte degli altri Paesi della regione; centralità della diffusione della scrittura cinese come mezzo di comunicazione regionale. Nato e sviluppatosi in Cina, il Confucianesimo fu orientato a interessarsi all'ambito filosofico, etico e politico più che alla sfera religiosa, e fu rivolto in primo luogo alle élites dominanti, di cui riflette mentalità e interessi, caratterizzandosi come un pensiero al servizio del potere politico. Esso concepiva un ordine sociale coerente, dove al governante era richiesta una condotta esemplare che fungesse da guida morale per il popolo, mentre i governati erano vincolati al rispetto delle norme di condotta consone alla posizione che essi occupavano. L'armonia sociale era garantita a condizione che l'ordine prestabilito non fosse alterato, prefigurando così una società con un alto grado di immobilismo e di conservatorismo. I tributi offerti alla Corte imperiale cinese come segno di sottomissione erano in genere ricompensati con generosità, mentre i rapporti con una civiltà che, sotto il profilo delle istituzioni politiche, economiche, sociali e culturali, appariva assai avanzata consentivano agli Stati tributari di beneficiare dei progressi compiuti dalla Cina in vari campi. Differenze tra concezione divina cinese (“mandato celeste”, alternanza di dinastie) e giapponese (la dinastia è divina in sé). [Digitare qui] Lo sfruttamento della terra restò l'attività economica prioritaria sino all'inizio del secolo scorso, e le risorse della terra rappresentarono per molti secoli l'unica fonte di sostentamento, oltre che di ricchezza e di potere. Ciò contribuisce a chiarire una serie di fenomeni storici che si ebbero in Giappone; ad esempio, la ragione per cui il potere politico andò consolidandosi nelle grandi pianure alluvionali, specie nel Kinai (dove sorsero le antiche capitali imperiali) e nel Kanto (sede di due importanti governi militari, a Kamakura e a Edo). In effetti, il processo storico giapponese appare essere stato in buona parte caratterizzato da un fattore costante e ricorrente: l'aspra contesa per il controllo di un territorio coltivabile con confini stabili da parte di una popolazione in crescente aumento. La posizione geografica dell'arcipelago giapponese ha condizionato le modalità e la frequenza dei contatti con il mondo esterno. Da est, esso non ha ricevuto alcun influsso determinante sino a tempi storici recenti, costituendo l'Oceano Pacifico un ostacolo. Rispetto al continente asiatico è situato in una zona periferica, sebbene ciò non abbia comunque impedito un proficuo contatto con le società dell'Asia Orientale e, pur se in misura assai minore, con quelle dell'Asia Centrale e del Sud-est asiatico; la penisola coreana ha storicamente rappresentato la principale via di transito di idee, cultura, prodotti e persone. Religione shintoista: le due divinità genitrici Izanagi e Izanami crearono l'arcipelago giapponese immergendo una lancia nell'acqua e lasciando cadere numerose gocce che si trasformeranno in altrettante isole, oltre a generare Amaterasu, la dea del Sole dalla quale la stirpe imperiale pretendeva di discendere. Una cosmogonia che non riguardava il mondo ma solo il Giappone; dinastia fondata attorno al 600 a.C. Coesione nazionale e pilastro dell’identità del popolo giapponese, che accentua l’isolazionismo già forte della sua insularità. Nengo: tradizionale sistema di datazione. Di origine cinese, esso riservava alla Corte imperiale la prerogativa di decidere l'inizio di un'era, alla quale veniva assegnato un nome che poteva riferirsi a un preciso evento o avere un significato puramente simbolico (prima volta 645 d.C., “era Taika”). A partire dal 1868, si affermò l'uso del cosiddetto "issei ichigen", secondo cui la durata di un'era coincide con il periodo di regno di ciascun sovrano. I grandi cambiamenti avviati sotto la guida dell'Imperatore Mutsuhito diedero così inizio all'era Meiji; l'ascesa al trono dell'Imperatore Yoshihito nel 1912 segnò l'avvio dell'era Taisho; quella dell'Imperatore Hirohito nel 1926 all'era Showa, mentre nel 1989, con la successione dell'Imperatore Akihito, il Giappone è entrato nell'era Heisei. Si affianca la datazione cristiana. La storiografia contemporanea ricorre alla terminologia del sistema di datazione imperiale, di per sé priva di significato storico, laddove essa si presta ad assumerlo: può esprimere la sintesi o la generalizzazione di un fenomeno, indicandone una fase esemplare o sintomatica, oppure il momento d'inizio, di transizione o di rottura. Dal Novecento fu suggerito di dividere la storia del Giappone in quattro grandi periodi: l'età dei clan o Yamato, antecedente al 645; l'età dell'aristocrazia civile, grosso modo corrispondente ai periodi di Nara e di Heian; l'età dell'aristocrazia militare, che aveva visto la sede shogunale passare da Kamakura a Muromachi e quindi a Edo; e infine l'età moderna avviata con la Restaurazione del potere imperiale nel primo anno Meiji (1868). L'AVVIO DELL'OPERA DI RIUNIFICAZIONE: DALL'ASCESA DI ODA NOBUNAGA AL REGIME DI TOYOTOMI HIDEYOSHI Il superamento dello stato di decentramento scaturito dalle contese del periodo Sengoku fu dovuto all’opera di tre daimyo, i quali estesero il controllo sull’area di Kyoto e sul resto del Paese. L’emergere di potenti daimyo fu stimolato dalla sfida lanciata dalle classi inferiori; il crescente ricorso a una nuova tecnologia militare, accrebbe ulteriormente la distanza tra quanti disponevano di risorse da investire nell’attività bellica e chi non era in grado di accedere all’uso di armi moderne. Da questo continuo confronto militare, emersero alcuni importanti capi regionali, i quali potendo contare sull’appoggio di daimyo minori, presero a nutrire l’ambizione di acquisire un potere più esteso. [Digitare qui] pur cooperando tra loro e sottostando ai vincoli imposti dal signore più potente, suggerisce l’idea di un feudalesimo centralizzato . Per quanto riguarda le attività commerciali, Hideyoshi proseguì la politica di libera circolazione delle merci eliminando le barriere locali, favorendo l’espansione del libero mercato e abolendo le corporazioni di mercanti. Ciò ebbe rilevanti riflessi sullo sviluppo dei centri urbani, dove furono edificati quartieri commerciali, alloggi per i samurai ed edifici religiosi. La sua ambizione fu palese soprattutto in politica estera, con il suo progetto di dominio sull’Asia, che egli tentò di realizzare ordinando ai suoi vassalli di mobilitare le proprie truppe per invadere la Corea . Lo scopo ultimo delle due spedizioni era finalizzato a conquistare la Cina; esse ebbero luogo nel 1592 e nel 1597, ma il loro esito fu compromesso dalla morte di Hideyoshi nel 1598. La ricchezza immessa nell’economia del paese e concentrata nelle mani dei grandi daimyo fu esibita attraverso un nuovo stile; abili artisti e artigiani specializzati decorarono gli edifici con oro, lacca colorata ed elaborati elementi architettonici e realizzarono paraventi, pannelli dipinti, pitture murali e sculture. Di minor pregio risultano essere le opere letterarie, nonostante si ricordi la traduzione delle favole di Esopo; agli europei si deve anche la diffusione della stampa, nel 1590, quando il gesuita Alessandro Valignano introdusse una stamperia a caratteri mobili di metallo, che contribuì a dare impulso alle arti popolari e all’allargamento del pubblico di lettori. L’iniziale tolleranza mostrata verso l’attività missionaria iniziò a mutare nel momento in cui il Giappone ritrovò una sua unità interna, come dimostrato dall’editto di proscrizione del Cristianesimo emanato nel 1587 e la violenta azione ordinata da Hideyoshi nel 1597 a carico di gruppi cristiani. Hideyoshi aveva cercato di assicurare la successione a suo figlio Hideyori istituendo un consiglio composto da Cinque Grandi Anziani che, negli ultimi anni del suo regime, rappresentò il più alto organo di governo e, dopo la sua morte, avrebbe dovuto vegliare sul giovane erede. Ma né l’efficacia dell’organismo, né la lealtà dei suoi alleati sopravvissero alla sua scomparsa: mentre nel paese si riapriva una contesa tra i signori feudali, uno tra i 5 grandi anziani, Tokugawa Ieyasu, riuscì a prevalere sugli altri, realizzando la completa riunificazione del Giappone. L’istituzione del regime dei Tokugawa TOKUGAWA IEYASU (1600-1616) apparteneva a una famiglia che, attorno alla metà del XVI secolo, aveva acquisito la posizione di modesto daimyo nella provincia di Mikawa; nel giro di tre decenni, i Tokugawa avevano assunto il controllo su un’estesa regione del Giappone centrale. In seguito, egli aveva accettato di riconoscere la supremazia di Hideyoshi, che lo aveva allontanato dalla sua provincia di origine per trasferirlo nei territori nel Kanto. Egli scelse Edo per stabilire il suo quartiere generale. Ieyasu fu prescelto come uno dei cinque Grandi anziani che avrebbero dovuto assicurare al giovane Hideyori l’eredità paterna ma che, riaprirono la contesa per la supremazia militare del paese. Lo scontro decisivo si ebbe nel 1600, quando Ieyasu riuscì a sconfiggere i suoi rivali nella battaglia di Sekigahara divenendo il daimyo più importante del Giappone; tre anni dopo, la sua ascesa a capo del paese fu sancita con l’ottenimento del titolo di shogun . La vittoria conseguita nel 1600, non aveva posto fine alla resistenza di Hideyori, pertanto Ieyasu si mostrò cauto nei suoi confronti consentendogli di mantenere il castello di Osaka. Solo nel 1614 egli poté sferrare un attacco contro i suoi rivali, che furono sopraffatti dopo un estenuante confronto terminato l’anno successivo con la presa di Osaka. Ieyasu era ormai il capo [Digitare qui] Figura 3. Tokugawa Ieyasu (1600-1616) indiscusso del paese, e quando nel 1616 morì, le basi dell’egemonia della sua famiglia erano state fondate e il sistema di controllo del bakufu sugli han era istituzionalizzato. Il successo di Ieyasu a Sekigahara fu seguito da una profonda riorganizzazione dei possedimenti feudali nel paese, e i signori sconfitti videro scomparire o ridimensionare in modo considerevole i propri territori. L’esistenza di grandi signori feudali richiese la messa a punto di un sistema di controllo capace di garantire l’equilibrio tra l’autorità centrale e il potere dei daimyo. In primo luogo, egli stabilì una gerarchia tra i daimyo fondata sui vincoli di fedeltà tra questi e lo shogun. Una posizione elevata fu assegnata a un numero ristretto di fidati signori degli ‘’han imparentati’’ ai Tokugawa e in particolare, alle tre famiglie legate a Ieyasu da vincoli di parentela diretta; queste ultime portavano il suo stesso cognome e potevano contribuire alla successione del bakufu. Vi era poi il gruppo più numeroso costituito dai daimyo della casa dello shogun, e che erano considerati del tutto affidabili. Infine, i daimyo sottomessi dopo la vittoria del 1600, che furono riconosciuti come ‘’signori esterni’’. Con ciascun daimyo, gli shogun Tokugawa stabilirono un equilibrio di potere, fondato in primo luogo sulla concessione dell’investitura, cui corrispondeva un impegno di fedeltà ad Edo, sull’assegnazione dei territori e sulla loro distribuzione strategica nelle varie aree del paese. I territori che i Tokugawa si riservarono comprendevano importanti e feritili regioni, grandi centri commerciali e zone minerarie vitali. Lo shogun si serviva dei propri vassalli per amministrare questi estesi possedimenti, da cui traeva le risorse necessarie a sostenere il proprio governo e a garantire una posizione egemone nel paese. Lo shogun era il più ricco daimyo: il poco che restava era distribuito tra le istituzioni religiose, la famiglia imperiale e la nobiltà di corte. Tutto ciò rifletteva il nesso esistente tra rendita agricola e potere; su questa struttura di potere i Tokugawa fondarono la propria autorità, legittimata dalla delega dei pieni diritti di governo concessa dall’imperatore allo shogun. Si trattava di un riconoscimento formale che ben poco dipendeva dalla volontà del sovrano. Furono i Tokugawa a contribuire finanziariamente affinché la Corte fosse in grado di mantenere uno stile di vita consono alla propria posizione; allo stesso tempo, gli shogun disposero l’insediamento di un governatore nel castello imperiale a Kyoto, il quale era incaricato di mantenere i contatti con l’imperatore ma che di fatto servì a controllare l’attività della corte. Nel 1615 fu emanato un corpo di regole specifiche cui la famiglia imperiale e l’aristocrazia civile dovevano attenersi, che vietava al sovrano di partecipare agli affari di Stato, vincolava all’approvazione dello shogun la concessione di titoli imperiali ad alti funzionari e all’aristocrazia militare e regolava i contatti con le istituzioni religiose. Il capo di Edo aveva la facoltà di chiedere ai feudatari contributi di vario genere, quali l’invio di milizie in caso di necessità o di trasferimento dei fondi e manodopera da impiegare per la costruzione e la manutenzione di strade, ponti, castelli, residenze shogunali e imperiali. Inoltre stabiliva che, in caso di successione o di matrimonio, essi dovevano ottenere l’approvazione preventiva dello shogun; poneva un limite al potenziamento militare dello han; proibiva di aderire al Cristianesimo e disciplinava le modalità del sistema di ostaggi. Il sistema della residenza alterna a Edo rappresentò un efficace sistema di controllo sui daimyo, ai quali venne imposto l’obbligo di costruire una residenza nella capitale shogunale, dove essi dovevano dimorare per un certo periodo secondo scadenze fissate, e in loro assenza, lasciare i propri familiari e alti funzionari al loro servizio. Lo shogun operava con l’ausilio di due organismi: quello dei Consiglieri ‘’meno anziani’’ e quello dei Consiglieri anziani. Il Consiglio degli anziani era formato da quattro o sei membri selezionati, e a esso era affidata la gestione dell’amministrazione generale, tra cui quelle relative alla Corte imperiale, ai daimyo, alle istituzioni religiose, agli affari militari e a quelli esteri; aveva potere di intervento sulla tassazione e sulla distribuzione delle terre, era responsabile dell’assegnazione di titoli e onori, e disciplinava il conio e la circolazione monetaria; da questo organismo dipendevano i più importanti funzionari del bakufu. Il Consiglio dei meno anziani contava 3 o 4 membri prescelti di rango inferiore e aveva la responsabilità sulle questioni interne al governo Edo. In prossimità del castello di Edo fu pure stabilita un’Alta corte di [Digitare qui] giustizia. A livello locale, il controllo del governo di Edo era esercitato dagli intendenti delle finanze. Questo modello di amministrazione era ricalcato anche in ogni singolo han, all’interno del quale il daimyo godeva di un alto grado di autonomia, pur nei limiti imposti dall’autorità centrale. Signore delle terre e della popolazione del dominio, egli lo amministrava con la precisa responsabilità di mantenervi pace e ordine, assolvendo alla funzione di mediatore tra le norme generali e quelle locali. I guerrieri alle sue dipendenze erano iscritti in un registro personale, vincolati a lui attraverso un giuramento di fedeltà. Il daimyo governava attraverso un ufficio centrale delle finanze, un corpo di intendenti rurali deputati al controllo dei villaggi e il magistrato della città-castello che sorvegliava i distretti urbani. Le unità di villaggio si autogovernavano sotto un capo scelto a livello locale. All’interno dei villaggi fu mantenuto l’assetto stabilito da Hideyoshi e venne rafforzato il divieto di abbandonare, acquistare o cedere i terreni agricoli. I contadini furono organizzati in gruppi di famiglie, reciprocamente garanti del pagamento delle tasse e del rispetto di norme fissate. Fu questo, dunque, il sistema politico creato sotto i Tokugawa, si riscontra il carattere di un feudalesimo centralizzato, che gli storici giapponesi hanno designato come sistema bakuhan; gli stessi rapporti tra i daimyo e lo shogun erano di tipo feudale, essendo contraddistinti da un legame di fedeltà e da benefici fondati su un vincolo personale e politico. L’efficacia del sistema bakuhan dipese dalla capacità dei Tokugawa di garantire un equilibrio nei rapporti di potere con i grandi signori feudali e fu sorretto dall’adozione di appropriate misure sociali e di un’ideologia di regime finalizzate a mantenere lo status quo; sull’esempio cinese, la società era organizzata in una rigida scala gerarchica, che vedeva rispettivamente i guerrieri, gli agricoltori, gli artigiani, e i mercanti. La legislazione Tokugawa riconosceva pure l’esistenza sia di categorie privilegiate, come i religiosi e le monache, sia di gruppi di infima reputazione, posti al gradino più basso dell’organizzazione sociale. Ne scaturì una società fortemente differenziata, con una prevalenza di samurai, mercanti e artigiani nei centri urbani e la concentrazione di agricoltori nei villaggi rurali. Alla rigidità di questo ordine sociale contribuì la concezione secondo cui esso fosse regolato da una legge naturale irreversibile. Il pilastro ideologico dell’ordinamento politico e sociale fu rappresentato dalla dottrina sociale neoconfuciana , che servì ad avallare il potere dei governanti e a fornire una base etica per la condotta pubblica e privata dei giapponesi. I Tokugawa si dotarono di un ufficio di consiglieri confuciani e istituirono scuole confuciane. Il loro esempio fu presto seguito dai daimyo e gli studi confuciani divennero parte integrante nella formazione di ogni guerriero giapponese. Dopo la sua morte, Ieyasu fu divinizzato in un imponente mausoleo; ciò rientrava in una politica più generale, mirante a porre il sentimento e le istituzioni religiose al servizio del bakufu e dei suoi capi; infatti, le istituzioni buddhiste, il cui potere politico e militare era stato ridimensionato sotto i primi due riunificatori, furono ora economicamente indebolite. I Tokugawa, tuttavia, fornirono la loro protezione a questi sistemi spirituali; nondimeno il buddhismo servì a contrastare la diffusione del Cristianesimo, sottoposto a inquisizione religiosa che ricorse alla tortura e alla confisca dei beni dei fedeli. Il cristianesimo fu visto sempre di più come una pericolosa dottrina straniera, che contrastava con l’assetto dato dall’organizzazione politica, sociale e religiosa. In realtà, Ieyasu aveva assunto un atteggiamento indulgente verso i missionari europei, dato il suo interesse a spostare i traffici marittimi dai porti del Kyushu ad Edo. Ieyasu favorì il commercio estero, oltre che con portoghesi e spagnoli, egli cercò di trattare anche con gli olandesi e gli inglesi. L’istituzione di restrizioni sul commercio estero, che nel 1616 fu circoscritto ai porti di Nagasaki e di Hirado, procedette di pari passo con l’imposizione, nel 1612, di limitazioni sulla fede cristiana, pur tuttavia diffusa tra alcuni daimyo del Kyushu e tra i vassalli dello shogun. Fu sotto i suoi due successori che l’intolleranza verso il Cristianesimo assunse toni aspri e violenti. Nel 1639 furono espulsi i portoghesi, due anni dopo gli olandesi furono confinati a Dejima e i cinesi relegati in un quartiere di Nagasaki. Nel 1635 ai giapponesi era stato fatto divieto di recarsi fuori dal paese, e a quanti si trovavano fuori dal paese, di ritornare in patria. Il Giappone entrava così nell’era Sakoku (espressione che significa Paese [Digitare qui] sistema economico-sociale dei Tokugawa. Uno dei sintomi più evidenti del malessere è rappresentato dalle rivolte popolari che costellarono la storia del Giappone con crescente frequenza, il cui rilevante numero (oltre 2500) sembra mettere in discussione la definizione di ‘’pax Tokugawa’’. Paragrafo 4 Se buona parte del regime dei Tokugawa fu caratterizzata dalla limitazione dei contatti con il mondo esterno, in questo periodo si ebbero mutamenti significativi per quanto concerne l’organizzazione politica, la struttura sociale, l’assetto economico e l’ambito culturale, i quali segnarono la transizione del Giappone al mondo moderno. E’ evidente come nel periodo Edo risiedano le basi del rapido sviluppo che il Giappone Meiji conobbe in ambito economico-sociale, come in quello culturale. Le condizioni del paese all’inizio dell’era Sakoku differiscono per molti e rilevanti aspetti da quelle riscontrabili nella fase in cui esso ripristinò i contatti esterni. La marcata crescita economica che si registrò nel corso di tutto il periodo fornì nuove opportunità alla distribuzione della ricchezza; ciò introdusse una serie di elementi politicamente e socialmente destabilizzanti , com’è testimoniato dall’arricchimento sia di una parte della classe contadina che investi le eccedenze in attività extra-agricole, sia delle categorie legate alle attività commerciali e poste ai livelli inferiori del sistema mibun, da cui sempre più spesso vennero a dipendere economicamente i samurai. Questi ultimi, nonostante occupassero uno status sociale elevato, beneficiarono solo marginalmente del progresso economico disponendo di un’unica fonte di reddito, costituita dagli stipendi di riso. Edo si era trasformata nella più estesa metropoli del paese, con circa un milione di abitanti; divenne anche il nucleo economico e culturale del Giappone. Le città-castello vennero così a essere popolate da una varietà di persone che condividevano uno stile di vita urbano, oltre a numerosi svaghi e interessi comuni. Nell’esistenza quotidiana, la classe guerriera risultò essere meno separata dal resto della società di quanto imponessero le rigorose barriere istituite dal sistema mibun. E’ vero che il governo centrale e locale era nelle mani della classe militare, trasformata in un corpo di burocrati che deteneva il monopolio delle funzioni amministrative al di sopra dei mura e dei centri urbani; la classe militare era costituita da amministratori stipendiati che risiedevano nelle zone urbane, vincolati ai loro compiti di governo da uno status ereditario, essi mantennero il potere politico e una posizione sociale privilegiata nel corso di tutto il periodo Edo, anche se la loro condizione economica mostrò evidenti sintomi di vulnerabilità a causa dell’ascesa dei ceti urbani e mercantili. Eredi della nobile tradizione militare, essi godettero del diritto esclusivo di portare due spade. La classe militare si trasformò in un’élite istruita , che si raccoglieva nelle scuole fondate nei vari han per coltivare gli studi confuciani, compilare storie locali e nazionali di rilevante valore, sviluppare nuovi campi di indagine in ambito filologico, dell’antichità e di critica letteraria. Nel complesso, i samurai diedero al paese un governo autoritario e rigoroso, ma di rado arbitrario e nel complesso efficace, dato che i diritti e i doveri di ciascun individuo erano rigorosamente stabiliti; inoltre, secondo la dottrina confuciana, il compito di garantire un governo benevolo attraverso l’esempio personale era stato affidato loro dal cielo e costituiva una responsabilità non solo politica, ma anche morale; ciò, assieme alla rigida separazione delle classi e al rispetto delle relazioni confuciane era finalizzato a garantire l’armonia sociale e la stabilità politica. Il Neoconfucianesimo era orientato a disciplinare anche la sfera privata dell’individuo, il quale fu educato a coltivare le virtù di pietà filiale e di lealtà e obbedienza. Le leggi suntuarie stabilivano, per ogni classe sociale, precise norme che regolavano vari aspetti della vita, dal comportamento, dall’abbigliamento e dalla tesaurizzazione consentita sino alle attività di svago e all’opportunità di accesso all’istruzione e alle espressioni culturali, anche se l’applicazione di tali regole si scontrava spesso con le nuove condizioni createsi nella realtà cittadina. Il progresso economico produsse un generale innalzamento del livello di vita , che fu accompagnato dall’allargamento dell’istruzione e che contribuì a trasformare in modo significativo i costumi, le abitudini e il sistema di valori giapponesi. [Digitare qui] L’accresciuta possibilità di accesso all’istruzione fu resa possibile dalla creazione di numerose accademie private, finanziate dall’amministrazione degli han e aperte anche ai giovani di estrazione non samuraica; ciò consenti anche ad agiati mercanti, artigiani e contadini di acquisire un livello di istruzione superiore. La crescita del tasso di alfabetizzazione è testimoniata dall’ampia circolazione di manuali di agronomia nelle zone rurali, così come dalla rapida diffusione di opere destinate a un pubblico di lettori sempre più ampio. I centri urbani rappresentarono la culla di una nuova e vivacissima cultura popolare sviluppatasi a partire dalle grandi città del Giappone centrale e diffusasi via via anche nelle realtà urbane minori. Espressione dei gusti e dei valori di una ‘’borghesia’’ cui era precluso l’accesso alla sfera politica e amministrativa e l’avanzamento nella gerarchia sociale, la cultura chonin si orientò in genere verso la ricerca di ciò che risultava essere piacevole e divertente. Una visione effimera della vita, che imponeva di cogliere l’immediato godimento di una realtà sfuggente, tale ideale veniva espresso in varie forme: nelle stampe e nei dipinti; nella narrativa popolare; nel teatro dei burattini; nella poesia haiku. L’apogeo della cultura chonin è rappresentato in primo luogo dall’era Genroku (ultimo decennio del Seicento), quando Edo si era ormai trasformata in una grande e affollata metropoli. Il mondo animato e variopinto delle zone urbane presso cui si riversavano le masse popolari era costituito da negozi, teatri, bagni pubblici e sale da te, nonché dai quartieri presso cui le prostitute erano state confinate per ordine shogunale. Qui la cortigiana viveva in condizioni ben diverse rispetto a quelle che la morale vigente riservava al resto delle donne, costrette a sottomettersi ai genitori, quindi al marito e poi al figlio maggiore. Il ‘’mondo fluttuante’’ risultava attraente anche per i samurai i quali, entrando nei quartieri di divertimento, erano costretti a spogliarsi delle spade e a sottostare alle regole imposte. La società chonin non era scevra dai doveri e dalle responsabilità, né priva di ideali superiori o di un senso etico. Molti dei personaggi sono oppressi dal conflitto tra dovere e istinto che trova spesso una soluzione drammatica. Questo mondo rappresenta una fuga da una realtà densa delle restrizioni e delle inibizioni dettate dall’ideologia ufficiale. Inoltre, la politica del sakoku non sempre comportò un completo disinteresse verso il mondo esterno. Nel 1720, fu eliminato il bando all’importazione di opere occidentali (a patto che non fossero cristiane). All’inizio del secolo successivo, l’attività dei rangakusha (studiosi di cose olandesi) e degli Yogakusha (studiosi di cose occidentali) si era diffusa in molti han, divulgando le nuove conoscenze acquisite in campo medico, mentre nel 1811 lo stesso bakufu provvide a fondare un centro di traduzione di opere occidentali. In questo stesso periodo occorre ricordare l’attività degli studiosi di cose nazionali, dediti a rivalutare la tradizione e i valori indigeni. Quel che appare rilevante da sottolineare, è il risvolto politico dell’attività di Norinaga, dato che egli compì una rivalutazione degli antichi miti shintoisti e ripropose il ruolo storico del tenno, gettando in tal modo le basi ideologiche su cui si sarebbe fondata la restaurazione del potere imperiale del 1868. Ma dall’indiscussa riverenza verso lo shinto e dall’esaltazione della purezza racchiuse nello spirito nipponico, rigidamente contrapposta al sistema filosofico e razionale del Neoconfucianesimo, avrebbe attinto anche il nazionalismo sfrenato che si affermò in Giappone durante la Prima guerra mondiale. Fu però Hirata Atsutane a dare alle sue opere un esasperato tono nazionalistico e xenofobo, non solo in quanto dichiarò la superiorità dello shintoismo, ma anche perché affermò che il Giappone fosse un paese unico e sacro essendo stato creato dai kami. Egli riconosceva al sistema nazionale un carattere esclusivo, data la natura divina della dinastia regnante e il suo inalienabile diritto sovrano. L’attività dei kokugakusha contribuì non solo a segnare il distacco della concezione sinocentrica che aveva a lungo dominato il mondo culturale e intellettuale giapponese, ma anche a preparare il terreno sia al ritorno allo Shintoismo e alla sua trasformazione in un culto di Stato nel periodo Meji, sia al consolidamento di un’identità nazionale ispirata al principio di esclusività e di unicità. Nelle concezioni di questi studiosi erano racchiusi i germi che impressero al moderno nazionalismo quel carattere razziale che avrebbe trovato una drammatica applicazione nel corso degli anni Trenta e Quaranta del ‘900. [Digitare qui] L'INGRESSO DEL GIAPPONE NEL SISTEMA INTERNAZIONALE, LA NASCITA DELLO STATONAZIONALE E LA TRANSIZIONE AL CAPITALISMO La crisi della società feudale e i prodromi dello stato nazionale Nell’ultima parte del periodo Edo, si ravvisavano ormai i sintomi della crisi che investiva la società e il sistema economico feudale. Il malessere nelle zone rurali si manifestava con crescente ricorrenza sotto forma di insurrezioni contadine, che avevano assunto le sembianze di un fenomeno endemico. Un ulteriore indice del disagio economico e sociale è rappresentato dal proliferare di movimenti religiosi di natura messianica e di nuove sette popolari. Tra i samurai si registrò un diffuso malcontento dovuto alle difficili condizioni economiche in cui molti di essi versavano. Nel complesso, tuttavia, il disagio e l’insoddisfazione che accumunò i vari settori della società urbana e delle zone rurali non produsse quella unità necessaria a trasformare la protesta in un’istanza politica che vedesse le masse compartecipare al sovvertimento del sistema di governo o dell’assetto economico e sociale. Nel corso del XVIII secolo, si era andata diffondendo in Giappone la consapevolezza dell’esistenza di un occidente evoluto sul piano scientifico e tecnologico, già verso la fine del secolo tale percezione fu sempre più pervasa dal timore generato dalla presenza degli occidentali in Asia Orientale. Ciò si riscontra in buona parte delle opere prodotte tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento e incentrate attorno i temi della difesa delle difese delle frontiere. Gli studi occidentali cominciarono a trovare applicazione nei problemi concreti del Paese specie a seguito del tentativo attuato dalla Russia nel 1792 di stabilire rapporti commerciali con il Giappone . Seppure prontamente rifiutate da Edo, tali richieste aveva indotto il bakufu a provvedere alla colonizzazione di Hokkaido e a stabilirvi un proprio commissario. Anche Honda Toshiaki, che fu tra i primi grandi conoscitori dell’Occidente ma la cui opera ebbe una limitata eco tra i suoi contemporanei, affrontò il problema della vulnerabilità delle frontiere di fronte alla minaccia esterna ricercando la soluzione non tanto nella fortificazione delle coste, quanto piuttosto nella costruzione di una solida flotta in grado di sostenere un’espansione territoriale che avrebbe fornito uno sbocco all’aumento demografico del Giappone. Ci si rendeva conto del reale pericolo che minacciava il proprio paese grazie alle notizie che giungevano dalla Cina, costretta ad accettare le umilianti condizioni che seguirono la sconfitta inferta dalla Guerra dell’Oppio. Cambiamenti anche dal punto di vista sociale-religioso: sviluppo dell’ideologia nazionalista e del movimento antifeudale, esaltazione della figura dell’imperatore e condanna delle perniciose dottrine straniere. In queste idee emerge la portata ideologica e politica del messaggio di Aizawa, mosso anche dalla volontà di difendere l’identità nazionale contro il predominio culturale cinese. Rivalutazione degli antichi miti shintoisti, della tradizione imperiale e del patrimonio indigeno, così come il rilievo politico che ebbero come precursori della restaurazione del ruolo storico del tenno, della promozione dello shinto a culto ufficiale dello stato e dell’affermazione di un nazionalismo incentrato attorno all’idea di unicità e al carattere divino del popolo e della Nazione giapponese. Il senso di crisi generato dall’atteggiamento che l’Occidente andava assumendo in Asia Orientale si intrecciò con la diffusa insoddisfazione che scaturiva di fronte all’incapacità politica del bakufu di attuare un’efficace politica di risanamento economico. Ciò ebbe l’effetto di aggravare la frattura tra governanti e governati e di indurre le autorità di alcuni han a cercare di fronteggiare la situazione a livello locale , dando [Digitare qui] Figura 6. Meiji (Mutsuhito) (1867-1912) ebbe sulla politica interna ed esterna del Giappone furono assai rilevanti. Oltre a sancire l’apertura di quattro nuovi porti, assieme al diritto di stabilire rappresentanti diplomatici e far risiedere cittadini americani ad Edo e nei porti aperti, l’accordo conteneva alcune clausole che non garantivano una reciprocità di diritti tra le due parti: la limitazione dei dazi doganali sulle merci di importazione che ostacolava la possibilità di attuare una politica protezionistica; la concessione del diritto di extra- territorialità agli americani residenti, che li sottraeva all’autorità giudiziaria del Giappone e, pertanto, poneva un limite sulla sovranità; infine, la garanzia agli Stati Uniti dello status di nazione più favorita. Analoghi trattati furono stabiliti quello stesso anno con Olanda, Russia, Gran Bretagna e Francia. Le restrizioni contenute in questi accordi furono tali sollevare forti critiche nell’immediato e, nei decenni successivi, l’abolizione dei ‘’trattati ineguali’’ divenne l’obiettivo primario della politica estera nipponica. L’apertura dei porti al commercio estero ebbe un impatto negativo sul sistema economico del Giappone , provocando fenomeni inflazionistici. Il Giappone aveva fatto il suo ingresso in un sistema economico che era andato investendo zone periferiche, compresa l’Asia Orientale, acquisendo una connotazione mondiale. Si prospettavano due possibilità: divenire un soggetto attivo nel sistema economico mondiale e nella rete di rapporti internazionali, oppure mantenere un ruolo subalterno e periferico rispetto ad essi, con seri rischi per l’incolumità politica e territoriale. L’accettazione delle condizioni poste dagli occidentali fu percepita da molti come lesiva della sovranità e degli interessi economici del paese, con l’effetto di acuire sentimenti xenofobi e di aumentare il malcontento verso l’operato del governo di Edo tra la classe feudale, spingendo gli oppositori a raccogliersi intorno alla figura imperiale. Nel 1860, l’assassinio di Li Naosuke per mano del gruppo di samurai costituì l’ennesimo colpo al governo di Edo. Numerosi altri gesti di terrorismo furono rivolti a individui, navi ed edifici stranieri, causando reazioni di protesta e rappresaglia da parte degli occidentali, come accadde ad esempio nel 1863 quando, a seguito dell’uccisione di un subordinato britannico, le navi britanniche bombardarono e incendiarono Kagoshima . Nel frattempo, si era acuita la disputa interna che solo in parte rifletteva i rispettivi e reali orientamenti verso la politica estera. Tra le due diverse posizioni, l’una alleata con Edo, l’altra con Kyoto, si formò poi un movimento che riunì in primo luogo i vecchi sostenitori di Tokugawa Yoshinobu, determinati a rientrare nella competizione politica, e che suggerì di gestire la riapertura del Giappone con responsabilità e unità politica stabilendo una unione tra la Corte e il bakufu; d’altra parte, specie dopo la dimostrazione di potenza militare fornite dagli occidentali in risposta agli atti terroristici e xenofobi, andò crescendo la convinzione secondo cui la riapertura fosse un passaggio obbligato per acquisire la tecnologia necessaria a rafforzare il paese. A Choshu l’opposizione militare ai Tokugawa si rafforzò al punto di resistere a una prima spedizione punitiva inviata nello han nel 1864 e da annientare le truppe mandate nuovamente da Edo due anni dopo. Un successo militare favorito dagli accordi conclusi da Choshu con la Gran Bretagna, che assicurarono il rifornimento di armi, e da un patto segreto di mutua alleanza stabilito con Satsuma che, abbandonando la sua posizione mediatrice tra la Corte e il bakufu, sottrasse a quest’ultimo l’appoggio dell’unico han in grado di contrastare militarmente Choshu. L’avvicinamento dei due più potenti feudi del Giappone costituì il nucleo della coalizione militare che avrebbe sconfitto i sostenitori del bakufu e, dopo il crollo del regime, avrebbe assunto un ruolo di guida politica del Giappone. Due avvenimenti verificatisi a distanza di pochi mesi contribuirono ad accelerare il corso degli eventi: verso la fine del 1866, la scomparsa dello shogun Iemochi consenti a Yoshinobu di ottenere la carica che gli era stata negata alcuni anni prima, e agli inizi dell’anno seguente, salì al trono il giovane MEIJI (MUTSUHITO) (1867-1912) succedendo a suo padre Komei, di posizioni conservatrici. Di fronte al rischio di uno scontro militare tra il regime di Edo e la coalizione di Satsuma e Choshu, fu ancora il feudo di Tosa ad agire come mediatore presentando un memoriale allo shogun. La richiesta era di dimettersi dalla carica restituendo al sovrano i poteri civili, che sarebbero stati esercitati da un consiglio di daimyo e nobili, in cambio della garanzia del mantenimento delle loro terre. La proposta fu accettata da Yoshinobu che, nel novembre 1867, si rivolse all’imperatore [Digitare qui] pregandolo di accogliere il suo atto di rinuncia alla carica di shogun, nella speranza di evitare una guerra civile. Questo atto non fu sufficiente a impedire che la coalizione guidata da Satsuma e Choshu muovesse le proprie truppe contro i sostenitori del bakufu e occupasse il palazzo imperiale. Da lì, il 3 gennaio 1868 , fu proclamata la Restaurazione del potere imperiale, assieme a un decreto che sancì l’abolizione dello shogunato e privò il capo Tokugawa di tutti i possessi della sua famiglia. Assunte ormai le sembianze di un esercito imperiale, le truppe vincitrici proseguirono verso Edo senza incontrare ostacoli; quando l’ultima estrema resistenza ritiratasi in Hokkaido fu sconfitta nel 1869, il nuovo governo si era già insediato in una nuova capitale ed era già all’opera per trasformare il Giappone in nome dell’imperatore. A Edo, che venne ribattezzata Tokyo, furono trasferite le attività governative, e in quella che per quasi tre secoli era stata la residenza degli shogun Tokugawa prese dimora il sovrano e la sua corte. Le riforme del primo periodo Meiji ll giovane Mutsuhito divenne così l'Imperatore Meiji e, sotto il suo «governo illuminato» (questo il significato del termine), prese avvio l'edificazione dello Stato moderno fondata sulla centralizzazione del potere politico e sulla trasformazione capitalistica delle istituzioni economico-sociali (Restaurazione Meiji). La partecipazione della borghesia mercantile e rurale al movimento anti-Tokugawa può dirsi limitata; piuttosto, essi contribuirono indirettamente nella misura in cui furono i protagonisti di uno sviluppo dell'economia protocapitalista che minò dall'interno l'assetto feudale, ma il ruolo principale nel rovesciamento del regime dei Tokugawa fu svolto da membri dell'élite militare locale (e, in misura minore, da esponenti dell'aristocrazia di corte), i quali per buona parte avrebbero costituito la classe dirigente Meiji. Appare opportuno parlare di una «rivoluzione dall'alto» che, coniugando le tensioni scaturite dalla stipula dei «trattati ineguali» con i prerequisiti endogeni, poté governare il processo di transizione capitalistica. L'opera di centralizzazione dei poteri implicò in primo luogo il superamento del fazionalismo insito nel sistema bakuhan a favore di una nuova concezione di Stato nazionale: si comincia con la confisca del potere locale dei daimyo nel 1871, in realtà preceduto dalla spontanea remissione dei quattro principali feudi che avevano appoggiato la rivolta, seguiti da diversi altri. Con un decreto imperiale promulgato nell'agosto del 1871, si procedette alla definitiva abolizione dei feudi e all'istituzione di un sistema provinciale; il territorio, infatti, fu riorganizzato in province, a capo delle quali furono posti i governatori nominati in precedenza, e in distretti urbani in modo da sottoporre l'amministrazione locale al controllo del governo di Tokyo; agli ex feudatari furono garantiti uno stipendio e titolo nobiliare, ai samurai posti nell’amministrazione locale. Nel marzo del 1868 fu emanato il Giuramento sui cinque articoli, che rispondeva alla richiesta di allargamento della partecipazione al processo decisionale e indicava la volontà di modernizzare il Giappone guardando all'esempio dell'Occidente. Con esso l'Imperatore si impegnava a promulgare una Costituzione e a realizzare quelli che erano gli obiettivi del governo, tra cui figuravano l'unità di tutte le classi per promuovere il benessere del Paese, l'istituzione di un'assemblea e la garanzia di un dibattito pubblico per decidere sulle questioni di Stato, l'adozione delle norme giuridiche internazionali. Il Dajokan fu il Gran Consiglio di Stato, e sebbene introducesse alcune importanti novità, come la separazione dei tre poteri e l'idea di rappresentanza, continuò a usare la priorità del rango e dell'ereditarietà come criteri per procedere alla nomina agli uffici. Nel complesso, la Costituzione del 1868 istituì un sistema di governo che, seppure con varie modifiche, durerà fino al 1885. Respinta l'idea di separazione dei poteri e assunta una struttura più autoritaria e simile a quella del periodo antico, il Dajokan divenne l'unico e supremo organo esecutivo e fu affiancato dall'ufficio degli Affari shintoisti (Jingikan), deputato all'esecuzione dei riti e al controllo della sfera spirituale e, pertanto, ritenuto come il più alto organo dello Stato. Si profilava la nascita di una vera e propria oligarchia. Ma molto restava ancora da compiere per garantire allo Stato fonti indipendenti di reddito, per assicurargli una solida forza militare o per mobilitare i fondi e la manodopera necessaria allo sviluppo dell'industria. In primo luogo, fu abrogato l'obbligo occupazionale vincolato alla classe di appartenenza e ai singoli individui fu concessa la libertà di scegliere il proprio impiego. Parallelamente, mentre i cortigiani e gli ex daimyo [Digitare qui] venivano nominati membri dell'aristocrazia, si procedette al superamento del sistema mibun facendo confluire i contadini, gli artigiani e i mercanti nella categoria di heimin (popolazione comune). Sempre in questa categoria l'anno seguente furono pure inseriti i samurai di basso rango, cui inizialmente era stato concesso il privilegio della qualifica di soldati. A tutti gli heimin fu concessa la libertà di movimento, assieme alla possibilità di assumere un cognome, di contrarre matrimoni con individui di status diverso e di acquistare o cedere la terra. Quest'ultima opportunità fu resa possibile dalla rimozione del divieto di compravendita che, nel periodo Tokugawa, aveva gravato sulle terre agricole, con l'effetto di trasformare la terra in un bene commerciabile e di aprire la strada all'istituzione della proprietà privata. Questi provvedimenti favorirono la mobilità sociale e liberarono manodopera necessaria alla nascente industria, ma anche ad esempio la coscrizione obbligatoria (1873), che prevedeva l'obbligo di prestare tre anni di servizio attivo e quattro come riservisti a tutti i maschi che avessero compiuto venti anni, a prescindere dalla loro provenienza sociale. Essa, pertanto, scardinò l'assetto che, per secoli, aveva assicurato alla classe samuraica il diritto esclusivo del potere militare, gettando le basi per la creazione di un moderno esercito regolare (contrari sia samurai che contadini). Difficoltà finanziarie (mantenimento di governatori ex daimyo e samurai). La condizione del Giappone nel primo Meiji era caratterizzata da una penuria di capitale disponibile, essenziale per acquistare tecnologie e far partire il settore industriale, aggravata peraltro da una scarsa cultura imprenditoriale. La rapida industrializzazione poté essere compiuta a condizione che lo Stato stesso assumesse il ruolo di 'investitore', procurandosi il capitale occorrente a sostenere questo processo. Per garantirsi stabili e consistenti fonti di entrata, il governo guardò in primo luogo all'agricoltura (80% della popolazione). Nel 1873 fu varata l’essenziale riforma, che segnò una radicale modifica del sistema vigente nel periodo Tokugawa. Innanzi tutto, l'importo della tassa fu ora valutato secondo il valore della terra e fissato al 3% del suo prezzo legale, eliminando così la possibilità di riduzione della quota in caso di cattive annate. In secondo luogo, non era più il villaggio, ma il singolo proprietario a essere responsabile del pagamento, mentre il governo centrale si sostituiva al daimyo come ricevente; si passò inoltre dalla tassazione in natura a quella in denaro. Ma ignorare le fluttuazioni del raccolto e imporre il pagamento in denaro comportò molte difficoltà per i piccoli contadini, che cominciarono a vendere: concentrazione di terre nelle mani di ricchi proprietari terrieri e una forte crescita di contadini spodestati. Molti di loro si trasformarono così in una classe di affittuari, e l’industria non era ancora sufficientemente sviluppata per poter assorbire quest’eccesso di manodopera. Ma almeno questo stabilizzò le entrate del governo centrale, che si assicurò una fonte costante di reddito e poté poi adottare un moderno sistema finanziario basato sul bilancio preventivo. In breve, la riforma dell'imposta fondiaria consentì allo Stato di assumere il ruolo di guida nel processo di rapida industrializzazione del Paese, svolgendo pertanto una funzione trainante nello sviluppo economico del Giappone moderno. Gli investimenti statali si concentrarono in primo luogo nella costruzione di efficienti infrastrutture (rete di trasporti, rete telegrafica, servizio postale, trasporto navale) e nella creazione di alcune industrie di base (metalmeccanica ed estrattiva). Lo Stato cercò di incentivare l’iniziativa privata; nel gestire dall’alto il processo, acquistò le tecnologie, mandò spedizioni di esperti nei paesi esteri. Nonostante l'insuccesso riportato sul fronte diplomatico con la mancata modifica dei trattati, i membri della Missione Iwakura (1871-73) poterono attingere conoscenze dirette in vari campi, dalla scienza e dall'economia sino alle istituzioni politiche e alla cultura, producendo nel corso del viaggio o al loro rientro una gran quantità di scritti che costituirono un essenziale strumento di conoscenza dell'Occidente. L'occidentalizzazione del Giappone Meiji, dunque, deve essere considerata alla luce del fatto che essa fu non un fine, ma uno strumento, aprirsi all’Occidente un’opportunità per rafforzarsi e difendersi dalla pressione esterna. Gli sviluppi nella politica interna ed estera negli anni ’70 e ‘80 Lo scardinamento dell'assetto feudale e la creazione di uno Stato prospero e forte rappresentò l'obiettivo comune attorno al quale si raccolsero i capi Meiji, i quali tuttavia non sempre furono concordi in merito al percorso da [Digitare qui] compiutamente nel Rescritto imperiale sull'educazione, promulgato nel 1890 e distribuito in tutte le scuole del Giappone assieme al ritratto del sovrano. Il Rescritto individuava i valori supremi cui i giovani dovevano ispirarsi nella lealtà all'Imperatore e nel patriottismo, e asseriva la concezione dello Stato come un'unica grande famiglia sottoposta all'autorità del sovrano, mescolando sapientemente le nozioni di etica confuciana con il mito imperiale shintoista. NAZIONALISMO E PRIMA ESPANSIONE Nel biennio 1889-89 il superamento del feudalesimo può dirsi definitivamente compiuto. Con la concessione della Costituzione da parte dell'Imperatore e le prime elezioni politiche, a suggello delle riforme avviate nel 1868, il Giappone diviene uno Stato moderno. Nello stesso periodo si è completato il processo di consolidamento del capitalismo e si è ormai saldato il blocco di potere dominante formato da eminenti personalità dell'oligarchia «rivoluzionaria» (che, dall'inizio del Novecento, saranno sempre più sostituite dai funzionari civili di grado elevato), Corte imperiale, alti gradi dell'Esercito e della Marina, nuova nobiltà e gruppi economico-finanziari noti come "zaibatsu". Il processo di formazione e sviluppo degli zaibatsu, la forma giapponese dei monopoli capitalistici, ebbe luogo a partire dalla cessione a privati delle imprese statali non strategiche, che fu gestita tra il 1881 e il 1885, a prezzi assai favorevoli (“dal controllo diretto alla protezione indiretta”); si salta la fase del libero scambio: l’economia passa da feudale a monopolista. Matsukata provvide a riorganizzare il sistema bancario istituendo la Banca del Giappone e creando le basi per un sano sistema di bilancio del governo. Il successo delle sue riforme portò, nel 1886, alla fine della deflazione e all'acquisizione di una solida base monetaria in grado di sostenere l'industrializzazione del Paese. Parallelamente, il Giappone andava aumentando l'esportazione di seta (che ben presto gli garantì il primato come massimo produttore del mondo) e di filati di cotone, che costituirono i due settori industriali trainanti dell'economia nazionale e sostennero il maggior peso dell'equilibrio della bilancia commerciale. Nell'ultimo scorcio dell'Ottocento, il sistema scolastico, l'alfabetizzazione delle reclute e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa stavano ormai producendo risultati positivi nella «nazionalizzazione» delle masse, con il superamento delle tensioni sociali indotte dalla trasformazione. Si postula l'assenza di contraddizioni e antagonismi all'interno della società giapponese, formata da "sudditi" (e non cittadini) fedeli, pronti ad ogni sacrificio per difendere il kokutai (sistema nazionale) «immutabile e senza pari» che presidia il «Paese degli dèi». La revisione dei “trattati ineguali” e l’inizio dell’espansione coloniale Consolidato il processo di industrializzazione, obiettivo primario divenne la piena indipendenza dell'Impero da conseguire attraverso la revisione dei «trattati ineguali». La crescita accelerata dell'economia giapponese fu resa possibile dalla contrazione dei consumi interni, collegata a sua volta ai bassi salari operai e all'alta imposizione fiscale sulle rendite fondiarie. Questa scelta di politica economica permise sia la vendita sul mercato internazionale dei prodotti giapponesi (quali soprattutto filati e tessuti) al fine di compensare l'importazione di prodotti ad alto contenuto tecnologico, sia il sostegno della dinamica degli investimenti. Tuttavia, il capitale finanziario, nella forma zaibatsu, era relativamente debole rispetto ai concorrenti internazionali. La politica espansionista, funzionale alla massima coesione della società giapponese intorno agli obiettivi nazionalistici ed essenziale per difendere gli interessi del grande capitale, fu avviata con la guerra contro l'Impero cinese (luglio 1894-aprile 1895). La vittoria riportata dal Giappone ebbe risonanza nei circoli internazionali, specie tra i nazionalisti asiatici che iniziarono a considerare il Giappone un esempio di trasformazione e di adeguamento alle Potenze occidentali, ovvero un modello da seguire per liberare i loro Paesi dalla dominazione coloniale. La guerra aveva l'unico obiettivo di sostituire l'influenza cinese in Corea, parte costitutiva della «sfera di interesse nazionale» e «ponte ideale» verso i mercati continentali. La guerra nippo-cinese si concluse con il [Digitare qui] Trattato di Shimonoseki che, rifacendosi ai «trattati ineguali» imposti dalle Potenze occidentali alla Cina e allo stesso Giappone, previde pesanti clausole per Pechino: riconoscimento dell'indipendenza della Corea, fino ad allora considerata uno Stato vassallo dell'Impero cinese; apertura di quattro ulteriori porti cinesi al commercio giapponese; riconoscimento al Giappone dello status di “nazione favorita”; cessione di Taiwan e della penisola del Liaodong; un forte risarcimento bellico. Il tentativo giapponese di annettere il Liaodong fu contrastato dal cosiddetto «Triplice intervento» nel 1895: Russia, Francia e Germania imposero al Giappone la restituzione della penisola con il pretesto che la cessione avrebbe danneggiato la Cina e messo in pericolo l'indipendenza della Corea: pressato, il governo cedette, ma in cambio aumentò le richieste di risarcimento. Pechino fu costretta a ricorrere a un prestito internazionale pari a circa il doppio di quanto dovuto al Giappone. Il governo giapponese, con l'espansione delle sue riserve di metallo prezioso, fu in grado di adottare, nel 1897, il "gold standard", con grandi vantaggi per le esportazioni e, in generale, per l'economia. Tuttavia, il «Triplice intervento» palesò ancor più ai dirigenti giapponesi che soltanto la forza militare e le alleanze diplomatiche costituivano una garanzia per la difesa dei propri interessi in Asia. All'inizio del Novecento, il governo giapponese ebbe modo di consolidare i propri rapporti internazionali sfruttando la situazione creatasi in Asia Orientale. Alla svolta del secolo, infatti, la Cina fu percorsa dalla rivolta dei Boxers (1899-1901); il movimento, con una forte connotazione xenofoba, investì ampie regioni dell'Impero e giunse ad assediare il quartiere delle Legazioni straniere di Pechino. La Corte cinese era divisa al suo interno sulla scelta politica se reprimere o appoggiare i Boxers, ormai indebolita e vicina al collasso. La liberazione del quartiere diplomatico e la repressione della rivolta avvenne su iniziativa delle Potenze occidentali, le quali inviarono in Cina un contingente militare. Nell'estate del 1900, il Giappone partecipò alla spedizione con l'invio di 8000 uomini, pari alla metà della forza internazionale che riuscì a soffocare la rivolta e a liberare il quartiere delle Legazioni. La partecipazione del Giappone alla spedizione militare internazionale valse a Tokyo il definitivo riconoscimento da parte degli Stati occidentali. La vittoria contro la Russia Nel primo decennio del Novecento, il Giappone ottenne risultati assai più importanti sul piano diplomatico. Le relazioni internazionali del Giappone si inserirono entro gli equilibri tra le grandi Potenze, in particolare fra Gran Bretagna e Russia. L'Impero zarista, infatti, tentava di contrastare l'egemonia inglese in Asia, estendendo la propria influenza in Afghanistan. Inoltre, durante la rivolta dei Boxers, la Russia non aveva partecipato alla liberazione di Pechino, ma aveva insediato consistenti contingenti militari in Manciuria che, dopo la repressione del movimento, furono ritirati con inaspettata lentezza e solo in parte. Se per Londra divenne indispensabile proteggere dalla minaccia russa la «perla» del suo Impero (l'India), Tokyo considerò l'azione dell'Impero zarista in Manciuria una minaccia ai propri interessi in Corea. Pertanto, i governi britannico e giapponese firmarono, in funzione antirussa, un Trattato di alleanza che entrò in vigore il 30 gennaio 1902. I termini dell'accordo prevedevano il riconoscimento del comune interesse ad opporsi all'espansione russa. La stipula del trattato costituì un grande successo diplomatico e politico per il Giappone. In primo luogo, questi divenne l'alleato privilegiato in Asia di quella che era ancora considerata la maggiore Potenza mondiale; inoltre, fornì a Tokyo la piena legittimazione internazionale, parificando il Giappone alle maggiori Potenze. Il governo giapponese, quindi, poté finalmente porre la questione della revisione dei «trattati ineguali» che, nel corso del primo decennio del Novecento, furono revocati da tutti gli Stati occidentali a partire appunto dalla Gran Bretagna. Due teorie espansioniste erano presenti all’epoca. Una, i cui principali paladini erano gli alti ufficiali dell'Esercito, sosteneva la necessità di conquiste territoriali sul continente asiatico; ad essa si opponevano coloro che, appoggiando le tesi dell'ammiragliato, propendevano per l'espansione verso i «mari del Sud», con la conquista degli arcipelaghi del Pacifico e dell'Australia. Tuttavia, agli inizi del Novecento, due fattori orientarono la politica espansionista verso le conquiste sul continente. Del primo, cioè dell'esigenza di contenere la penetrazione russa in Asia Orientale, si è già detto. L'altro fattore è costituito dalla vittoria [Digitare qui] statunitense nella guerra ispano-americana (1899-1900) e dalla conseguente conquista delle Filippine da parte degli Stati Uniti: più facilmente praticabile, quindi, la prima. Considerati i rapporti esistenti in Asia e la situazione internazionale, il nemico principale e più facilmente attaccabile dal Giappone era l'Impero zarista. La Russia era stato un partner del «Triplice intervento» e la presenza di suoi insediamenti militari in Manciuria costituiva una seria minaccia all'egemonia giapponese sulla Corea. Pertanto, il 10 febbraio 1904, due giorni dopo l'attacco giapponese alle postazioni russe nella penisola del Liaodong, Tokyo dichiarò guerra all'Impero zarista. La vittoria che più sollecitò l’attenzione dell'opinione pubblica internazionale fu quella ottenuta nella battaglia navale di Tsushima. In questo caso, si rivelò di importanza fondamentale l'alleanza con la Gran Bretagna. Infatti, poiché la Marina giapponese aveva bloccato nel porto di Vladivostok la flotta russa del Pacifico, lo Zar Nicola II inviò contro i giapponesi la flotta del Baltico. Tuttavia, la Gran Bretagna, che controllava il Mediterraneo attraverso Gibilterra e il canale di Suez, tenendo fede al trattato con il Giappone, impedì l'accesso alla squadra navale russa, la quale fu perciò costretta a circumnavigare l'Africa. La flotta del Baltico, giunta nelle acque di Tsushima gravemente inefficiente a causa della lunga navigazione, fu con facilità sconfitta dalla formazione dell'ammiraglio Togo Heihachiro. Nonostante la vittoria, lo sforzo finanziario e militare imposto dalla guerra indusse il governo giapponese ad accelerare la fine delle ostilità, peraltro gradita anche alla Russia a causa dei disordini scoppiati nel febbraio del 1905, prodromi dell'imminente rivoluzione menscevica. Il trattato previde il riconoscimento degli interessi militari, politici ed economici del Giappone in Corea, che sarebbe stata annessa nel 1910; il trasferimento al Giappone della ferrovia sud-manciuriana; la cessione al Giappone della metà meridionale dell'isola di Sakhalin. L'esito della guerra ebbe grande risonanza internazionale. Sul piano politico, era la prima vittoria su uno Stato europeo ottenuta da una nazione non occidentale. Di conseguenza, all'indipendenza del Giappone e al suo modello di trasformazione capitalistica guardarono con ravvivato interesse i nazionalisti dei Paesi asiatici nella convinzione che il Giappone avrebbe potuto compiere la missione di guidare le nazioni dell'Asia verso l'indipendenza dal colonialismo occidentale. Le debolezze del sistema economico A cavallo del secolo erano ancora i prodotti tessili a trainare l’economia giapponese. Ma ci fu una congiuntura negativa, determinata sia da cause interne sia da fattori esterni. Sull'andamento dello sviluppo influirono tanto le due guerre contro gli Imperi cinese e russo che assorbirono grandi risorse finanziarie quanto la crisi economica mondiale di fine Ottocento. Basse retribuzioni, orari di lavoro non inferiori a dodici ore, due riposi festivi al mese, pessime condizioni igieniche e di sicurezza sui luoghi di lavoro furono caratteristiche proprie della prima fase dell'industrializzazione. L'esportazione di merci divenne irrinunciabile per il capitale giapponese. Tuttavia, la concorrenzialità dei prezzi poté essere mantenuta soltanto con il contenimento dei prezzi e la compressione delle condizioni di vita di operai e contadini. In sostanza, la politica economica si fondò sul nesso profondo tra sviluppo delle esportazioni e contrazione del mercato interno. In conseguenza di questo indirizzo politico, il blocco di potere dominante percorse la strada dell'espansione. Questa scelta risultò necessaria sia per incrementare e proteggere le esportazioni sul mercato internazionale e anche, in particolare, quello asiatico, egemonizzati entrambi dalle Potenze occidentali, sia per ovviare alla grave carenza di materie prime esistenti in Giappone e alla relativa debolezza del capitalismo giapponese. Negli anni successivi alla guerra contro la Russia vi fu una fase di assestamento. In Manciuria fu fondata una società con fondi pubblici e privati per l’ampliamento dello sfruttamento commerciale della regione. Come sottolinea l'economista giapponese Shibagaki Kazuo, gli zaibatsu rappresentano una forma tipicamente giapponese di organizzazione del capitale. Innanzi tutto, essi avevano la forma di una holding, che aveva un'organizzazione manageriale diversificata e, con il possesso della maggioranza dei pacchetti azionari, ricopriva praticamente l'intero campo della produzione, della circolazione delle merci e della finanza. Tuttavia, nell'era Meiji, all'interno degli zaibatsu l'industria pesante e il settore chimico erano poco estesi in confronto agli altri settori, in particolare il tessile e il minerario. Inoltre, il settore finanziario e [Digitare qui] Obiettivi primari divennero le richieste di varare una legge per la previdenza sociale, di abolire il lavoro notturno e quello minorile, di prevenire la disoccupazione e di avviare il restauro dei fatiscenti quartieri operai. La federazione sindacale, inoltre, pose più generali obiettivi di libertà democratiche, rivendicando l'introduzione del suffragio universale, la democratizzazione dell'educazione e la revisione della restrittiva Legge di polizia per l'ordine pubblico. Ma sia gli aderenti che le lotte furono abbastanza limitati. La difficoltà di far comprendere ai lavoratori l'importanza dell'unità di classe e la necessità di uscire dalle ambigue formule collaborative postulate dalla propaganda del blocco di potere dominante, con slogan che inneggiavano alla collaborazione tra tutti i sudditi dell'Impero (e, dunque, anche tra imprenditori e lavoratori) e che valorizzavano il paternalismo sui luoghi di lavoro tagliarono le gambe all’organizzazione sindacale. Un gruppo sparuto di intellettuali, in gran parte cristiani influenzati dal protestantesimo statunitense, aveva tentato di fondare un Partito socialdemocratico (1900), un Partito proletario (1901) e un Partito socialista (1906) ma aveva conosciuto i rigori della repressione della polizia, prontamente intervenuta a sciogliere quelle organizzazioni politiche, ritenute assai pericolose. Il Partito comunista giapponese era sostanzialmente una sorta di club di intellettuali aspramente in contesa tra loro e, per giunta, non in grado di condurre una riflessione convincente per quanto atteneva alla natura del regime e agli strumenti di intervento per preparare e attuare la rivoluzione. I ceti rurali subalterni (affittuari, proprietari-affittuari e piccoli proprietari), ancora impregnati di cultura sociale confuciana e in gran parte succubi dei grandi proprietari assenteisti che controllavano le comunità di villaggio, erano alieni da qualsivoglia azione rivoluzionaria. La pace di Versailles e la “vittoria mutilata” Lo sviluppo economico e le trasformazioni sociali conseguenti alla Prima guerra mondiale crearono nella società giapponese grandi attese per il dopoguerra. In ampi strati della popolazione si diffuse un profondo senso di orgoglio nazionale, alimentato dai nazionalisti e favorito dalla propaganda del blocco di potere dominante. Il Giappone era una nazione vittoriosa che doveva sedere a pieno titolo al tavolo dei vincitori occidentali. Tuttavia, le aspettative, certamente sovradimensionate rispetto al contributo dato alla vittoria (il Giappone non aveva inviato contingenti militari in Europa), andarono in parte deluse. L'espressione «vittoria mutilata», propria dello sciovinismo italiano dopo la Prima guerra mondiale, ben si attaglia al sentimento diffuso in Giappone nella classe dominante e fra i ceti popolari all'indomani della firma del Trattato di pace. Durante il primo conflitto mondiale, il Giappone aveva tentato di consolidare la propria egemonia in Asia Orientale. Pochi giorni dopo lo scoppio della guerra, l'Esercito e la Marina giapponesi avevano attaccato le isole del Pacifico e i possedimenti in Cina sotto la giurisdizione della Germania. Il Giappone prese così possesso della penisola dello Shandong e delle isole Caroline, Marianne e Marshall. La diplomazia di Tokyo, a fronte delle crescenti difficoltà dei membri dell'Intesa completamente assorbiti dallo sforzo bellico in Europa e, dunque, senza possibilità alcuna di vigilare in Asia, attuò una politica finalizzata a trasformare la Cina in colonia giapponese. A tale scopo, nel 1915 presentò al presidente della Repubblica cinese, Yuan Shikai, le «Ventuno richieste», attraverso le quali Tokyo intendeva controllare le scelte economiche e di politica internazionale della debole repubblica, fondata il primo gennaio 1912. Anche se il governo cinese accettò soltanto sedici delle ventuno clausole, l'imposizione di Tokyo accrebbe l'egemonia giapponese in Cina. Inoltre, spinto dal timore, peraltro comune alle Potenze imperialiste, di una vittoria della Rivoluzione bolscevica, il governo giapponese aderì alle sollecitazioni degli Alleati e partecipò alla «spedizione» in appoggio ai generali e alle armate «bianche» che in Siberia combattevano contro i bolscevichi. Contro lo spettro del comunismo, quindi, l'armata giapponese fu mantenuta in Siberia fino al 1922, nonostante che le truppe degli altri Paesi partecipanti alla spedizione internazionale avessero abbandonato l'impresa da tre anni. Alla Conferenza di pace di Versailles la delegazione giapponese non riuscì a far accogliere tutte le richieste presentate. Al Giappone fu assegnato il mandato di «tipo C» sulle isole del Pacifico ex tedesche e fu [Digitare qui] riconosciuta l'acquisizione dei diritti sulle miniere e sulla ferrovia (lunga 400 chilometri) nella penisola cinese del Jiaochou precedentemente in affitto alla Germania; la questione dello Shandong fu tuttavia rinviata a trattative dirette fra il Giappone e la Repubblica cinese, anch'essa alleata dell'Intesa. Il punto di maggiore attrito tra il governo di Tokyo e gli Alleati fu rappresentato dal mancato riconoscimento della parità razziale, cui si opposero il Presidente statunitense Woodroow Wilson e quello australiano Charles Evans Hughes. La sconfitta diplomatica ebbe notevoli ripercussioni. Crebbe l'opinione che le Potenze occidentali, nonostante il supporto economico del Giappone agli Alleati dell'Intesa, intendessero mantenerlo in una posizione di subordinazione politica ed economica. Questo accentuò ancor più l'antioccidentalismo, fondandolo sui princìpi della «liberazione dei popoli e dei Paesi dell'Asia» dall'«imperialismo bianco». Poco tempo dopo, tra il ’21 e il ‘22, si tenne la Conferenza di Washington delle nove Potenze (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Belgio, Olanda, Portogallo, Cina e Giappone) che registrò il declino del primato mondiale della Gran Bretagna e sancì il contenimento delle aspirazioni giapponesi nell'area del Pacifico; il Giappone fu costretto a restituire alla Cina la penisola del Jiaochou. Inoltre, il Trattato navale fissò la formula 5 : 5 : 3 : 1,5 : 1,5 per codificare il rapporto delle grandi navi da guerra di Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Francia e Italia. I risultati degli accordi internazionali di Versailles e Washington furono accolti come sconfitte diplomatiche da una parte del blocco di potere e dai gruppi nazionalistici, i quali intensificarono la propaganda sciovinista conquistando sempre maggior seguito fra i quadri intermedi dell'Esercito e i ceti piccolo-borghesi. Nel novembre del 1921 un fanatico nazionalista assassinò il primo ministro Hara, il quale era stato oggetto di accuse di corruzione e ritenuto responsabile principale dei «cedimenti» giapponesi a Versailles. Gli anni Venti Dopo la crescita della Prima guerra mondiale, gli anni Venti furono una congiuntura negativa. La Rivoluzione russa fu considerata una minaccia incombente e permanente. Inoltre, assai più percepibili in Giappone, nel 1919 in Corea e in Cina presero corpo i già menzionati movimenti di massa contro la dominazione imperialista con l'obiettivo del boicottaggio delle merci straniere e, dunque, anche giapponesi. Venute meno le forniture militari, negli Stati Uniti si registrò, in conseguenza della contrazione della produzione, una caduta di domanda, soprattutto dei beni di lusso, tra i quali una voce rilevante era costituita dalle importazioni di seta dal Giappone. Alle difficoltà conseguenti alla complessità della situazione, nel settembre del 1923 si aggiunse un evento catastrofico: il grande terremoto del Kanto (l'area di Tokyo), che avrebbe avuto conseguenze negative sullo sviluppo economico. Furono contati oltre 100 mila morti e 3,3 milioni di feriti, mentre i danni materiali ammontarono a circa mezzo miliardo di yen. La massiccia importazione di beni di largo consumo e di materiali per la ricostruzione aggravò la bilancia dei pagamenti. Durante i giorni successivi al disastro, si verificò un grave episodio che dà la misura dello sciovinismo razzista dei giapponesi del tempo. Al fine di fare fronte all'emergenza, furono organizzati gruppi di volontari che affiancarono la polizia nel mantenimento dell'ordine pubblico. Da questi gruppi, presenti e compartecipi i poliziotti, partì una violenta persecuzione di cinesi e coreani presenti a Tokyo. Il tragico bilancio della persecuzione si concluse, secondo fonti non ufficiali (ma su questo punto, come su molti altri, le autorità giapponesi sono reticenti), con l'assassinio di 4000 coreani e 400 cinesi. Gli affittuari, costretti a un livello di vita di mera sussistenza, fondarono loro unioni, 4582 con oltre 365 mila aderenti nel 1927. Tuttavia, queste unioni locali non seppero creare un movimento con radicamento e dimensioni nazionali. Nel 1923 era stata fondata la Banca centrale per la cooperazione, che finanziò vari progetti di bonifica. Inoltre, il governo agì attraverso finanziamenti alle "nokai", influenti organizzazioni controllate centralmente dal ministero dell'Agricoltura e, a livello locale, dai grandi proprietari terrieri, cui era fatto obbligo di associarsi, mentre per gli altri contadini l'iscrizione era facoltativa. Le nokai offrirono prestiti a tassi agevolati ai piccoli coltivatori considerati solvibili, ma non finanziarono gli affittuari meno abbienti o i proprietari-affittuari che avessero partecipato alle vertenze. Questo tipo di intervento divenne lo strumento di ricatto dei grandi proprietari contro gli affittuari e i proprietari-affittuari che potevano [Digitare qui] aspirare a migliorare la loro situazione soltanto con corposi finanziamenti, negati a chi non operava per mantenere l'«armonia sociale» nelle comunità di villaggio, «armonia» di cui beneficiarono i proprietari terrieri, assenteisti o meno che fossero. Si intensificavano scioperi e proteste. In definitiva, gli interessi del proletariato si saldavano, da un lato, con quelli dei contadini poveri e, dall'altro, con quelli dei ceti medi urbani che, come si ricorderà, invocavano una riforma della Costituzione e l'introduzione del suffragio universale. In sostanza, intorno alla prima metà degli anni Venti, nella società giapponese si manifestarono tensioni e si profilavano possibili movimenti che rischiavano di incrinarne la compattezza della società, valori inalienabili nella visione «armoniosa» perseguita con determinazione dalla burocrazia civile. Con l'espressione «governi di partito» si indicano gli esecutivi operanti fra il 1924 e il 1932. In questo breve arco temporale, infatti, i governi giapponesi nacquero sulla base di maggioranze parlamentari. Nel periodo antecedente (dal 1885, primo governo «moderno») e successivamente fino alla resa del 1945, i governi furono considerati «trascendenti» per definizione. In sostanza, questi erano varati dai consiglieri dell'Imperatore con il beneplacito degli Stati maggiori di Esercito e Marina ed erano investiti della funzione esecutiva senza che godessero necessariamente della maggioranza parlamentare. I partiti erano pervasi da un'ideologia e svolgevano un'azione politica tutte interne agli obiettivi e agli interessi del blocco di potere dominante; quelli progressisti o rivoluzionari, che avrebbero potuto opporsi, non erano presenti nella Camera bassa. La subalternità dei partiti politici emerse in tutta evidenza nel 1925. La tensione presente nella società indusse il governo a dare una risposta alle rivendicazioni del movimento per il suffragio universale, chiesto a gran voce dai ceti medi urbani, da intellettuali e dai primi gruppi femministi. Dopo estenuanti trattative, il 5 maggio 1925 fu infine approvata la legge che istituì il suffragio generale maschile (elettori maschi sopra i 25 anni, a condizione che non fossero indigenti; si passa da 3 a 12 milioni di elettori). Il fatto che i candidati dovessero versare una cauzione di 2000 yen (pari al doppio del reddito medio annuo di una famiglia di proprietari terrieri) rese di fatto impossibile la partecipazione alle consultazioni elettorali di appartenenti ai ceti popolari. Alla limitata apertura democratica fece immediatamente seguito l'approvazione della Chian ijiho (Legge per il mantenimento dell'ordine pubblico), entrata in vigore il 12 maggio 1925, momento di svolta fondamentale nel processo politico giapponese. Infatti, i funzionari del ministero degli Interni, la polizia e la magistratura la utilizzarono più volte, fino alla fine della Seconda guerra mondiale, per colpire «legalmente» ogni opinione difforme all'ideologia dominante. Con l'entrata in vigore della legge, venne meno il fondamento stesso dei regimi costituzionali, vale a dire la certezza del diritto. La Chian ijiho si configura come una «legge speciale», applicabile secondo la convenienza politica per perseguire gli avversari del regime. Infatti, essa introdusse il divieto di «alterare il kokutai» (sistema nazionale), un termine ambiguo, indefinibile e indefinito nello stesso testo di legge e, pertanto, sottoposto a qualsiasi interpretazione discrezionale. La legge, inoltre, perseguendo i «crimini di pensiero», dette a polizia e magistratura ampie possibilità di intervento sia contro le attività politiche sia contro le elaborazioni ideologiche considerate «pericolose». DAL FASCISMO AL CROLLO DELL’IMPERO Nel ventennio che seguì l'approvazione della Chian ijiho, il regime adottò una politica sempre più repressiva contro i propri oppositori, tanto che si può affermare che da autoritario divenne compiutamente fascista. I primi interventi furono attuati in chiave antimarxista e antiproletaria: nello stesso 1925, furono incriminati gli studenti di sociologia dell'Università di Kyoto, rei di non limitarsi a discussioni accademiche, ma di propagandare nella società l'ideologia marxista e di sostenere il sindacato rivoluzionario. Nel 1928, furono arrestati i dirigenti e la quasi totalità dei militanti del Partito comunista, sottoposti a processo per le loro idee rivoluzionarie. In tale occasione, il sistema imperiale mostrò la sua vera natura, con la piena saldatura fra la teoria e la pratica politica. Infatti, a processo iniziato, l'Imperatore Hirohito emendò con un proprio [Digitare qui] Tokyo l’82% delle famiglie ne faceva parte. Questi gruppi, nel 1941, confluiranno, per decisione dell'alta burocrazia, nella Taisei yoku-sankai (Associazione per la direzione imperiale), il «partito unico» giapponese. In sostanza, l'Imperatore fu il fulcro intorno al quale ruotò l'ideologia del fascismo giapponese, ne fu il protagonista pseudo-carismatico, in quanto nel suo nome furono imposti la repressione dell'antagonista di classe, l'aggressione imperialista, i sacrifici inflitti alla popolazione per la guerra e per la difesa della «ininterrotta linea di discendenza divina». L'espansionismo, fortemente sostenuto dagli alti comandi militari, ebbe interessi comuni con gli altri settori del blocco di potere fascista. Per il capitale monopolistico, costituito sia dai «vecchi zaibatsu», nati nel crogiolo della trasformazione capitalistica, sia dai «nuovi zaibatsu», sorti nei primi anni Trenta con il favore di funzionari civili e militari di grado superiore, l'esigenza primaria era costituita dall'urgenza di espandere la loro base produttiva: operazione possibile, in virtù della loro relativa debolezza finanziaria rispetto ai capitalismi occidentali, soltanto con la formazione di una sorta di «subimperialismo» protetto dalle armi. Con l'espressione "tennosei fashizumu" (fascismo del sistema imperiale) la storiografia giapponese indica il regime che si costituì tra le due guerre mondiali con la saldatura di interessi del blocco di potere dominante formato da zaibatsu, alti comandi militari, funzionari civili superiori, uomini politici, Camera alta e Corte imperiale. Fu un blocco di potere che depotenziò il «movimento» fascista, espresso dalle istanze rappresentate dal coacervo di idee esposte da Kita Ikki, e che occupò lo Stato "dall'interno", con una progressiva azione di soffocamento dei diritti civili e delle già limitate libertà politiche. Un ruolo fondamentale svolto dalla burocrazia giapponese, vero fulcro e centro dinamico del tennosei fashizumu. Il più incisivo contributo all'analisi del tennosei fashizumu è dello scienziato politico Maruyama Masao, che nel 1946 avviò un'approfondita analisi del regime giapponese tra le due guerre mondiali. Detto in estrema sintesi, egli introdusse la distinzione tra «fascismo dal basso» (o «movimento») e «fascismo dall'alto» (o regime) e pose in rilievo come il regime giapponese si concretò in maniera strisciante «dall'alto», avviando il processo di occupazione dello Stato ancor prima della sconfitta del movimento rappresentato da Kita Ikki e dalla miriade di associazioni reazionarie pullulanti negli anni Venti e nei primi anni Trenta. Le peculiarità del tennosei fashizimu individuate sono tre: 1. Familismo. Postula all'interno della società rapporti di tipo familiare. Tutta la società e la razza giapponese non sarebbero altro che una sorta di famiglia allargata di origine comune (il Pantheon shintoista), con il ramo principale costituito dalla famiglia imperiale e i rami collaterali formati da tutto il popolo. Oltre, quindi, al rapporto tra sovrano e sudditi, il tenno sarebbe a loro legato da una relazione tra padre benevolo e figli fedeli, residuo della tradizione confuciana. Fu alla base del corporativismo giapponese. 2. Ruralismo. Teoria che pone al centro della società la comunità agricola, con il suo spirito di autogoverno. Partendo da questa premessa, il regime fascista fece del «ruralismo» il fondamento per il modello sociale del sistema imperiale. La comunità agricola, tutta tesa a mantenere la «armonia sociale» (altro principio della morale confuciana), doveva rappresentare il modello ideale al quale tutta la società giapponese doveva ispirarsi e conformarsi. 3. Panasiatismo. Velava sotto la demagogia dell'unione di «tutti i popoli e i Paesi dell'Asia sotto la guida del Giappone» le mire espansionistiche sul continente e nei mari del Sud contro l'egemonia dell'«imperialismo bianco», cioè occidentale. A differenza di quella statunitense, incentrata su investimenti finanziari in Paesi sottosviluppati, la dominazione giapponese si fondò sull'occupazione di territori al fine di garantire sia le materie prime, di cui il Giappone è poverissimo, alle proprie industrie, sia la penetrazione sui mercati, sia gli investimenti dei capitali zaibatsu, finanziariamente assai più deboli rispetto ai capitalisti stranieri. La conquista della Manciuria avvenne nel corso della Grande Crisi mondiale iniziata nel 1929 con il crollo del mercato azionario di Wall Street, ma tutti gli anni Venti furono per l'economia giapponese un periodo percorso da un andamento altalenante tra recessioni e riprese. Al susseguirsi di brevi cicli positivi e negativi, [Digitare qui] Figura 11. Konoe Fumimaro (1940-41). nel 1927, fece seguito lo "Showa kyoko" (panico [del periodo] Showa), un vero terremoto finanziario. L'origine di tale crisi risale alle misure adottate allo scopo di riavviare l'economia, gravemente colpita dalle conseguenze del sisma del Kanto del 1923. Immediatamente dopo il disastroso evento, il governo Yamamoto aveva deliberato che le imprese potevano ricorrere a prestiti bancari presentando a garanzia i titoli perduti durante il sisma, i cosiddetti “titoli terremotati”; nel corso del dibattito parlamentare il ministro delle Finanze affermò incautamente che molte banche depositarie di tali titoli erano «cotte», cioè in possesso di grandi quantità di prestiti che non erano coperti da alcuna garanzia, in pratica non erano esigibili. Il panico che già serpeggiava tra i clienti delle banche si estese rapidamente e molte banche minori dovettero sospendere i rimborsi ai risparmiatori (marzo 1927). La gravità della situazione è evidenziata dallo squilibrio tra capitale bancario versato (poco meno di 1,5 miliardi di yen) e depositi della clientela (oltre 9 miliardi). Molte piccole e medie imprese, prive di aperture di credito, non furono in grado di affrontare la momentanea mancanza di liquidità e dovettero dichiarare fallimento. Inoltre, i risparmiatori accentuarono la tendenza, peraltro già parzialmente in atto dall'inizio degli anni Venti, a ricorrere ai servizi delle banche principali. Pertanto, le grandi banche dei cinque maggiori zaibatsu (Mitsui, Mitsubishi, Sumitomo, Dailchi e Yasuda), con l'incremento dei depositi, beneficiarono delle conseguenze del “panico Showa”. La crisi ebbe effetti devastanti sull'economia giapponese. In particolare, ne furono colpiti il settore tessile, largamente fondato sulle esportazioni, le famiglie contadine per la contrazione della domanda di seta grezza, le società di navigazione e la cantieristica. L’avvio della svolta si ebbe nel dicembre del 1931. Takahashi abbandonò la politica liberista e accentuò l'intervento dello Stato in economia. Le misure introdotte riguardarono l'abbandono della base aurea dello yen; la dilatazione della spesa pubblica, sostenuta da emissioni di titoli fiduciari dello Stato sottoscritti dalla Banca del Giappone; il sostegno dell'economia rurale, particolarmente segnata dalla crisi. Insomma, misure che valsero a Takahashi il riconoscimento di «keynesiano ante litteram». La guerra L'Esercito giapponese, nel luglio del 1937, invase la Cina, avviando così la Guerra dell'Asia Orientale. Il conflitto fu concepito come una «guerra totale» che comportò la progressiva ristrutturazione dell'economia in funzione dello sforzo bellico, l'ulteriore stretta autoritaria nel controllo sulla società e la riorganizzazione del sistema politico-partitico. Il dibattito si incentrò sulla tesi degli imprenditori che difendevano la loro autonomia nella destinazione delle risorse e il principio di trarre il massimo dei profitti dalla produzione, tesi alla quale i circoli militari contrapposero le esigenze belliche dell'invasione della Cina che assorbiva risorse umane e materiali assai maggiori di quanto previsto e che, sebbene non enunciato, sarebbe probabilmente sfociata in una guerra di lunga durata contro le Potenze coloniali dell'Occidente. In questo clima, il primo aprile 1938, il Parlamento, al cui interno si sollevarono soltanto flebili voci da parte degli oppositori, peraltro oggetto di intimidazioni e pressioni, approvò, su proposta del governo del Principe KONOE FUMIMARO (1891-1945), la Kokka sodoinho (Legge di mobilitazione nazionale generale). Venne meno la separazione tra potere legislativo ed esecutivo, il controllo dello Stato sulle forze sociali e l’economia veniva rafforzato. Tra il 1940 e il 1941, vi fu la svolta definitiva, sia sul fronte interno sia su quello internazionale. I partiti politici, sempre più privi di potere, furono assorbiti nella già menzionata Taisei yokusankai (Associazione per il sostegno della direzione imperiale) e furono fondate le già ricordate associazioni per la produzione. Sul piano internazionale, il Giappone firmò il Patto tripartito con l'Italia fascista e la Germania nazista (con la quale fin dal 1936 esisteva il Patto anti-Comintern) e, l'anno successivo, occupò l'Indocina settentrionale, con la connivenza del governo collaborazionista di Vichy. Con l'estensione dell'occupazione della Cina, il governo di Washington chiese al Giappone garanzie per le Filippine (colonia statunitense) e il ritiro delle [Digitare qui] truppe dalla Cina. Dopo la firma del Patto di neutralità con l'Unione Sovietica, l'Esercito imperiale giapponese occupò l'Indocina meridionale, azione che provocò la proclamazione dell'embargo totale da parte degli Stati Uniti. Falliti i tentativi per superare la crisi, l'8 dicembre 1941, gli aerei decollati dalle portaerei giapponesi attaccarono, "prima" della dichiarazione di guerra, la base statunitense di Pearl Harbor, nelle Hawaii. Con la successiva dichiarazione di guerra della Germania nazista agli Stati Uniti, la guerra divenne «mondiale» in senso proprio. All'inizio, i successi giapponesi parvero inarrestabili: furono occupate le Filippine, la Malesia, le Indie Orientali Olandesi (l'attuale Indonesia), la Nuova Guinea, la Birmania e fu conquistata Singapore, fortezza britannica ritenuta inespugnabile. Il primo successo degli Alleati si verificò con la battaglia delle Midway, cui seguirono numerose vittorie sulle forze terrestri e navali giapponesi. Dal 1937 vi furono controlli centralizzati sull'economia. L'intervento dello Stato in economia aveva trovato valida applicazione nel corso della trasformazione capitalistica del periodo Meiji e in alcuni specifici settori era ancora in atto. In particolare, la partecipazione pubblica era preminente o totalizzante nell'industria dell'acciaio e nelle società che indirizzavano gli investimenti di capitale oltremare, nelle colonie (Taiwan e Corea) e in Manciuria. Fin dai primi anni Trenta, alle esperienze del fascismo italiano, del nazismo e alla programmazione dell'economia attuata dall'Unione Sovietica guardarono intellettuali che rivendicarono l'introduzione di riforme atte a creare un nuovo sistema economico e sociale (con alcuni membri del governo in visita sia in Germania che in Italia). Negli anni in cui si sviluppò il dibattito sulla «riorganizzazione» dello Stato, in parallelo con esso, si chiarì definitivamente il nesso esistente tra la «riorganizzazione» e il suo obiettivo finale: l'espansione in Asia Orientale e Meridionale del Giappone in sostituzione dell'imperialismo bianco. Prendeva sempre più piede l'opinione secondo cui nel futuro il mondo sarebbe stato diviso in blocchi, uno dei quali guidato dal Giappone, cui doveva essere riconosciuto il «diritto naturale» all'espansione. L'intervento dello Stato in economia operò attraverso due direttrici. Una fu costituita da massicci investimenti pubblici nel settore degli armamenti; l'altra consistette nella promulgazione di una serie di provvedimenti legislativi (leggi, decreti, ordinanze o decreti imperiali) di regolamentazione e controllo dei settori industriale e finanziario. Accanto a questi interventi, l'amministrazione statale emanò una serie di norme atte a razionalizzare la raccolta e la distribuzione dei prodotti alimentari; il culmine fu la Legge sul controllo temporaneo dei capitali (Rinji shikin shoseiho) che dette all'Imperatore e all'amministrazione il potere di emanare decreti su fondazione di società, aumenti di capitale, fusioni, prestiti e fluttuazioni dei titoli. Venivano assegnati a Esercito, Marina e industria privata ferro, acciaio, rame, alluminio, benzina, kerosene, petrolio grezzo, cotone e lana. I sudditi giapponesi, sia militari sia civili, parteciparono attivamente alla guerra, ritenendosi tutti difensori del tennosei e del kokutai. La propaganda che puntò sullo sciovinismo, sul comunitarismo e sulla unicità della razza giapponese ebbe facile presa, tanto che non si levarono voci di dissenso. I soldati giapponesi, oltre agli orrori della guerra, affrontarono spesso sacrifici inumani per carenza di rifornimenti, giungendo in alcuni casi al cannibalismo dei commilitoni o, più spesso, dei prigionieri di guerra. Queste atrocità e quelle commesse contro le popolazioni civili sono quasi totalmente dimenticate, anche per l'azione di occultamento che ne fece il tribunale di Tokyo per i crimini di guerra. La popolazione giapponese fu sottoposta al razionamento dei prodotti tessili e alimentari e, con il peggioramento della situazione bellica, subì incursioni aeree e bombardamenti distruttivi, il cui epilogo è costituito dal lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Le prime restrizioni dei consumi furono attuate poco dopo l'inizio della guerra con la Cina e riguardarono i prodotti tessili, ma nel 1941 il razionamento interessava ormai tutti i beni di prima necessità, dalla salsa di soia al riso (elementi essenziali nella dieta giapponese), dallo zucchero ai fiammiferi ecc.; col prolungarsi del conflitto, fiorì il mercato nero con prezzi insostenibili per la popolazione. Le difficili condizioni di vita peggiorarono ulteriormente per la popolazione urbana a partire dall'estate del 1944. Con l'avanzata del fronte alleato, iniziarono infatti i bombardamenti delle città, il primo dei quali fu subito da Nagasaki (11 agosto). Non c'è città giapponese che non abbia conosciuto distruzioni da bombardamenti. Il bombardamento di Tokyo nel febbraio ’45 provocò quasi 85.000 morti. Nell'ultimo [Digitare qui] Yoshida pose come priorità assoluta la ricostruzione dell'economia che, a prezzo di immani sacrifici da parte della popolazione, intorno alla metà degli anni Cinquanta, raggiunse i livelli del 1933-35, i più alti del periodo prebellico. Inoltre, in accordo con MacArthur, nel maggio del 1950 egli promosse la «purga rossa» che colpì dirigenti e iscritti al Partito comunista: nel corso dell'anno, furono espulsi oltre 20000 lavoratori dalle imprese private e 1200 dipendenti pubblici, compresi docenti universitari e insegnanti di scuola. Nel 1956 avviene l’unificazione di liberali e democratici nel Partito liberaldemocratico, P.L.D., più noto in Giappone come Jiminto. Da questo momento, a eccezione del biennio 1994-96, i presidenti del P.L.D. si succederanno alla guida di governi di coalizione o monocolore. Ripresa economica Già nel 1947, lo Scap permise al Giappone di fare fronte ai danni di guerra con l'esportazione di prodotti nazionali, in particolare beni strumentali, e con pagamenti in yen. Queste misure, che consentirono l'inizio della ricostruzione economica, furono osteggiate debolmente dalla Gran Bretagna e in modo più vigoroso dalla Cina e dall'Unione Sovietica, ma senza alcun esito: la decisione statunitense fu irrevocabile. Con l'approvazione della legge antitrust fu ridimensionato il controllo finanziario delle famiglie sugli zaibatsu. Essenziale fu la riforma agraria. Proprietari terrieri (assenteisti o residenti nei villaggi) e contadini medi (che a un tempo coltivavano in proprio e cedevano in affitto parte dei loro campi) videro le loro proprietà drasticamente ridotte. Infatti, la legge previde estensioni proprietarie non superiori a 10 ettari nello Hokkaido e a 3 ettari nelle altre regioni del Paese. La vendita di aree coltivabili avvenne con il ricorso alla rateizzazione e in un periodo di forte inflazione, favorendo gli acquirenti e penalizzando i grandi proprietari. Inoltre, parte delle terre dei grandi proprietari furono confiscate, cosicché questi subirono perdite molto gravi. A seguito della ripresa industriale, la popolazione attiva in agricoltura diminuì progressivamente, passando da oltre il 41 % nel 1955 a poco più del 9 % nel 1990. Oltre che per il successo della riforma agraria, il 1950 può essere considerato un anno di primaria importanza per l'economia giapponese. Infatti, fin dall'inizio della guerra di Corea (1950-53), l'industria giapponese vide aumentare la propria produzione a seguito delle sempre maggiori commesse militari da parte degli Stati Uniti. Le forniture militari furono possibili in quanto il processo di smilitarizzazione non era stato portato a compimento. Inoltre, l'amministrazione giapponese aveva potuto mantenere in vita alcuni elementi della «economia controllata» istituita durante il periodo bellico. Pertanto, gli investimenti nel settore industriale, pubblici e privati, furono indirizzati in modo coordinato verso i settori in sviluppo. La ripresa economica, oltre che comportare enormi sacrifici alla popolazione, fu particolarmente lenta e problematica fino al 1950, per trarre poi un primo giovamento dalle forniture per la guerra di Corea. Sostanzialmente, verso la metà degli anni Cinquanta, il Giappone completò la ricostruzione economica, ritornando ai livelli prebellici. Il successo fu possibile grazie a diversi fattori. Innanzi tutto, i governi giapponesi fecero della ricostruzione la priorità assoluta, attuandola, da un lato, con interventi a sostegno del settore industriale e, dall'altro, chiedendo alla popolazione di sopportare immani sacrifici: una richiesta alla quale i giapponesi, impregnati dello spirito del comunitarismo, risposero positivamente. In questo quadro si inseriscono la debolezza del movimento operaio e la limitata libertà sindacale (nel 1947 furono vietati gli scioperi dei dipendenti pubblici). Il mutamento della politica statunitense (“inversione di rotta”) fu conseguente all'evoluzione della situazione in Asia: penisola coreana a regime comunista a nord del trentottesimo parallelo, lotta di indipendenza in Vietnam, possibile vittoria della lotta armata del Partito comunista in Cina, indipendenza dell'India. Mentre i socialisti optarono per osservare la direttiva dello Scap, i comunisti sostennero la legittimità dello sciopero e, come conseguenza, si giunse alla rottura dell'unità sindacale. Un ulteriore intervento politico dello Scap fu la «purga rossa» che, come accennato, fu attuata nel 1950, alla vigilia della guerra di Corea. Con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese (1949) l’opposizione progressista venne ulteriormente indebolita, a tutto vantaggio delle forze conservatrici; una lunga stagione di governo che, con qualche eccezione, perdura tuttora. [Digitare qui] Lo sforzo della ripresa per gettare le basi al futuro sviluppo si protrasse fino alla metà degli anni Sessanta, quando la bilancia dei pagamenti diventò attiva. Infatti, negli anni precedenti, seguendo le linee dei programmi economici sostenuti dal governo, il Giappone sviluppò con coerenza una politica economica fondata su tre princìpi: - in primo luogo, la limitazione delle importazioni all'indispensabile, costituito da materie prime, comprese le fonti energetiche (gravemente carenti nel Paese), da prodotti alimentari e da beni strumentali; - quindi, la trasformazione della struttura produttiva in funzione della concorrenza sul mercato mondiale; - infine, lo stimolo alle esportazioni, necessarie a compensare i flussi delle importazioni. La dinamicità nel commercio internazionale fu favorita dall'adesione del Giappone al General Agreement on Tariffs and Trade (Accordo generale su tariffe e commercio, GATT) nel 1955. Fino al 1965, la popolazione fu sottoposta a gravi sacrifici. Innanzi tutto, i livelli salariali degli operai e degli impiegati furono mantenuti bassi; inoltre, gli addetti delle medie e piccole imprese, che costituivano la maggioranza dei lavoratori dell'industria, fruirono di redditi notevolmente inferiori. Pertanto, fino alla metà degli anni Sessanta, i consumi interni furono molto contenuti. Un problema che si manifestò con gravità fu l’altissimo livello di inquinamento nelle zone urbane. Miglioramenti cominciarono dalla metà degli anni Sessanta. Indicativi sono i dati sul settore edilizio. In questo settore, tuttavia, occorre tenere presente che gran parte del patrimonio edilizio giapponese è sottoposto a rapido degrado: mediamente, il ciclo di rinnovo è trentennale. Ciò implica enormi spese di mantenimento ed è una delle ragioni dell'alto indice di risparmio (oltre il 17 per cento del Pil nel 1985) delle famiglie. Infatti, soltanto con massicci investimenti (risparmio più mutui) è possibile la ricostruzione delle abitazioni, specie dei condomìni. Questa situazione ha introdotto una distorsione nel processo di sviluppo economico, a causa dei forti investimenti nel settore edile. L'8 settembre 1951 il Giappone siglò il Trattato di pace di San Francisco, non firmato dall'Unione Sovietica, dall'India, dalla Repubblica di Cina (Taiwan) e contemporaneamente il Trattato di sicurezza nippo- americano. Il 28 aprile 1952 ebbe termine l'occupazione alleata. Tuttavia gli Stati Uniti continuarono a occupare Okinawa e conservarono basi militari in altre zone del Giappone, in particolare, nell'area di Tokyo. Iniziava così, sotto l'ombrello statunitense, la lunga marcia verso il pieno riconoscimento internazionale del Giappone, che avvenne nel 1956 con la sua ammissione all'Onu, dopo l'adesione nel 1953 al FMI e nel 1955 al GATT, come già ricordato. La politica internazionale del Giappone, nei primi anni della riacquistata indipendenza e almeno fino al 1956, fu completamente soggetta alla volontà degli Stati Uniti, per rendersi poi autonoma con estrema cautela. Negli anni successivi il maggior successo lo ottenne il Primo ministro Sato Eisaku (1901-1975): nel novembre del 1969, egli si accordò con il Presidente Richard Nixon per il ritorno di Okinawa al Giappone, che il 15 maggio 1972 riottenne la sovranità sull'isola, dove peraltro gli Stati Uniti mantengono tuttora importanti ed estese basi militari. Due anni dopo l'accordo Nixon-Sato, il governo e la diplomazia giapponesi subirono un clamoroso smacco, noto in Giappone come «Nixon shock». Infatti, senza averne informato prioritariamente il governo giapponese, il Presidente Nixon nel luglio del 1971 annunciò che si sarebbe recato a Pechino per incontrare Mao Zedong e gli altri dirigenti cinesi. L'incontro avvenne dal 21 al 25 febbraio 1972, dopo che la Repubblica popolare cinese era stata riammessa all'Onu, entrando a far parte del Consiglio di Sicurezza. La Repubblica popolare sostituiva così nell'organismo internazionale la Repubblica di Cina (Taiwan). Dopo la visita di Nixon, il Primo ministro giapponese Tanaka Kakuei si recò a Pechino dove fu firmato un comunicato congiunto che annunciò lo stabilimento di relazioni diplomatiche tra i due Stati, premessa alla firma del Trattato di pace che avvenne nel 1978. In questa fase, si intensificarono i rapporti economici e commerciali nippo-cinesi. Nei primi anni Settanta, nacquero in Asia Orientale le premesse per nuovi scenari politici internazionali che avrebbero avuto una prima svolta nell'aprile del 1975, con la liberazione di Saigon e l'abbandono del Vietnam da parte delle truppe statunitensi. [Digitare qui] CRISI, NUOVO SVILUPPO E RECESSIONE Nei primi anni Settanta iniziarono a profilarsi in Giappone i segni della crisi. Le cause principali sono da ricercare in decisioni esterne al Giappone. Nel 1971, il Presidente statunitense Richard Nixon annunciò l'abbandono del "gold standard", istituito a Bretton Woods nel 1944. Con questa misura le monete, il cui valore non era più ancorato al prezzo dell'oro, iniziarono a fluttuare e nel 1973 il cambio yen/dollaro giunse al rateo di 308/1. Da allora, l'apprezzamento della moneta giapponese è proseguito, per giungere alla parità di 120 yen per dollaro. In questo contesto si inserì la crisi petrolifera del 1973, conseguente alla decisione dei Paesi dell'Opec di ridurre le esportazioni di petrolio, misura che provocò un consistente rincaro di questa materia prima, indispensabile all'industria giapponese per la produzione sia di derivati, sia di energia elettrica (77% del fabbisogno all’epoca). La costruzioni di grandi petroliere fu immediatamente sospesa, e per tre anni i cantieri navali soffrirono una grave crisi. Se per alcuni tipi di industrie la crisi fu intensa, in altri settori, a partire dal 1974, la crescita fu colossale. Ciò avvenne soprattutto nella fabbricazione di automobili, di prodotti elettrici ed elettronici. Tra il 1974 e il 1989, la produzione di autoveicoli crebbe da circa 7 a 13 milioni di unità annue per diventare, nel 1990, la prima nel mondo. La concorrenza dei veicoli giapponesi provocò tensioni commerciali, soprattutto da parte del governo statunitense che, incalzato dai costruttori nazionali, nel 1981 iniziò a negoziare restrizioni alle importazioni dal Giappone (Toyota e Nissan risposero aprendo impianti negli USA). Poi nel settore elettrico Hitachi, Toshiba, Fujitsu, Sony ecc.: dai tardi anni Settanta, tutte queste imprese iniziarono la produzione di videocassette, registratori, computer, semiconduttori, circuiti integrati, fax e telefoni cellulari. Tuttavia, l'economia giapponese, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, al di là dell'apparente floridezza, ha in sé i segni di una grande fragilità. Infatti, il mercato interno è sostanzialmente «drogato» dall'incentivo ai consumi consentiti dal facile ricorso al prestito bancario. Il problema, che inizierà a manifestarsi nella metà degli anni Novanta, riguarda le gravi difficoltà nel recupero dei crediti da parte degli istituti bancari. Le grandi banche soffrono nel 1998-99 dell'insolvenza di molti clienti, singoli cittadini e imprese ed accumulano perdite che soltanto la ricapitalizzazione e il sostegno del governo riesce a contenere. La recessione colpisce imprese e famiglie. In questa situazione, grandi e piccole imprese del settore privato e il settore pubblico iniziano a ricorrere alla riduzione del personale. La percentuale di popolazione attiva senza lavoro alla fine del 2002 raggiunge il 5,2 per cento, un record negativo se si pensa che nel 1970 la percentuale era pari all'1,1. Il licenziamento ha gravi conseguenze sociali e individuali. Il disoccupato assai spesso si considera un emarginato e vive la sua nuova condizione con un senso di vergogna, giungendo in alcuni casi alla scelta estrema di togliersi la vita. Nel 1997 si sono suicidate 23465 persone, nel 1998 i suicidi hanno superato la soglia di 30000 unità. Un altro problema sociale che grava sulla società giapponese è costituito dall'invecchiamento della popolazione, dovuto all'allungamento della speranza di vita e al calo delle nascite, particolarmente sensibile rispetto al "baby boom" degli anni Sessanta. Una peculiarità del Giappone è costituita dai rapporti esistenti tra il sistema burocratico e quello politico. La particolarità risiede nel potere di gestione e di iniziativa legislativa dei burocrati. Infatti, a differenza di quanto avviene nelle democrazie occidentali, in Giappone le proposte di legge raramente sono di iniziativa parlamentare. In genere, sono i funzionari di medio livello dei singoli ministeri che provvedono "motu proprio" o su sollecitazione di enti locali e associazioni a stilare i disegni di legge, dando così avvio a un iter che va dal basso verso l'alto e che, dopo mediazioni interministeriali e interne alla coalizione di governo, si conclude con la presentazione di un disegno di legge governativo. Infatti, al ministro e a uno o più sottosegretari di appartenenza politica si affianca un sottosegretario di provenienza burocratica che è anche il vertice dell'apparato. Considerato che, soprattutto nel Partito liberaldemocratico (P.L.D.), molti parlamentari sono di provenienza burocratica, appare evidente che l'azione di quel partito è avvantaggiata dall'intreccio di rapporti personali con singoli funzionari superiori. In sostanza, il sistema politico appare relativamente debole, mentre i funzionari ministeriali fruiscono di ampi margini di azione e intervento [Digitare qui]
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