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CARROZZO-CIMAGALLI, Storia della musica occidentale, vol. 2, Sintesi del corso di Storia Della Musica Moderna E Contemporanea

Riassunto del testo "Storia della musica occidentale - vol. 2" di Mario Carrozzo e Cristina Cimagalli (Armando Editore). Tale riassunto riporta in maniera curata e ordinata i contenuti di ciascun capitolo del volume, senza però fare riferimento agli approfondimenti presenti nel libro.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 14/10/2020

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Scarica CARROZZO-CIMAGALLI, Storia della musica occidentale, vol. 2 e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Musica Moderna E Contemporanea solo su Docsity! M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 STORIA DELLA MUSICA OCCIDENTALE, VOL. 2 Dal Barocco al Classicismo viennese 16.1. TEORICI, UMANISTI E COMPOSITORE VERSO LA MONODIA. Storia di quattro teorici e due ‘camerate’ Durante il Quattrocento e il Cinquecento, oltre alla polifonia, si svolgeva anche un’intensa pratica di musica monodica, definita ‘umanistica’. Nelle principali corti italiane, i letterati umanisti cantavano o facevano cantare le loro poesie su semplici moduli musicali: un unico cantante era generalmente accompagnato da un liuto o da una da gamba. Il testo poetico era posto in primo piano, mentre la musica si limitava a servirlo con uno stile di canto molto simile alla recitazione stessa. Era uno stile monodico, quasi ibrido tra recitato e cantato, molto diffuso in tutta la penisola. Nel XVI secolo iniziarono a diventare monodici anche alcuni generi tipicamente polifonici, come la frottola, ma anche il madrigale, eseguito monodicamente cantando solo la parte superiore e affidando quelle inferiori ad uno o più strumenti. Anche in campo teorico, si iniziò a valutare la monodia. Addirittura, Glareano (1488-1563) scrive, nel suo trattato Dodecachordon (1547), che era più appropriato considerare veri musicisti coloro che inventavano melodie monodiche piuttosto che i compositori polifonici, che costruivano le loro composizioni a partire da un cantus firmus già esistente. Nicola Vicentino (1511-1576) scrisse il trattato L’antica musica ridotta alla moderna prattica (1555). Egli auspicava l’unione della ‘moderna prattica’ con i modelli musicali dell’antica Grecia per creare composizioni polifoniche [a quel tempo, contrariamente ad oggi, si pensava che i greci non conoscessero la polifonia] non troppo elaborate dal punto di vista contrappuntistico, per favorire la comprensibilità del testo: si dovevano adoperare al massimo quattro voci, seguendo scrupolosamente la pronuncia e l’accentuazione delle parole. Egli voleva anche reintrodurre nella concreta pratica musicale tutti e tre i ‘generi’ musicali greci: diatonico, cromatico ed enarmonico. La rivitalizzazione dell’armonia però non avvenne, nonostante la creazione di strumenti appositi (l’archicembalo e l’arciorgano). Per queste sue idee, Vicentino ebbe una polemica con il portoghese Vicente Lusitano, che vinse la disputa. A metà Cinquecento, un’aspra polemica si scatenò tra Gioseffo Zarlino e Vincenzo Galilei: 1. Zarlino (1517-1590) era accusato da Galilei di essere un accanito sostenitore della polifonia che non considerava le novità della monodia, quindi un ‘conservatore’. Galilei, che pensava di guardare avanti e di essere un ‘progressista’, in realtà prendeva come modello l’antica Grecia, che faceva parte ormai del passato. Zarlino scrive, nel suo trattato Le istitutioni harmoniche del 1558, che ogni epoca fa un passo avanti dal punto di vista tecnico rispetto alle precedenti: con questo non voleva dire che la musica dei Greci fosse inferiore a quella del loro presente; anzi, riteneva che fosse più espressiva, soprattutto perché i testi usati nelle composizioni polifoniche del Cinquecento non potevano competere con i capolavori della letteratura greca. A differenza di Galilei, inoltre, Zarlino non concepiva la musica al servizio M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 della parola, ma le due arti dovevano avere piena autonomia. La musica non doveva imitare il linguaggio parlato, ma doveva unirsi ad esso mantenendo la propria indipendenza e libertà. 2. Vincenzo Galilei (1520-1591, allievo di Zarlino) voleva invece recuperare la musica monodica dell’antica Grecia come modello per il presente. Secondo lui, infatti, i vantaggi della monodia erano molteplici: essa è una forma di espressione più naturale, lascia comprendere chiaramente le parole, stimola un ascolto di tipo emotivo e non solo intellettualistico. La monodia più perfetta era quella che si avvicinava di più alla declamazione naturale, come quella degli attori della commedia dell’arte; bisognava quindi rinunciare ai madrigalismi, alle ripetizioni di parole per soli finni musicali, ai ritmi di danza che irrigidivano la scansione ritmica delle villanelle e di altre forme simili. La musica doveva essere al servizio della parola. Le opinioni di Galilei erano condivise anche un gruppo di giovani intellettuali che egli frequentava, che si riunivano regolarmente a Firenze nella casa del conte Giovanni de’ Bardi (1534-1612), costituendo un gruppo informale chiamato camerata de’ Bardi [non ‘accademia’ perché non era dotato di regole e statuti]: si discuteva liberamente di poesia, astrologia, scienze, sport e musica. Il periodo più attivo della camerata fu tra gli anni ’70 e ’80 del Cinquecento. Tra i suoi partecipanti, vi erano: Galilei, Bardi, il cantante e compositore Giulio Caccini (1545-1618), lo scienziato Pietro Strozzi, i giovani poeti Ottavio Rinuccini (1562-1621), Giovanni Battista Strozzi, Giovan Battista Guarini e Gabriello Chiabrera. Il conte Bardi, essendo egli stesso un valente musicista, aveva stimolato da gran tempo le ricerche di Galilei: finanziò i suoi studi a Venezia con Zarlino nei primi anni ’60, lo incoraggiò a realizzare in pratica le sue teorie, componendo in stile monodico. Per la camerata, Galilei e Caccini composero alcune composizioni in stile monodico. Nel 1592 la camerata si sciolse, perché Bardi si trasferì a Roma. Negli anni ’90 nacque un’altra camerata a Firenze, la camerata di Corsi, che si riuniva nel palazzo di Jacopo Corsi (rivale di Giovanni de’ Bardi). L’esponente di punta di questa camerata fu Jacopo Peri (1561-1633), rivale di Caccini. Le due camerate erano reciprocamente esclusive, anche se personaggi come Galilei e Rinuccini parteciparono successivamente a tutte e due. La camera di Corsi – a differenza della camerata de’ Bardi, che animava più che altro discussioni teoriche – cercò di realizzare eventi musicali concreti, basati sulle conclusioni che le ricerche in casa Bardi ritenevano di aver raggiunto: che cioè nell’antica Grecia le tragedie fossero interamente cantate [cosa non vera] e che per riprodurre gli stessi effetti de musica greca bisognasse usare un tipo di emissione vocale a metà tra canto e recitazione, che venne chiamato ‘recitar cantando’. Il canto doveva essere monodico, accompagnato dagli strumenti con semplici armonie, doveva rispettare le inflessioni della recitazione, evitando salt melodici e grandi estensioni, ma oscillare tra note contigue. Il ritmo doveva essere libero e flessibile, come quello della declamazione naturale, senza lasciarsi vincolare dalla rigida scansione del tactus che regolava le esecuzioni di musica polifonica. Il motivo per cui questi nobili fiorenti preferirono la monodia alla polifonia è di natura sociologica: essi erano dilettanti e non musicisti professionisti, per cui non conoscevano a fondo il contrappunto; inoltre, amavano la poesia, che ebbero modo di musicare facilmente attraverso lo stile monodico. Nel 1594-95, grazie ai finanziamenti di Corsi, fu creata la prima opera: Dafne, pastorale drammatica su testo di Ottavio Rinuccini e musica di Jacopo Peri e di Jacopo Corsi. Purtroppo, è andata perduta. Sono stati perduti anche altri tentativi di piccole pastorali monodiche, musicate da Cavalieri. M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 1608 –Ballo delle Ingrate. Un balletto di corte con voci e strumenti, su testo di Rinuccini. Argomento libertino, imperniato sulla minaccia di punizioni infernali per le donne che non acconsentono ai loro innamorati. Tra i ballerini, c’erano anche il duca Vincenzo e suo figlio Francesco. La partitura fu pubblicata nel 1638, all’interno dei Madrigali guerrieri e amorosi. 1610 – Missa ‘In illo tempore’, a sei voci a cappella. Messa parodia sull’omonimo mottetto del compositore cinquecentesco fiammingo Nicolas Gombert. È riferibile alla ‘prima prattica’.1610 – Vespro della Beata Vergine, in ricco stile concertante, per voci e strumenti. Riferibile alla ‘seconda prattica’. La Missa ‘In illo tempore’ e il Vespro della Beata Vergine fanno parte di un’unica pubblicazione, che riporta la dedica al papa Paolo V Borghese, come se M. sperasse di allacciare rapporti con il mondo romano. Non fu così. 1612 – muore il duca Vincenzo e il suo successore, Francesco IV, licenzia M. dopo vent’anni di servizio alla corte di Mantova. Non si bene bene il perché. 1613 – maestro di cappella in San Marco a Venezia, dopo aver superato un rigido concorso. M. passa dalla condizione di servitore di un signore assoluto alla condizione di pubblico funzionario, ben retribuito e rispettato, in una repubblica vivace e aperta. Sta a Venezia fino alla morte, anche se il nuovo duca di Mantova, Ferdinando Gonzaga, lo richiama. M. non accetta, ma comunque continua a scrivere musiche anche per la corte mantovana. A Venezia, la sua produzione madrigalistica registra un’ulteriore evoluzione. 1614 – Sesto libro de madrigali. 1619 – Settimo libro de madrigali. Da qui in poi applica sistematicamente al madrigale sia la monodia con basso continuo (il madrigale quindi non è più polifonico) sia l’inserimento di altre parti strumentali autonome. La mescolanza di voci e strumenti è lo ‘stile concertante’, infatti questo volume porta il titolo di Concerto. 1638 – Ottavo libro de madrigali, intitolato Madrigali guerrieri et amorosi con alcuni opuscoli in genere rappresentativo, che saranno per brevi episodii frà i canti senza gesto. Alcune composizioni di questo volume prevedono un’esecuzione ‘rappresentativa’, dotata di ‘gesto’, di azione scenica, nell’ambito della musica da camera, non sul palcoscenico. Combattimento tra Tancredi et Clorinda: - dall’Ottavo libro de madrigali; - su testo tratto dalla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso; - madrigale già rappresentato nel 1624 a Venezia, nel palazzo del signor Girolamo Mozzenigo, durante il carnevale, davanti ad una cerchia di nobili; - tre cantanti, che si avvicendano sempre in stile monodico: Testo (narratore), Tancredi, Clorinda; - quattro viole da braccia (soprano, contralto, tenore e basso), un clavicembalo e un contrabbasso da gamba (basso continuo); - teatro da camera; - novità: stile concitato, per esprimere la passione bellica dell’ira, con note ribattute velocemente e abbinate a parole esprimenti ira e sdegno. Fino a quel momento, gli affetti M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 rappresentati erano solo due, ovvero la temperanza (stile temperato) e l’umiltà o supplicazione (stile molle). Questo madrigale tocca quindi tutte le corde dell’animo; - incarna le quattro esigenze del barocco: monodia con basso continuo, stile concertante, rappresentatività, che cooperano per muovere gli affetti degli ascoltatori. Principali composizioni di Monteverdi. I lavori di Monteverdi, raccolti nel catalogo Stattkus-Verzeichnis, possono essere classificati in 3 categorie: musica vocale profana, opere e musica sacra. ▪ MUSICA VOCALE PROFANA: o MADRIGALI, 9 libri, di cui l’ultimo pubblicato postumo: 1. Libro I, 1587: Madrigali a cinque voci; 2. Libro II, 1590: Il secondo libro de madrigali a cinque voci; 3. Libro III, 1592: Il terzo libro de madrigali a cinque voci; 4. Libro IV, 1603: Il quarto libro de madrigali a cinque voci; 5. Libro V, 1605: Il quinto libro de madrigali a cinque voci; 6. Libro VI, 1614: Il sesto libro de madrigali a cinque voci; 7. Libro VII, 1619: Concerto. Settimo libro di madrigali; 8. Libro VIII, 1638: Madrigali guerrieri, et amorosi con alcuni opuscoli in genere rappresentativo, che saranno per brevi episodi fra i canti senza gesto; 9. Libro IX, 1651: Madrigali e canzonette a due e tre voci. o ALTRE COMPOSIZIONI DI MUSICA VOCALE PROFANA: - Canzonette a tre voci libro primo, Venezia, 1584; - Scherzi Musicali a tre voci, Venezia, 1607; - Canzonette da Madrigali e canzonette a due e tre voci, libro 9, 1651. ▪ OPERE: Le sole opere di Monteverdi giunte complete fino a noi sono: - L'Orfeo, favola in musica, in un prologo e 5 atti su libretto di Alessandro Striggio, rappresentata per la prima volta a Mantova nel 1607; - Il ritorno d'Ulisse in patria, dramma per musica, in un prologo e 3 atti, su libretto di Giacomo Badoaro, dall'Odissea di Omero, rappresentata per la prima volta a Venezia nel 1640; - L'incoronazione di Poppea, in un prologo e 3 atti, su libretto di Gian Francesco Busenello, dagli Annali di Tacito, dalle Vite dei Cesari di Svetonio, e dall'Octavia dello pseudo-Seneca, rappresentata per la prima volta a Venezia nel 1643; - Dall'opera L'Arianna (1608) è giunto a noi solamente il famoso Lamento di Arianna. Altre composizioni di genere drammatico: - Il ballo delle ingrate in stile rappresentativo. Prima rappresentazione a Palazzo Ducale (Mantova) il 4 giugno 1608. La musica è stata pubblicata nei Madrigali Guerrieri et Amorosi (Venezia, 1638); - Il combattimento di Tancredi e Clorinda, testo di Torquato Tasso dal canto XII della Gerusalemme liberata, rappresentato la prima volta a Palazzo Mocenigo a Venezia nell'anno 1624. La musica è stata pubblicata nei Madrigali Guerrieri et Amorosi (Venezia, 1638); - De la bellezza le dovute lodi, ballo, pubblicato negli Scherzi Musicali (Venezia, 1607); - Tirsi e Clori, ballo. Prima rappresentazione a Mantova, nel Palazzo Ducale, nel gennaio 1616. Pubblicato nel Libro VII dei Madrigali (1619); - Volgendo il ciel, ballo. Testo di Ottavio Rinuccini. Prima rappresentazione 30 dicembre 1636 (?) a Vienna, Palazzo Imperiale. Pubblicato nei Madrigali guerrieri et amorosi (Venezia, 1638); - La Maddalena, sacra rappresentazione. Testo di Giovan Battista Andreini. Rappresentata in Mantova, nel teatro di corte, nel marzo 1617. Monteverdi compose solamente un'aria per tenore: "Su le penne M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 dei venti…", con un ritornello a cinque parti (nel Prologo). La musica è stata pubblicata in Musiche de alcuni eccellentissimi Musici composte per la Maddalena, Sacra Rappresentazione di Gio. Battista Andreini Fiorentino (Venezia, 1617). ▪ MUSICA SACRA: - Sacre Cantiunculae tribus vocibus Liber Primus (1582); - Madrigali Spirituali a quattro voci (1583) (di questa opera si conserva un'unica parte di basso); - Sanctissime Virgini Missa senis vocibus: ac Vesperae pluribus decantande (1610) (comprendente anche il Vespro della Beata Vergine); - Selva morale e spirituale (1640); - Messa a quattro voci e Salmi (opera postuma, 1650); - Alcuni mottetti di Claudio Monteverdi sono compresi nel Libro Primo dei Mottetti (1620) e nel Libro Secondo dei Mottetti (1620) di Giulio Cesare Bianchi. 18.1. L’OPERA ITALIANA DEL SEICENTO. Storia dell’opera, dalla corte all’impresa L’opera cambia in meno di mezzo secolo: da opera di corte a opera impresariale. Firenze è una città importante per l’opera. Lì si fanno i primi tentativi di opera di corte e si sperimenta il recitar cantando. Si organizzano spettacoli ed eventi fastosi e irripetibili per celebrare occasioni solenni. I primi esemplari di opera sono creati dal personale fisso della corte: letterati, musicisti, architetti, ingegneri, falegnami, sarti, manovali, ecc. Il pubblico è scelto, ristretto, e accede solo tramite invito. Il principe non bada a spese, perché deve celebrare e mostrare il proprio prestigio e la propria grandezza. Oltre a Firenze, anche le corti di Mantova, Ferrara, Piacenza, Parma, Torino. Anche a Roma. Si promuove l’opera nei palazzi della nobiltà e dei cardinali e in altre istituzioni, come i seminari e i collegi religiosi. La produzione operistica romana assume una connotazione particolare, legata alla facciata ‘cattolica’ della città: oltre alle trame della mitologia classica, abbondano quelle della vita dei santi o da cui si possa trarre una conclusione edificante. Il primo spettacolo in assoluto nel nuovo stile monodico, tra quelli rimasti, viene realizzato a Roma: la Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Emilio de’ Cavalieri, allestita dalla Congregazione dell’Oratorio nel carnevale del 1600, dal contenuto moralistico. Simile è la seconda opera è del 1606, dal titolo Eumelio: di Agostino Agazzari, è un dramma pastorale, con personaggi allegorici, in cui il protagonista è conteso tra i vizi e le virtù e la conclusione è ‘virtuosa’. Il Sant’Alessio di Stefano Landi, del 1631, presenta molte novità: 1. È una delle prime opere a noi note in cui si mette in scena la vita (anche se leggendaria e idealizzata) di un uomo concreto, con i suoi problemi e i drammi interiori. Si inaugura così il filone agiografico dell’opera romana: seguiranno molte opere imperniate sulla vita dei santi. Inoltre, il pubblico si abitua agli spettacoli operistici e, quindi, anche all’inverosimiglianza: non si sente più la necessità di ambientare le vicende in mitiche età dell’oro o tra gli dei dell’Olimpo per giustificare dei dialoghi ‘cantati’. M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 1615 – Ricercari et canzoni franzese […] Libro primo. Dedicato al cardinale Aldobrandini. Di stampo molto conservatore. Aldobrandini, infatti, era impegnato nella severa attuazione dei dettami dei Concilio di Trento e F. non può che assecondare i suoi gusti. 1615 – Toccate e partite d’intavolatura di cimbalo […] Libro primo. Dedicato al cardinale e duca di Mantova Ferdinando Gonzaga. Comprende dodici toccate, otto Partite sopra Rugiero, dodici sopra la Romanesca e sei sopra la Monicha. Stile molto più avanzato. Presenta novità: • F. introduce la rivoluzione monteverdiana della ‘seconda prattica’ all’interno della musica strumentale. Scrive, infatti, nell’iniziale avvertimento «Ai lettori», che vuole ricreare con uno strumento a tastiera gli ‘affetti cantabili’ che i ‘madrigali moderni’ producono con efficacia e varietà. • Le toccate e le partite sono le migliori forme che si prestano al nuovo stile vocale monodico: permettono di realizzare uno stile ‘parlante’, libero, mutevole dal punto di vista armonico, ritmico e metrico. • Peculiarità frescobaldiana nell’uso della tecnica variativa: le variazioni procedono per struttura cumulativa, non additiva. Significa che non si tratta di un semplice inanellamento di una variazione all’altra, ma ciascuna comparsa del tema è funzionale ad un progetto architettonico di più ampio respiro. Sia le toccate che le partite sono generi idiomatici – perché modellati sulle esigenze manuali dello strumentista – e derivano dall’antica prassi della musica improvvisata, che prevedeva un impianto formale elastico, ma al tempo stesso saldo, in quanto basato su un ‘canovaccio’ da seguire. La toccata, così come fu sviluppata dai compositori della scuola veneziana (soprattutto da Claudio Merulo) e da Luzzasco Luzzaschi, era probabilmente costruita come libero sviluppo in sezioni contrastanti (idiomatiche e contrappuntistiche) della ‘intonazione salmodica’, ovvero la formula gregoriana di recita dei salmi, che fungeva quasi da cantus firmus della composizione strumentale, dettandone struttura melodica e armonica. La toccata nasceva infatti come piccola forma preludiante per fornire ai cantori liturgici, prima del canto dei salmi, la giusta intonazione. Nelle toccate di F. si percepisce poco la presenza di un’intonazione salmodica, ma è molto evidente la struttura in segmenti contrastanti: F. mantiene l’antica strutturazione a pannelli per le sue toccate, in cui ogni segmento esprime uno degli affetti. Nell’ambito didattico, però, F. è molto legato all’antica prassi, anche per quanto riguarda le toccate. F. si dedica comunque anche ad altri generi: ricercari, canzoni, capricci e fantasie. L’importanza maggiore di F. è proprio quella di aver conferito dignità di opus di altissimo livello artistico ai generi musicali idiomatici, per loro natura estemporanei e ‘volatili’, ora in grado di muovere gli affetti degli ascoltatori. F. ottiene molta fama e stima dai contemporanei. 1626 – F. pubblica un volume contenente i Ricercari et canzoni franzese (1615) e Il primo libro di capricci (1624) presso l’editore veneziano Vincenti, senza nessuna dedica. Significa che il valore commerciale di tale pubblicazione è molto alto, visto che in questo caso è l’editore ad addossarsi le spese. 1627 – Toccate e partite d’intavolatura di cimbalo […] Libro secondo. M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 La fama di F. oltrepassa anche i confini italiani e arriva fino a Vienna, dove l’organista di corte è Johann Jakob Froberger, che nel 1637 va a Roma a studiare con F. Froberger diventa il veicolo principale per la diffusione delle novità stilistiche frescobaldiane nel mondo germanico. 1643 – F. muore. 20.1. ORATORIO E ORATORIA. Storia di vari modi di orare in musica L’oratorio nasce a Roma agli inizi del Seicento. Da tempo la Chiesa cattolica era più interessata agli aspetti politi ed economici piuttosto che a quelli spirituali. Al Concilio di Trento, inoltre, seguirono solo una revisione dottrinale ed un generico invito ad una moralizzazione dei costumi. Un gruppo di privati cittadini, però, tentò di dare un contributo più profondo e coerente all’applicazione del messaggio evangelico, istituendo nuovi ordini religiosi o riformando quelli già esistenti. Filippo Neri (1515-1595), sacerdote fiorentino attivo a Roma, più di tutti utilizzò la musica per il suo apostolato. Voleva che la gente comune si riavvicinasse alla pratica religiosa nella dimensione quotidiana. Verso il 1550 inizia a radunare un piccolo gruppo di laici, con cui si incontra regolarmente per pregare. Man mano, la gente aumentava, grazie anche al carisma della sua personalità. Nei primi tempi, si riunivano in una soffitta sopra la chiesa romana di S. Girolamo della Carità, in seguito presso l’Oratorio della Pietà. Nel 1575 il papa Gregorio XIII donò a F.N. la vecchia chiesa di S. Maria in Vallicella, che in seguito fu abbattuta per costruire la Chiesa Nuova, anche grazie ai fondi trovati dalle numerose persone di alto ceto sociale che frequentavano gli incontri. Nel 1640 – quando F.N. era morto già da cinquant’anni – fu inaugurato un apposito edificio adiacente alla Chiesa Nuova, progettato da Francesco Borromini: l’oratorio di S. Maria in Vallicella. Il termine ‘oratorio’ [orare=pregare] si riferisce sia al luogo destinato alla preghiera che all’adunanza stessa. Congregazione dei Padri dell’Oratorio fu denominato poi il gruppo di sacerdoti che coadiuvavano Filippo, in seguito semplicemente chiamati ‘oratoriani’ o ‘filippini’. Negli oratori la musica aveva un posto di primo piano: oltre a pregare, si intonavano canti religiosi collettivi. Si eseguivano le laudi in volgare, essendo F.N. fiorentino, che già dal Quattro-Cinquecento avevano assunto una veste polifonica semplice, generalmente a tre voci. Nella seconda metà del Cinquecento furono stampati nove libri di laudi, composte appositamente per l’oratorio di F.N. Gli autori principali erano: Giovanni Animuccia (successore di Palestrina come maestro della Cappella Giulia e maestro di cappella dell’oratorio di F.N.), lo spagnolo Francesco Soto de Langa e Giovenale Ancina, entrambi membri della Congregazione dell’Oratorio. Forse collaborò anche de Victoria. Le laudi cantante nell’oratorio di F.N. avevano uno stile molto simile a quello delle forme profane ‘leggere’ del Cinquecento come, ad es., la villanella. Erano caratterizzate da una forma strofica e da un andamento quasi sempre omoritmico, con netta prevalenza della voce superiore. M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 C’erano anche le laudi dialogiche o drammatiche, scritte in forma dialogica: ad es., tra Anima e Corpo, tra Angelo e la Vergine, Gesù e la Samaritana, o tra i pastori del presepio. Struttura strofica, la musica sempre la stessa e a più voci. Rappresentavano però solo una piccola parte di tutta la produzione. Non si sentiva ancora l’esigenza barocca della teatralità. Con il passare degli anni cambia il contesto sociale. Già intorno al 1570 alle adunanze partecipavano numerosi vescovi, cardinali e aristocratici, mentre la partecipazione dei laici diminuiva. La gestione degli esercizi spirituali passò interamente ai professionisti. Un ecclesiastico declamava un sermone, preceduto e seguito da interventi musicali, che si facevano sempre più elaborati e affidati a musicisti di mestiere. Gli oratoriani iniziarono ad accostarsi al genere più nobile: il madrigale. Giovanni Francesco Anerio scrive il Teatro armonico spirituale (1619), una raccolta di quasi cento madrigali spirituali con basso continuo per l’organo. Alcuni di essi sono monodici; tuttavia il loro stile monodico è più simile a quello dei tradizionali madrigali polifonici che al nuovo ‘recitar’ cantando fiorentino. Nel frattempo, riaffiora l’elemento dialogico, annunciando la nuova esigenza barocca di assistere a scene drammatiche, tratte dalla storia sacra o allegoriche. Intorno agli anni ’30-’40 del Seicento – durante il pontificato di Urbano VIII – nasce e si definisce l’oratorio, un nuovo genere musicale, che incorpora le quattro caratteristiche principali dell’epoca barocca. I compositori di oratori iniziano ad attingere allo stile monodico operistico, creando delle opere in miniatura, di carattere sacro, scritte in versi poetici, ma senza scenografie, costumi o movimenti scenici. C’erano cantanti solisti, un piccolo coro (forse formato dai solisti riuniti) e alcuni strumenti: in genere due violini e basso continuo o il basso continuo da solo. Uno dei solisti veniva definito Historicus, o Testo, o Poeta, e svolgeva la parte di narratore, mentre gli altri cantanti impersonavano i personaggi della vicenda, intervenendo nel discorso diretto; il coro aveva ruoli collettivi (es. la folla). L’intera composizione era quasi sempre conclusa da un commento moraleggiante del coro. La parte dell’Historicus poteva essere anche distribuita tra voci diverse o affidata a tutti il coro. In seguito, la figura del narratore andò scomparendo e si introdussero personaggi secondari, per rendere più articolato e più chiaro lo svolgersi degli eventi. L’oratorio divenne simile ad una piccola opera, senza scene, costumi e azione drammatica. Nel 1706, Arcangelo Spagna scrive una raccolta di libretti per oratori, dal titolo Oratorii, overo melodrammi sacri. Nel Discorso intono a gl’oratori annesso alla stessa raccolta, che costituisce il primo tentativo a noi noto di tracciare una storia di questo genere musicale, il letterato ribadisce che l’oratorio è un «perfetto Melodramma spirituale» e richiede per esso la puntale osservanza delle regole aristoteliche. L’oratorio poteva essere eseguito in due modi: 1. Un oratorio lungo, di ca un’ora, diviso in due parti intercalate dalla predica; 2. Due oratori più brevi, ca mezz’ora ciascuno, di cui il primo narrava in genere una storia tratta dall’Antico Testamento, mentre il secondo, eseguito dopo il sermone, dal Nuovo Testamento. Il predicatore, poi, commentava l’insegnamento ricevuto. I principali compositori della prima fase dell’oratorio sono gli stessi delle opere ‘barberiniane’: i fratelli Virgilio e Domenico Mazzocchi, Marco Mazzaroli e Luigi Rossi. M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 Il testo poetico riguardava solitamente argomenti amorosi. Esistevano però anche cantate sacre in lingua latina o italiana, commissionate da ecclesiastici. Nella seconda metà del secolo, il testo assunse sempre più frequentemente il carattere di monologo cantato da un vero e proprio personaggio, arcadico e convenzionale (es. Tirsi o Clori) oppure tratto da poemi letterari (es. Armida o Didone). La cantata assumeva così un contenuto quasi teatrale, finalizzato a muovere gli affetti degli ascoltatori. Sono quindi riassunte le quattro caratteristiche dell’epoca barocca. Roma era il principale centro di diffusione della cantata, grazie ai casati principeschi che lottavano per primeggiare nella vita economica e politica della città [il potere principale, la Chiesa, era interessato più alla musica sacra]. Gli aristocratici romani assumevano nel loro palazzo un gruppo di musicisti stabili per il consumo musicale ordinario, all’evenienza chiamando anche figure esterne per particolari ed importanti occasioni. I compositori – tra cui Frescobaldi, Carissimi, Stradella, Corelli e Alessandro Scarlatti – passavano da un palazzo all’altro, componendo musica per ogni genere di occasione. Tutto ciò permise la sperimentazione e lo sviluppo di vari generi: l’opera, l’oratorio, la sonata, il concerto grosso e la cantata. Quest’ultima era il genere più amato e richiesto, perché richiedeva un piccolo organico e quindi l’esecuzione non era dispendiosa, il suo stile musicale era raffinato e aggiornato alle nuove esigenze estetiche barocche e, inoltre, i testi erano spesso scritti dai letterati di corte o, addirittura, dai mecenati stessi. Si verificò un vivo scambio culturale, insolito per l’epoca: tre musicisti (Pasquini, Corelli, Scarlatti) divennero membri dell’accademia letteraria dell’Arcadia. Nei primi anni del Settecento, l’interesse per la cantata da parte dei nobili iniziò a scemare, in favore dell’opera. Non si organizzavano più esecuzioni nelle corti e gli aristocratici iniziarono a presenziare alle stagioni operistiche. Un minimo interesse per la cantata, però, rimase fino all’Ottocento, eseguita in particolari occasioni pubbliche e solenni. 22.1. LA SONATA BAROCCA. Storia di nuove soluzioni per la musica strumentale d’insieme Nascono nuovi generi musicali indipendenti dal testo. La ‘canzone da sonar’ cinquecentesca discendeva dalla chanson vocale parigina e da esse prese le caratteristiche formali e stilistiche. Tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, nella stessa area di diffusione della canzone (zona veneziana), iniziò ad apparire su alcuni frontespizi di musiche per gruppi strumentali il termine ‘sonata’. inizialmente, i due termini – ‘canzone da sonar’ e ‘sonata’ – erano intercambiabili; probabilmente, il secondo derivò dal primo. Il loro contenuto musicale era abbastanza simile: forma in più sezioni metricamente contrastanti. La differenza, che si fa evidente soprattutto dagli anni 1600-1630, sta in un fattore di ordine sociologico: 1. Le canzoni strumentali erano scritte soprattutto da organisti, che ricevevano una completa eduzione della teoria musicale e del contrappunto rigoroso; M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 2. Le sonate erano scritte da esecutori professionisti, principalmente violinisti, più impegnati nella tecnica virtuosistica, ricerca timbrica, improvvisazione ‘affettuosa’ degli abbellimenti, quindi in uno stile più idiomatico. Nella prima fase, la sonata impiegava un nutrito numero di esecutori, anche divisi in più cori, ma dai primi decenni del Seicento gli organici si fecero più ristretti: - La più comune è la sonata a tre, con tre parti strumentali impiegate: due strumenti monodici (in genere violini) e basso continuo cifrato, scritto su un pentagramma. Il numero degli strumenti però poteva variare, perché si potevano fare raddoppi. L’esecuzione poteva essere affidata anche al clavicembalo. - Sonata a due (o sonata solistica) prevedeva uno strumento monodico con basso continuo. I primi esempi, soprattutto in Lombardia e Veneto, risalgono al 1610 con il milanese Giovanni Paolo Cima, il bresciano Biagio Marini (gli Affetti Musicali è il primo volume a stampa di sonate a due e a tre). La scrittura era idiomatica e finalizzata a muovere gli affetti. Durante la metà del secolo, un vasto repertorio fu prodotto a Modena e Bologna, con Maurizio Cazzati, Giovanni Battista Vitali, Giovanni Maria Bononcini, Giuseppe Torelli e soprattutto Arcangelo Corelli. Arcangelo Corelli (1653-1713) rimane un punto di riferimento per la sonata e per il concerto grosso. Nato a Fusignano, in Romagna, si istruì musicalmente in ambienti bolognesi; intorno ai vent’anni si trasferì a Roma, dove rimase fino alla morte. Fu uno dei violinisti più famosi della città, ma anche un ottimo direttore. Era molto conteso, infatti fu al servizio dei tre maggiori mecenati della Roma seicentesca: - Regina Cristina di Svezia, per cui C. compose sonate per gli intrattenimenti privati, diresse compagini strumentali e a lei dedicò la sua prima opera a stampa, la raccolta di sonate da chiesa op. I; - Cardinale Benedetto Pamphilj (dal 1684), a cui dedicò le dodici sonate da camera, op. II; - Cardinale Pietro Ottoboni (dal 1690), grande mecenate, nipote del pontefice Alessandro VIII. In parallelo, C. aveva anche una ‘libera professione’ presso altre chiese di Roma e presso il teatro romano Tordinona. In vita pubblicò un ristretto numero di composizioni: - Due serie di dodici sonate a tre da chiesa (op. I, 1683 e op. III, 1689); - Due serie di dodici sonate a tre da camera (op. II, 1685 e op. IV, 1694); - Una raccolta di dodici sonate a due per violino e basso continuo, di cui sei da chiesa e sei da camera (op. V, 1700) - [postuma: dodici concerti grossi, di cui otto da chiesa e quattro da camera (op. VI, 1714). Da C. e Torelli in poi la scrittura per lo strumento solista si fa sempre più virtuosistica, esaltando al massimo le doti tecniche ed espressive dell’esecutore. L’attenzione dei compositori-violinisti, agli inizi del Settecento, era soprattutto per la sonata a due: Vivaldi, Veracini, Locatelli, Tartini. [Per un approfondimento sul violino, vedere p. 166 del libro]. M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 Differenza sociologia e nella destinazione d’uso della musica strumentale, infatti sia la sonata solistica che quella a tre, a seconda dell’ambiente in cui venivano eseguite, potevano essere di due tipi: 1. Sonata da chiesa: - Per le solenni cerimonie liturgiche; - Stylus ecclesiasticus: influssi contrappuntistici della ‘prima prattica’, carattere fugato, ma anche modernità del linguaggio strumentale sonatistico; - Quattro movimenti nella stessa tonalità (a volte, uno dei movimenti centrali poteva essere su un tono vicino): lento-veloce-lento-veloce; - Rigidità strutturale; - Basso continuo con organo; - Il musicologo Stephen Bonta formulò nel 1969 un’ipotesi: le chiese che non potevano permettersi di avere un coro polifonico stabile, avrebbero impiegato le sonate da chiesa per sostituire alcune parti del Proprium o dei vespri, mentre il celebrante recitava il testo liturgico. Questa prassi probabilmente traeva origine dalla prassi organistica, che già, forse, prevedeva la presenza anche di strumenti monodici con l’organo. Si registrò infatti un parallelismo tra il declino di pubblicazioni organistiche e il fiorire delle sonate da chiesa. 2. Sonata da camera: - Per gli intrattenimenti musicali nei palazzi aristocratici; - Deriva dalla musica per danza, che prima di allora rientrava nella tradizione orale, con esecutori che improvvisavano su moduli musicali tradizionali detti ‘tenori’, eseguendo coppie di danze lenta-veloce, spesso con lo stesso materiale melodico; - Dall’abitudine seicentesca di riunire le musiche per danza in suites: successioni di danze (generalmente tre o più), alternativamente lente e veloci, o viceversa, nella medesima tonalità. I compositori iniziarono a inserire le musiche per danza nelle proprie composizioni strumentali, visto che erano molto amate dagli aristocratici. Le suite ‘artistiche’ non erano danzate e presentavano imitazioni contrappuntistiche, passaggi virtuosistici, raffinatezze ritmiche. Si cristallizzò una forma molto stilizzata. La forma più classica della suite è composta da: allemanda, corrente, sarabanda, giga. Per un lungo tempo si è pensato che questa struttura fosse attribuibile a Johann Jakob Froberger, ma in realtà non è così (lui spesso un utilizzava la giga), anche se il compositore ha il merito di aver dato dignità artistica a questo genere musicale, trattandolo come un organismo compatto. - Non ha struttura fissa: alterna genericamente tempi di danza differenti tra loro per andamento, stile e metro. Spesso era l’autore ad intitolare i suoi movimenti (Allemanda, Corrente, Gavotta, Sarabanda, Giga); - Basso continuo con clavicembalo o, talvolta, come in Corelli, con violone o arciliuto. Nel 1700 i due stili, ‘da chiesa’ e ‘da camera’, iniziarono a sovrapporsi e a fondere le caratteristiche. M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 Negli anni ’60 del Siecento, L. cominciò a collaborare con Molière alla creazione di numerose comédies-ballets: • Commedie recitate, con inserti musicali danzati; • La più famosa è Le bourgeois gentilhomme (Il borghese gentiluomo), del 1670; • Poesia, musica, danza erano giustapposte, non integrate in un’unica realtà, come succederà invece nella tragédie lyrique. Tragédie lyrique di Lully: • Poesia, musica, danza unite in un’unica realtà; • La prima è Cadmus et Hermione, del 1673; • Quasi tutte su libretto del poeta Philippe Quinalt; • Tragedie in versi, il cui testo veniva interamente musicato in un’alternanza di récits e di airs, con interventi corali e strumentali; • Inizio con un prologo, generalmente preceduto e seguito da un’ouverture strumentale, il cui testo, intonato spesso da personaggi allegorici, esplicitava la funzione principale di tutta la tragédie: glorificare la maestà del re – identificato col protagonista – per esaltare il prestigio della Francia. Il Re Sole, inoltre, doveva approvare gli argomenti dei libretti; • Cinque atti, ciascuno dei quali imperniato su un grandioso divertissement: un momento in cui l’azione si arrestava per dar luogo ad un balletto sontuoso, quasi fine a se stesso, spesso con ampie compagini corali. Luigi XIV esercitava una politica di centralizzazione: il re concesse a L., che era sotto il suo controllo, l’assoluto monopolio sugli spettacoli operistici. L. ottenne la direzione dell’Académie royale de musique, l’unica istituzione autorizzata ad allestire opere in Francia e a stamparne le partiture. Le opere venivano realizzate in anteprima a corte, per poi essere presentate al teatro del Palais Royal con apertura al pubblico pagante. L. godeva di un potere assoluto, soggetto solo alla persona del re, e lo esercitò senza scrupolo. 24.1. L’OPERA TRA SEI E SETTECENTO. Storia degli stili italiano e francese alla conquista dell’Europa Vienna, la capitale dell’impero asburgico, accolse le novità dell’opera italiana, soprattutto per ragioni politiche. Per ostentare il prestigio della corte imperiale, dopo la metà del Seicento furono allestiti spettacoli operistici in lingua italiana per festeggiare gli avvenimenti più importanti; le opere erano realizzate pressoché interamente da personale italiano, ma erano estremamente più fastose rispetto a quelle italiane. Gli spettacoli erano organizzati anche dalle piccole corti austro-tedesche. Le spese di allestimento erano sostenute dall’erario pubblico. Nel mondo germanico, l’opera italiana rientrava ancora pienamente nel campo del mecenatismo ‘istituzionale’ e non era ancora attività a fini di lucro. La città di Amburgo rappresenta un’eccezione. La sua situazione socio-politica aveva molti punti di contatto con quella di Venezia: città portuale e vivacissimo centro commerciale, pur essendo M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 formalmente soggetta all’impero, era di fatto una città-stato autonoma. I meccanismi di gestione impresariale del teatro tipici dell’opera veneziana si diffusero con successo in questa città, che dal 1678 si dotò di un teatro ‘all’italiana’, a cui si poteva accedere pagando un biglietto. Qui, inoltre, l’opera era cantata in tedesco (ca fino alla prima metà del Settecento). Già prima di Amburgo, erano già stati fatti tentativi di allestire spettacoli in lingua tedesca: p. es., la Dafne di Martin Opitz con musiche Heinrich Schütz (la partitura è perduta), rappresentata nel 1627 a Torgau (Sassonia) per le nozze della principessa Sophia Eleonora. Il libretto dell’opera è la traduzione tedesca della Dafne di Rinuccini/Peri, la prima opera in assoluto. Heinrich Schütz (1585-1672), forse il più grande musicista tedesco del Seicento, trascorse quasi tutta la sua vita a Dresda, come maestro di cappella alla corte di Sassonia. Compì due viaggi in Italia, che furono fondamentali per la sua esperienza stilistica: 1. 1609-1613, studiò con Giovanni Gabrieli ed entrò in contatto con lo stile veneziano, caratterizzato dall’impiego di masse corali contrapposte (stile policorale) e di numerosi strumenti concertanti anche all’interno della musica sacra; 2. 1628-1629, ancora a Venezia, dove il panorama musicale era cambiato «in meglio», come scrive Schütz stesso: era diffusa la ‘seconda prattica’ e probabilmente entrò in contatto con Monteverdi, iniziando ad usare il suo stile concitato e la concezione di musica come arte di muovere gli affetti. Le composizioni di Schütz, benché orientate prevalentemente sul repertorio sacro, rappresentano una personalissima sintesi della ‘seconda prattica’ italiana con la tradizione musicale luterana, a cui va aggiunto l’influsso delle ultime propaggini della tecnica contrappuntistica fiamminga. L’Inghilterra del tardo Cinquecento era caratterizzata da una vivace stagione madrigalistica (Thomas Morley, 1557-1602, fu uno dei principali esponenti) e una ricca produzione strumentale, soprattutto dedicata al virginale. Figura importante è John Dowland (1563-1626), che compone gli ayres: • Influenze dall’air de cour francese e dalla nascente monodia italiana; • Composizioni generalmente strofiche, scritte per più voci e liuto in ‘libri da tavolo’ [probabile che però l’autore stesso preferisse un’esecuzione per voce sola e liuto]. Il primo, vero tentativo di introdurre lo stile recitativo italiano si ha con Nicholas Lanier (1588-1666), che si era recato più volte in Italia all’inizio del Seicento. Il pubblico londinese però accettò l’inverosimiglianza di uno spettacolo drammatico cantato solo agli inizi del Settecento. Henry Purcell (1659-1695), forse il maggior compositore inglese seicentesco, scrive quelle che potremmo definire ‘semi-opere’: • Consistono in inserti musicali, spesso destinati al balletto, che infarciscono abbondantemente alcuni drammi recitati: ad es., The Fairy Queen (Londra, 1692) è un adattamento di A Midsummer Night’s Dream di W. Shakespeare, così come The Tempest (1695 ca); • Ruolo della musica analogo alla funzione che la musica aveva nel teatro recitato italiano del Cinquecento: da un lato, apriva la rappresentazione e occupava gli spazi tra un atto e l’altro (come gli intermedi), dall’altro era introdotta come musica di scena nei momenti in cui l’azione richiedeva un intervento sonoro (‘musica in funzione realistica’). M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 • Derivano dai masques: - Genere d’intrattenimento tipico dell’Inghilterra pre-cromwelliana; - Sofisticati e sontuosi balletti di corte corredati di musica vocale e strumentale; - Gli aristocratici vi partecipavano in triplice modo: 1. L’argomento del balletto era una glorificazione della saggezza e della potenza del re; 2. Potevano partecipare attivamente come ballerini; 3. Al termine del balletto, non esisteva più separazione tra danzatori e pubblico (ballo collettivo); - Aboliti nell’epoca repubblicana, a causa della loro valenza cerimoniale di esaltazione della monarchia; - Reintrodotti con la restaurazione, quasi esclusivamente all’interno dei drammi teatrali, come finzione scenica. • I libretti delle opere adatte in modo da poter inserire i masques, brevi spettacoli-nello- spettacolo, permettendo così l’irruzione di musica e danza all’interno del dramma recitato. Solo una delle composizioni teatrali di Purcell si può considerare un’opera vera e propria: il Dido and Aeneas (1689), uno spettacolo interamente musicato, di ridotte proporzioni. In esso anche i nobili protagonisti si esprimono cantando [≠ verosimiglianza]. Purcell utilizza il basso ostinato, per esaltare l’imprevedibile libertà della linea melodica soprastante e per utilizzare tutto l’arco espressivo degli affetti barocchi. L’unico tipo di repertorio in cui Purcell lo utilizza molto raramente è quello religioso: la musica dei suoi anthems [inni], infatti, segue con duttilità la declamazione espressiva del testo in prosa. La Spagna rimase pressoché impermeabile alla diffusione dell’opera in musica. Ci furono alcuni tentativi, con Giulio Rospigliosi, negli anni ’50-’60, ma senza successo. Fiorirono soltanto le zarzuelas: drammi recitati di argomento mitologico con inserti musicali. Negli ultimi anni del Seicento le composizioni di Corelli si diffusero con successo in tutta Europa, con tentativi di emulazione. George Muffat (1653-1704) – musicista di nascita francese ma di formazione tedesca, che studiò a Parigi con Lully e a Roma con Pasquini, conoscendo anche Corelli – tentò una conciliazione tra lo stile strumentale francese (ritmi di danza, impianto orchestrale a cinque parti) e quello italiano (impianto a tre parti, scrittura strumentale ‘eloquente’, espressiva, idiomatica). Anche in Francia ci fu questa moda, accolta soprattutto da François Couperin (1668-1733). Si fronteggiavano, in querelles, i sostenitori della musica italiana, con Couperin, e quelli della musica francese, soprattutto lulliana, il cui capofila era Jean Laurent Le Cerf de la Viéville. M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 26.1. BACH E HÄNDEL. Storia di un compositore ‘sedentario’ e di un compositore ‘viaggiatore’ Bach e Händel nacquero nel 1685. Ebbero due vite estremamente diverse: Bach non uscì mai dalla Germania, ricoprendo sempre incarichi stabili presso le corti o le istituzioni ecclesiastiche, mentre Händel esercitò la libera professione di operista, vivendo soprattutto all’estero. I due compositori celano comunque una profonda affinità caratteriale ed artistica: entrambi rivelano una straordinaria capacità di ‘fiutare’ quanto di nuovo ci fosse nell’atmosfera musicale dell’epoca, assorbendolo e integrandolo con il substrato della tradizione tedesca e nel proprio processo creativo. JOHANN SEBASTIAN BACH Johann Sebastian Bach (Eisenach, 1685 – Lipsia, 1750) Bach nacque nel 1685 ad Eisenach, in Turingia, da una famiglia di musicisti. Uno dei suoi primi maestri fu il fratello maggiore Johann Christoph, che aveva studiato col grande organista e compositore Johann Pachelbel [1653-1706, organista della cattedrale di S. Stefano a Vienna e poi della corte di Eisenach; il suo stile risente delle influenze di Froberger e di Frescobaldi]. Johann Christoph rappresenta dunque il tramite fra Bach e la grande tradizione organistica della Germania meridionale. Nel 1700, all’età di 15 anni, Bach studiò a Lüneburg, una città vicina ad Amburgo, nel nord della Germania, dove cantava come voce bianca. Lì venne in contatto con il mondo organistico della Germania settentrionale, che aveva tratto diretto impulso dall’opera dell’ultimo grande fiammingo, Jan Sweelinck. Inoltre, Bach ebbe la possibilità di frequentare la corte di Celle, ad un’ottantina di chilometri da Lüneburg, il cui duca era appassionato di musica francese e manteneva un’orchestra composta in gran parte di musicisti francesi. In questo modo, Bach si appropriò anche dello stile francese e delle sue forme di danza. Dopo poco tempo, Bach lasciò Lüneburg e fino al 1708 coprì vari incarichi uno dopo l’altro, in cerca di una sistemazione sempre migliore: violinista (o violista) nella seconda orchestra ducale di Weimar, organista prima della Neue Kirche di Arnstadt poi della chiesa di S. Biagio a Mühlhausen, approdò infine nel luglio 1708 di nuovo a Weimar, dove fu assunto come musicista di camera e organista di corte [i suoi impieghi era sempre ben retribuiti]. Nel frattempo, oltre ad essersi sposato con la cugina Maria Barbara, aveva scritto le sue prime composizioni importanti, quasi tutte per organo o clavicembalo: es. il Capriccio sopra la lontananza del suo fratello dilettissimo per clavicembalo, la celebre Toccata e fuga in re minore per organo e alcune cantate sacre. Compì anche un viaggio da Arnstadt a Lubecca per ascoltare Dietrich Buxtehude, il massimo esponente della cosiddetta ‘scuola organistica del nord’. Iniziò anche ad essere seguito a sua volta da alcuni allievi (da allora in poi, non ne fu mai privo) e a conquistarsi notorietà sia come organista che come esperto collaudatore di organi. Dal 1708, durante il suo secondo soggiorno a Weimar, oltre alle numerose cantate che gli venivano richieste, Bach ebbe modo di entrare a contatto diretto con la musica italiana, che era spesso eseguita dall’orchestra di corte. In quel periodo, egli trascrisse alcuni concerti di autori italiani – M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 Vivaldi, Benedetto e Alessandro Marcello, forse Torelli – per strumenti a tastiera e compose fughe per organo su temi di Corelli, Legrenzi e Albinoni. Bach fu attratto dalle caratteristiche e dalle innovazioni della musica italiana, soprattutto da quelle di Vivaldi, e le trasfuse nella sua produzione: • Contrasto solo-tutti usato come mezzo di articolazione formale (forma-ritornello tipica dei concerti solistici di Vivaldi); • Netti profili melodici; • Senso motorio preciso e nervoso; • Principio operistico dell’alternanza tra recitativo e aria, di cui adottò spesso la forma col ‘da capo’ [anche se Bach non scrisse mai opere teatrali]; • Stile florido e virtuosistico. Tutto questo si unì al solido tessuto contrappuntistico tedesco già proprio di Bach. Nel 1714, Bach ascese nei ranghi della corte di Weimar, ottenendo il posto di Konzertmeister (maestro dei concerti, subordinato al Kapellmeister e al suo vice). Nel 1717, però, lasciò l’incarico a Weimar [fu addirittura imprigionato e poi cacciato con disonore], perché ricevette una migliore offerta di lavoro alla corte di Köthen. Nel 1718 arrivò alla corte di Köthen, dove ricoprì il ruolo di Kapellmeister, ovvero il massimo responsabile delle attività musicali, con uno stipendio molto alto. Il culto vigente a Köthen non era quello luterano, ma calvinista che, molto rigoroso, essenziale e severo, non ammetteva alcuno sfarzo sonoro nelle celebrazioni liturgiche. Così, in quel periodo, Bach tralasciò la musica sacra per dedicarsi soprattutto alla musica puramente strumentale [a Köthen, c’era un’ottima orchestra, costituita dal principe Leopold], dando alla luce le sue maggiori composizioni strumentali, quali: - Six concerts avec plusieurs instruments, dal 1879 conosciuti col titolo di Concerti brandeburghesi, denominati così da Philipp Spitta, il primo grande biografo di Bach e curatore ufficiale del suo catalogo, perché dedicati al margravio (marchese) del Brandeburgo, che però pare non apprezzò la dedica. Essi rappresentano una sorta di sperimentazione: sfruttano la tipologia vivaldiana del concerto, trasferendola in inedite scelte formali affidate ad organici sempre diversi. Presentano diverse novità: p. es. nel quinto Concerto, c’è un lungo solo del clavicembalo, che per la prima volta non si limita ad una mera funzione di accompagnamento [si emancipa anche nelle sonate per violino e flauto]. - Quattro Ouvertures per orchestra, delle vere e proprie suites di danze che si riallacciano allo stile francese. - Tre Sonate e tre Partite per violino solo, che possono essere collegate alla distinzione corelliana tra sonata da chiesa (le Sonate) e da camera (le Partite). Anche se scritte per strumento solo, presentano una scrittura nettamente contrappuntistica. Simili e coeve sono anche le Suites per violoncello solo e la Partita per flauto traverso. - Primo volume del Wohltemperirte Clavier (1722 ca), una serie di 24 preludi di varie tipologie, ciascuno seguito da una fuga, composti nelle 24 diverse tonalità. Quest’opera dimostra come uno strumento ben temperato possa affrontare qualsiasi tonalità. Contrariamente a quanto si crede, è probabile che Bach non intendesse adottare il sistema temperato equabile, ma un sistema ben temperato, ovvero un temperamento tale da consentire l’impiego di tutte le tonalità senza intervalli troppo duri per l’orecchio ma senza privarle della loro inconfondibile individualità e quindi dell’affetto associato a ciascuna di esse. M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 Negli anni di Köthen, Bach compose anche musica didattica, le cui principali composizioni sono prevalentemente raccolte nel Clavier-Büchlein (Libretto di musiche per strumento a tastiera) compilato per il figlio Wilhelm Friedmann, in cui sono contenute, p. es., le Invenzioni a due e a tre voci. Altra raccolta è il Quaderno di Anna Magdalena [Bach, rimasto vedovo, sposò Anna Magdalena, cantante e musicista di camera alla corte di Köthen], che contiene, tra l’altro, le Suites francesi. Nel 1723 avvenne l’ultima svolta professionale nella vita di Bach, che fu assunto a Lipsia come Thomaskantor, ovvero Kantor della chiesa di S. Tommaso e della scuola annessa [non si trattava di un avanzamento di carriera, perché il ruolo di Kantor era lievemente inferiore rispetto a quello di Kapellmeister. Forse i motivi che possono aver spinto Bach a questo passo, oltre a dissapori con le autorità di Köthen, vi può essere la ricerca di un posto in un’istituzione pubblica di antica data, non soggetta all’arbitrio di un singolo principe]. I suoi compiti prevedevano che egli curasse l’educazione degli allievi e si occupasse della liturgia domenicale e festiva nella chiesa; inoltre, come Director musices, aveva la responsabilità delle musiche eseguite nelle altre importanti chiese di Lipsia – S. Nicola, S. Matteo e S. Pietro – e in occasione delle cerimonie pubbliche della città. Bach scrisse dunque un vastissimo numero di cantate sacre e di altre musiche destinate alla liturgia: p. es., la Passione secondo Giovanni (1724) per solisti, coro e orchestra e la Passione secondo Matteo (1729) per solisti, doppio coro e doppia orchestra. Nel 1729, Bach cessò quasi del tutto di comporre musica sacra, limitandosi per lo più, da allora in poi, a riadattare per le esigenze liturgiche musiche già composte in precedente [questo procedimento si chiama ‘parodia’]. In tale anno, infatti, assunse la direzione del Collegium musicum di Lipsia, un’istituzione totalmente laica fondata nel 1704 da George Philipp Telemann (1681-1767), a quel tempo considerato il più importante musicista tedesco, superiore a Bach. Si trattava di un’associazione di musicisti professionisti e studenti universitari che costituivano un’orchestra di buon livello, esibendosi tutte le settimane in concerti tenuti all’aperto o nei caffè cittadini. Bach compose per questa istituzione numerose cantate profane, musiche strumentali, concerti per clavicembalo e orchestra: tutte musiche assai più ‘leggere’ rispetto alla sua produzione precedente, perché finalizzate all’intrattenimento; similmente scrisse anche musiche cameristiche destinate ai salotti ‘bene’ della città. Intorno ai suoi 45 anni, quindi, Bach era proiettato sul versante laico per conquistarsi una fisionomia di musicista moderno. Nel 1747, Bach fu ammesso tra i membri della Societät der Musikalischen Wissenschaften (Società delle scienze musicali) fondata da Lorenz Mizler, un professore di corputo all’università di Lipsia che era stato suo allievo. Questa era una società riservata a musicisti esperti di filosofia e matematica, secondo la tradizione pitagorico-medievale; essi avevano il compito di scambiarsi ogni anno una dissertazione scientifica su argomenti matematico-musicali. Nel primo anno di appartenenza, Bach diede il suo contributo con le Variazioni canoniche sul corale ‘Von Himmel hoch’ per organo. Altri contributi per la Società furono l’Offerta musicale – composta in realtà in onore di Federico II di Prussia – e l’Arte della fuga, rimasta incompiuta per la morte dell’autore. Queste composizioni sono caratterizzate da una complessità contrappuntistica davvero eccezionale, che innalza la materia sonora ad una vera e propria ‘scienza musicale’. Già dal 1735, Bach si era dedicato a rigorosi studi di contrappunto e, mentre tutto il mondo a lui circostante si incamminava lungo le strade del rococò e dello stile galante, egli attingeva alle antiche radici fiamminghe del mondo germanico, con la volontà di far compiere alla musica un salto di qualità: essa non era più soltanto un bene d’uso che il compositore-servitore forniva ai suoi padroni, ma, attraverso il rapporto con la matematica, M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 • Coesione formale e vigorosa presenza del coro della tragédie lyrique francese; • Tradizione contrappuntistica tedesca; • Coro vero protagonista [≠ nell’oratorio italiano sono i solisti ad avere il primato], mentre i solisti hanno arie più brevi, spesso cullate da ritmi di siciliana e senza il ‘da capo’. Si citano alcuni oratori di Händel, tutti tratti dall’Antico Testamento, ad eccezione del Messiah (NT): - Esther (1718), Athalia (1733), Saul e Israel in Egypt (1739). Primi oratori, buon successo; - Messiah (Dublino, 1742). Grande successo, ma ricevette critiche per il fatto che Händel introdusse episodi biblici sul ‘profano’ palcoscenico teatrale; - Belshazzar (1745). Insuccesso; - Judas Maccabeus (1746). Grande successo, sia per il contenuto, che venne recepito come patriottico, che per il nuovo sistema economico adottato dall’impresario di Händel. Egli, infatti, non si basò più sulla sottoscrizione di abbonamenti, ma sulla vendita diretta dei biglietti, coinvolgendo così un pubblico molto più vasto. Così, dal 1747, l’esecuzione di oratori händeliani divenne un’abitudine regolare di ogni quaresima, offrendo ai londinesi si oratori nuovi che repliche di vecchi oratori. - Jeptha (1752). 27.1. L’OPERA SERIA TRA SEI E SETTECENTO. Storia del «più bello di tutti gli spettacoli» Nell’Italia centro-settentrionale del Settecento l’opera aveva un ruolo importantissimo, anche dal punto di vista sociale: in ogni città vi era almeno una stagione operistica e nei centri più grandi, come Venezia, Bologna o Roma, si realizzava una media di quattro o più allestimenti in un anno. Sebbene molti compositori d’opera fossero nati al Sud, lì il circuito operistico non funzionava – con l’eccezione di Palermo e Napoli – perché mancava quella classe sociale che sosteneva e fruiva dell’opera, formata da aristocratici e borghesi, che si impegnavano in attività imprenditoriali. Fin dal Seicento, l’opera rappresentava per buona parte dell’anno (soprattutto nel periodo di carnevale) la più importante occasione di divertimento e di relazioni sociali per le classi dominanti, oltre che un modo per molti spettatori di venire in contatto con la musica d’arte, con la cultura e con i grandi temi della mitologia e della storia. Le famiglie nobiliari si recavano regolarmente a teatro e nei propri palchi ricevevano amici e organizzavano rinfreschi e cene. L’ambiente era molto rumoroso e capitava raramente che il pubblico fosse silenziosamente attento all’opera eseguita: questo succedeva quando un’opera veniva presentata per la prima volta, ma spesso capitava che le opere proposte fossero delle repliche, che il pubblico conosceva già. Quando si riproponevano opere già realizzate, si cambiavano i cantanti, che, soprattutto nell’aria col ‘da capo’, davano modo di mostrare la propria bravura con virtuosismi estemporanei. Gli spettatori, essendo finanziatori del teatro e delle opere stesse, si sentivano autorizzati ad esprimere la propria approvazione o il proprio dissenso nei confronti di un’opera o del cast. Gli impresari erano perciò sempre alla ricerca di ciò che poteva piacere, per poter guadagnare maggiormente. M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 Non si andava a teatro per assistere ad una vicenda plausibile e che rispecchiasse la realtà in modo da identificarsi coi personaggi. Il pubblico voleva dall’opera qualcosa di diverso dalla vita di tutti i giorni: voleva entrare nel regno dell’arte e della fantasia. Al pubblico non interessava lo svolgersi dell’intreccio, che spesso era già noto, ma il modo in cui questo veniva presentato: ci doveva essere sempre qualche novità [spesso venivano usati gli stessi libretti da più compositori]. Caratteristiche, perlopiù innaturali e convenzionali, dell’opera sei-settecentesca: • Libretto in poesia, mai in prosa. • Conclusione con un lieto fine. • Timbri vocali convenzionali, legati ad esigenze artistiche e non al criterio di verosimiglianza: o Il protagonista maschile doveva imporsi su tutte le altre voci, sia dal punto di vista della bravura dell’interprete che dell’intensità e dell’altezza dell’espressione, perché l’eroe non poteva essere inferiore a nessuno. La sua parte era affidata ad un ‘musico’, un uomo evirato, un sopranista; o La ‘prima donna’ poteva essere un soprano o un contralto, ossia una vera donna. A Roma e in altre città i ruoli femminili erano affidati a castrati travestiti da donna. • Stile vocale non naturalistico: o Declamazione intonato per il recitativo; o Virtuosismo quasi agli estremi nelle arie, a discapito di una chiara percezione del testo, ma in favore di un puro godimento musicale; • Affetti contrapposti: gli avvenimenti esterni travolgono i personaggi, facendoli piombare da un affetto all’altro, senza che questi riescano a dominarli con caratteri saldi e costanti. I personaggi, quindi, presentano psicologia e carattere mutevoli. • Scorrimento irregolare del tempo: o Nei recitativi gli avvenimenti accadono in una durata di tempo analoga a quella reale; o Nell’aria il tempo è dilatato, quasi si arresta. La declamazione non è regolare: ci sono ripetizioni di parole, lunghi vocalizzi sulle sillabe più importanti, ripetizione della prima sezione dell’aria (‘da capo’). Tutto si blocca e l’emozione si fa musica. • I fatti che avvengono nei recitativi portano i personaggi a riflettere nell’aria, creando quindi conseguenze che si ripercuotono nello svolgimento. Questo significa che le arie non sono momenti in cui lo svolgimento delle azioni si arresta, ma rappresentano momenti molto importanti nella drammaturgia, in cui è racchiuso il vero e proprio dramma. L’opera del Sei- Settecento è dunque essenzialmente un dramma di affetti contrapposti, che si manifestano, appunto, nelle arie. Riassumendo: o I recitativi corrispondono all’azione esteriore e visibile; o Le arie corrispondono all’azione interiore, all’intimo dei personaggi, che riflettono e quindi agiscono. • La realtà dei fatti presentata all’inizio si fa man mano sempre più illusoria: tutti sono in inganno circa la propria identità e quella degli altri e solo gradualmente ci si rende conto che dietro le apparenze è nascosta la vera realtà [agnizione: scoperta della vera identità di un personaggio]. Tutto ciò, oltre ad essere un pretesto per la trama, corrisponde ad una visione del mondo profonda ed amara. Il teatro musicale si fa doppia finzione: la realtà è finzione e pura la musica, il linguaggio utilizzato per esprimerla, lo è. Solo i sentimenti provati dai personaggi sono veri, proprio perché espressi chiaramente dalla musica. M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 L’opera seicentesca ricevette molte critiche da parte dei letterati per la sua eccessiva artificiosità. Nel Settecento, ci fu il desiderio di maggiore coerenza drammaturgica, con criteri più naturalistici. Le trame dei libretti si fecero più lineari, focalizzate intorno ad un unico asse centrale. Inoltre, si tolsero: le arie di sortita e di mezzo, i personaggi comici e le loro scene buffe [diventarono sempre più indipendenti, fino ad uscire dall’opera e a costituire un genere autonomo: gli intermezzi], il deus ex machina se troppo pretestuoso, gli argomenti mitologici e gli elementi soprannaturali. Anche sotto l’influsso del teatro di prosa francese (soprattutto di Racine e dei due fratelli Corneille), i librettisti settecenteschi si orientarono verso trame di soggetto storico, in cui si indagava il rapporto tra politica ed esigenze del singolo individuo e il contrasto tra ragion di stato e sentimento amoroso. In questa evoluzione del gusto, importante fu l’Arcadia, che, contro l’artificiosità seicentesca, preferiva semplicità e naturalezza. ‘Pastori arcadi’ furono i librettisti Apostolo Zeno (1668-1750, poeta cesareo alla corte di Vienna) e Pietro Metastasio (1698-1782, successore a Vienna di Zeno), che contribuirono al processo di razionalizzazione e semplificazione dei libretti. In particolare, la trama standard dei drammi metastasiani consiste in genere in due coppie di amanti [i personaggi in totale sono 6 o 7] a cui le circostanze esteriori, spesso per cause politiche, impediscono la desiderata unione. Solo al termine della vicenda si arriva al lieto fine, spesso grazie alla magnanimità di un sovrano e grazie all’agnizione di uno o più personaggi. I librettisti avevano un ruolo fondamentale, perché erano costoro a determinare, assai più dei musicisti, la struttura di un’opera, con la sua suddivisione in recitativi e pezzi chiusi. Ora passiamo dalla parte dei compositori. Il mondo musicale seicentesco era dominato dalla città di Venezia. Nel Settecento fu invece Napoli a diventare il centro principale dell’opera, grazie ai finanziamenti del viceré, il duca di Medinaceli. Ben prima dell’insediamento del Medinaceli, a Napoli era stato assunto nel 1648 come maestro di cappella di corte il palermitano Alessandro Scarlatti, che già era stato attivo a Roma come maestro di corte per la regina Cristina di Svezia. La carriera di Scarlatti si svolse principalmente tra Roma e Napoli, impegnato nella produzione di opere (114), musica sacra, cantate da camera e oratori. Uno dei motivi che favorì il primato napoletano dell’opera nel Settecento fu il fatto che a Napoli c’erano diversi conservatori che garantivano un’ottima educazione musicale. I principali operisti del Settecento erano legati ai quattro principali conservatori della città – S. Maria di Loreto, S. Onofrio a Capuana, la Pietà dei Turchini, i Poveri di Gesù Cristo – sia come allievi che come maestri. Si parla di ‘scuola napoletana’ o ‘opera metastasiana’, in quanto libretti utilizzati erano quelli di Metastasio, oppure ‘opera neoclassica’. Dal 1710 tali compositori ‘napoletani’ iniziarono ad emigrare altrove, in cerca di situazioni economiche migliori e più vantaggiose, come liberi professionisti. Se ancora all’inizio del Settecento gli operisti dell’Italia settentrionale erano ancora i più richiesti (es. i fratelli Bononcini di Modena, il toscano Francesco Gasparini, i veneziani Caldara e Vivaldi), dal 1720-30 furono i musicisti di formazione napoletana ad avere la meglio: es. Leonardo Vinci o Johann Adolf Hasse, tedesco ma perfetto esponente dell’opera italiana che collaborò con Metastasio. Intorno alla metà del Settecento, erano pochi gli operisti non napoletani ad avere un certo successo (es. il veneziano Baldassarre Galuppi o il faentino Giuseppe Sarti). L’opera italiana, e soprattutto quella napoletana, in Europa non aveva rivali, tranne che in Francia, paese da cui arrivarono spinte per il mutamento del gusto operistico, che si concretizzò intorno alla M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 e l’altro dell’opera seria: tra il primo e il secondo atto, tra il secondo e il terzo e prima della grande conclusione alla fine del terzo atto. Nei primi anni del Settecento, venivano stampati libretti differenti per le opere serie e le scene buffe, le trame erano diverse e perfino i cantanti cambiavano. Nacque un nuovo genere musicale: gli intermezzi. Questo processo va collegato anche con il desiderio dei letterati all’epoca di Apostolo Zeno di eliminare le parti superflue all’interno dell’opera seria. I primi esempi di intermezzi risalgono al 1707, a Venezia: da quell’anno in poi fu obbligatorio stampare i libretti degli intermezzi, perché dovevano essere controllati dalla censura. La pratica si diffuse poi in tutta Italia e in tutta Europa, attirando l’interesse di noti letterati e musicisti. Caratteristiche degli intermezzi: • Generalmente erano due e venivano collocati nei due intervalli, ossia tra il primo e il secondo atto e tra il secondo e il terzo. Lo spettatore assisteva così parallelamente a due spettacoli diversi, uno serio e l’altro comico. Gli intermezzi fungevano quasi da ‘controdramma’; • Due personaggi, di ceto sociale medio-basso. Al massimo si aggiungevano anche dei mimi; • I dialoghi erano in recitativo secco; • Per ogni intermezzo, ciascuno dei due personaggi aveva un’aria e poi c’era un duetto finale; • Svolti sul proscenio, senza particolari scenografie, si solito un tavolo e due sedie; • Ambientati nell’epoca contemporanea; • Pochi strumenti: qualche arco e il basso continuo; • Gli strumentisti avevano un’importante funzione comica, perché con la musica sostenevano e amplificavano il carattere comico; • Stile vocale totalmente nuovo per i cantanti: non c’era il virtuosismo tipico delle arie, ma una declamazione comica più naturale, sillabica, con bruschi contrasti di tessitura e di dinamica; • Novità musicali e stilistiche: ritmo nervoso e mutevole, dinamica molto frastagliata, sempre prescritta in partitura, fraseologia frammentata e ricca di incisi caratteristici; • Alcuni tratti stilistici dell’opera seria rimangono, perché propri di quel determinato periodo: rallentamento del ritmo armonico, abbandono dell’impianto contrappuntistico in favore di netta polarizzazione fra melodia e accompagnamento. Fino ai primi anni del 1700, i cantanti coinvolti negli intermezzi facevano parte del personale fisso del teatro, ma dal 1730 circa iniziò una vera e propria libera circolazione dei singoli solisti. Anche in questo caso, Napoli produsse gli intermezzi più famosi del Settecento, grazie ai musicisti della scuola napoletana, tra cui spiccano Alessandro Scarlatti, Hasse e Pergolesi. Nel 1724, Metastasio fu il primo librettista a scrivere, all’interno di un proprio dramma, un testo di intermezzi indipendente dalla vicenda seria: l’opera seria è la Didone abbandonata e gli intermezzi sono intitolati L’impresario delle Canarie, entrambi musicati da Domenico Sarro. L’intreccio più comune degli intermezzi napoletani del Settecento prevede una donna giovane e furba, di bassa condizione sociale, che con la sua scaltrezza riesce a farsi sposare un ricco uomo, vecchio e credulone. Questo genere musicale ottenne un grandissimo successo, favorendone l’esecuzione autonoma dopo gli anni ’30 del Settecento, senza essere più legato a nessun dramma serio. Questa emancipazione portò anche alla realizzazione di allestimenti più fastosi, con più personaggi. Intanto a Napoli, già dal 1709 [Patrò Calienno de la Costa di Mercatellis], esisteva un tipo di spettacolo musicale comico a sé, la commedia per musica: uno spettacolo comico, in dialetto M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 napoletano; solo intorno al 1720 iniziò ad avere alcune parti, quelle affidate ai personaggi più ‘seri’, in lingua italiana. Di fatto era una sorta di dramma per musica: in tre atti, formata da recitativi, arie, spesso col ‘da capo’, pezzi d’assieme, con personaggi seri e buffi, negli intervalli ospitava degli intermezzi o balli. Solo che, invece di educare, dando l’esempio con le virtù dei personaggi aristocratici, insegnava a fuggire i vizi, mostrandone la presenza in personaggi plebei. Pur essendo un genere comico, come gli intermezzi, in esso mancava però l’intento satirico verso l’ambiente dell’opera seria. Questo genere ebbe molta risonanza in tutta Italia, soprattutto a Roma e a Venezia. A Venezia, in particolar modo, entrarono a contatti intorno agli anni ’30 del Settecento i diversi generi comici per musica – la commedia per musica napoletana, gli intermezzi, le commedie di prosa, la commedia dell’arte, alcuni generi di satira tipicamente veneziani – tanto da far nascere nel 1743 la prima, vera opera buffa: La contessina di Carlo Goldoni, con le musiche di Giacomo Maccari, scritta per una compagnia di comici veneziana. Il livello artistico dell’opera buffa raggiunse gradini più alti con Baldassarre Galuppi: p. es. con L’Arcadia in Brenta, Il mondo della luna, Il filosofo di campagna, La diavolessa, scritte tra il 1749 e il 1755. L’opera buffa riprese quindi caratteristiche da diversi generi: • Dalla commedia per musica napoletana: il fatto di costituire uno spettacolo a sé in tre atti (dagli anni ’80 ridotti a due), la divisione per ceti sociali dei personaggi (c’erano la coppia nobile, la coppia di mezzo carattere e la coppia buffe; tutte seguivano determinate caratteristiche stilistiche), talvolta l’uso del dialetto, ma solo per le parti buffe; • Dagli intermezzi: l’idioma musicale comico, il rifiuto dell’aria col ‘da capo’ in favore di pezzi chiusi ‘d’azione’; • Dalle satire veneziane sull’opera seria: distanza critica verso l’opera stesso, seguendo il filone parodistico; • Dalle commedie di prosa e dalla commedia dell’arte: il ritmo e il linguaggio comico e i caratteri di alcune maschere. Nel 1760 si inaugurò a Roma un nuovo genere di opera buffa, il filone sentimentale-lacrimevole, con l’opera Cecchina, o sia La buona figliuola, su libretto di Goldoni e con musiche di Nicolò Piccinni. La trama ruota intorno a Cecchina, che è innamorata del Marchese, ma derisa da tutti perché considerata un’illusa; alla fine si scopre che in realtà la ragazza è di nobili origini e quindi può sposare il Marchese. Questa vicenda ha molti punti contatto con quella di Griselda, ma la grande differenza è che qui tutto è calato nell’opera buffa, che stempera i drammi nel sorriso e, a sua volta, si colora di una vena patetica. Questa tipologia di opera comica è detta ‘semiseria’, a cui appartengono anche Nina, o sia La pazza per amore (1789) di Paisiello e Il matrimonio segreto di Cimarosa (1792). M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 29.1. DALLO STILE GALANTE ALLO STILE CLASSICO. Storia di musicisti squisitamente ‘galanti’, profondamente ‘sensibili’ e sovranamente ‘classici’ La serva padrona di Pergolesi, dopo i grandi successi italiani, fu rappresentata anche all’Opéra di Parigi, accogliendo sia apprezzamenti che critiche: si scatenò una polemica, la querelle des buffons, tra i letterati francesi, che si divisero in ‘buffonisti’ e in sostenitori della musica francese, più conservatori. Tra i ‘buffonisti’ erano schierati anche esponenti dell’Illuminismo, quali Rousseau e Diderot, che apprezzavano la ricerca di uno stile di canto ‘naturale’, che esprimesse con immediatezza e senza artificiosità il genuino sentimento umano. Intono alla metà del Settecento, a quest’esigenza si rispose nel campo operistico con lo stile dell’opera buffa, mentre nell’ambito della musica strumentale con lo stile galante, che raggiunse il suo apogeo tra il 1750 e il 1775. La parola ‘galante’ era di gran moda fin dagli inizi del Settecento e si riferiva a ciò che viene apprezzato dal galant homme, ossia l’ideale di uomo raffinato, colto, gentile d’animo e di modi, ma allo stesso tempo libero, spontaneo, non artificioso, con buon gusto innato. La ‘galanteria’ musicale rispecchia quindi queste caratteristiche: • Musica raffinata, non artificiosa né pedante, sempre aggiornata sulle mode; • Musica spesso scritta per un solo strumento a tastiera; • Polarizzazione tra melodia e accompagnamento molto semplice, evitando complessità armoniche e contrappuntistiche; • La melodia è di solito scritta in modo elementare, ma prevede che l’esecutore la abbellisca con gusto ed eleganza, aggiungendo anche sfumature dinamiche e agogiche; • Ritmo armonico molto lento; • Libero trattamento delle dissonanze. Visto che molti esecutori erano dilettanti, vennero scritti nel corso del Settecento molti trattati sulla prassi esecutiva, che davano spiegazioni riguardo la tecnica di uno strumento o problemi stilistici, quali p. es. la realizzazione degli abbellimenti, questioni di dinamica e agogica, espressività musicale, consigli su come suonare in pubblico, accordature e temperamenti, ecc. Tra i principali trattati si ricordano quelli di Quantz per flauto, di C. P. E. Bach per tastiera e di Leopold Mozart per violino. Lo stile galante, i cui prodromi si fanno risalire a Mattheson e Telemann, si diffuse in tuta Europa, anche se i suoi autori più rappresentativi sono tedeschi e italiani. Dal punto di vista della raffinatezza del suono e di espressione, esso si riallaccia al virtuosismo canoro dei grandi castrati italiani, mentre dal punto di vista melodico, armonico, ritmico e fraseologico si ricollega allo stile buffo italiano. Non a caso, uno tra i più importanti compositori dello stile galante in Italia fu Baldassarre Galuppi; a lui si aggiungono alcuni cembalisti quali Giovanni Benedetto Platti, Giovanni Battista Sammartini, Pier Domenico Paradisi e Giovanni Maria Rutini. In Francia, i compositori galanti continuavano lungo la strada tracciata da Couperin, che fondeva i gusti strumenti italiano e francese, con Jean Marie Leclair e Michel Blavet. Nel mondo tedesco, lo stile galante trovò ampia accoglienza presso molti musicisti: Hasse, Quantz, Marpurg, i fratelli Graun, Wagenseil e, in particolare, Carl Philipp Emanuel Bach, che si può M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 • Espressività e razionalità; • Contrappunto, armonia e melodia; • Duttilità ritmica; • Fraseologia gerarchicamente coordinata; • Economia tematica: pochi elementi, da cui si trae il massimo delle consulenze possibili, tramite l’elaborazione. Ideale della massima coerenza, raggiunto attraverso l’esplorazione sistematica di tutte le potenzialità insite in un determinato materiale sonoro; • Questo nuovo modo di pensare si fa risalire a partire dai Quartetti per archi op. 33 del 1781, detti Gli Scherzi, poiché in essi l’abituale Minuetto è sostituito da uno Scherzo; • Generi ‘nuovi’: sinfonia, quartetto d’archi, sonata per pianoforte [faranno da modello per i nuovi compositori]. Nonostante fosse isolato a Esterháza, la fama di Haydn raggiunse tutta Europa. Le sue composizioni divennero contese dagli editori; molte furono le edizioni pirata o quelle non sue che riportavano però il suo nome. Haydn ricevette numerose commissioni, alcune molto prestigiose (dal re di Prussia, dal re di Napoli, dal granduca di Russia): p. es., scrisse per Parigi le sinfonie nn. 82-87, dette ‘parigine’, e per la cattedrale di Cadice la Musica instrumentale sopra le 7 ultime parole del nostro Redentore in croce. Nel 1790 morì il principe Nikolaus e gli succedette il figlio Anton, che sciolse l’orchestra, mantenendo però Haydn titolo di Kapellmeister e lo stipendio, anche se di fatto egli era libero da qualsiasi mansione a palazzo. Si ritrovò quindi nella posizione di musicista indipendente, con un’ottima solidità economica. Rifiutò tanto un posto di Kapellmeister propostogli da un altro principe quanto un’analoga offerta dal re di Napoli. Accettò, invece, la proposta di un viaggio a Londra insieme all’impresario Johann Peter Salomon. A Londra, dove fu negli anni 1791-92 e 1794-95, Haydn fu accolto con molto successo. Nella capitale inglese, ebbe modo di venire in contatto con elementi nuovi, grazie alla ricca vita artistica di Londra: c’erano molti francesi fuggiti dalla rivoluzione, numerose società che organizzavano concerti pubblici, orchestre molto grandi [le sinfonie che compose per Londra, le nn. 93-104, impiegano un numero di strumenti molto alto]; inoltre, conobbe le melodie dei canti popolari inglesi, di cui elaborò diversi arrangiamenti, e soprattutto la musica di Händel, di cui ascoltò il Messiah e Israel in Egypt. Ritornato a Vienna nel 1795, si cimentò anche lui nella composizione di due oratori: La creazione e Le stagioni, entrambi del 1798. Oltre agli ultimi quartetti, Haydn compose principalmente musica sacra, perché così gli fu richiesto dal nuovo principe Esterházy, Nikolaus II. Haydn morì nel 1809, all’età di 77 anni, nell’anno in cui Napoleone bombardò Vienna. M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 30.1. WOLFGANG AMADEUS MOZART. Storia del «compositore più universale nella storia della musica occidentale» Wolfgang Amadeus Mozart (Salisburgo, 1756 – 1791) Anche se Mozart ebbe una vita molto breve – morì a 35 anni – produsse un’incredibile quantità di composizioni e soprattutto si distingue dagli altri grandi per quanto riguarda la varietà della sua produzione, visto che si occupò di tutti i generi musicali diffusi nella sua epoca. Ecco perché viene definito, dal New Grove, come «il compositore più universale della storia della musica occidentale». Egli godette di numerosi stimoli, grazie ai numerosi viaggi che fece. La sua vita artistica si può dividere in tre periodi, ciascuno della durata di circa dieci anni: ⓪ PRIMI ANNI DI VITA Mozart nacque a Salisburgo nel 1756 e, sotto l’educazione musicale del padre Leopold, mostrò il proprio talento fin da subito: pare che a quattro anni fece i primi tentativi di composizione. Quando aveva appena sei anni, iniziò una serie di viaggi che gli permisero di entrare in contatto con tutte le realtà musicali europee e di usufruire di molteplici esperienze artistiche. Leopold voleva assicurare la migliore educazione musicale a suo figlio e, allo stesso tempo, era consapevole dello straordinario talento che il piccolo Amadeus aveva, per cui voleva farlo conoscere al mondo intero, per assicurargli una brillante carriera professionale. Già fin da giovanissimo, Mozart suonò in tutte le principali corti europee, alla presenza dei più augusti sovrani (Maria Teresa d’Austria, Luigi XV di Francia, Giorgio III d’Inghilterra), eseguendo composizioni proprie ed altrui, leggendo musica a prima vista, improvvisando su qualsiasi tema, cantando con voce d’angelo, esibendosi al clavicembalo, all’organo e al violino. Nel 1762 fu a Monaco e alla corte di Vienna, dove prese i primi contatti con l’opera italiana e la produzione ‘galante’ di Wagenseil. PRIMI ANNI DI VITA Salisburgo, Monaco e Vienna DECENNIO DI FORMAZIONE (1763-73) Viaggi in Europa: Mannheim, Londra, Parigi, Italia PRIMA FASE DELLA MATURITÀ (1773-1781) Vienna, Mennheim, Parigi, Salisburgo ULTIMO DECENNIO (1781-1791) Vienna M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 ① DECENNIO DI FORMAZIONE (1763-73) Tra il 1763 e il 1766, Mozart compì un lungo viaggio in Europa con tutta la famiglia: attraverso la Germania, raggiunse Parigi, Londra, l’Olanda, di nuovo Parigi, ritornando infine a Salisburgo attraverso al Svizzera. Le tappe furono numerose e gli permisero di tenere concerti in molte città, grandi e piccole. A Mannheim, Mozart conobbe l’orchestra, formata da eccellenti musicisti. A Londra conobbe Johann Christian Bach. A Parigi entrò in contatto con la musica di Schobert e dell’empfindsamer Stil. Le composizioni di questo periodo, infatti, furono prevalentemente sonate per tastiera con temi alla Johann Christian e ‘galanti’ bassi albertini, con tonalità minori e bruschi scarti emotivi con squarci di profonda serietà inimmaginabili per un bambino così piccolo. Tra il 1766 il 1769, Mozart rimase perlopiù a Salisburgo, anche se ci fu una parentesi viennese. A Vienna avrebbe dovuto far rappresentare nel 1768 la sua prima opera buffa, La finta semplice, ma tutto andò a monte e la prima esecuzioni avvenne l’anno successivo a Salisburgo. Miglior sorte per il suo primo Singspiel, Bastien und Bastienne, rappresentato a Vienna nel 1768. Tra il 1769 e il 1773, Leopold e Amadeus fecero tre viaggi in Italia (primo viaggio 1769-71, secondo viaggio 1771, terzo viaggio 1772-73): - A Milano conobbe il sinfonismo di Sammartini e l’opera di Niccolò Piccinni; - A Bologna incontrò Farinelli e conobbe l’arte del contrappunto di padre Martini; - A Firenze conobbe il virtuosismo violinistico di Pietro Nardini, allievo di Tartini; - A Roma conobbe la grande tradizione polifonica della cappella Sistina; - A Napoli, e in altre città, conobbe l’opera seria e buffa di Jommelli, Paisiello e altri. In realtà, Leopold voleva che il figlio Amadeus trovasse un posto stabile presso una corte. Ma questo non si verificò e il massimo che riuscì ad ottenere fu la scrittura di alcune opere, tra cui le opere serie Mitridate, re di Ponto (Milano, 1770) e Lucio Silla (Milano, 1772) e la festa teatrale Ascanio in Alba (Milano, 1771). L’errore di Leopold era il fatto di presentare il figlio come bambino-prodigio, per cui risultava difficile essere accettato come vero e proprio professionista. ② PRIMA FASE DELLA MATURITÀ (1773-1781) Già nelle composizioni scritte durante il periodo italiano, Mozart aveva iniziato a mettere a frutto le esperienze fatte e gli stili con cui era entrato in contatto: le sue opere risentivano del modello di Hasse e delle novità espressive e formali di Jommelli. I suggerimenti melodici e formali dello stile galante di Johann Christian Bach, di Sammartini e di Boccherini si unirono in un impianto compositivo più imitativo, robusto e rigoroso, secondo l’insegnamento di padre Martini. Fondamentale fu un soggiorno a Vienna nel 1773, che gli offrì la possibilità di conoscere alcuni dei lavori di Haydn: in particolare, i suoi Quartetti op. 20. Mozart, ne rimase affascinato e iniziò a sviluppare un proprio stile classico. A questo periodo risalgono alcune tra le sue composizioni più significative: - Nel 1774, la Sinfonia K183 in sol minore, in cui sono evidenti influenze dello Sturm und Drang, e la Sinfonia K201 in La maggiore; - Nel 1775, cinque concerti per violino e orchestra; - I primi concerti per pianoforte e orchestra, tra cui spicca il K271 in Mi bemolle maggiore; M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 5. Mitridate, re di Ponto (Milano, 1770); 6. Ascanio in Alba (Milano, 1771); 7. Il sogno di Scipione (Salisburgo, 1772); 8. Lucio Silla (Milano, 1772); 9. La finta giardiniera (Monaco, 1775); 10. Il re pastore (Salisburgo, 1775); 11. Zaide (opera incompiuta) (Francoforte, 1866); 12. Thamos, König in Ägypten (Thamos, re d'Egitto) (cori e intermezzi musicali); 13. Idomeneo, ossia Ilia ed Idamante (Monaco, 1781); 14. Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio) (Vienna, 1782); 15. L'oca del Cairo (opera incompiuta) (Francoforte, 1860); 16. Lo sposo deluso, ossia La rivalità di tre donne per un solo amante (opera incompiuta); 17. Der Schauspieldirektor (L'impresario teatrale) (Vienna, 1786); 18. Le nozze di Figaro (Vienna, 1786); 19. Don Giovanni, ossia Il dissoluto punito (Praga, 1787); 20. Così fan tutte, ossia La Scuola degli Amanti (Vienna, 1790); 21. La clemenza di Tito (Praga, 1791); 22. Die Zauberflöte (Il flauto magico) (Vienna, 30 settembre 1791). - Musica sacra: messe solenni, litanie, vespri, altre composizioni sacre; - 41 sinfonie, 2 sinfonie concertanti; - 27 concerti per pianoforte e orchestra, 5 concerti per violino, concerti per flauto, oboe, corno, clarinetto; - Musica per pianoforte: 18 sonate, variazioni, fantasie, rondò; - Altre sonate: per violino e pianoforte, per clavicembalo, da chiesa; - Duetti, Trii, Quartetti e Quintetti per varie formazioni; - Divertimenti e Serenate: per fiati e archi. Il catalogo Köchel comprende 626 opere. Il Requeim, incompiuto, è K 626. 31.1. LUDWIG VAN BEETHOVEN. Storia del «compositore più ammirato nella storia della musica occidentale» Ludwig van Beethoven (Bonn, 1770 – Vienna, 1827) Beethoven nacque a Bonn nel 1770, mostrando fin da bambino un precoce talento, riconosciuto e spinto dal padre, mediocre musicista, tenore nella cappella di corte a Bonn, alcolizzato e forse anche violento. L’infanzia di Beethoven fu piuttosto difficile; inoltre, nemmeno diciottenne, quando ormai il padre non era più capace di provvedere ai suoi due figli più piccoli, egli divenne capofamiglia. La sua istruzione scolastica rimase essenziale, in quanto non andò oltre le elementari. La sua istruzione musicale iniziò sotto la guida del padre e di altri musicisti della cappella di Bonn e fu indirizzata ad una formazione come strumentista: suonava pianoforte, organo, violino e viola. I suoi primi impieghi lavorativi, difatti, lo videro come organista nella cappella di corte nel 1784 e poi, nel 1789, come violista nel teatro di corte, esperienza che gli permise di conoscere molta musica francese e il repertorio dell’opéra cominque, anche tradotto in tedesco sotto forma di Singspiel. M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 Nel frattempo, Beethoven aveva cominciato a studiare composizione, pianoforte e basso continuo con Christian Gottlob Neefe (1748-98), buon compositore di Singspiele, seguace dell’indirizzo ‘sensibile’ di Carl Philipp Emanuel Bach e ottimo didatta. Grazie a Neefe, Beethoven conobbe il Clavicembalo ben temperato di Bach. Beethoven iniziò a farsi notare e presto gli furono commissionate due cantate celebrative per soli, coro e orchestra: una per la morte dell’imperatore Giuseppe II e un’altra per l’incoronazione del suo successore Leopoldo. Esse però pare che non furono mai eseguite, ma non perché non furono apprezzate; anzi, una di esse fu perfino lodata da Haydn, che intorno al 1790-02 passò per Bonn. Nel 1792, il ventiduenne Beethoven ebbe un soggiorno a Vienna finanziato dal sovrano di Bonn principe elettore di Colonia, grazie all’intercessione di Neefe e dei due protettori di Beethoven, il conte Ferdinand von Waldstein e il consigliere di corte Stepahn von Breuning. ① PRIMO STILE COMPOSITIVO (1793-1802) L’inizio della sua vita a Vienna coincide anche con l’inizio di quello che viene definito ‘primo stile’, ossia un primo periodo giovanile teso all’appropriazione dei modelli compositivi [Wilhelm von Lenz]. Beethoven, consigliato dal conte Waldstein, scelse di seguire lo stile classico, lo stile più moderno all’epoca, anche se avrebbe potuto optare per altre direzioni: l’opera italiana, visto che a Vienna aveva studiato con Salieri; l’opera francese, visto che conobbe e apprezzò le opere di Cherubini, traendo da esse e da quelle di Gluck molti spunti in fatto di orchestrazione e di condotta melodica; diventare pianista concertista, visto che già aveva tenuto concerti in tutta la Germania e a Praga; diventare un contrappuntista, visto che studiò con Albrechtsberger, Kapellmeister della cattedrale di S. Stefano, con il quale Beethoven approfondì il contrappunto, la fuga e il canone dal 1794 al 1795. I primi anni a Vienna furono particolarmente sereni per Beethoven: era un pianista e un compositore noto e apprezzato, era alle dipendenze del principe Lichnowsky, musicofilo a cui dedicò i Trii per pianoforte e archi op. 1, ed era conteso dalle maggiori case dell’aristocrazia viennese. In questi anni, il suo metodo di lavoro compositivo iniziò a privilegiare sempre più la fase preparatoria, compilando veri e propri quaderni di abbozzi che conservò per tutta la vita, grazie ai quali è possibile ricostruire la genesi delle sue opere, sempre lunga e molto elaborata. Fino al 1801, Beethoven aveva composto: - La Prima sinfonia in Do maggiore; - Tre concerti per pianoforte e orchestra; - Il balletto Le creature di Prometeo; - Le sonate per pianoforte fino all’op. 28; - I Quartetti op. 18; - Musica da camera, tra cui il Lied per voce e pianoforte Adelaide e il Settimino op. 20. Negli anni 1802-01 la sordità di Beethoven si fece sempre più grave e incurabile. Egli si ritirò in una forzata misantropia. Fu per lui il periodo più difficile, tanto che pensò anche al suicidio. Nulla di ciò traspare nelle sue opere. Anzi, nel 1802, dopo aver composto la Seconda sinfonia e mentre stava lavorando alle sonate per pianoforte op. 31, Beethoven dichiarò di aver imboccato M. Carrozzo, C. Cimagalli – Storia della musica occidentale, vol. 2 una ‘nuova via’ compositiva, una «maniera davvero interamente nuova». Secondo il musicologo Carl Dahlhaus, le opere più rappresentative di questa ‘nuova via’ sono la Sonata op. 31 n. 2 e la Terza sinfonia Eroica, che sono caratterizzate da aspetti comuni: • La forma-sonata è trattata con libertà; • Manca un vero e proprio tema principale: sembra un’introduzione o qualcos’altro; • La forma non è definibile, ma diventa un processo continuo; • Ci sono pochi elementi tematici, molto rudimentali, ma che danno possibilità di infinite elaborazioni motivico-tematiche. Beethoven gioca liberamente con le aspettative formali deli ascoltatori; • Ogni composizione ha la sua forma. Si approda così al secondo stile. ② SECONDO STILE COMPOSITIVO (1803-1815) ➢ Primi anni del ‘secondo stile': periodo ‘eroico’ (1803-1808/9) Dahlhaus, parlando di questo periodo, indica una tale sottigliezza compositiva (‘esoterismo’) che si combina con la volontà di comunicare con il grande pubblico (‘essoterismo’), come se volesse mandare un alto messaggio morale all’umanità intera: dalla sofferenza si può giungere alla gioia. Le composizioni di questo periodo beethoveniano, dette ‘eroiche’, sono le più celebri: - Le sinfonie dalla Terza all’Ottava; - Le Ouvertures orchestrali ai drammi Coriolano e Egmont, quest’ultimo anche con musiche di scena; - Il Quarto e il Quinto concerto per pianoforte e orchestra, detto Imperatore; - Il concerto per violino e orchestra; - L’opera Fidelio; - L’oratorio Cristo al monte degli ulivi; - Le sonate per pianoforte tra l’op. 53 e l’op. 57; - I Quartetti per archi op. 59, dedicati al conte Rasumovskij. Queste composizioni sono caratterizzate da un ampliamento delle dimensioni generali e da un dualismo tematico sempre più esasperato e contrastante, come se i due temi fossero due personaggi in lotta tra loro prima del catartico scioglimento finale. Intanto nella vita europea e in quella di Beethoven, molte cose erano accadute: Napoleone invadeva l’Europa e giunse a conquistare Vienna nel 1809, bombardandola. Inoltre, nel 1808 Girolamo Bonaparte, fratello di Napoleone, aveva offerto a Beethoven il posto di maestro di cappella a Kassel. L’anno seguente, nel 1809, i tre più altolocati protettori di Beethoven (l’arciduca Rodolfo, fratello dell’imperatore, il principe Lobkowitz e il principe Kinsky) decisero di garantire una rendita al compositore, affinché rimanesse a Vienna, senza alcun obbligo verso di loro. Si erano invertiti i ruoli sociali: Bonaparte, figlio della rivoluzione, richiedeva al musicista l’antico ruolo di Kapellmeister, mentre gli aristocratici dell’ancien régime desideravano una libera professione per Beethoven. Stava mutando la considerazione dell’artista: non più un fornitore di
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