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Casa dolce casa? Italia un paese di proprietari., Sintesi del corso di Cultural Studies

Riassunto del testo “Casa dolce casa?”.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 11/06/2021

Amalia.
Amalia. 🇮🇹

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Scarica Casa dolce casa? Italia un paese di proprietari. e più Sintesi del corso in PDF di Cultural Studies solo su Docsity! Introduzione “Casa dolce casa” è il luogo in cui ci sentiamo a nostro agio, al sicuro. La familiarità con l’oggetto casa non rende però esperti, l’idea diffusa è che comprare è sempre meglio di affittare, l’investimento nel mattone è un investimento sicuro. Ma l’abitare non è una condizione statica e immutabile, lee cose si cambiano, si lasciano. Pensare a una nuova casa pone la scelta tra proprietà e affitto, e questo implica una serie di decisioni (dove, come, per quanto). Questa scelta avviene all’interno di mercati abitativi i cui prezzi e costi tendono a crescere, per questo si tratta di una scelta che richiede un’ampia disponibilità di tempo. Si dovrà tenere presente il dove si trova la casa che vorremmo abitare, nonché il quanto grande ci serva. La zona e la dimensione sono collegate strettamente alle condizioni di accesso che influenzano le possibilità e le scelte abitative di individui e famiglie. La narrativa sul cercare e trovare casa spesso appare intessuta difficili “incontri” fra i tre elementi compongono l’abitare: abitanti, casa e territorio. L'esperienza personale e quotidiana portano la questione casa al centro dei discorsi pubblici e privati, discorsi che spesso confondono piani e dati di realtà. Esiste una questione casa per le persone che ci vivono o vogliono andare a viversi, così come esiste una questione casa per le politiche e per gli altri meccanismi (in primis il mercato) che danno forma all’incontro tra domanda e offerta. Ed esiste infine una questione casa relativa al contesto territoriale dove questa è collocata. In questo libro viene adottato un punto di vista sociologico, che privilegia la messa a fuoco di strategie e orientamenti verso l’abitare come prodotto incrociato di politiche, di vincoli di sistema, e di scelte individuali e familiari. Secondo questo approccio, al centro vi è la natura e la forza delle relazioni (tra individui, tra individui e istituzioni, mercato, famiglia, che nel tempo fanno di un cittadino un residente in quel quartiere e un abitante di quella casa). La prospettiva adottata si sviluppa lungo un asse longitudinale, da un lato risalendo all’indietro nel tempo per rintracciare i passi che portano gli abitanti a stare in quella casa o a uscirne, dall’altro sporgendosi avanti per valutare le conseguenze individuali e sociali dello stare in una certa casa o risiedere in un certo isolato. Da un breve estratto di Alasia e Montaldi , scrittori che alla fine degli anni ‘50 descrivono in Milano Corea la vita degli immigrati dal Sud alla periferia della metropoli lombarda, partendo dalla struttura delle case, arrivando a parlare di marginalità sociale, mobilità sociale, potere, sfruttamento e abusivismo. Negli anni ‘60 la casa per un italiano del Mezzogiorno che si spostava al Nord costituiva un veicolo di cittadinanza sociale, ma anche strumento di privatizzazione dello spazio. La casa è un indicatore di capacità individuali e familiari, e veicolo di status sociale, identità e risorse di mobilità. Due modi alternativi di pensare il problema abitativo: 1. Il primo vede l’approdo a una casa (o l’uscita) come il risultato di scelte e sforzi individuali in vista di una utilità prevedibile e misurabile: “ce lo fatta a comprarmi una casa tutta mia”. 2. Il secondo identifica l’approdo a una casa come prodotto immodificabile di forze esogene “devo sloggiare perchè la casa serve al suo proprietario”. Nel dibattito pubblico e nell’esperienza individuali odierni, questi due tradizionali modi di parlare di casa appaiono un po' troppo semplici e datati, per riuscire a descrivere la difficoltà di far stare insieme le molte dimensioni dell’abitare. Oggi si sta radicando l’dea che, al posto di scelte razionali o, viceversa, di immodificabili forze esterne, vi sia un insieme interconnessi di vincoli e risorse, di informazioni spesso contradditorie, in cui alcuni individui si muovono a tentoni, mentre altri sono in grado di cogliere in anticipo. L'idea e la connessa narrazione di soluzioni “meno peggio” convivono con l’idea che da qualche parte ci sia la grande occasione che si palesa per caso o per avventura. La buona occasione è però per definizione molto rara e per coglierla si è in competizione con altri che in alcuni casi dispongono di risorse e conoscenze da generazioni, per muoversi in maniera efficace nel mercato immobiliare, servono competenze che si acquisiscono con l’esperienza. Vi sono ampie differenze nella popolazione che va in cerca di una casa. Per molti la casa rappresenta la componente più elevata delle spese familiari: il mercato immobiliare e del credito sono ambiti ostili dove ci si muove con grande difficoltà. Al contrario per altri la casa è una fonte di benessere e ricchezza che va oltre ai bisogni primari. La parola casa appare riduttiva, tenuto conto della quantità di implicazioni richiamate dall’occupare una casa per viverci. Più appropriato, appare il termine abitare. L'abitare è intrinseco a una casa, ma non coincidente. Si può non avere una casa ma abitare un luogo, e si possono avere molte case, ma abitarne solo una. L’abitare ci permette di pensare non solo in termini di house (la casa materialmente intesa), ma anche di home (la casa come risultato di relazioni sociali) e di real estate (la casa come investimento immobiliare e finanziario). Negli ultimi decenni si è aggiunto il complicato nesso tra il bene-casa e l’investimento finanziario, che non riguarda solo l’acquisto, ma in generale tutto l’insieme di prodotti finanziari che ruotano attorno agli alloggi. Come mai per lungo tempo il nesso tra casa, abitare e territorio non abbia suscitato tanto interesse come ora? Nella prima parte si illustra il nesso tra l’abitare, l’attaccamento alla casa e le politiche che rinforzano questo attaccamento. Nella seconda, dove si concentra l’attenzione sulla condizione proprietaria italiana e sulle numerose disuguaglianze che la caratterizzano. La terza parte si concentra sullo spazio e sulle numerose crisi urbane in corso, su come case, abitanti e territorio non possano essere viste separatamente. Parte prima: Casa è questione abitativa Capitolo primo. Per una sociologia dell’abitare Quando ci chiediamo quanti e quali forme di abitare esistono in Italia, ci muoviamo in un terreno chiamato morfologia dell’abitare. La varietà delle forme di uso e consumo di una casa cambiano nel tempo, insieme ai bisogni, ma anche al sapere e al potere che individui e famiglie possono manifestare sull’abitare. Una prima differenza deriva dal titolo con cui si accede a una casa: proprietario oppure locatario. Il bisogno di una casa può essere soddisfatto attraverso il mercato privati in affitto o in proprietà ma anche con l'aiuto pubblico, che ha permesso sia l’accesso ad alloggi poi destinati alla vendita alle famiglie sia all’affitto. Vi è poi la sfera del cosiddetto “abitare illegale” a completare il quadro. Il bisogno di un’abitazione permane nel tempo e vi sono altre dimensioni che acquisiscono rilevanza: la qualità dell'abitare e la sua sostenibilità. In questo caso una prima distinzione riguarda la componente economica e quella ambientale. La prima fa riferimento alla disponibilità delle famiglie di un reddito per mantenere la casa. Il livello di reddito puó risultare adeguato e portare anche un ulteriore arricchimento di chi vive nella casa e risparmia i soldi destinati a un eventuale affitto. D’altro canto il bilancio familiare può anche essere insufficiente a coprire le spese per la casa, con il risultato di dover sopportare un elevato peso dei costi abitativi e incorrere in episodi dì morosità che possono anche minare la sicurezza dell’abitare. La seconda componente é quella ambientale, in questo caso entra in gioco la qualità della vita delle persone. Le case possono essere abbastanza ampie e in luoghi serviti ma anche troppo piccole con problemi strutturali. gli immigrati e i loro figli, molto più vulnerabili sia dal lato della ricchezza disponibile, sia da quello del reddito e delle garanzie creditizie e infine i soggetti a forme di discriminazione nell'accesso alla casa. La popolazione straniera che risulta oggi proprietaria di una casa in Italia, Secondo il Rapporto 2017 (Immigrati e Casa di Scenari Immobiliari), sono quasi il 20 %. L'acquisto della casa trasferisce questa popolazione nella società dei proprietari, ma li espone a diversi rischi, come case di bassa qualità, sovraffollate, difficoltà di accesso ai mutui. Il sostegno intergenerazionale, cioè sostenere i figli a comprare casa, è raramente vissuto, da entrambe le parti, come dipendenza, bensì come un elemento che permette la nascita di autonomia e responsabilità da parte di chi riceve il dono. Lo scenario dei rapporti tra giovani e proprietà appare ancora lontano dalla possibilità immaginata da Rifkin , per la quale il termine accesso potrebbe sostituire quello di possesso, dato che il mercato dell'affitto sta cambiando fisionomia indirizzandosi sempre più a soddisfare le esigenze di una fascia di popolazione interessata ad aver accesso a breve termine più a servizi ed esperienze che alle responsabilità connesse con la proprietà immobiliare. Il fatto è che ad aderire al nuovo razionale dell'accesso paiono essere solo le famiglie delle classi più elevate. Nel dibattito pubblico pare scomparso invece il razionale dell'abitare in affitto e cioè che abitare per scelta in una casa in affitto piuttosto che in proprietà consente più flessibilità e mobilità geografica. 3. Abitare insieme senza fare famiglia: il cohousing Una prospettiva in cui si sovrappongono l’abitare, privatezza e socialità è rappresentato dal cohousing, che si può definire come condivisione di spazi abitativi e di servizi inerenti all'abitare. Si coabita senza aver legami di famiglia e lo spazio del privato non esclude più il pubblico e il sociale. Servizi comuni, autogestione, progettualità collettiva in vista del benessere "condiviso" di tutti gli abitanti: ecco una filosofia dell'abitare che ha il suo luogo di origine nei paesi scandinavi nella metà dello scorso secolo. Il cohousing può riferirsi alla coabitazione di due o più persone all'interno di uno stesso appartamento oppure alla più limitata condivisione di alcuni spazi e servizi di condominio destinati all'uso comune. Il risvolto di utilità personale, relazionale e ambientale è evidente sia nella prima sia nella seconda forma di cohousing. Nella prima, ci sono consistenti vantaggi economici (divisione delle spese dell'alloggio) e anche vantaggi relazionali (condivisione di compiti di lavoro domestico). Nella seconda forma di cohousing i vantaggi sono più vasti: al risparmio economico legato alla organizzazione di spazi e servizi comuni si aggiunge il recupero di spazi abitativi. Tuttavia queste pratiche non sono esenti da seri limiti: innanzitutto, gli spazi degli appartamenti di edilizia tradizionale spesso non sono adeguati e non sono pensati per facilitare la convivenza e garantire privacy, questo rende difficile la realizzazione di esperienze efficaci di cohousing. Un altro limite è di tipo organizzativo e gestionale: il cohousing di appartamento richiede robusti servizi di accompagnamento in loco (ad es. il portierato sociale che trova soluzioni ai problemi di gestione quotidiana degli appartamenti, media tra esigenze degli abitanti, organizza la vita sociale del condominio). Il cohousing di condomino è frutto della disponibilità di risorse economiche, culturali, e di reti sociali che si decide autonomamente di impiegare per modificare il precedente stile di vita. Uno dei rischi più evidenti del cohousing è quello della segmentazione sociale. I coabitanti sono nella maggior parte dei casi socialmente omogenei, in prevalenza professionisti, con livelli di istruzione e reddito medio-alti, mentre i tentativi di apertura della comunità di cohousers verso il resto del quartiere sono spesso risultati irrilevanti. Le ragioni per le quali essa non si sviluppa in maniera spontanea tra i cittadini in condizioni sociali svantaggiate riguardano la necessità di avere spirito di iniziativa, capacità di aspirare, caratteristiche che sono spesso scarse quando è necessario occuparsi di sussistenza e di far fronte a complessi problemi familiari. Inoltre, uno dei maggiori ostacoli alla formazione di gruppi di cohousers è ancora rappresentato dal costo per l'acquisto di interi edifici o di terreni su cui edificare ex novo. In situazioni come quella di molte città italiane, poi, vincolate in termini di spazio urbano occupabile e di rigidità della struttura abitativa tradizionale, il cohousing non può giovarsi di una edilizia di appartamento e di condominio adeguata. L'abitare collettivo, cioè la condivisione dello spazio e delle pratiche quotidiane in piccoli gruppi scelti, sollevano non pochi problemi circa l'idea di appartenenza a una città e/o a un quartiere/enclave. Ci sono sia esempi di forte investimento associativo che di ripiegamento comunitario. In questo secondo caso c'è il rischio di alimentare una filosofia che preferisce l'essere entre nous (lo stare tra noi) alla socialità aperta. Il cohousing scelto da pochi non va poi confuso con il cohousing o l'housing mix regolati per via di policy e proposto a persone in difficoltà. In entrambi questi casi, la logica è quella della compensazione reciproca tra le diversità, promossa attraverso la condivisione di stanze o di appartamenti, di condominii. Nel caso dell'housing mix le amministrazioni cercano di mescolare sul territorio, a scopo di integrazione, famiglie con livelli di reddito e regimi abitativi diversi (proprietà, affitto sociale). Le criticità derivano dall'idea che per combattere la segregazione spaziale e sociale, basti mescolare in uno stesso spazio abitativo/urbano persone con storie e strategie sociali diverse. In maniera da educare alla convivenza giovani e anziani, madri sole e pensionati, disoccupati, lavoratori e studenti. Capitolo Secondo. L'abitare tra quantità e qualità 1. Case per tutti? I muri e le barriere delle case degli italiani Due dimensioni di quantità e qualità. La dimensione della quantità è legata al problema dell'accesso (mancano le case). La dimensione della qualità è legata al problema del benessere che ne deriva, diventano perciò delle barriere. Dagli anni 80 a oggi si è verificato un aumento del numero delle abitazioni disponibili, con un rapporto di 470 ogni 1000 abitanti, siamo in una fase di eccedenza di abitazioni rispetto alle famiglie, grazie alla costruzione di nuovi alloggi. Rispetto alla qualità degli alloggi, ovvero alla dotazione di adeguati impianti igienico-sanitari, le cifre del censimento del 2011 sull'utilizzabilità degli alloggi sono assicuranti: la quasi totalità delle abitazioni occupate da persone residenti di spone di almeno un gabinetto e/o di una doccia/vasca da bagno. Però non è sempre stato così. Un'indagine Doxa alla fine degli anni 40 scoprì che l’89% non aveva i termosifoni e il 73 % era senza il bagno in casa. Negli anni 70 le cose sono cambiate e possiamo parlare di un raggiungimento di buoni livelli di equipaggiamento delle case (riscaldamento, attrezzature igienico sanitarie). Nonostante oggi le condizioni abitative degli italiani siano migliorate rispetto al passato, persiste il problema del benessere abitativo. Il benessere abitativo viene definito in termini negativi come assenza di disagio abitativo o di elementi di deprivazione abitativa, è un concetto dibattuto tra gli studiosi per cui non si è ancora raggiunto un accordo sulle modalità per misurarlo. Una prima classificazione può essere fatta distinguendo tra condizioni strutturali (assolute o relative) e condizioni ambientali. Le condizioni strutturali fanno riferimento a problematiche riguardanti all'alloggio (mancanza di servizi igienici, acqua corrente). In termini relativi si può considerare la mancanza di benessere abitativo in due frangenti: il primo si ha quando un alloggio non è abbastanza grande per chi ci abita, si parla quindi di sovraffollamento, è relativo perché il sovraffollamento non è una caratteristica intrinseca dell'abitazione ma dipende dalla dimensione della famiglia; ed è un dato critico per l'Italia, secondo i dati Eurostat, quasi il 28 % delle famiglie italiane denuncia sovraffollamento nel 2016. Il secondo frangente è relativo alle spese per la casa, i costi abitativi che comprendono l'affitto o la rata del mutuo, le spese accessorie, tasse, possono essere facilmente sostenuti da un nucleo oppure essere troppo onerosi per il bilancio familiare. Le spese per la casa quindi non sono basse o alte, ma dipendono dalla disponibilità finanziaria delle persone (l 8,6% delle famiglie italiane dichiara spese insostenibili per l'abitazione). Per quanto riguarda le condizioni ambientali, si passa dall'inquinamento atmosferico o acustico, alla presenza di atti di vandalismo o microcriminalità, la presenza di servizi di trasporto pubblico o scuole, ospedali. Il pendolarismo influenza la vita dei cittadini, sono infatti quasi 29 milioni (2011), cioè quasi la metà della popolazione residente, che ogni giorno si spostano per recarsi sul posto di lavoro o di studio. Questi dati sono in aumento. Case eccedenti, mancanti, intermittenti, ingombranti. Non possiamo dimenticare i casi di costante i dati sul disagio abitato del 2011 siamo rassicuranti e affermano la generale accettabilità delle condizioni abitative, se diminuiamo la scala dell'osservazione non possiamo trascurare i versi casi di privazione dell'abitazione (ad es. i senza fissi dimora), e tralasciare le situazioni di incertezza o rischio abitativi. Nel primo caso si è di fronte alla questione del disabitare o del non abitare (tende, capanne, rifugio), questa esperienza del disabitare ancora presente, configura i modelli abitativi di una parte di popolazione svantaggiata, come quella dei rom che abitano nei campi. Se usciamo dalla zona del disagio estremo continuiamo a trovare situazioni in cui in molti casi a mancare non è la casa nella sua fisicità bensì la possibilità di scelta delle persone, ovvero di pianificare i tempi di entrata/uscita, o le durate della permanenza in un alloggio: manca quindi l'autonomia abitativa. Emblematica è la situazione di perdita o lontananza temporanea della casa, come avviene per le assistenti familiari di origine immigrata che vivono presso il domicilio della persona che assistono, ma che perdono questa sicurezza temporanea quando i loro assistiti muoiono o si trasferiscono in una RSA. 3. Stili abitativi tra obblighi e attaccamenti Il problema dello stile abitativo, ossia le idee che portano alla scelta degli spazi da abitare, è successivo a quello del se e del dove vivere. A distinguere stili di vita da una parte e possibilità di vita dall'altra, ci sta la dimensione della scelta. La questione degli stili abitativi merita attenzione anche fuori da una mera considerazione di ordine culturale. Meritano attenzione spazi esterni e interni, ma anche elementi di connessione tra dentro e fuori, come facciate, spazi comuni, baconi, cortili, tutti segnalatori di stili costruttivi ma anche indicatori di distinzione e separazione fra strati sociali. Varianti e invarianti dell'abitare moderno. Sono poche le inchieste sui modelli abitativi fatte in Italia e sono concentrate su quartieri e case di periferie degradate in maniera prevalente, rendendo difficile quindi accedere a informazioni sull'abitare ordinario. Alcune informazioni sull'abitare derivano dai comportamenti di acquisto di beni per la casa. Un'indagine del 2016 mostra come l'abitare in condominio è predominante nel nostro paese, e riguarda il 62% degli italiani. In quel periodo più di un terzo di loro ha svolto una qualche forma di ristrutturazione e circa il 90% ha fatto qualche acquisto riguardante l'arredamento. L'interno di una casa rispecchia gli stili di vita e dice molto sull'identità di chi la abita, però se entriamo dentro questi nessi vediamo che essi si sono storicamente costruiti e socialmente strutturati attorno a specifici modelli che ancora oggi aiutano a riconoscere dalla casa la diversità di storia e aspettative di vita, di opportunità economiche, di vantaggi o svantaggi sociali. Lo spazio domestico può essere inteso come una chiave essenziale per capire l'organizzazione sociale nelle sue componenti micro e macro. L'appartamento rappresenta il prodotto finale dell'evolversi di una struttura familiare che nel corso del tempo e lungo il corso della vita può cambiare molto. Quindi se da un lato ogni casa ha sempre bisogno degli spazi, dall'altro gli schemi di relazioni dominanti all'interno della famiglia tradizionale e poi della famiglia moderna modificano l'esperienza abitativa in termini sia funzionali sia simbolici. Si può dire che i modelli abitativi siano tendenzialmente invariati nel tempo dal punto di vista funzionale, vi è infatti sempre una zona giorno e una notte, la sala oggi rinominata "living", rimane sempre la zona della socialità. Piuttosto cambia il sistema di relazioni fra gli spazi, le cose e gli abitanti. Muta il rapporto tra ordine e disordine: quest'ultimo non è più confinato e nascosto nella camera da letto o in bagno, ma invade le zone giorno che perdono la tradizionale sacralità di zone cerimoniali per diventare spazi accessibili a tutti, senza interdizioni di età. Sul cambiamento di uso degli spazi p emblematico il caso della cucina. Questa è stata a lungo vissuta come zona segregata, oggi è uno spazio aperto che si fonde spesso con il soggiorno, definendo la cosiddetta "zona giorno". La cucina diventa aperta a diverse funzioni, quindi multifunzionale. Tra le funzioni della casa vi è anche la socialità fatta di inviti a cena, vissuti e degradati di Edilizia residenziale pubblica dei Comuni a più forte disagio abitativo. Si è avviato a livello nazionale in quasi tutte le Regioni il Programma Contratti di quartiere II, che assorbe oltre il 50% dei finanziamenti residui derivanti dalle trattenute ex Gescal a livello nazionale. Gli ultimi dieci anni, anche in seguito al cosiddetto "Piano Casa" varato nel 2008 e poi con il decreto- legge 46 del 2014 vedono sorgere e consolidarsi un modello di housing sociale, parallelo all'edilizia pubblica. Nella declinazione italiana di sostegno alla locazione il nuovo modello prevede come destinatari cittadini disagiati, ma non al punto di poter accedere all'Edilizia residenziale pubblica. Quest ultima non è l'unico modo di fare politica abitativa, in questi ultimi 30 anni si è fatta spazio una nuova forma del fare politica sociale e abitativa inaugurata dai Contratti di quartiere. Da parte del terzo settore ci sono state in questi anni numerose iniziative di risposta al bisogno abitativo, si sono avviati in un'ottica di sperimentazione sociale, accordi di partnership con imprenditori privati e spesso associati a investimenti finanziari. Le iniziative intraprese hanno avuto target circoscritti, raggiunti per selezione avversa: cioè i beneficiari finali sono persone che non versano in particolare difficoltà ma che appaiono in grado di utilizzare al meglio vari tipi di risorse offerte, dal cohousing alla residenza temporanea, all'alloggio sociale. Con riferimento a programmi complessi e a politiche integrate si è cercato di innestare nelle nuove politiche abitative l'idea e le buone pratiche della socialità. Questa nuova pedagogia dell'abitare in cui occorre aprirsi al territorio e ai vicini collaborando alla valorizzazione degli spazi comuni del quartiere degli spazi comuni del quartiere, non ha sempre dato i risultati sperati. L'edilizi pubblica e sociale tra vizi e virtù. Le svolte innovative nel campo delle politiche abitative hanno dato segnali di innovazione, di attenzione alla complessità dei bisogni abitativi. Tuttavia non hanno arginato il disagio abitativo alla povertà, l'Edilizia residenziale pubblica è fatta di alloggi pubblici cui si accede tramite bando, secondo graduatorie di disagio. Le politiche abitative hanno dovuto assumere i caratteri selettivi per selezionare i beneficiari, questa selettività si è intensificata, con la crisi si amplia la platea dei potenziali beneficiari e la diffusione del rischio povertà e le risorse pubbliche si riducevano. Il risultato è che la situazione dell'edilizia pubblica e sociale rimane oggi molto critica; le famiglie che vivono in affitto sociale, ossia a prezzi ridotti rispetto a quelli del mercato privato, sono stimate in meno del 5%. La dotazione di edilizia pubblica riesce ad alloggiare poco più di 700000 nuclei familiari. Un numero del tutto insufficiente a rispondere i bisogni abitativi della popolazione. Circa 650000 famiglie sono in attesa di un alloggio e con diritto a tale sistemazione, e di fronte a una scarsità di alloggi accessibili, quasi il 15% degli alloggi disponibili non viene assegnato perché in attesa di manutenzione. Più della metà degli alloggi è classificata "ad alto consumo energetico", il che incide fortemente sulla spesa per le bollette. Quanto agli inquilini dell'ERP sono persone di età avanzata con un reddito molto bassi, e piccoli nuclei famigliari, da lungo residenti. La lunga occupazione di alloggi di ERP è dovuta da un lato alla difficoltà di uscire da condizioni di fragilità, dall'altro ai meccanismi di trasferimento automatico del diritto all'alloggio pubblico tra parenti o caregivers. Pur essendo un numero molto limitato, poi, gli alloggi di ERP pongono un forte problema di sostenibilità dei costi per gli enti pubblici, e di sopportabilità dell'affitto da parte delle famiglie. L'ERP è uno dei pochi strumenti efficaci per aiutare i nuclei più fragili a uscire dalla condizione di povertà abitativa. L'idea che sia meglio dare una casa piuttosto che i soldi per sostenerne l'affitto è stata da sempre legata a opzioni politiche, per cui si preferisce mantenere la possibilità di controllo su un bene. Parte seconda: La proprietà abitativa: un bisogno "irrinunciabile" Capitolo quarto. Il paese dei proprietari per eccellenza? La maggioranza degli italiani possiede la casa dove vive. Secondo l'Istituto nazionale di statistica, alla fine del 2016 quasi tre famiglie su quattro risiedevano in un'abitazione di loro proprietà. Se guardiamo al confronto con altri Stati vediamo che l'Italia è in linea con la media europea, le uniche eccezioni all'ampia diffusione della proprietà della casa sono rappresentate dalla Svizzera, Germania, Austria. Se guardiamo al gruppo di paesi del Sud e dell'Est Europa vediamo che l'Italia mostra la più bassa percentuale di famiglie proprietarie. Le ragioni che hanno portato a questo scenario hanno radici storiche nelle politiche fiscali e di protezione degli affittuari. Oltre al tasso di proprietari di casa può essere interessante guadare proprio alla velocità di acquisto. L'Italia ha da lungo tempo una diffusione di proprietari piuttosto elevata. Gli italiani sono infatti quasi maggioritariamente proprietari di casa, ma non lo sono da molto tempo e la diffusione della proprietà dell'abitazione su vasta scala è un fenomeno recente. Il trend di diffusione della proprietà è andato di pari passo con altri due fenomeni che riguardano le condizioni abitative nel nostro paese: l'aumento del numero di abitazioni e la diffusione di uno standard abitativo adeguato. In un arco di tempo relativamente breve si è delineato uno scenario caratterizzato sia da una maggiore disponibilità di case rispetto al numero di famiglie, sia da abitazioni con standard migliori. Tuttavia le dimensioni della proprietà e del disagio non sono necessariamente legate: l'essere proprietari di casa non esclude il vivere in condizioni di deprivazione abitativa, questo è confermato anche dai dati a livello europeo, dove i paesi con la più alta percentuale di proprietari di casa sono anche quelli con la più alta percentuale di famiglie in condizioni di disagio abitativo. Come si può spiegare questo paradosso? In realtà è un fenomeno solo apparentemente in contraddizione se si considera la prassi di promuovere l'accesso alla proprietà a famiglie con redditi bassi, senza intervenire sulla diffusione dei costi dell'abitare. 1.La società dei proprietari di casa Per lungo tempo le politiche sociali hanno incentivato in vari modi la diffusione della proprietà, il raggiungimento della "società dei proprietari di casa" (homeowners society). Il sogno di tutte le famiglie che possiedono una casa è stato sostenuto in molte delle nostre società occidentali. In Italia, le radici profonde della "cultura della proprietà" possono essere fatte risalire a più di cento anni fa: il primo provvedimento organico dello Stato a livello nazionale in ambito abitativo che risale al 1903 con la legge 254, detta "Luzzatti". Questa norma promosse un intervento attivo della politica a sostegno dei ceti meno abbienti, cioè coloro con un reddito inferiore a una determinata soglia. La fascia della popolazione più debole poteva accedere a un'abitazione a prezzi più bassi di quelli del mercato. Nonostante fosse circoscritta allo strato più povero, la norma prevedeva esplicitamente sia l'affitto sia la proprietà. Questa norma si inseriva perfettamente nel processo avvenuto lo scorso secolo nelle moderne società occidentali e che vedeva la proprietà come il titolo di godimento "naturale" delle abitazioni. La carta costituzionale esprimeva il supporto alla proprietà, l'articolo 47 recita: "La repubblica favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese". Le politiche perseguite nel secolo scorso hanno mantenuto basso il livello dell'offerta di case in affitto e alto quello dell'offerta di vendita. La politica del credito ha poi portato molte famiglie che avrebbero preferito abitare in affitto all'acquisto della casa. Dal punto di vista normativo una tappa significativa è rappresentata dalla legge che nel 1978 ha introdotto l'equo canone e ha fossato vincoli stringenti alla possibilità per i proprietari di incrementare i canoni. La legge sull'equo canone viene approvata per dare risposta da un lato a una conflittualità sociale sul tema del diritto alla casa, dall'altro alle richieste da parte della proprietà edilizia di superamento del blocco degli affitti. La riforma prevedeva una regolazione con i canoni di affitto fissati secondo parametri di qualità e dimensione dell'abitazione, da essere economicamente sostenibile per gli inquilini (definizione di un canone oggettivo a fronte di un livello di equità variabile a seconda del reddito posseduto). Le politiche abitative attuate in Italia hanno portato allo sviluppo della proprietà. Un esempio è il Piano decennale per l'edilizia pubblica, con questo provvedimento lo Stato ha finanziato interventi di edilizia convenzionata e agevolata diretti alla costruzione di abitazioni e al recupero del patrimonio edilizio esistente. Questi sostegni si sono realizzati prevalentemente nella promozione della proprietà proprio attraverso le facilitazioni all'accesso all'edilizia convenzionata e agevolata, che prevede il concorso tra pubblico e privato. La spinta pubblica alla proprietà è anche conseguenza della riduzione dell'offerta di case popolari avvenuta a partire dagli anni 80 e che ha costretto molte famiglie povere a rivolgersi al mercato della proprietà per mancanza di alternative. L'intervento pubblico di promozione dell'acquisto di casa si è realizzato anche attraverso la normativa tributaria con gli incentivi fiscali: le agevolazioni per l'acquisto della prima casa, la riduzione delle imposte delle imposte per venditore e acquirente di prima casa, detrazioni fiscali per le spese di ristrutturazione. Legge di stabilità 2016: rimuove il pagamento della TASI per le abitazioni nelle quali si risiede, e l'IMU sulla prima casa. Nel modello culturale italiano, la casa è vista come un ottimo e sicuro investimento. Si è giunti alla "società dei proprietari di casa" anche attraverso la diffusione di una culturale dell'abitare in proprietà. L'acquisto di una abitazione viene considerata così una scelta razionale, un mito razionale. Proprietari diseguali L'ampia diffusione della proprietà della casa tra la popolazione rende rilevante distinguere chi con l'acquisto dell'abitazione mette al sicuro risparmi, da chi fa un investimento senza rischi e ancora da chi giunge in affanno per comprare una casa spinto dal caro affitti, a spese della salute e istruzione. Le circostanze in cui si diventa proprietari sono molto variabili e ce lo conferma le ricerche sui fattori sociali e istituzionali che supportano l'acquisto di una casa. Si è giunti a un generale accordo nel riconoscere che la condizione di proprietario è di per sè poco predittiva del benessere e dello status sociale. A dividere i proprietari al loro interno è la classe sociale di origine. Quest'ultima influenza numerosi aspetti dell'abitare, a partire dalla possibilità o meno di scegliere se e quando comprare alle migliori condizioni, concorrono infatti molte circostanze individuali e ambienti favorevoli. La relazione tra classe sociale e proprietà richiama le questioni legate alla capacità di accesso alla proprietà e dunque alla solvibilità. Il primo tema è concesso anche al concetto di sostenibilità dei costi di accesso alla casa. Per comprare un immobile bisogna disporre del capitale pari all'intero valore di vendita o di un capitale iniziale e quindi dalla possibilità di accendere un mutuo per la parte restante, esclusi i costi di accesso. Tuttavia, l'accesso al credito non è automatico e i dati sulle disuguaglianze di classe mostrano maggiori difficoltà per alcune famiglie ad accedere a un mutuo. Infatti la percentuale di rifiuti di mutui è doppia per i nuclei di classe bassa rispetto a quelli di classe alta, inoltre la distanza tra i due gruppi si è intensificata soprattutto dopo la crisi economico del 2008. La seconda questione riguarda la capacità di sostenerne i costi, in particolare per le famiglie più svantaggiate. Ai fini della capacità di pagare il mutuo e le spese associate all'abitazione diventano cruciali parametri come l'importo minimo di anticipo, il rapporto tra percentuale della rata del mutuo sul reddito, nonché la durata del mutuo e i tassi di interesse. La deregolamentazione del mercato dei mutui ha portato a un aumento della durata media dei prestiti e a una riduzione dell'importo minimo necessario per accendere un mutuo, in termini di percentuale sul valore dell'immobile. Quindi se i prezzi degli immobili non fossero aumentati, questi cambiamenti avrebbero portato a una maggiore capacità di accesso alla proprietà, senza avere alcun impatto sulla capacità di pagare le rate del mutuo. Una situazione ancora più vantaggiosa sarebbe quella nella quale i tassi di interessi dei mutui diminuiscono a fronte di una stabilità dei prezzi degli immobili. Questo porterebbe a migliorare la condizione sia di capacità di acquisto sia di sostenibilità dei costi. Con lo stesso livello di reddito e ricchezza le famiglie potrebbero accedere a case più costose e allo stesso tempo avrebbero rate di mutui inferiori. In realtà la deregolamentazione del mercato del credito si è storicamente affiancata a cicli speculativi caratterizzati da aumenti sensibili dei prezzi degli immobili che hanno portato a situazioni di estrema disuguaglianza, visibile sia a livello micro che macro. Molte economie avanzate hanno visto un aumento del livello di disuguaglianze. Dalla fine degli anni 2000 le disuguaglianze di reddito, e di ricchezza, hanno registrato un aumento in tutti i paesi sviluppati. L'aumento delle disuguaglianze può essere letto come una conseguenza inevitabile del processo di trasformazione del capitalismo, in un quadro primo caso l'abitazione viene vista come ricchezza posseduta dal nucleo familiare che interagisce con altre forme di disuguaglianza sociale, in primis con quelle occupazionali. La casa non rappresenta soltanto una risorsa abitativa in senso stretto, ma una risorsa capace di influenzare le complessive condizioni di vita della famiglia. Nel secondo caso, la casa, attraverso i trasferimenti intergenerazionali, contribuisce a spiegare le origini della ricchezza familiare e delle disuguaglianze sociali che da essa si dipanano. Coloro che appartengono alle fasce più avvantaggiate della popolazione hanno maggiori probabilità di ricevere eredità, è il noto processo di accumulazione dei vantaggi, quella che viene definita eredità sociale, ossia la probabilità che i figli acquisiscano un certo livello di istruzione, occupazione e reddito, risultato della posizione dei genitori nella stratificazione sociale, Alla eredità sociale si affianca quella materiale. Eredità che non riguarda solo il passaggio della proprietà della casa, ma la distribuzione della ricchezza è cambiata nel tempo: la proprietà della casa non è poi concentrata nelle mani di pochi, nella società di oggi ricoprono importanza crescente i patrimoni, costituiti dal risparmio, dalle rendite e anche dalle stesse eredità. La distribuzione della ricchezza è più diseguale di quella del reddito. A questo proposito sono emblematici i dati sulla diffusione delle seconde case in Italia. Oltre alla crescita della percentuale di famiglie che risiede in una casa di proprietà, negli ultimi anni si può osservare anche l'aumento delle famiglie che posseggono una o più abitazioni, oltre a quella dove vivono. È questo il fenomeno delle seconde e terze case che configurano i cosiddetti consumi abitativi opulenti, ma possono costituire anche una forma di investimento in quanto vengono poi affittate e sono fonte di reddito. La disuguaglianza nella distribuzione della proprietà delle abitazioni risulta ancora più evidente osservando il valore del patrimonio immobiliare. Le abitazioni di poco più del 10% della popolazione valgono complessivamente poco meno del valore di tutte le case delle famiglie che posseggono solo la casa di residenza. Per quanto riguarda i mutui a partire dagli anni 90 sono aumentati in maniera disomogenea nella popolazione: sono infatti più diffusi i mutui tra coloro che posseggono più di un'abitazione e che quindi hanno consumi abitativi che vanno oltre il soddisfacimento della necessità primaria. Se consideriamo la classe sociale di appartenenza non stupisce che le famiglie che possiedono più immobili siano quelle di classe alta. Al contrario si trovano in affitto le famiglie di classe bassa che in Italia ancora oggi non riescono ad accedere all'acquisto. La disuguaglianza di classe sociale si dispiega anche considerando i dati sul valore delle abitazioni possedute, vi è quindi un vantaggio della classe alta rispetto a tutte le altre: all'aumentare della posizione di classe aumenta il valore medio della casa posseduta. Questo aspetto è strettamente correlato con la geografia di queste proprietà, sia all'interno delle città che su tutto il territorio nazionale. Infine, sono con maggiori probabilità le famiglie con più risorse che accedono a un mutuo. La casa ha da sempre occupato un posto importante nei bilanci degli italiani e considerata un investimento sicuro, infatti secondo un'indagine chi ha risparmi da investire guarda con più interesse al mattone. Tuttavia, la disponibilità finanziaria è congelata assumendo il carattere di bene immobile. L'acquisto di una seconda casa sposta l'asse dell'equilibrio tra gli investimenti reali e quelli finanziari, dove questo disequilibrio può rivelarsi molto critico in caso di bisogno di liquidità. In questo caso si parla di condizioni house rich, cash poor. 3. La seconda casa oltre all'investimento economico. L'acquisto di una seconda casa da utilizzare nel tempo libero o da affittare può essere letto come investimento economico. Le ragioni che spingono le persone a comprare una seconda casa possono essere molto diverse, e diverse saranno anche le modalità di utilizzo dell'abitazione in seguito. Un elenco delle motivazioni che spingono individui e famiglie ad acquisire la seconda casa è proposto da Paris. Le motivazioni indentificate sono otto: 1. Il desiderio delle famiglie che vivono in ambito urbano di avere uno spazio fuori città, in campagna, montagna, lago o mare. La stessa motivazione vale anche in direzione inversa: per le famiglie che vivono in campagna, può essere conveniente avere una base di appoggio in città; 2. Lo scappare dalla pressione quotidiana, evadere dalla vita di tutti i giorni; 3. L'accesso a particolari attività che non sarebbero disponibili altrimenti: ad es. attività di sci, pattinaggio; 4. Il mantenimento di un legame con un'area della quale si è originari, ad es. una seconda casa nel paese dove vivevano i nonni, frequentato durante l'infanzia; 5. Il desiderio di status o ricerca di identità. 6. Strategie di investimento economico-finanziario: accumulare capitale, avere una rendita, ridurre o evadere tassazioni. 7. La possibilità di acquisire l'anonimato che non si ha nel luogo di residenza. 8. L'ultima fa riferimento a fattori legati a ragioni di lavoro o studio. A queste motivazioni se ne possono aggiungere un paio. Una riguarda la decisione di acquistare una seconda casa per avere accesso a cure sanitarie di lunga durata in ospedali. Una seconda motivazione fa riferimento invece all'acquisto della seconda casa per stare vicino a parenti che necessitano di cure quotidiane. Un'undicesima motivazione riguarda le motivazioni sociali come il fornire la propria abitazione, gratuitamente o a costi minimi, ad associazioni di volontariato, cooperative o direttamente ad altri soggetti deboli (rifugiati, donne vittime di violenza). In questi casi probabilmente la casa era già disponibile e non è stata acquistata espressamente con questo proposito. Al di là delle motivazioni individuali e delle aspettative, non si possono trascurare le conseguenze macro che ha la diffusione delle seconde case. La prima è che l'acquisto di molte seconde case in un luogo specifico porta a un aumento dei prezzi nel mercato immobiliare. La sostenibilità dei prezzi delle case è poi direttamente legata al tema della cosiddetta gentrification. I nuovi abitanti infatti portano a un cambiamento radicale che va dai servizi agli spazi pubblici, ai locali commerciali. E le conseguenze della diffusione di un mercato delle seconde case sono, come sempre, più gravi per le famiglie a basso reddito. Inoltre, quando le seconde case sono abitate (dai proprietari o dagli affittuari) solo per alcuni periodi dell'anno e quando questo fenomeno è molto diffuso, si creano problemi di stagionalità e stabilità dei servizi. La diffusione iniziale della proprietà di seconde case in una certa località si è spesso verificata in aree che avevano perso una parte della popolazione a causa della mancanza di lavoro e dove la popolazione è stata sostituita da altri non locali. La sostituzione è solo temporanea per alcuni periodi dell'anno. Stagionalità e periodicità dell'occupazione influenzano i modelli di domanda di servizi, compreso il consumo di energia elettrica e di acqua, l'uso di strade e parcheggi, ma anche servizi pubblici come la raccolta dei rifiuti. Capitolo Sesto. Poveri proprietari o proprietari poveri? 1. La proprietà della casa negli approcci di studio alla povertà. Nell'immaginario collettivo, un individuo povero è spesso rappresentato come un senzatetto, ed in questo caso è evidente la povertà abitativa. Questo tipo di povertà però può assumere altre forme, il cui impatto sulla vita delle persone non è da sottovalutare: dalla mancanza di condizioni igieniche al sovraffollamento, dalla presenza di umidità all'esposizione a forme di inquinamento acustico o atmosferico. Il termina "povertà" indica un'ampia varietà di situazioni in cui è rilevabile un deficit di risorse che non permette il raggiungimento di uno standard di vita accettabile: può essere definito povero chi è senza fissa dimora, ma lo è anche chi ha un reddito non sufficiente a soddisfare i propri bisogni. La varietà delle definizioni si riflette in una varietà di approcci di analisi che si distinguono in base agli indicatori utilizzati: dalla distinzione tra misure di povertà assolute o relative a quelle oggettive o soggettive, nonché unidimensionali o multidimensionali. Gli approcci più diffusi sono quelli che si focalizzano su un singolo aspetto, nella maggior parte dei casi la dimensione considerata è quella monetaria e l'indicatore è dicotomico poveri/non poveri. Focalizzandosi sulla definizione monetaria, la proprietà della casa non esclude necessariamente dalla povertà, infatti le stesse definizioni di povertà non escludono i proprietari. Le statistiche sulla povertà in Italia che vengono presentate annualmente dall'Istat fanno riferimento all'approccio assoluto e relativo. Il primo considera il costo di un paniere di beni e servizi considerati fondamentali per la riproduzione degli individui e per non essere esclusi da uno standard di vita accettabile. Nel secondo caso si definisce la condizione di povertà nello svantaggio di alcuni rispetto ad altri. La povertà relativa è infatti una misura intrinseca di disuguaglianza. Nel primo caso, l'abitazione è considerata come uno dei beni essenziali, tenuto conto anche del titolo di godimento maggioritario in Italia. Nella definizione del fabbisogno abitativo è infatti considerato che in tutte le Regioni italiane la quota di famiglie proprietarie dell'abitazione in cui vivono è sempre maggioritaria. Inoltre, la percentuale di proprietari dell'abitazione cresce all'aumentare del livello di reddito. Le famiglie con i redditi più bassi sono meno frequentemente proprietarie, c'è quindi una relazione positiva tra livello di reddito e probabilità di vivere in un'abitazione in proprietà. Per queta ragione, nella definizione del paniere bei beni e servizi indispensabili, si considera il costo di un'abitazione in affitto a prezzi di mercato. Nel secondo caso, della povertà relativa, si fa capo alla distribuzione dei redditi della popolazione di riferimento, considerando in povertà coloro che hanno un reddito inferiore a una determinata soglia, definita la percentuale di un parametro (media o mediana) della distribuzione del reddito. Sono quindi povere in termini relativi, quelle famiglie che hanno un reddito disponibile inferiore a una percentuale del reddito mediano della popolazione. Entrambi gli approcci non escludono i proprietari dalla condizione di povertà. Sia per la povertà assoluta che per quella relativa si considera il reddito disponibile delle famiglie tenendo conto della componente abitativa. Nel caso delle famiglie in proprietà il reddito viene aumentato considerando un importo pari a quello di un ipotetico costo a prezzi di mercato del canone di locazione che una famiglia dovrebbe pagare se risiedesse in affitto. Si parla in questo caso di un reddito dato dal reddito disponibile a cui sono aggiunti i fitti imputati stimati. Si possono quindi trovare situazioni nelle quali alcune famiglie possono essere house rich ma cash poor, ossia ricche di casa a povere di liquidità. Molte di queste situazioni possono rientrare nella condizione di povertà. 2. Titolo di godimento dell'abitazione e povertà Anche tra le famiglie proprietarie vi sono quelle che vivono con standard abitativi inadeguati o in condizioni di sovraffollamento. La relazione tra titolo di godimento della casa e povertà in Italia mostra che la proprietà è frequente anche tra le famiglie povere. Questo è coerente con il fatto che la proprietà è diffusa tra tutti gli strati della popolazione, sebbene le famiglie povere abbiano sempre più probabilità di vivere in affitto. Questo dato, oltre ad essere un indicatore di svantaggio, è in parte da ricondurre all'accesso delle famiglie al cosiddetto social housing, ossia l'affitto a prezzi ridotti rispetto al mercato, risultato di un intervento di politiche pubbliche. D'altro canto, l'affitto a prezzi di mercato non è sufficiente a identificare i poveri: non tutti gli affittuari vivono in povertà e non tutte le persone vivono in affitto. A questo va aggiunto che in generale non vi sono risorse pubbliche attivabili per sostenere i proprietari di casa in condizione di difficoltà. Gli affittuari possono invece accedere a misure di sostegno come gli housing allowances, ossia i fondi per il sostegno all'affitto. Sono a tutti gli effetti un sostegno al reddito e quindi una forma di sicurezza sociale. Parlare di proprietari in condizione di povertà sembra un ossimoro, in realtà secondo i dati Eurostat non è un fenomeno raro, in Italia tra il 2006 e il 2016 le percentuali di individui poveri che vivevano in un 'abitazione in proprietà oscillava tra il 18% e il 20%. Tuttavia il fatto di avere una casa è associato a un benessere medio maggiore se confrontato con quello degli affittuari. Sono infatti più frequentemente in condizione di stress finanziario i nuclei che si trovano in affitto. La differenza tra affittuari e proprietari è che i primi possono accedere ad aiuti pubblici, perché la città in questione ha puntato sull'economia terziaria e dunque utilizza il proprio repertorio di patrimonio architettonico, artistico e paesaggistico come riserva estrattiva, oppure perché spazi che in epoca precedente avevano solo una valenza industriale, come è il caso di moltissimi waterfront, ne assumono altre, per esempio di tempo libero, svago ecc. Per restare al nostro Paese, molti studi confermano che vi è stato un "ritorno al centro", non tanto perchè delle frazioni di classi medie e superiori avrebbero deciso di spostarsi fisicamente nei centri storici, ma soprattutto perché la quota di appartenenti alle classi popolari è ovunque diminuita in maniera significativa. Nei centri storici delle principali città italiane le classi superiori non se ne sono mai andate, quelle medie sono cresciute in maniera importante, mentre quelle popolari sono scomparse. Ecco, dunque, che le case al centro sono diventate il luogo di incontro tra una domanda abitativa strategica e più benestante e un'offerta ricercata, che si è rifatta il trucco grazie a ristrutturazioni d'interni, rinascita dei cortili. I prezzi testimoniamo questo rovesciamento. Nelle 12 città italiane più grandi, tra il 86 e il 92, i prezzi crescono del 96% e di un ulteriore 52 tra 99 e 2007. Le dinamiche immobiliari del nostro paese sono in larga misura guidate proprio dalle grandi città. Il divario nazionale tra prezzi segue in larga misura il reddito disponibile e dunque ricalca la forte disparità tra Nord e Sud. Se entriamo in dinamiche spaziali più "fini", osserviamo andamenti che variano da città a città pur avendo una direzione simile: a man mano che ci si allontana dal centro città, i valori decrescono. Se è vero che i centri storici italiani trattengono e mostrano gran parte della ricchezza e della rendita estraibile, le differenze tra città sono molto significative: possedere la stessa tipologia e dimensione di appartamento in centri di città diverse implica delle realtà poco assimilabili, sia in termini di valori che di margine d'estrazione di rendita. Inoltre, a seconda del tipo di urbanizzazione e di contesto, tutto ciò che non è centro storico non è necessariamente, sempre e comunque meno ricco delle aree centrali. Zone collinari o lungo corsi d'acqua, caratterizzate da specifiche qualità ambientali, possono avere valori uguali o maggiori di aree centrali. La differenza tra "centro" e " periferia" è però più ampia nelle città del Sud Italia, data la rilevante disparità in termini di servizi e di opportunità tra i centri urbani e le Province, la domanda di casa ha generato un fossato ben più profondo al Sud che al Centro o al Nord, accentuando ancora di più gli squilibri territoriali del Mezzogiorno. La questione dimensionale delle città e la loro localizzazione rischiano però di occultare altre dinamiche, in particolare quelle relative all'urbanesimo. In aggiunta al fenomeno della gentrification, bisogna rendere conto del peso e della specificità delle città turistiche. 2. Al centro del vortice turistico L'analisi delle dinamiche di trasformazione dei rapporti tra centri e tra centri e periferie non può prescindere dal carattere di utilizzo dei luoghi: residenziale, commerciale, industriale, turistico. Quest'ultimo merita attenzione, secondo il World Economic Forum, l'Italia è uno dei dieci paesi con il volume di affari più elevato in termini assoluti. Si parla di uno dei settori più rilevanti e dinamici della nostra economia, e presenta una sua geografia che è anche una geografia urbana. Se guardiamo alle cifre delle presenze turistiche nelle città italiane, vediamo che nel 2017 sono state registrate 171 milioni di presenze. Questi dati però non tengono conto del rapporto con la popolazione residente e dunque anche con il territorio su cui impattano, fatto anche e soprattutto di case. Se guardiamo alla pressione turistica (basata sul rapporto tra il numero di presenze per 1000 abitanti negli esercizi ricettivi), si scopre una classifica molto differente, guidata da Limone sul Garda, un piccolo comune di 1170 abitanti che però ha ospitato, per ogni 1000 abitanti, più di un milione di presenze. I 50 comuni sotto maggiore pressione hanno tutti, per un limitato periodo dell'anno, una popolazione che aumenta in maniera molto significativa. La pressione sui Comuni più piccoli è di oltre 9 presenze per ogni abitante, contrariamente alle grandi città turistiche dove questa pressione scende a una media di 6 presenze per abitante. Esiste dunque un Italia che vive massicciamente sull'economia turistica; la geografia delle seconde case, così come quella delle prime, utilizzate temporaneamente a uso turistico, racconta una storia di rendite, usi temporanei, sottoutilizzi e disuguaglianze. Ecco dunque che i bassi napoletani, per secoli rifugio di classi popolari cominciano a essere invece trasformati e affittati sulle piattaforme di affitto temporaneo come Airbnb o Booking. Le implicazioni di questa crescita esponenziale di alloggi offerti su piattaforma sono oramai note e costituiscono l'oggetto di un crescente dibattito internazionale. Se è vero che le piattaforme si inseriscono all'interno di un settore economico vitale e in crescita come il turismo, all'interno di economie occidentali caratterizzate ormai da bassi tassi di crescita e lunghi periodi di stagnazione, modificano alcune disuguaglianze sociali preesistenti e ne creano di nuove. Per quanto riguarda l'aspetto additivo sul sistema di disuguaglianze ereditato dal passato, è evidente come famiglie dotate di beni immobiliari di pregio, all'interno di geografie a loro volta disuguali, riescano ad aumentare la propria quota di ricchezza solo grazie alla rendita resa disponibile dal turismo delle piattaforme. Un esempio è quello di chi è rimasto proprietario in aree di pregio del centro storico e ora beneficia del boom turistico. In questo caso la sola continuità di possesso di un bene, all'interno di un mutamento economico e di valorizzazione delle aree storiche e centrali, porta a una crescita diseguale della ricchezza attraverso l'estrazione di rendita. Emerge però un aspetto più critico dall'analisi del mondo delle piattaforme ricettive nelle grandi città turistiche: l'arrivo massiccio di grandi operatori che agisce per conto terzi, ovvero lo sviluppo di una forma più industrializzata e corporate di sfruttamento. Nelle città dove il fenomeno è maggiormente toccato dalla presenza di multiproprietari, attori aziendali del settore immobiliare e intermediari, come è il caso di Milano, l'indice di Gini cresce fino allo 0,7, dove dunque i" benefici della piattaforma vengono appropriati in maniera sproporzionata da un numero ridotto di utilizzatori". A questo va aggiunto l'aspetto più spaziale, cioè che man mano che ci si allontana dal centro storico, la media dei ricavi ottenuti attraverso la piattaforma diminuisce significativamente. Le seconde case, quindi, non sono tutte uguali, e quando vengono analizzate nel contesto dei circuiti turistici, le differenze si articolano ulteriormente: circuiti molto ricchi ed esclusivi come è il caso delle porzioni più pregiate dei centri storici delle città d'arte italiane, offrono possibilità di estrazione diverse e più elevate di alloggi inseriti in circuiti turistici più popolari, come nel caso delle città a minor impatto turistico. Ci sono altri casi in cui queste case non mai state inserite in alcun circuito turistico ("territori in contrazione"). Capitolo ottavo. Il mondo là fuori: periferie e questione abitativa 1. L'urbano diffuso e la questione abitativa Non possiamo più pensare alla dicotomia diffusa tra urbano e rurale. Secondo Neil Brenner, per comprendere le dimensioni dell'urbanizzazione planetaria, dobbiamo ripensare la nostra idea di rurale (pos 1533), tuttavia siamo ancora legati al pensiero moderno che distingueva città e non-città, e rimaniamo legati al bisogno di assumere criteri dimensionali tra tipi di modello urbano, nella speranza che questo ci aiuti a chiarirci sul tipo di territorio che incontriamo. La maggior parte delle ricerche italiane sull'urbano si concentra sul quinto gruppo, quello delle principali città italiane, che comprende le due più ampie, Roma e Milano, ma anche Napoli, Torino, Palermo... Questa misura rende conto della popolazione dei Comuni, ma se introducessimo una variabile diversa, come la densità, la classifica verrebbe sconvolta a favore dei Comuni vesuviani di Portici, Casavatore, che hanno tutti densità molto più elevate. Ancora più interessante sarebbe tenere conto delle aree metropolitane nel loro insieme geografico, perché renderebbe conto di quei sistemi urbani dove non vi è soluzione di costruito dal centro storico verso l'ultimo edificio del Comune più periferico e che vivono in relazione reciproca. La proposta più innovativa, in termini di classificazione del territorio italiano, è quella recente emersa nel volume Riabitare l'Italia (Le aree interne tra abbandoni e riconquiste), e che si basa sulle ricostruzioni di quattro dimensioni: fisica, demografica, produttiva e sociale. Rinviando a quel volume per una descrizione più dettagliata, possiamo però arrivare ai principali meriti conoscitivi della proposta, in particolare una ricostruzione cartografica del nostro paese basata su indicatori sintetici di "pieno" e vuoto". L'Italia a seconda delle 4 dimensioni avrebbe dei gradienti di "pienezza" che tendono al "vuoto" e cioè degli andamenti digradanti di sviluppo e benessere: questi mostrano non solo quanti abitanti insistono sul territorio, ma anche all'interno di quali sistemi infrastrutturali, abitativi, produttivi e sociali. Questa visione permette di cogliere il nesso tra disponibilità di case, presenza di abitanti, infrastrutture e servizi cogliendo la proposta di Brenner di non distinguere tra città e mondo rurale ma ragionando in termini di densità di usi e di spazi. 2. Il mondo delle aree interne: quale futuro per le case dell'altra Italia? L'Italia ha una composizione demografica e territoriale nota, con una popolazione in forte invecchiamento, dei tassi di fecondità e natalità in contrazione e un equilibrio demografico sempre più precario. Quasi il 60% della superficie territoriale vede un decremento demografico, con circa 100.000 kmq di territorio che mostrano un declino persistente. La storia dell'urbanizzazione italiana del secondo dopoguerra, quella che esonda dalle città consolidate e va a definire quel paesaggio urbanizzato che si osserva non appena si lasciano le città grandi e medie, è segnata da tre grandi componenti edilizie: 1. la casa individuale 2. il capannone prefabbricato 3. la seconda casa Queste tre componenti hanno contribuito al consumo di suolo nazionale all'interno di un patto politico proprietario condiviso, che implicava un sostanziale appoggio all'investimento in capitali fissi in condizioni di sostanziale detassazione. Gli italiani hanno quindi impiegato la ricchezza che derivava loro dal boom economico in case e capannoni, con risultati architettonici, urbanistici e ambientali problematici ma pur sempre all'interno di un quadro politico ed economico di crescita e consenso. A partire dagli anni 90 del secolo scorso, continua l'espansione del consumo di suolo ma in un'ottica "sempre più disaccoppiata dallo sviluppo socioculturale a livello locale". In corrispondenza del ciclo di espansione immobiliare tra il 96 e 2006, si assiste a un ulteriore momento di urbanizzazione in assenza di una connessione con le economie locali. Il possesso di investimento nel mattone non ha reagito alle mutate condizioni strutturali dell'economia italiana, ma è stato sostenuto da una necessità di autoriproduzione, funzionale alla tenuta del sistema. Non è dunque inaspettato l'effetto che la crisi esplosa a partire dal 2008 genererà su questi mercati: " Si svuotano edifici di diversa natura, mentre non poche nuove offerte immobiliari restano invendute e diversi cantieri rimangono sospesi in una condizione di non finito...." Il quadro che emerge a un decennio della crisi è, a livello territoriale, composito ma desolante. Se si eccettuano le aree centrali della città più competitive, il paese vive una condizione di sovrapproduzione abitativa, con prezzi calanti quasi ovunque. La geografia sociale di queste case è molto squilibrata, con classi sociali superiori che hanno saputo patrimonializzare i propri beni adeguatamente collocandoli nei contesti più proficui e sicuri mentre gli altri gruppi sociali, dove i proprietari poveri sono fortemente rappresentati, hanno investito in scelte che ora appaiono decisamente perdenti. A questo proposito sono emblematici i nomi che Lanzani e Curci hanno dato ai territori italiani in contrazione: 1. borghi e terre alte in abbandono, 2. fondivalle, pedemonti e conche "intristite", 3. campagne produttive in spopolamento, 4. urbanizzazioni diffuse e distrettuali in crisi, 5. litorali consumati dal turismo di massa e 6. periferie e interstizi urbani "fragili". 1. Gente che va e altra che non viene: l'Italia degli sfratti e delle case vuote Un dato che viene spesso utilizzato per indicare il disagio abitativo riguarda il numero di sfratti. Nel 2016, su 160 mila richieste di esecuzione di sfratto, i provvedimenti sono stati poco meno di 63 mila e quelli eseguiti più di 35 mila. Interessante è osservare la variazione su base decennale di questi dati, in quanto consente di pesare anche gli effetti della crisi economia: le richieste tra 2006 e 2016 sono aumentate del 56%, i provvedimenti dl 35% e gli sfratti realmente eseguiti sono anch'essi cresciuti del 57%. Se nel 2006, la morosità incolpevole costituiva il 75% del totale delle richieste di esecuzioni di sfratto, nel 2016 invece era salita all'89%. Le regioni meno protettive sono quelle del Nord; in cima a tutte Lombardia e Piemonte, che peraltro registrano comportamenti difformi nei loro capoluoghi (Torino con meno provvedimenti di Milano). Per quanto riguarda la disponibilità di affitto sociale, l'Edilizia residenziale pubblica continua a diminuire sia in numeri assoluti che percentuali. In questo quadro la disponibilità di abitazioni supplementari costituisce un problema di equità sociale: aumentano le famiglie che devono ripiegare su box, auto, camper per non dormire a cielo aperto, mentre esiste una diffusa disponibilità di alloggio "dormiente". Se guardiamo alla distribuzione territoriale di questo patrimonio vediamo come da un lato si sovrapponga a tutti quei territori in forte svuotamento, al tempo steso le aree metropolitane non sono risparmiate da questo fenomeno, e si osserva anche una forte incidenza di case inutilizzate nel Mezzogiorno, che siano aree metropolitane o interne. Altro osservatorio sintomatico del crearsi di vuoti e pieni nelle città, prodotti da movimenti spontanei oppure indotti e regolati dagli attori sul territorio, è quello delle popolazioni rom. Esistono numerosi "campi" autorizzati dai Comuni, dove le abitazioni sono costituite da container, roulotte, tende e baracche. Nelle baraccopoli formali il 44% degli abitanti ha la cittadinanza italiana mentre il 34% circa proviene dall'ex Jugoslavia ed è quindi apolide (motivo per cui non potrebbe essere rimpatriato). Le condizioni igieniche e di sicurezza abitativa sono spesso precarie, oltre agli incendi. Oltre ai campi autorizzati, esistono diversi campi abusivi, abitati da rom dell'Est Europa. Ma i campi non sono l'unico modello abitativo o disabitativo dei rom. Sono state avviate negli ultimi anni, alcune iniziative non solo sul fronte securitario (abbattimento e smobilitazione die campi), ma anche sul fronte dell’inclusione. Corrispondono ad esempio a questo intento, iniziative come i micro-villaggi costruiti in diverse aree del territorio italiano. La soluzione a questo insieme di problemi è in questo momento storico divisa (molto asimmetrica) tra politica e mercato. Solo l'intervento pubblico potrà realmente incidere sia sul disagio abitativo vero e proprio che sull'allocazione di alloggi tra famiglie che ne dispongono largamente e quelle che, invece, non accedono a nessuno. di solito, una leva che lo Stato può adottare per condurre delle politiche redistributive è quella tributaria. 2. La casa va tassata o no? Tradizionalmente in Italia si ritiene che quello della proprietà della casa sia un diritto quasi fondamentale e che il legislatore e i governi non devono interferire con tale diritto, esercitando una pressione tributaria eccessiva. Pur con differenze e dibattiti a livello nazionale, esistono tendenze, a livello dei paesi OCSE, a non ritenere più un tabù quello di tassare maggiormente le proprietà immobiliari. A differenza della tassazione sul lavoro o sui capitali, quella sulle proprietà immobiliari genera minori distorsioni sull'allocazione delle risorse, è meno recessiva, ha un elevato potenziale redistributivo, può anche limitare fortemente le speculazioni e dunque le dinamiche dei prezzi. Per poter essere adottate in maniera redistributiva, queste tasse necessiterebbero di un aggiornamento dei valori catastali. Se guardiamo all'andamento del gettito fiscale italiano derivante dall'imposizione tributaria sugli immobili negli anni della crisi recente, osserviamo alcuni elementi interessanti. Fino al 2007 nel nostro paese il prelievo fiscale sulle case rimane stabile (1,9%) e viene persino abbassato fino al 2010 (1,4%). Il governo Monti, alla fine del 2011, reintroducendo l'imposta sull'abitazione principale (L'IMU sulla prima casa), porterà l'imposizione a pesare per il 3,6% sulle entrate totali e portando nelle casse dello Stato più di 4 miliardi di euro. Il successivo governo Letta reintrodurrà l'esenzione per l'abitazione principale, rinunciando a tassare i 20 milioni di famiglie italiane proprietarie dell'immobile in cui risiedono (circa il 77% degli italiani). Le famiglie italiane sono state viceversa tassate maggiormente, rispetto al passato, sulle seconde case, in maniera squilibrata perché i valori catastali non sono aggiornati e perché le aliquote sono in parte differenti a seconda del Comune in cui si trova l'abitazione. A questo si aggiunge un altro tabù italiano, ossia la tassazione su donazioni e successioni, strumento tributario che maggiormente incide sulle disuguaglianze ereditate e che dunque può fungere da riequilibratorie intergenerazionale: a seconda dei gradi di parentela tra cedente e beneficiario, l'aliquota è compresa tra 4 e 8 %. Questo passaggio di risorse mobiliari e immobiliari è uno dei generatori più significativi di disuguaglianza, consente alle famiglie di modellare il problema della riproduzione sociale a vantaggio di chi già possiede dotazioni più elevate, scaricando sulle famiglie meno dotate l'onere di guadagnarsi "col merito" una posizione più elevata. Il vai e vieni dei tributi sulla casa (spariscono, ricompaiono), il loro accorparsi e dividersi rendono bene l'idea di un oscillare continuo e irrisolto circa il significato della casa, come bene individuale e come strumento di appartenenza a un territorio e a una comunità. Decidere se e quanto tassare le eredità e donazioni è un modo per decidere se e quanto incidere sui vantaggi e sugli svantaggi che riteniamo ammissibile vengano trasmessi intergenerazionalmente in ogni dato momento. Nel corso degli ultimi decenni del 900 e in buona parte dei paesi occidentali si sia assistito a una progressiva detassazione delle fortune familiari, e dunque a un progressivo aumento della forbice tra le famiglie con i patrimoni più elevati e le altre. Le nostre società diventano progressivamente più diseguali e le case ne sono un segnalatore straordinario, ma anche un campo d'intervento politico tanto facile quanto delicato. 3. Verso un diritto dell'abitare Negli ultimi anni è tornato alla ribalta un dibattito, ossia quello del cosiddetto diritto all'abitare. L'urbanizzazione planetaria e la crescita demografica che la produce fanno aumentare in maniera esponenziale la domanda abitativa. Lo scenario italiano è da questo punto di sta eccentrico: l'andamento demografico della popolazione nazionale è in diminuzione dal 2015 dopo un lungo periodo di stabilità. Al tempo stesso alcuni indicatori decisivi, come il tasso di fertilità e quello dell'invecchiamento, mostrano un futuro in cui ampie parti del territorio italiano saranno disabitate, in opposizione ad altre, come le città principali, dove invece il disagio abitativo sarà crescente perché su di esse tenderanno ad abitare gli italiani in fuga dalle aree interne. Il tema dell'abitare deve tornare alla sua vocazione originaria, primo-novecentesca, e cioè essere interpretato alla stregua di un diritto e non di un privilegio. Come ricorsa Saskia Sassen "quello che in origine era un progetto statale volto a consentire a famiglie con redditi modesti di possedere una casa è stato tramutato in un progetto finanziario destinato a consentire la crescita dei profitti". Conclusioni Casa dolce casa? La casa è molto più di un bene materiale, è un elemento strutturale di qualsiasi paesaggio umano ed è punto di incontro di storie individuali e collettive. La casa è il luogo dove si realizza l'abitare. Un abitar che va oltre la disponibilità effettiva di una casa e la possibilità di mantenerla, ma si lega all'autonomia, alla sicurezza del diritto, che fanno di un occupante di un alloggio un abitante a tutti gli effetti. Questa dimensione identitaria sottolinea la rilevanza della dimensione temporale nello studio della questione abitativa, la casa non ha infatti una specifica e limitata localizzazione nel tempo. Uno dei principali problemi del secondo dopoguerra era quello di garantire per tutte le famiglie un numero sufficiente di alloggi adeguati. Questo è stato realizzato in molti modi, tra cui la promozione di un'ampia diffusione della proprietà che a sua volta è diventata un obiettivo in sè. Per tutti gli anni 60 e anche 70, infatti, alla proprietà della casa era stato possibile "appendere" una quantità di effetti virtuosi, diretti o indiretti: benessere, sicurezza, reputazione sociale. In tempi più recenti questo binomio di ferro ha incontrato varie turbolenze prodotte in primis dalla trasformazione del mercato del lavoro e del welfare. La proprietà si è manifestata sempre più come una condizione necessaria ma non sufficiente a proteggere dal disagio abitativo e dal rischio dell'insolvibilità economica. A fronte del fatto che la proprietà della casa non è più prerogativa esclusiva delle classi sociali elevate, assumono maggiore rilievo altre dimensioni: la salute, il benessere, la componente economica e quella sociale sono legate strettamente alla casa. Proprio la casa come oggetto di studio multidimensionale ci ha portato in questo volume ad alcune riflessioni su come sempre più l'abitazione si costituisca come elemento cruciale nella definizione delle disuguaglianze. Lo scenario delineato lascia intuire una polarizzazione delle condizioni abitative: alle famiglie che non sono in grado di pagare l'affitto si contrappongono quelle che possiedono abitazioni da usare per piacere e come investimento finanziario. Soprattutto sta aumentando la distanza all'interno della classe media. A livello medio-basso si trovano proprietari che abitano territori in via di abbandono, mentre le famiglie di classe medio alta che si trovano nei centri urbani acquistano più immobili per usi diversi. La finanziarizzazione e il capitalismo delle piattaforme alimentano le disuguaglianze socialmente strutturate, che acuiranno la distanza tra le famiglie. La finanziarizzazione trasforma l'abitazione in una questione finanziaria. Le nuove piattaforme digitali di intermediazione immobiliare rappresentano un nuovo canale di generazione e riproduzione delle disuguaglianze. Siamo soliti associare questo mondo al player più visibile e forse significativo del settore, cioè Airnin, ma in realtà questo capitalismo è ormai popolato da molti altri attori economici, Booking. com e Homeway tra i maggiori. Anche in questo caso abbiamo assistito a una naturalizzazione di ciò che naturalmente non è, ovvero: alla trasformazione di numerosi alloggi da abitazioni stabili in abitazioni temporanee, di numerosi proprietari passivi in attori economici attivi, al mutamento della rendita fondiaria classica in quella digitale, e nell'incrocio di tutte queste trasformazioni con la disponibilità mobiliare e immobiliare di famiglie a attori economici. Come si è giunti a una polarizzazione dello scenario dell'abitare italiano? Il nostro paese è sempre stato caratterizzato da una grande eterogeneità, innanzitutto sociale e territoriale. Uno sguardo analitico sulle singole dimensioni fa emergere poli contrapposti: dal titolo di godimento, alla collocazione geografica, dall'accesso al mercato del credito alla speculazione. Su questo ha un ruolo l'accumulo di politiche che si sono succedute nel corso del Novecento fino ai nostri giorni. Queste politiche sono state il frutto dei contratti sociali tra politica e cittadini, contratti alle volte espliciti e altre impliciti, ma che hanno di fatto spinto la maggioranza degli italiani a fare una scelta proprietaria, contribuendo cosi ad arrivare alla cosiddetta "società dei proprietari di casa". Queste politiche sono adesso spesso focalizzate su esperienze come il cohousing, le residenze temporanee, gli acquisti e ristrutturazioni di alloggi per giovani coppie. Le politiche attuali sono dunque carenti nell'affrontare le diverse problematiche legate alla questione abitativa. Emergono almeno quattro ambiti di criticità che la lunga stagione di accordi politici e adattamenti sociali e territoriali non ha sciolto o, come ha visto, ha persino alimentato. Il primo riguarda il problema delle case vuote o degli edifici vuoti. Sono sempre di più le famiglie che possiedono alloggi che non utilizzano e non affittano. Le motivazioni di questo comportamento possono essere molteplici. Alcune famiglie non affittano perché gli alloggi dovrebbero essere ristrutturati. Altre famiglie non si fidano dei potenziali affittuari pensando: "e se poi non pagano?". Altre ancora tengono gli alloggi a disposizione perché in futuro potrebbero sempre servire per figlie e figli o perché convinti che costituiscano una assicurazione per future spese impreviste. Ma i vincoli e le preferenze individuali possono spiegare solo una parte del problema. Vi sono infatti cause esogene che influenzano non solo la portata delle abitazioni vuote ma anche la loro localizzazione. Si pensi innanzitutto al mercato
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