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prova prova prova prova prova, Tesi di laurea di Sociologia dei Consumi

Tesi specialistica in Sociologia dei Consumi per corso di laurea Comunicazione e culture dei media con il professore Dario Padovan. Quadro storico e analisi socio-politica sulla produzione e sul consumo alimentare

Tipologia: Tesi di laurea

2017/2018

Caricato il 23/11/2018

John-Rackam
John-Rackam 🇪🇸

3 documenti

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Scarica prova prova prova prova prova e più Tesi di laurea in PDF di Sociologia dei Consumi solo su Docsity! Università Degli Studi Di Torino Filosofia e Scienze dell'Educazione Comunicazione e culture dei media Cheap Food Introduzione all'evoluzione dei regimi agroalimentari nel sistema-mondo Studente Relatore Alessandro Barbero Dario Padovan Anno Accademico 2013-2014 1 2 5 Introduzione Il presente lavoro riguarda l'analisi dell'evoluzione del sistema agroalimentare mondiale, in relazione con lo sviluppo dei sistemi basati sull'accumulazione di capitale e le conseguenze che tale unione hanno generato a livello ecologico. Lo sviluppo di grandi sistemi politici ed economici, come verrà dimostrato, coincide con un percorso di impoverimento ecologico, direttamente proporzionato alla velocità di espansione e di prelievo di risorse di tali sistemi. Storicamente l'espansione e la stabilità di sistemi capitalisti sono legate alla reperibilità o disponibilità di quattro elementi fondamentali: le materie prime, le risorse alimentari, la forza-lavoro e le risorse energetiche. L'abbondanza o la difficoltà di reperimento di questi elementi determina fortemente l'andamento, da un lato del sistema capitalista, dall'altro l'equilibrio ambientale e delle risorse naturali: come verrà infatti descritto, l'attività di sfruttamento delle risorse naturali (i suoli, le fonti idriche, quelle energetiche, le foreste, i giacimenti minerari, i combustibili, ecc...) produce una scissione metabolica, o 'Metabolic Rift', già teorizzata da Marx e Engels, e ripresa dalle correnti neomarxiste di fine XX secolo. La scissione metabolica rappresenta la discrepanza ecologica tra le risorse prelevate, necessarie allo sviluppo delle attività umane, e quelle reintegrate attraverso i processi naturali. L'aumentarsi della forbice fra i due valori determina sconvolgimenti ecologici planetari descrivibili attraverso la costante perdita di biodiversità, il degradamento dei terreni e delle aree agricole, l'inquinamento dei suoli, dell'aria e delle fonti idriche e dunque della salute umana ed animale. Il mio personale interesse per l'analisi delle questioni socio-culturali e socio- economiche, felicemente sviluppate durante il percorso accademico, è stato il punto di partenza nella stesura del presente lavoro, alimentato dalla curiosità per il nascente interesse, a livello collettivo, verso il settore alimentare: durante le fasi di ricerca e di studio ho potuto tuttavia constatare che l'interesse per il cibo era molto spesso limitato a parametrici di gusto ed economicità dei prodotti. La sicurezza alimentare, nonostante rappresenti un'importante variabile di scelta, è tuttavia soddisfatta attraverso il controllo 6 delle scadenze e della provenienza, celando al consumatore le modalità produttive. Questo perché, come viene descritto al'interno del lavoro, se il consumatore venisse informato dei metodi produttivi, nella maggior parte dei casi costui cercherebbe nuove fonti alimentari, provocando il corto circuito dell'intero meccanismo agroalimentare, sempre più governato da un gruppo ristretto di multinazionali. La scalata al potere economico e finanziario e la nascita di società e mercati globalizzati rappresenta una delle tappe evolutive che hanno interessato congiuntamente tanto il capitalismo, quanto il sistema agroalimentare mondiale e locale. Uno degli obiettivi del lavoro è proprio lo studio comparato di capitale e cibo, attraverso una visione socio-storica ed economica. Verranno quindi descritti i processi transitivi da un regime all'altro all'interno del panorama capitalista, protagonisti di analoghe trasformazioni sul piano della produzione, dell'accessibilità e del consumo alimentare. Tale analisi avviene all'interno dello schema multi-livello socio-tecnico e della quotidianità delle pratiche socio-culturali: in altre parole, lo sviluppo capitalista e di un certo tipo di produzione agroalimentare hanno assunto, nel corso dei secoli e dello sviluppo tecnico-scientifico, uno status di panorama il primo, e di regime la seconda. La produzione intensiva per le masse di tutto il mondo si è dunque sedimentata nel pensiero comune, e rappresenta - come si vedrà - un importante punto di forza dell'attuale sistema. L'industrializzazione dell'agricoltura, assieme ad altre attività volte alla massimizzazione della resa e dei profitti, se da un lato si mostrano al pensiero dominante come necessarie e benevole per le attività umane, dall'altro nascondono la dannosità ambientale descrivibile attraverso il concetto di scissione metabolica. La percezione della pericolosità è a livello sociale tuttavia minima: l'attenzione per le tipologie di produzione, come l'uso di sostanze tossiche (tanto per l'ambiente quanto per l'uomo e per gli animali che vengono a contatto) costituisce molto raramente, ad eccezione delle nicchie socio-tecniche, un criterio di scelta. In questo scenario, si può comprendere pienamente il ruolo attivo giocato dal settore della grande distribuzione, di cui i supermercati e le relative derivazioni rappresentano il simbolo principale. Il dominio attuale dei supermercati all'interno della distribuzione alimentare costituisce un elemento di analisi delle politiche neoliberiste di fine novecento e della difficile situazione, in termini salutari e di accesso al cibo, attuale. I 7 costretta a cedere il ruolo di garante della stabilità mondiale agli Stati Uniti che, attraverso i programmi di aiuti, i piani di sviluppo, i prestiti e gli investimenti furono in grado di ricreare un sistema vagamente imperialista. La guerra fredda e la competizione tecnica si conclude con il declino dell'Unione Sovietica e la fine della guerra, senza vincitori né vinti. La globalizzazione e la crescita delle multinazionali, in seguito alle politiche neoliberiste degli anni '80, e del potere cinese costituiscono il quadro attuale, in cui il prelievo eccessivo di risorse sembra essere prossimo ai limiti strutturali. Il secondo capitolo espone la linea evolutiva del capitalismo attraverso uno sguardo sulla produzione agroalimentare: se è vero infatti che il sistema capitalista si regge sui quattro pilastri descritti, allora anche l'evoluzione di esso costituisce una relativa evoluzione degli elementi portanti. Con l'egemonia britannica produzione e consumi iniziano un lento, ma inesorabile, processo di omogeneizzazione, in grado di contrarre i costi produttivi e massimizzare i profitti. Il primo regime alimentare analizzato è appunto quello britannico, basato sulla produzione nelle colonie, sullo sviluppo del sistema di trasporti, sulla schiavitù della manodopera coloniale e sulla proletarizzazione di quella urbana. Carni e granaglie, all'interno del regime britannico, iniziano a essere concentrati nelle colonie, provocando una serie di effetti ambientali a catena. Il successivo regime alimentare è quello statunitense, successivo alla seconda guerra mondiale e precedente alla deregulation neoliberista degli anni '80. Durante questo periodo (circa un ventennio), si assiste all'industrializzazione (nonché alla nascita del termine e della questione) del Terzo Mondo, attraverso i piani di sviluppo, gli investimenti e i fondi stanziati dagli Usa; alle spalle delle strategie propagandiste si nasconde la volontà di riorganizzare una forma di impero non convenzionale, in seguito ai programmi di decolonizzazione. Tale regime si caratterizza inoltre per lo sviluppo delle biotecnologie e dell'industria chimica, applicata all'agricoltura, specialmente in territori periferici come India e Messico. La Rivoluzione Verde rappresenta proprio il tentativo di introdurre organismi geneticamente modificati all'interno del settore agroalimentare. Il terzo regime alimentare, ovvero quello attuale, denominato dai teorici Corporate food regime è caratterizzato dalla profonda industrializzazione dell'agricoltura e dell'allevamento, dall'ingombrante presenza di OGM e biotecnologie, dall'impoverimento del Sud del Mondo, destinato alla produzione agroalimentare per le grandi multinazionali attive in tutti i principali mercati mondiali, dalla rapida ascesa dei 10 supermercati che, nell'arco di circa trent'anni, sono divenuti globalmente la principale forma di acquisto dei prodotti alimentari. In questo contesto vengono descritti gli esempi della produzione di quinoa e altri legumi come la soia ed anche un nuovo legame che vincola ulteriormente il settore agricolo all'accumulazione di capitale, come si è visto in relazione all'aumento mondiale dei prezzi durante il biennio 2007-2008: si tratta dei biocombustibili e della febbricitante rincorsa nel nascente mercato, a scapito dei terreni destinati per la produzione di cibo. La destinazione di risorse verso nuovi settori e mercati espone la collettività a una potenziale decrescita dell'accessibilità alimentare, come viene descritto nel paragrafo relativo alle guerre per il cibo. All'interno del terzo capitolo viene descritto il ruolo centrale della grande distribuzione organizzata, identificabile nell'incessante crescita dei supermercati. Lo sviluppo della grande distribuzione ha dato vita a numerose declinazioni del supermarket: ipermercati, discount, supermercati, punti vendita di prossimità e outlet sono infatti comparsi in tutto il mondo, anche nei territori periferici, tradizionalmente legati a produzioni ed alimenti locali e con valori storico-culturali altamente significativi. L'ascesa delle multinazionali, descritta nel capitolo 2, viene ripresa attraverso l'esempio dei fast-food e delle negative conseguenze per allevatori, bestiame, salute e ambiente circostante: il cibo spazzatura infatti è penetrato felicemente nel consumo alimentare quotidiano. La frenetica vita quotidiana viene, molto spesso scandita appunto dalla frequentazione dei fast-food dove viene servito velocemente del cibo consumabile altrettanto in fretta, a prezzi economici e dal gusto ipnotico. Il sapore di questi alimenti tuttavia è il risultato del forte apporto di sali e zuccheri, artefici di numerose malattie cardiovascolari, intestinali e psicofisiche per alcuni clienti. La qualità dei cibi proposti è mediamente molto bassa, essendo un parametro troppo costoso per i produttori e per il tipo di pasto proposto. Lo sviluppo e aumento delle diete basate su un ampio, e in alcuni casi eccessivo, apporto di proteine animali, espone l'ambiente a ulteriori produzioni d'inquinamento: nel testo viene infatti descritto l'alto impatto ambientale provocato dagli allevamenti e dall'acquacoltura intensivi. Accanto a tali pratiche alimentari, la cultura e le pratiche quotidiane sono interessate da un alto livello di spreco che fa da contraltare all'elevato numero di indigenti in tutto il mondo. Lo spreco rappresenta una piaga culturale sedimentata nel tessuto sociale e legata allo status sociale, al pensiero dominante e al livello di benessere percepito. Lo spreco 11 alimentare si manifesta infatti nei paesi sviluppati o nelle più alte fasce sociali dei paesi in via di sviluppo. In questa visione, lo spreco abbraccia felicemente le tesi di Veblen, secondo cui lo spreco vistoso, al pari del tentativo di emulazione delle classi più alte da parte delle classi più povere, era un mezzo di distinzione all'interno della sfera sociale. Tuttavia lo spreco è qualcosa di più: da un lato rappresenta l'estrema mercificazione del cibo (innanzitutto una risorsa indispensabile per la vita), dall'altro costituisce un elemento di analisi del livello socio-culturale. Il quarto capitolo descrive i processi transitivi legati al passaggio verso nuovi sistemi. L'analisi proposta segue uno schema su più livelli interdipendenti: le nicchie socio- tecniche, i regimi e il paesaggio, o orizzonte (landscape). Questi livelli interagiscono tra di loro e formano il reticolo socio-tecnico di un preciso contesto; accanto a quest'analisi viene proposto lo studio delle pratiche sociali quotidiane. Il risultato derivante dalla sovrapposizione di questi due modelli di studio restituisce uno scenario abbastanza completo, e relativo ai consumi alimentari quotidiani. Come osservato nel capitolo 3, i supermercati sono ben presto divenuti il principale metodo d'acquisto, costituendo il regime dominante nelle modalità di acquisto e accesso al cibo. Nel tentativo di contrastare un modello unicamente finalizzato alla massimizzazione dei profitti viene proposto il caso emblematico dei gruppi d'acquisto sostenibili, e in particolare il Gruppo d'Acquisto Collettivo nato nella città di Torino. Sempre relativo al capoluogo piemontese viene descritto il progetto di apicoltura urbana, denominato Urbees. Entrambi i progetti analizzati dimostrano che l'innovazione e lo sviluppo passa attraverso realtà dalle dimensioni più che contenute e da una decisiva evoluzione socio- culturale. Cambiamento culturale che si osserva, in particolare, nella nascita di iniziative, nonché canali tematici appositamente dedicati (come nel caso delle applicazioni per smartphone), volte alla riduzione degli sprechi alimentari. Il paragone fra i due modelli restituisce uno spunto di analisi e di riflessione circa l'efficienze sistemica dell'attuale panorama, governato da un impianto finanziario e capitalista, e indiscusso protagonista dell'incessante degrado ambientale, osservabile nella perdita della biodiversità, nell'esaurimento delle risorse naturali e della fertilità dei suoli, nell'aumento di sostanze chimiche dannose per l'ambiente; le conseguenze descritte possono esser riassunte nella scissione metabolica, già descritta e osservata nel XIX secolo. 12 di sistema: in questo senso, era pertanto necessaria un'espansione esterna che permettesse di ampliare le possibilità di crescita. Nel XIV secolo molti territori dell'Europa meridionale e continentale erano ormai degradati e non più fertili: uno dei principali tentativi di superamento di tali contraddizioni fu l'espansione verso terre vergini, con l'ampliamento delle frontiere, che nel XVI secolo portarono alla fioritura di commerci internazionali e di sistemi coloniali di sfruttamento delle risorse extra-europee [Moore 2000, 2003, 2013; Wallerstein 1976]. "L'unica soluzione che avrebbe potuto estrarre l'Europa occidentale dalla decimazione e dalla stagnazione era quella di espandere la torta economica da dividere, una soluzione che richiedeva, data la tecnologia del tempo, un'espansione delle terre e un aumento della popolazione" [Wallerstein, 1974; Moore, 2003]. A livello continentale l'espansione delle frontiere coincise con tre movimenti indipendenti e antagonisti: il tentativo di conquista dei principali stati nei confronti di quelli più piccoli o minori, ma l'equilibrio delle forze continentali contrapposte appariva tutto sommato definito, con i principali stati in via di stabilizzazione: l'espansione andava pertanto diretta altrove, viste anche le ristrettezze di denaro liquide delle casse statali. Parallelamente, anche i rimanenti signori feudali che, in alcuni casi, godevano ancora dei privilegi della gleba, vedevano nell'ampliamento dei territori la giusta soluzione alle crisi interne. In terzo luogo le città che, ottenuta la legittimazione politica da parte degli stati, iniziarono ad acquisire sempre maggior peso: "la vera natura della crisi feudale limitò questa prosperità nella misura in cui la situazione bellica in Europa era privilegiata all'espansione geografica" [Moore, 2003, p. 22]. I traffici delle principali città-stato, come Venezia e Genova, iniziarono a prosperare e le mire espansionistiche vennero a contrapporsi: proprio tra queste due città esplose una serie di conflitti circa le possibilità economiche derivanti dai traffici verso Oriente e che sembrarono determinare una posizione di debolezza della città ligure, che diresse da allora le proprie attenzioni capitalistiche e finanziarie nei confronti della penisola iberica. Fu questa rivalità a spingere Genova a stringere alleanze con Portogallo e Spagna e cercare una via alternativa per il raggiungimento delle Indie. Al di là degli obiettivi di ciascuna forza in campo, un altro motivo alle necessità d'espansione delle frontiere era determinata dall'aumento dei territori coltivabili in particolare a grano, una pianta molto dispendiosa per i terreni rispetto ad un altro cereale come il riso che, al contrario, necessitava di 15 interventi minori e permetteva una maggiore rigenerazione del terreno. La dieta alimentare e il "regime biologico" furono altre cause determinanti verso un ampliamento dei terreni: secondo Braudel in questo senso, la coltivazione di grano, riso e mais, le piante della civilizzazione', in Europa, America latina e Asia furono fattori determinanti per l'espansionismo degli stati, principalmente europei [Moore, 2003b]. "E' impossibile esagerare l'importanza dei cereali, piante sovrane dell'alimentazione antica. Il grano, il riso, il mais sono il risultato di innumerevoli esperienze successive che per effetto di 'derive' multisecolari [...], sono divenute scelte di civiltà [Braudel, 1981b, p. 32]. In Europa da sempre la coltura principale è il grano che, tra le varie caratteristiche, determina un impoverimento del suolo che necessita pertanto di rotazioni annuali; le risorse prelevate dalla coltivazione del terreno venivano reintrodotte attraverso l'allevamento di bestiame. Come sostiene Braudel l'andamento e le sorti di queste coltivazioni furono fondamentali per i destini dei paesi coltivatori: L'Europa scelse il grano, che divora il terreno e necessita di un riposo ciclico; questa scelta implicò e determinò l'aumento del bestiame. Ora, chi può immaginare la storia europea senza mucche, cavalli, campi e carretti? Come risultato di questa scelta, l'Europa ha sempre combinato agricoltura e allevamento di bestiame. E' sempre stata carnivora. Il riso spuntò fuori come forma di giardinaggio, una coltivazione intensiva in cui l'uomo non trovava spazio per collocare il bestiame. Ciò spiega perché la carne costituisce una così piccola parte della dieta delle aree coltivate a riso. [Invece] Piantare mais è sicuramente la via più semplice e conveniente per ottenere il "pane quotidiano" [Braudel, 1981b, p.33]. Al contrario, la coltivazione di riso in Cina non portò mai alla necessità di espandere le proprie frontiere alla ricerca di terreni dove poter continuare tale coltivazione: il riso infatti non impoverisce il terreno dei nutrienti fondamentali, trovandoli al contrario nell'acqua; ciò significa che non è necessaria una rotazione dei terreni nè dell'allevamento di bestiame, elemento decisivo nella reintegrazione dei fertilizzanti [Moore 2003b]. La Cina non tentò mai di espandere le proprie frontiere in cerca di nuove risaie; i confini rimasero pressoché stabili nel tempo, dato che le relazioni tra città e campagne erano più legate a un'intensificazione della produzione che non a un'espansione geografica [Moore 2003; Braudel 1981]. Il paragone con la dieta alimentare cinese dimostra quanto il regime biologico sia determinante per il destino di 16 un paese o area geografica: nel caso del grano europeo questo comportò l'espansione oltre oceano. La difficile situazione del XIV secolo necessitava di un cambiamento; il sistema feudale si stava progressivamente sgretolando di fronte al nascente espansionismo geografico, sia come ampliamento delle risorse sia come termine alle continue guerre in seno all'Europa. Il progressivo deterioramento dei terreni, alternati alla pastorizia, rivelavano i limiti produttivi e si dimostravano insufficienti rispetto alla ripresa demografica e tecnologica. Tuttavia, l'unica possibilità di uscita dal difficile momento coincideva con un aumento del materiale e delle risorse disponibili: la "torta da dividere" - riprendendo la frase di Wallerstein - andava pertanto ingrandita e l'unico mezzo era dato dall'ampliamento delle frontiere e delle risorse disponibili. I primi tentativi di espansione di questa "torta" furono spagnoli e portoghesi verso le vicine isole dell'Atlantico per la produzione di zucchero e l'estrazione di argento [Moore 2003 e 2009]. La coltivazione dello zucchero rivelò nuovi metodi di produzione basati su un rinnovato rapporto tra capitale, terra e lavoro: i territori iniziarono a esser considerati come valore economico all'interno di una dilatazione dei commerci transnazionali. La "transizione" al sistema capitalista stava entrando in una nuova fase. In questo senso è importante considerare tre diverse accezioni del termine "transizione": in primis come trasformazione dell'Europa feudale in una economia-mondo capitalista; il secondo aspetto riguarda la conseguente incorporazione dei sistemi non capitalisti esterni nell'espansione capitalista dell'economia-mondo; in terzo luogo, il termine si riferisce alla proletarizzazione del lavoro e alla commercializzazione delle terre [Wallerstein, 1976]. La complessità di tale transizione necessitò logicamente di diverso tempo prima di stabilizzarsi e diffondersi: ciascuno stato europeo fu attraversato da processi di trasformazione indipendenti, all'interno della nascente economia-mondo. 17 la coltivazione dello zucchero al posto del grano ebbe due importanti conseguenze: da un lato, i prodotti agricoli necessari per l'alimentazione andavano importati, non essendo più prodotti, accentuando il modello di economia-mondo basato su un'internazionalizzazione della divisione del lavoro [Moore, 2000]; dall'altro, il passaggio alla produzione di zucchero necessitava di un'ampia base produttiva, il fattore indicativo di un'incorporazione nell'economia mondiale. La produzione di zucchero, sempre più sotto forma di monocultura, rappresenta pertanto un primo esempio di agricoltura capitalista, guidata da una radicale semplificazione dell'ordine ecologico naturale. Sotto le condizioni di una generalizzata produzione di beni alimentari e l'imperativo di un'incessante accumulazione di capitale, le pressioni competitive dei mercati rendevano instabili le monocolture: la competizione esasperava i terreni che in mancanza della dovuta rigenerazione diventavano inutilizzabili, con gli stati nuovamente costretti a nuove espansioni dei confini. Questo è evidente nel caso dell'isola di Madeira, ma non solo, in cui la rapida ascesa della coltivazione e del commercio di zucchero provocarono un non meno veloce declino del terreno che, dopo circa un secolo, rese impraticabile la coltivazione: il passo successivo in questo senso, fu semplicemente l'adozione di nuovi terreni coltivati con gli stessi metodi. Da Madeira si passò così a Santo Tomé a metà del XVI secolo, poi a Pernambuco, a Bahia nel XVII secolo e infine nei Caraibi e nell'America meridionale nel XVIII secolo [Moore, 2013]. Le long siècle fu pertanto un periodo fondamentale nella transizione al capitalismo, permessa in primis da un'espansione dei terreni e da una riorganizzazione del lavoro e del capitale: a partire da allora infatti, il sistema capitalistico iniziò a espandersi a macchia d'olio, coinvolgendo aree del pianeta sempre grosse e, di conseguenza, aumentando esponenzialmente gli effetti catastrofici derivanti dalla scissione metabolica. Il commercio triadico inaugurato a Madeira divenne una costante del successivo capitalismo seicentesco, in cui le coste dell'Africa occidentale divennero terra di razzia di manodopera al soldo delle potenze europee nei territori oltreoceano. L'aumento dei traffici intensificò di conseguenza la produzione navale, determinando una generale deforestazione sul continente europeo con i suoli destinati alla coltivazione del grano, come le campagne della Vistola o del Mar Baltico [Arrighi, 1999; Moore, 2013] e all'allevamento. L'intensa macchina capitalista era stata messa in moto, ma il ritmo delle attività umane si era staccato da quello naturale: l'ambiente era qualcosa da 20 colonizzare, dominare, sfruttare, sulla base di un nuovo rapporto economico. Per dirla con le parole di Marx: la scissione metabolica. La corsa alle materie prime avrebbe determinato guerre, competizioni secolari in tecnologia, armi, disponibilità economiche, alleanze politiche. La necessità di ampliare le frontiere e inglobare all'interno del sistema nuove realtà, un tempo al di fuori e a sé stanti, era pertanto fondamentale per le sorti dei paesi europei. Gli sviluppi in questo senso furono molteplici e omogenei: oltre alla nascente industria dello zucchero, la deforestazione in Europa portò alla nascita di cantieri navali a Cuba e nel Nord America nel XVIII secolo; in Inghilterra si procedette alla bonifica di diverse aree, destinate alla produzione agricola per i crescenti mercati internazionali; l'estrazione mineraria, in primis dell'argento, portò a rivoluzioni e sviluppi tecnologici [Moore, 2009]; nel Mediterraneo intere isole vennero destinate alla monocoltura, come Cipro, Creta e Corfù, convertite dall'uomo alla coltivazione della vite [Moore, 2003]. L'intensificarsi dei traffici di zucchero nelle colonie aveva dato il via al commercio triadico delle monocolture, importate nei mercati dell'economia-mondo: da allora, tabacco, caffè, cotone, minerali, legname, olio di palma, cacao e persino il guano1 furono prelevati senza sosta dal capitalismo accumulativo delle potenze europee, e non solo. Un grande mercato libero e mondiale stava nascendo sotto l'insegna del capitalismo; tuttavia, come osservava Marx nel 1848 a proposito del libero mercato: "Voi credete 1 Nel 1840, la veloce degradazione del suolo messa in luce dal chimico tedesco Justus Liebig portò all'interesse delle principali potenze europee per il guano, un fertilizzante naturale ricco dei nitrati fondamentali per la rigenerazione dei terreni. Dopo le pubblicazioni del biologo francese Alexandre Cochet in merito ai benefici dell'utilizzo di guano, si sviluppò attorno al 1850 una vera e propria febbre per il guano, sostanza decisamente abbondante lungo le coste del Pacifico peruviano. Nel 1851 il Regno Unito importò dal Perù circa duecentomila tonnellate di guano peruviano con l'uso di circa 40 navi; gli Stati Uniti si dotarono di 44 navi, i francesi di 5, 2 degli olandesi e 1 nave per Italia, Belgio, Norvegia, Svezia, Russia e 3 navi per il Perù [Foster, 2004]. La corsa al guano era cominciata: nel volgere di un ventennio circa gli investimenti inglesi per la produzione di nitrati in Perù raggiunsero il milione di sterline. La concentrazione in Perù della produzione di nitrati e del prelievo di guano causò un forte indebitamento dello Stato americano che, a partire dal 1875, impose il monopolio sull'estrazione di nitrati nei territori di Tarapacà, espropriando le proprietà degli investitori privati (molti dei quali di origine britannica), offrendo loro dei certificati di pagamento ufficiali. Questo portò alla Guerra del Pacifico, anche conosciuta come Guerra del Guano, dal 1879 al 1884 in cui il Cile, sostenuto da Francia e Inghilterra sconfisse l'alleanza tra Perù e Bolivia e si assicurò ingenti quantità di guano e nitrati. Come analizza James Foster: «Prima della guerra il Cile praticamente non possedeva nè campi di nitrati nè depositi di guano. Dalla fine della guerra nel 1883, [il Cile] confiscò tutte le zone ricche di nitrati della Bolivia e del Perù e la maggior parte dei depositi di guano di quest'ultimo. Prima della guerra l'Inghilterra controllava il 13% dell'industria di nitrati della peruviana Tarapacà; subito dopo la guerra - data l'acquisizione cilena della regione - le quote britanniche salirono al 34%, giungendo al 70% nel 1890". La Guerra era stata combattuta unicamente per il predominio del guano e dei giacimenti di nitrati da parte "dell'Inghilterra sul Perù, con il Cile come semplice strumento". 21 forse, gentiluomini, che la produzione di caffè e zucchero sia il naturale destino delle Indie Occidentali. Due secoli fa, la natura, non ancora disturbata dal commercio, non aveva piantato in quei luoghi nè canne da zucchero nè piante di caffè" [Foster, 2004]. La diffusione delle monocolture su scala mondiale per un mercato essenzialmente europeo non era ovviamente qualcosa di appartenente ai sistemi precedenti: fu soltanto in seguito al un mutamento delle relazioni uomo-ambiente che le monocolture, l'accumulazione e la massimizzazione dei profitti poterono fiorire su tutto il pianeta. In riferimento alla situazione dell'America Meridionale, Eduardo Galeano in Le vene aperte dell'America Latina sosteneva che: "l'iniziale produzione col passare degli anni sbiadisce in una cultura della povertà, sussistenza economica, letargia [...] Più un prodotto è desiderato dal mercato mondiale, più si fa grande la miseria che incatena i popoli dell'America latina". Dal suo ingresso sulla scena mondiale, il capitalismo produsse - e produce tutt'ora - una scissione irreparabile nel metabolismo naturale rigenerativo: secondo Marx, un nuova interazione con l'ambiente, al fine di riassestare la crepa era necessaria, ma la crescita sotto il nuovo capitalismo espansivo dei commerci a lunga distanza e di una produzione su scala mondiale - attualmente due perni fondamentali del sistema - intensificarono ed estesero la scissione metabolica [Foster, 2004]. Ciò fu evidente nella perdita della biodiversità, in un aumento di disastri ecologici, nel cambiamento climatico, l'abbassamento delle acque in seguito alla deforestazione, tutti fattori già messi in luce da studiosi come Darwin, Marx, Engels, Lankester, Fraas, Von Humboldt più di un secolo fa. Trattando degli effetti ecologici prodotti dall'uomo, Lankester, famoso biologo del XX secolo, commentò in questo modo: Molte poche persone hanno un'idea del modo in cui l'uomo ha attivamente cambiato la fisionomia della Natura, i grandi pascoli di animali che ha distrutto, le foreste che ha bruciato, i deserti che ha prodotto e i fiumi che ha inquinato. E' con questo tagliare e bruciare foreste che l'uomo ha danneggiato sé stesso e gli altri esseri occupanti vaste regioni del pianeta... Le foreste hanno un immenso effetto sul clima, umidificando sia l'aria sia il terreno [Foster, 2004]. Al pari dello zucchero, anche il caffè ebbe un ruolo centrale nell'espansione dei confini e dei traffici: importato nell'Occidente dai mercanti genovesi nella metà del XV 22 producendo una seconda contraddizione in termini di proletarizzazione del lavoro. Con la nascita del rapporto città-campagna iniziarono a manifestarsi la divisione e la proletarizzazione del lavoro, in un andamento ciclico di espansione e stagnazione; tale rapporto, molto spesso, pendeva a favore delle città, centri nevralgici delle transazioni commerciali e finanziarie e delle decisioni politiche, ma era sulla produzione agricola che si giocava una parte importante della politica statale. La disponibilità o la presenza di canali di commercio era uno dei fattori per la crescita statale, sia interna sia estera; in tal senso Braudel ricorda come "l'Invincibile Armata di Filippo II...cercò di comprare il legname dalla lontana Polonia" [Moore, 2003b, p.8]. L'espansione delle città - e dei relativi mercati e centri portuali - iniziò a partire dal XV secolo, una volta superate le contraddizioni del sistema feudale tra signori e servi e con la nascita della borghesia [Wallerstein, 1976]; la trasformazione agro-ecologica delle campagne del Mediterraneo fu in questo senso evidente. Nel Nord Italia la disponibilità di capitale delle nascenti città moderne permise di intensificare i traffici e le relazioni con il mondo contadino, traendo da esso ampi benefici che, come rovescio della medaglia, rivelavano contadini fortemente indebitati [Moore, 2003b]. Durante il 1500 e nei secoli a venire, lo squilibrio tra le ricche città che godevano del lavoro a basso costo dei poveri contadini fu, in alcuni casi, la miccia per agitazioni e insurrezioni dalle campagne per il miglioramento delle condizioni. Al pari di Marx, anche Braudel pone l'antagonismo tra città e campagne all'interno della crescita del capitalismo del lungo secolo: "Le grandi città del XVI secolo, con il loro agile e pericoloso capitalismo erano in una posizione di controllo e di sfruttamento dell'intero mondo" [Moore, 2003b, p. 8]. In questa dimensione espansiva, l'esempio dello sviluppo nel Mediterraneo a partire dal XV secolo riassume felicemente le contraddizioni del capitalismo e le relazioni tra mondo agricolo e urbano: Venezia cercò infatti di ampliare i propri territori sia per terra sia per mare, mentre Genova scelse un'espansione più agile e finanziaria, affidando le proprie sorti allo sviluppo bancario e ai traffici commerciali di altre nazioni. In questo senso, uno dei perni per il successo finanziario genovese, all'interno del contesto europeo, fu il controllo delle fiere e dei mercati e il relativo flusso di capitale sotto forma di crediti e debiti [Braudel, 1981b]. A livello mondiale, le spedizioni spagnole nella vergine America erano finanziate dai banchieri genovesi: 25 secondo Braudel, dietro la facciata di subordinazione, i genovesi e il capitalismo cittadino stavano facendo le proprie fortune [Moore, 2003b]. L'espansione territoriale dei nascenti stati e dei propri centri d'interesse interessò le relazioni tra città e campagne: ad esempio nel Portogallo del XV secolo, l'aumento delle coltivazioni di ulivi, viti e frutteti determinò la massiccia importazione di grano - a volte anche dal distante Baltico - indispensabile per la dieta alimentare, abbandonato in seguito alla diminuzione del profitto economico derivante da esso; nell'Italia post- feudale la crescita di Pisa, Genova, Venezia determinò un'espansione dei traffici, degli istituti di credito, dei territori coltivati. Braudel cristallizza in quattro punti la situazione mediterranea del nascente sistema basato anche sulle relazioni tra cittadini e contadini: il primo riguarda i rapporti di dipendenza delle isole del Mediterraneo nei confronti dei centri urbani, amplificando così la relazione città-campagna; secondo, come Marx anche Braudel identifica, in queste relazioni, un valore essenzialmente antagonistico che legava le disuguaglianze di classe e le agitazioni sociali; in terzo luogo, la dominazione dei paesaggi da parte dei centri urbani fu possibile attraverso l'imposizione delle monocolture che disturbarono, prima di estinguere, l'equilibrio tra natura e società. Il dominio della terra e la distruzione dell'equilibrio ecologico da parte del capitalismo, fu accompagnato dal dominio - e a volte dal genocidio - sugli esseri umani attraverso la schiavitù [Moore, 2003b]. La relazione tra città e campagne andò profondamente sviluppandosi a favore delle prime in cui si prendevano le decisioni commerciali, finanziarie e politiche. L'attenzione si spostò verso il valore di mercati e di profitto dei prodotti agricoli; in altre parole, divenne più importante scovare sempre più fonti di reddito - come monocolture, giacimenti di combustibili o fertilizzanti, bestiame, legname - da colonizzare, piuttosto che concentrarsi sulle conseguenze di tale scelta, gravanti sul mondo contadino. Come fanno notare Marx e Braudel, l'accumulazione di capitale delle città, oltre a determinare la proletarizzazione del lavoro [Moore, 2013], determinò, tra i vari effetti, un sistema schiavistico nelle campagne e nelle colonie che, assieme alle vaste monocolture, durante il XVII secolo produssero un diffuso impoverimento del suolo e una diminuzione del margine dei campi [Moore, 2003b]. Tali relazioni non legavano solo le campagne alle città ma anche i territori coloniali, dalla coltivazione al trasporto: il fervore urbano di Amsterdam, Parigi, Londra stava cambiando irrimediabilmente la relazione con il 26 mondo e la produzione agricola mondiale. I grandi mercati delle città rifornivano continuamente le popolazioni proletarie delle città di prodotti esotici - dallo zucchero, al caffè, alle spezie, al tabacco, ecc... e tale crescita aveva anche una controparte politica: il peso delle città, come ricordano i vari Marx, Wallerstein, Braudel, stava infatti crescendo anche in materia di governo, in seguito all'ascesa della borghesia. In questo senso, lo snello apparato burocratico di Venezia, Genova e Amsterdam - all'interno delle Province Unite - fu un fattore decisivo per la presa di potere e l'aumento dei traffici delle città: l'indipendenza da signori e vincoli feudali e la libera iniziativa furono due vettori fondamentali nell'espansione cittadina. Attraverso l'incorporazione, tanto dei territori conquistati, quanto delle campagne, le nascenti città erano diventate il centro pulsante della finanza e della politica del sistema capitalista. La disuguaglianza economica e sociale tra città, colonie, campagne rappresenta una delle caratteristiche del capitalismo che, seppure con qualche mutamento, è rimasta invariata sino ad oggi: la nascente relazione di centro e periferia descritta da Arrighi e Wallerstein [Arrighi, 1999] mette in luce il rapporto che, a partire dal lungo secolo definisce gli equilibri politici, commerciali ed economici tra i soggetti: per Wallerstein, tale relazione rappresenta la struttura dinamica dello sviluppo capitalista con le città come risultato piuttosto che come fattore dello sviluppo [McMichael, 2000]. La forbice interna tra questi rapporti non era altro l'espressione dell'espansione capitalista globale che, simultaneamente, sviluppava benessere nelle zone centrali del sistema e sottosviluppo nelle zone periferiche [Arrighi, 2008]: il prelievo urbano del surplus contadino, necessario alla continua espansione e polarizzazione delle risorse, causava infatti un persistente sottosviluppo delle zone satelliti, sempre più imprigionate in questa rete. Il meccanismo di appropriazione del surplus mutò col passare del tempo, ma la relazione sistemica tra centro e periferia è rimasta al suo posto, polarizzando continuamente le risorse invece di uniformare il benessere delle popolazioni del mondo [Arrighi, 2008]. Lo sviluppo e la competizione dei principali centri urbani nei confronti delle periferie (campagne e colonie) portarono irrimediabilmente a una egemonia politica e economica delle città, prima, e degli stati poi. Questa tendenza è ampiamente documentata dallo sviluppo delle città italiane e portoghesi durante il XIV e XV secolo [Moore, 2003b], dall'ascesa delle Province Unite durante il XVII secolo, seguite 27 una direzione che non solo serve gli interesse del gruppo dominante, ma che è anche percepita dai gruppi subordinati come finalizzata a un più generale interesse collettivo. Attraverso il sistema educativo e i mezzi di comunicazione il sistema egemonico può mantenersi attivo e perpetuarsi nel tempo [Cospito, 2004]. E' infatti grazie anche al consenso democratico e l'accettazione dei modelli proposti da parte delle sfere dirigenti che la perpetuazione di determinate egemonie politiche e culturali si rende possibile: in questo scenario, i mezzi di comunicazione svolgono un ruolo fondamentale, incanalando e gestendo l'opinione pubblica. Il carattere informativo e persuasivo dei mezzi di comunicazione costituisce un fattore importante per la gestione e la manipolazione dell'opinione pubblica - e pertanto per il mantenimento del controllo e del potere - come già avevo messo in mostra Walter Lippman in L'Opinione pubblica, a proposito dei bollettini della prima guerra mondiale lungo il confine franco-tedesco, descritti dai quotidiani nazionali come referti di imprese eroiche, di vittorie e di sconfitte, che in realtà parlavano di una guerra di stallo [Lippman, 1922]. Il dominio dell'informazione è quindi fondamentale per il mantenimento del potere interno e del conseguimento di quello estero, in quanto assolve il compito di guida sociale e culturale, all'interno di un sistema di forze politiche contrapposte, in lotta per l'egemonia, una volta raggiunte la funzione economico-primitiva, la 'coscienza di solidarietà di interessi' e la coscienza che i propri interessi corporativi [...] possono e debbono divenire gli interessi di altri raggruppamenti subordinati; questa è la fase più schiettamente “politica” che segna il netto passaggio dalla pura struttura alle super-strutture complesse, è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente vengono a contatto ed entrano in contrasto fino a che una sola di esse, o almeno una sola combinazione di esse, tende a prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l’area, de-terminando oltre che l’unità economica e politica anche l’unità intellettuale e mora-le, su un piano non corporativo, ma universale, di egemonia di un raggruppamento sociale fondamentale su i raggruppamenti subordinati [Cospito, 2004]. La funzione di guida gramsciana rappresenta quel potere addizionale che permette di veicolare gli interessi sociali e l'opinione pubblica: una sorta di "inflazione di potere" derivante dalla credibilità dei gruppi dirigenti di presentare la funzionalità del dominio in termini positivi sia per i dirigenti stessi, sia per i gruppi subordinati. Ciò è senz'altro vero a livello interno; quando la leadership è inserita in un contesto internazionale, la 30 funzione di guida e direzione è alimentata anche dai successi - militari, politici, finanziari e agroindustriali - di uno stato, pertanto preso a "modello" da emulare, da parte degli altri stati [Arrighi, 1999]. La lotta e l'espansione egemonica determinano pertanto un livello geografico non come semplice spazio di incorporazione, bensì come una situazione dinamica, in continua evoluzione, in cui la lotta per il potere è dato appunto da tali spinte espansive e belliche. L'egemonia rappresenta un sapere politico sul mondo in cui l'equilibrio egemonico è in continua trasformazione e costituisce, in ragione di ciò, il banco di prova proprio dell'agire politico. La competizione tra stati e pertanto l'espansione del potere egemonico, secondo Gramsci si è sempre risolta nella contrapposizione di due soggetti: C'è sempre stata lotta tra due principi egemonici, tra due religioni" e occorrerà non solo descrivere l'espansione trionfale di una di esse, ma giustificarla storicamente. Bisognerà spiegare perché nel 1848 i contadini croati combatterono contro i liberali milanesi e i contadini lombardo - veneti combatterono contro i liberali viennesi. Allora il nesso reale etico-politico tra governanti e governati era la persona dell'imperatore o del re [così] come più tardi il nesso sarà [...] il concetto di patria e di nazione [Gramsci, 2001]. Se si considera l'evoluzione del sistema capitalismo e dell'espansione delle frontiere a partire dal XV secolo [Moore, 2013], si può osservare come la contrapposizione di due principi egemonici o blocchi sia evidente: nel 1600 la lotta per l'egemonia vide contrapposti l'Impero spagnolo e le Province Unite; tra il XVIII e il XIX secolo, il Regno Unito era in contrasto con la Francia napoleonica, mentre nel Novecento la strategia egemonica statunitense, in seguito alle due guerre mondiali, fu contrastata dall'Unione Sovietica [Arrighi, 1999]. Il carattere egemonico rientra perciò in un ampio discorso storico in evoluzione, in cui le forze statali in contrasto e competizione hanno portato alla nascita e alla transizione di egemonie: è stato infatti così tra l'Olanda e la Gran Bretagna del 700 e tra quest'ultima e gli Stati Uniti nel 900. Il passaggio da un'egemonia a quella successiva può esser visto come una trasformazione sistemica - ovvero un processo di radicale riorganizzazione del sistema mondiale moderno [Arrighi, 1999]; nella storia, il risultato 31 di questi processi transitivi si è tradotta in una rinnovata espansione del sistema mondiale, fino alle sue attuali dimensioni globali. Secondo l'analisi di Wallerstein, "l'egemonia nel sistema interstatale si riferisce a quella situazione in cui il confronto in corso tra le cosiddette "grandi potenze" è cos' sbilanciato che una potenza è davvero prima inter partes; cioè, una potenza può in larga misura imporre le proprie regole e le proprie preferenze [...] nell'arena economica, politica, militare, diplomatica e anche culturale. La base materiale di un tale potere risiede nella capacità delle imprese che hanno sede in questa potenza di operare con maggiore efficienza nelle tre più importanti sfere economiche - la produzione agro-industriale, il commercio e la finanza. Il vantaggio in efficienza di cui stiamo parlando è così grande che queste imprese possono non solo offrire più di quanto offrano le imprese di altre potenze sul mercato mondiale in generale, ma - in molti casi - proprio all'interno dei mercati interni delle stesse potenze rivali" [Wallerstein, 1984]. L'egemonia pertanto è il risultato a livello geopolitico di lunghi periodi di espansione competitiva in cui la futura potenza egemone acquista il proprio vantaggio decisivo prima di tutto nella produzione, quindi nel commercio e infine nella finanza. Ma l'egemonia viene saldamente assicurata solo raggiungendo una completa vittoria in una "guerra mondiale", storicamente trentennale: la guerra dei trent'anni dal 1618 al 1648, le guerre napoleoniche dal 1792 al 1815, e le guerre eurasiatiche dal 1917 al 1945. Il passaggio da un'egemonia all'altra costituisce una riorganizzazione sistemica e promuove una nuova espansione, dotando il sistema di una nuova divisione del lavoro; la rinnovata espansione da un lato determina un aumento del "volume" e della "densità dinamica" del sistema, cioè il numero di unità socialmente rilevanti che interagiscono all'interno del sistema, e il numero, la varietà, e la velocità della transazioni che legano l'una all'altra. Dall'altro lato, le nuove espansioni sono provocate dalla crisi delle egemonie precedenti, queste ultime caratterizzate da tre processi distinti ma legati tra di loro: l'intensificazione della competizione tra stati e della competizione tra imprese; l'aumento dei conflitti sociali; l'emergere di nuove configurazioni di potere. Il primo processo avviene in congiunzione con un'espansione finanziaria che provoca un aumento dell'accumulazione di capitale e una competizione per il capitale mobile [Arrighi, 1999]. Il ciclico riproporsi di espansioni di finanziarie scatena pertanto una nuova competizione che Braudel osserva manifestarsi in maniera periodica, dall'Italia del XIII secolo fino all'Occidente di oggi; secondo lo studioso francese questi 32 Le imprese olandesi erano organizzate in società per azioni privilegiate e tutto l’apparato sistemico olandese si basava sullo sforzo costante di 'monopolizzare' attività con un alto valore aggiunto; tali organizzazioni agivano per loro conto nei territori extra-europei, ancora troppo deboli nei territori lontani. La prima di esse fu la Verenigde Oost-Indische Compagnie (VOC) fondata nel 1602, che gli storici ricordano come un’organizzazione colossale, paragonabile a una moderna multinazionale. Tali organizzazioni d’affari godevano di privilegi commerciali esclusivi - concessi dai governi europei - in aree geografiche determinate e il diritto di svolgere attività belliche e d’amministrazione ordinaria. Alla VOC, ad esempio, era ufficialmente concesso il monopolio su tutto il commercio a est del Capo di Buona Speranza e a ovest dallo Stretto di Magellano. All’inizio del XVII secolo le società per azioni privilegiate olandesi non erano più le sole a poter agire nei territori extra-europei: altre potenze, come il Regno Unito con la Compagnia inglese delle Indie Orientali, si erano dotate dei medesimi apparati commerciali. Per superare la concorrenza e mantenere il ruolo di leadership, nel 1621 le Province Unite crearono la West-Indische Compagnie (WIC). La riemergente ostilità della Spagna, portò la WIC sulla bancarotta e nel 1674 venne riorganizzata come apparato puramente commerciale - e non più governativo - dedito al traffico di schiavi e alla pirateria nell’America spagnola; fu la WIC a introdurre il commercio atlantico triangolare che legò l’una all’altra le comunità manifatturiere d’Europa, le comunità africane dedite al procacciamento di schiavi e le comunità delle piantagioni nelle Americhe in un circuito di commercio e produzione sempre più imponente e redditizio. A beneficiare di questo commercio furono anche la Francia e il Regno Unito, in seguito all’impennarsi della domanda di schiavi nei loro possedimenti africani. Il rinnovamento portato dalle società per azioni privilegiate permise ad Amsterdam di diventare la sede della prima borsa in sessione permanente, con un volume di densità di transizioni maggiore di tutte le borse esistite fino ad allora. La decisiva sconfitta spagnola che portò alla Pace di Vestfalia segnò il punto più alto nella politica mondiale olandese che, a partire da quel momento, fu esposta ai continui attacchi incrociati di Francia e Inghilterra, con l’obiettivo dichiarato di porre fine all’egemonia olandese; dopo i trattati di Vestfalia infatti, le Province Unite dovettero combattere tre guerre, in rapida successione, contro la Corona britannica che 35 prosciugarono le casse statali e impoverirono il potere mondiale olandese. La prima guerra (1652-1654) scoppiò in seguito alla proclamazione dei Navigation Acts britannici, volti a monopolizzare i commerci con le proprie colonie, impedendo il commercio con le altre potenze, in primis appunto con le Province Unite. Le ostilità si conclusero con ingenti perdite navali per gli olandesi, nuovamente in guerra per il commercio di schiavi nell’Africa occidentale, guerra che portò il passaggio di territori olandesi come New York, il New Jersey al Regno Unito. Il terzo conflitto anglo- olandese si scatenò qualche anno più tardi (1672-1674) in seguito a un’alleanza segreta tra il governo inglese e Luigi XIV che vide l’Olanda costretta a combattere sui due fronti. I trattati di Vestfalia portarono così a un cambiamento nelle lotte interne all’Occidente: finché gli stati europei furono intenti a contrastare la minaccia portata alla loro sovranità dalla Spagna imperiale, fu facile per le Province Unite utilizzare il proprio denaro e i contatti per assicurarsi che gli altri stati avrebbero condotto il peso maggiore della guerra di terra, potendo concentrare i propri sforzi nella guerra sul mare e nel proporsi come intermediari finanziari e commerciali dell’intera Europa [Arrighi, 1999; Braudel l, III, 1982]. Una volta che però la minaccia spagnola fu neutralizzata, gli stati europei cercarono di incorporare nei rispettivi domini i circuiti e le reti commerciali che stavano rendendo l’Olanda ricca e potente proprio mentre il resto d’Europa attraversava un periodo di crisi generalizzata. Gli olandesi continuarono a “guidare” il resto degli stati europei che, nel tentativo di emulare il sistema mercantilistico olandese, strinsero alleanze volte alla rottura di quell’egemonia: la terza guerra anglo-olandese fu dunque fondamentale in quanto al tentativo emulativo inglese si affiancò la volontà francese di inglobare i territori delle Province Unite nello stato francese. Tale convergenza di strategie rivelò la vulnerabilità del sistema politico della Repubblica olandese: di fronte all’espansionismo marittimo britannico e quello continentale francese, gli olandesi scelsero il “male minore” schierandosi dalla parte degli inglesi. Il controllo marittimo passò quindi negli anni nelle mani della marina britannica che da quel momento intensificò gli investimenti grazie alla creazione, nel 1694 della Banca d’Inghilterra. L’Olanda pertanto divenne negli anni un fedele alleato della Corona come in occasione della guerra di Successione Spagnola (1701-1713), originata dal pericolo che la Spagna diventasse uno stato asservito alla Francia, o che le 36 basi di Napoli e della Sicilia cadessero nelle mani francesi; in base agli accordi anglo- olandesi l’Olanda si preoccupò di contrastare l’avanzata delle truppe francesi sul continente, mentre la Gran Bretagna ostacolò le mire di Luigi XIV via mare. Il risultato fu un logoramento delle truppe olandesi e un espansionismo navale britannico che ne rafforzò ulteriormente il potere. La sovraesposizione olandese nelle Fiandre e in Spagna prosciugò le casse statali aumentando il debito nazionale: il capitale olandese iniziò a optare in maniera sempre più massiccia per gli investimenti inglesi, mantenendo le finanze britanniche in buona salute [Braudel, 1982]. A partire dal trattato di Utrecht del 1713 il passaggio all’egemonia britannica si fece più intenso, in quanto grazie agli accordi l’Inghilterra ottenne territori strategicamente fondamentali (Gibilterra, Minorca, Terranova, oltre al diritto di asiento spagnolo2). L’handicap principale, che in precedenza aveva rappresentato il punto di forza, era rappresentato dalla piccola scala territoriale e la struttura decentralizzata di fronte al forte Impero britannico che, in seguito ai trattati di Utrecht aumentò la già abbondante disponibilità di manodopera e di imprenditorialità: i porti britannici iniziarono quindi a sfidare e infine sconfissero il commercio di transito di Amsterdam. Il “leone inglese” stava superando il “gatto olandese” cui non rimaneva altro che rifugiarsi nell’egemonia finanziaria, visto che quella commerciale e marittima aveva ceduto il passo al potente apparato inglese: l’escalation della lotta di potere, e la conseguente intensificazione della competizione interstatale per il capitale mobile, crearono infatti le condizioni per un’espansione finanziaria che inflazionò temporaneamente la ricchezza e il potere olandesi. Amsterdam divenne la “cassa” d’Europa [Arrighi, 1999], specialmente per le campagne belliche britanniche: l’indebitamento inglese infatti nei confronti degli investitori olandesi, in seguito alla Guerra di Successione Spagnola e quella austriaca, crebbe esponenzialmente, così come quello danese, sassone, bavarese, russo e svedese. L’aumento del credito estero non permise tuttavia all’Olanda di mantenere il ruolo egemone in seguito alle diverse crisi finanziarie che scossero l’Europa settecentesca e che, a lungo andare, trasferirono il centro finanziario e commerciale a Londra. Anche la leadership finanziaria andò dunque sgretolandosi, in seguito alla crisi generalizzata che, a partire dal 1772 interessò prima la Gran Bretagna, poi la Francia che, nel 1788, 2 Il contratto tra Stato e privati o il trattato con un altro paese che stabiliva la fornitura degli schiavi neri nelle colonie americane della Spagna. Uno dei primi contratti di concessione (asiento), viene stipulato tra Carlo V e i nobili genovesi Francesco Grimaldi e Francesco Lomellini, riguardante il diritto di pesca nelle acque di Tabarca. In base a tale accordo il sovrano riscuote un canone pari a un quinto del corallo pescato. 37 la struttura dei costi e riprodussero il vantaggio competitivo britannico nei mercati mondiali, annullando il divario con l’impero britannico. Col tempo dunque la diffusione dell’industrialismo - in particolare negli Stati Uniti e in Germania - erose la supremazia marittima britannica e fece sorgere dei complessi militari-industriali troppo potenti perché la Gran Bretagna potesse tenerli sotto controllo attraverso la sua tradizionale linea di politica dell’equilibrio del potere mondiale. A partire dalla seconda metà del XIX secolo quindi, l’egemonia britannica iniziò la parabola discendente, che portò alla nascita della successiva egemonia statunitense del XX secolo. Una prima spallata all’equilibrio di potere fu data dalla Grande Depressione dal 1873 al 1896. Nel corso della Depressione la rivalità tra le potenze aumentò, emersero complessi militari-industriali troppo potenti perché la Gran Bretagna potesse tenerli sotto controllo attraverso le tradizionali politiche volte all’equilibrio del sistema che collassò negli anni della prima guerra mondiale. L’industrialismo e l’imperialismo derivanti dalla Grande Depressione erano le risposte statali a un periodo di incertezza economica diffusa; divenne infatti abituale introdurre meccanismi protezionistici alle nuove espansioni del commercio e degli investimenti internazionali e la diffusione dell’imperialismo stesso fu in primo luogo il risultato di una lotta tra le potenze per il privilegio di estendere il loro commercio a mercati politicamente non protetti. La "febbre della produzione" provocò una lotta per garantirsi l’approvvigionamento di materie prime, il che rafforzò la spinta a esportare. L’esasperata competizione tra gli stati produsse un cambiamento nella produzione industriale e nell’estrazione di materie prime (sempre più intensa): un primo aspetto fu l’introduzione di tecniche di produzione di massa negli arsenali europei; il secondo punto di cambiamento fu l’inserimento nella corsa agli armamenti di imprese private di grosse dimensioni che negli anni scalzarono gli arsenali europei dalla produzione di armi. Con l’intensificarsi della concorrenza nella produzione agroalimentare l’impresa britannica si specializzò nell’intermediazione finanziaria globale. Londra era ancora il centro dell’alta finanza, così come lo era stata Amsterdam nel periodo conclusivo dell’egemonia olandese, ma l’officina del mondo stava cedendo terreno a industrie nazionalistiche dal forte tasso protezionistico e competitivo. L’impresa tedesca, ad esempio, incapace di competere con l’impresa britannica nell’intermediazione finanziaria globale - si mosse per formare un’economia nazionale atta a generare un 40 sistema economico nazionale. L’evoluzione del sistema tedesco a partire dal 1870 fu dunque particolarmente sconvolgente per la Gran Bretagna perché per la prima volta, dopo l’impero napoleonico, furono create le condizioni per una potenza terrestre europea capace di aspirare a una supremazia continentale [Arrighi, 1999]. Il paradigma tedesco era inoltre strettamente legato alle attività governative e belliche del Reich guglielmino: la crisi generalizzata degli anni 70’ del XIX secolo, in cui le principali potenze mondiali furono interessate da un’intensa diffusa e persistente competizione, determinò la creazione di un “capitalismo organizzato” (determinato da un’integrazione tra soggetti imprenditoriali a metà strada tra quella orizzontale - la fusione attraverso l’associazione, l’unione o l’acquisto di imprese che agivano negli stessi settori di mercato in modo da ridurre le incertezze di mercato - e verticale - caratterizzata dalla fusione delle operazioni di un’impresa con quelle dei suoi fornitori e dei suoi clienti, riducendo i costi di transazione e i rischi e le incertezze derivanti dal procacciamento di materie prime e dalla vendita dei prodotti finiti), in cui era forte il ruolo giocato dall’apparato statale. 5 L'egemonia statunitense L’industrializzazione tedesca, unita all’instabilità politica e militare dell’Europa novecentesca, determinarono pertanto una revisione dell’equilibrio di potere sul continente: fu questo mutamento degli equilibri politici "a promuovere il graduale riordinamento delle forze culminato nella Triplice intesa e Triplice alleanza" [Landes, 1978 p. 428; Arrighi, 1999], all’alba della prima guerra mondiale. Lo scoppio della guerra determinò il secondo attacco all’egemonia mondiale britannica, dopo quello della Grande Depressione che produsse un tasso elevato di industrializzazione in tutta l’Europa continentale. La prima guerra mondiale prosciugò le casse britanniche e il governo, a partire dal 1916, fu costretto a centralizzare un gran numero di aziende ponendole sotto il controllo - o attraverso la partecipazione - statale beneficiando l’ascesa del capitalismo statunitense. Già prima dello scontro bellico, il dollaro aveva accresciuto il proprio peso nelle transazioni internazionali (specialmente con l’America 41 Latina) ma fu soltanto in seguito alle due guerre mondiali che il dollaro si sostituì pienamente alla sterlina nella conduzione del commercio mondiale [Arrighi, 1999]. Mentre infatti la Gran Bretagna si sobbarcava i costi e gli oneri di una guerra così logorante, gli Stati Uniti accrescevano il proprio potere finanziario rifornendo la Gran Bretagna di materie prime, armi, alimenti che gli inglesi non erano in grado di pagare; parimenti concessero prestiti alle altre potenze coinvolte nello scontro, e non solo, espandendo enormemente il sistema finanziario americano. A titolo d’esempio, tra il 1924 e il 1929 i prestiti concessi all’estero dagli Stati Uniti erano il doppio di quelli britannici [Arrighi 1999]. Anche prima della guerra mondiale gli Stati Uniti si erano affermati come una potenza sul territorio americano. La Dottrina Monroe del 1821 - essenziale per il mantenimento dell’equilibrio di potere mondiale - veniva usata come strumento della supremazia statunitense sul continente americano. L’epilogo della prima guerra mondiale non fece altro che estendere questa supremazia dal continente americano all’intero pianeta. Il tracollo della Borsa di New York va letto pertanto come il passaggio di testimone tra l’epoca britannica e quella nascente americana, analogamente al crollo dei titoli della Borsa di Amsterdam nel passaggio all’egemonia britannica: il punto debole del sistema finanziario globale nella Crisi del 1929 non risiedeva infatti a Wall Street, bensì nella City londinese, in seguito alla diminuzione dei traffici interstatali e al logorio statale durante e dopo la prima guerra mondiale. Come per il passaggio dall’egemonia olandese a quella britannica, il passaggio da un’egemonia all’altra non fu immediato: a partire dalla Grande Depressione del XIX secolo, l’egemonia britannica entrò in una fase discendente ma furono necessarie due guerre mondiali, un’intensa industrializzazione globale e una crisi monetaria e finanziaria prima che il passaggio potesse dirsi completato. Fu soltanto dopo la seconda guerra mondiale che l’egemonia statunitense poté infatti affermarsi in senso letterale. La peculiarità degli Stati Uniti stava nel poter disporre liberamente di un territorio ricco di materie prime, decisamente vasto rispetto agli stati europei e un sostanziale predominio sulle regioni limitrofe: questo garantiva, al contrario di quanto accadeva in Europa, un pressoché illimitato raggio d’azione in materie commerciali e militari. Una volta domate le resistenze europee, in particolare la Germania nazista e l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti poterono quindi presentarsi all’opinione pubblica mondiale come potenza 42 comando a soddisfare i desideri dei consumatori di un significativo segmento della società fu un fattore importante, così come la dilagante corruzione, la quale offuscò l’integrità della classe dirigente. Poiché lo Stato sovietico ha mantenuto il suo potere attraverso un certo grado di irreggimentazione e repressione, tutto ciò ha alimentato una rabbia diffusa e il risentimento contro il sistema comunista [Muzaffar, 2012]. Col collasso del comunismo - simboleggiato dalla caduta del Muro di Berlino - la società globale è stata proiettata in una nuova fase storica: l'equilibrio del potere mondiale basato sulla competizione militare tra Stati Uniti e Unione Sovietica (senza che siano mai state combattute guerre che potessero dispiegare gli immensi arsenali nucleari) ha lasciato infatti il posto a una nuova era sociale in cui i liberi mercati (agevolati dall'apertura dei paesi ex sovietici e dalla dotazione in Europa di un'unica moneta), le agenzie di rating e le organizzazioni sovrastatali sembrano aver assunto il peso di superpotenze militari [Arrighi, 1999], con il benestare degli stati-nazione che anzi ne hanno incentivato lo sviluppo. La scomparsa dell'Unione Sovietica dallo scacchiere mondiale coincise anche con il punto più alto toccato dall'economia giapponese in ambito mondiale, in seguito alla rivalutazione dello yen nei confronti del dollaro statunitense, nei mercati finanziari mondiali. La fine degli anni Ottanta quindi se da un lato registrò il tracollo comunista, dall'altro vide l'ascesa dell'economia giapponese, intaccando seriamente la politica estera ed economica statunitense: si ipotizzava infatti che la futura egemonia sarebbe risorta, sulle ceneri di quella americana, a Tokyo [Arrighi, 1999]. 6 Nuove egemonie L'evoluzione storica dimostrò, almeno fino all'inizio del XXI secolo che tali previsioni si erano rivelate erronee in seguito alla crisi asiatica della fine degli anni 90' che mise in luce i limiti egemonici del Giappone [Arrighi, 1999]; tuttavia, i problemi legati al mantenimento dell'egemonia di Washington, al volgere del millennio, non erano comunque stati dissipati anzi, l'attacco alle Torri Gemelle del 2001, la Guerra e l'occupazione in Iraq - con il pretesto di ricercare le armi di "distruzione di massa" di 45 Saddam Hussein, l'invasione in Afghanistan, sono stati segnali di una crisi egemonica americana. Secondo Muzaffar, l'invasione in Afghanistan, al di là delle motivazioni ufficiali che inquadrano la cattura di Bin Laden come reale fondamento dell'operazione, vi si possono scorgere altri motivi: "la volontà di invadere l’Afghanistan con la farsa di una guerra contro il terrorismo può essere legato alla posizione strategica del paese, ossia come nazione vicina a Cina e Russia da un lato e all’Iran dall’altro, quindi d’enorme importanza per gli Stati Uniti. Il controllo dell’Afghanistan facilita l’accesso ai giacimenti di petrolio delle repubbliche dell’Asia Centrale e alle risorse del Mar Caspio. È stato analizzato che in termini di produzione di petrolio l’intera regione potrebbe rivaleggiare con l’Arabia Saudita in un prossimo futuro" [Muzaffar, 2012]. Al di là delle reali ragioni, è senza dubbio vero che tali avvenimenti rappresentano una spaccatura nella governance mondiale, in relazione agli ingenti costi finanziari di tali operazioni e all'elevata perdita di vite umane che hanno influenzato l'opinione pubblica mondiale. Assieme all’ideologia, agli interessi e alle azioni delle élites statunitensi, che hanno rappresentato un fattore importante nel declino degli Stati Uniti, anche la resistenza di molti gruppi, movimenti e Stati nei confronti dell’egemonia statunitense ha svolto un ruolo significativo; in questo senso, i principali attori di tale resistenza ai tentativi di mantenimento dell'egemonia di Obama sono la Russia, la Cina e - per certi aspetti - l'America Latina. La prima, dopo il riassestamento degli anni 90', è tornata protagonista, assistendo alle manovre degli Stati Uniti in Georgia, Ucraina e in alcuni dei paesi dell’Europa orientale, le quali l’hanno convinta ad affinare le sue abilità diplomatiche e rafforzare i propri muscoli militari al fine di proteggere la sovranità e l’integrità della Federazione Russa. La seconda ha aumentato il peso internazionale, tanto politico, tanto economico-finanziario, rispondendo ai tentativi di Washington di estendere le relazioni politiche e militari nelle zone del Pacifico, come Australia, Filippine, Giappone e Corea del Sud. Per contrastare tale strategia di accerchiamento, la Cina ha ampliato considerevolmente i propri investimenti, con il Made in China che, nell'era della globalizzazione, ha raggiunto ogni angolo del pianeta, imponendosi come marchio commerciale dominante. Già nella prima metà del secolo scorso, Gramsci sottolineava la possibile ascesa a potenze mondiali da parte di Cina e India in relazione alla produzione industriale e manifatturiera e all'enorme quantità di forza-lavoro: 46 "Si sposterà questo asse nel pacifico? Le masse più grandi di popolazione del mondo sono nel pacifico: se la Cina e l'India diventassero nazioni moderne con grandi masse di produzione industriale, il loro distacco dalla dipendenza europea romperebbe appunto l'equilibrio attuale: trasformazione del continente americano, spostamento dalla riva atlantica alla riva del pacifico dell'asse della vita americana [Gramsci, 2001, p. 242]. Le osservazioni di Gramsci fatte a quasi un secolo di distanza evidenziano le peculiarità del sistema-mondo che dal XV secolo ha fagocitato sempre più territori e risorse. Il rapido sviluppo interno, l'esplosione delle esportazioni e degli investimenti esterni, come in Venezuela, Ecuador, Argentina, l'aumento della produzione e dei profitti derivanti dall'estensione delle monocolture cerealicole - tanto da far investire direttamente nel 2006 Goldman Sachs nel settore agroalimentare cinese [Burch e Lawrence, 2009] - sono tutti elementi di una vistosa crescita cinese nel sistema-mondo ai danni della sempre più traballante od ormai superata, secondo altre ipotesi, egemonia statunitense. Contemporaneamente, la crisi statunitense dell'ultimo decennio nella gestione geopolitica e militare di territori come Ucraina, Siria, Palestina, Afghanistan e Iraq ha avuto riflessi anche sulla leadership mondiale prima e occidentale poi; la grande esportatrice di democrazia del XX secolo sembra cadere sotto gli effetti della novecentesca frenetica espansione. Questi movimenti di espansione, declino e nuova espansione sono elementi portanti del sistema, osservabili nell'evoluzione storica: successe nel XV secolo con le Province Unite [Arrighi, 1999; Moore, 2013; Talbot 2011]; tale espansione precedette un declino politico, commerciale e finanziario che alimentò la nuova espansione egemonica britannica del XVIII, seguito dal declino del primo Novecento [Arrighi, 1999; McMichael, 2000 e 2009c]. Lo sviluppo prodigioso della Cina segna dunque la nascita di un nuovo mondo post-egemonico; tuttavia, stabilire con chiarezza se sarà proprio il paese asiatico a prendere le redini degli equilibri di potere, è fuori portata, soprattutto ai fini di questo lavoro. All'interno del quadro appena descritto un ruolo centrale è occupato dal capitalismo finanziario e dalle multinazionali che operano in tutti i settori produttivi; l'apertura dei mercati, la globalizzazione dei prodotti, la deregulation degli anni 80', la fine del comunismo sono tutti fattori di cui hanno beneficiato le multinazionali e la grande distribuzione, estendendo di molto il proprio raggio d'azione. La possibilità di districarsi 47 ventaglio di conseguenze sociali come la nascita di conflitti legati al cibo - ad esempio in Uzbekistan, Marocco, Guinea, Mauritania, Senegal, Indonesia, Zimbabwe, Burkina Faso, Cameroon, Yemen, Giordania, Arabia Saudita, Egitto, Messico, Argentina, [McMichael 2009b] - abbandono progressivo delle campagne, con il conseguente insediamento di imprese agroindustriali multinazionali, progressiva popolazione di grandi periferie cittadine, germinazione di epidemie legate al cibo e ai metodi di produzione - basti pensare alla "mucca pazza" o "polli alla diossina". Il settore alimentare, sin dalle origini delle monocolture del XVI secolo è sempre stato al centro delle attività legate all'accumulazione di capitale, in quanto rappresenta una parte ineliminabile della quotidianità umana e pertanto altamente redditizia. L'ascesa al potere di alcune potenze, fu infatti garantita anche dal profitto del commercio alimentare e delle risorse primarie; a partire dal secondo Novecento l'organizzazione capitalista attorno al cibo ha subito un'evoluzione, scostandosi sempre di più dal potere nazionale; la perdita d'influenza da parte degli stati in un mercato economico-finanziario ha permesso la proliferazione di multinazionali anche, e soprattutto, nel settore primario, divenendo il gruppo dirigente - per dirla con le parole di Gramsci - dominante. Il legame che unisce cibo e capitale è stato ampiamente analizzato, in relazione all'aumento dei prezzi, alla scarsa disponibilità, ai disastri ecologici, alla perdita di sovranità alimentare; sin dall'egemonia britannica si può pertanto considerare la nascente catena di distribuzione alimentare come facente parte di un Regime alimentare, in cui convergono diversi fattori legati a produzione, accumulazione, distribuzione, consumo, mercati, trasporto, ecc.., posto sotto il controllo della potenza egemone. 50 2 Cibo e capitale 1 Cibo come risorsa: economica o biologica? "Il capitalismo è impensabile senza la complicità della società" [Braudel, 1981, p.76] che lo compone: in riferimento al cibo, il capitale alimenta tutte le fasi di lavorazione, dalla linea produttiva, a quella del trasporto e della distribuzione, al consumo e al reinvestimento, sin dalle origini della sua espansione [McMichael 2009; Moore, 2014]. Lo stretto legame che unisce la produzione alimentare al sistema capitalista è ineliminabile nelle relazioni di valore del rapporto uomo-mondo: storicamente, come si è visto, l'espansione egemonica è coincisa infatti con l'aumento dei terreni coltivati e dei raccolti, sfruttati dalle potenze per alimentare il meccanismo di espansione e mantenimento del potere. Anche l'evoluzione tecnica e la disponibilità di materiale tecnologico rappresentano due parametri di primaria importanza per l'espansione economica, politica e agricola. Seguendo le parole di Braudel: "le grandi concentrazioni economiche richiedono concentrazioni di mezzi tecnici e sviluppo della tecnologia: così è stato per l'arsenale di Venezia nel XV secolo, per l'Olanda nel XVII, per l'Inghilterra del XVIII secolo. [...] Da sempre, tutte le tecniche, tutti gli elementi della scienza, vengono scambiati, viaggiano attraverso il mondo, seguendo un movimento di diffusione incessante" [Braudel, 1981, p.34]. Tecnologie, risorse alimentari, energetiche e forza lavoro: sono queste le pulsioni espansive del sistema capitalista, che manifestano il livello di vita di una determinata nazione o regione. Risulta pertanto ovvio che le fasi iniziali del capitalismo, e quelle successive, siano incentrate in buona parte sul cibo, sulla sua produzione e distribuzione [Friedman, 2009]. Lo sviluppo del colonialismo ha amplificato i rapporti di forza nel contesto alimentare delle nazioni egemoni, producendo una serie di squilibri - differenti ma convergenti - nel lavoro, nella stabilità sociale, nell'accesso al cibo e nella dieta alimentare, tanto delle periferie, quanto dei centri del sistema-mondo. Durante il corso 51 storico, l'espansione delle frontiere introdusse nei mercati europei (in primis tra i gruppi dirigenti) prodotti esotici - in seguito diventati tradizionali - come lo zucchero, il caffè e il cotone che garantirono ampi profitti agli investitori. In questo scenario, la produzione alimentare, come ricorda Wallerstein, rappresenta uno dei cardini dell'espansione capitalista, dimostrando il fitto legame che corre tra il denaro e la risorsa: la possibilità di produrre alimenti a basso costo - in particolar modo la produzione cerealicola - per popolazioni sempre più numerose rappresenta una voce di guadagno che ha sempre riguardato l'industria alimentare, ma anche uno dei limiti attuali che minacciano la sopravvivenza stessa di tale meccanismo [Moore, 2014]. La coltivazione dei cereali ha sempre occupato un posto centrale nelle attività umane e nelle diete alimentari: grano, riso, mais - ed altri cereali, ma in maniera decisamente minore - hanno infatti rappresentato, durante il corso della storia, la principale fonte di cibo in tutto il mondo, tanto da esser considerate piante di civiltà, "che hanno organizzato la vita materiale e talvolta psichica degli uomini, a grande profondità, fino a diventare strutture quasi irreversibili" [Braudel, 1982, I, p. 83]. Fin dall'antichità questi cereali sono stati fondamentali per lo sviluppo delle civiltà che si sono succedute: la loro abbondanza o scarsità poteva generare commerci, espansioni, guerre o epidemie, a seconda delle condizioni. Con lo sviluppo dei centri urbani del XIV secolo, la principale fonte di nutrimento era data dai raccolti delle vicine campagne, ma con l'espansione dei commerci internazionali del XVI secolo, l'aumento della popolazione e l'aumento della richiesta di grano, portò il Nord europeo a diventare il principale esportatore di grano in Europa [Braudel, 1982]. Il grano del Baltico e il suo commercio, per esempio, furono fondamentali per l'egemonia olandese del XVII secolo, così come i prodotti delle colonie dell'Impero Britannico per la futura egemonia inglese [Arrighi, 1999]. La nascente relazione tra centri ricchi e bisognosi di cibo e periferie esportatrici, accelerata dal capitalismo seicentesco - descritta nel capitolo precedente - portò gli stati europei a trovare nel Nord e nell'Est europeo "i paesi mal popolati e poco sviluppati, capaci di fornire [loro] il grano che difetta" [Braudel, 1981, I, p.101]. In questo senso, il principale esempio fu offerto dalle campagne polacche che esportavano la maggior parte del raccolto, con quella restante destinata ai sovrani: Se si pensa alla grande quantità di grano che la Polonia esporta annualmente si potrà pensare che esso sia uno dei paesi più fertili d'Europa; ma chi la conosce, giudicherà ben 52 Il concetto di regime alimentare pertanto ha come obiettivo la storicizzazione del sistema alimentare mondiale [Friedman and McMichael, 1989; McMichael, 2009b], in relazione all'accumulazione di capitale lungo le dimensioni spazio-tempo [McMichael, 2009b]. Lo studio dei regimi alimentari rappresenta la relazione tra l'evoluzione geopolitica, lo sviluppo sociale, i processi culturali ed ecologici, durante il sistema capitalista [Pouncy, 2012]. A fornire questo metodo di studio, focalizzato sulle reciproche relazioni tra agricoltura, politica, cibo, guerre, spreco alimentare fu Harriet Friedman [1987], che assieme a McMichael iniziò ad analizzare i collegamenti tra le relazioni internazionali di produzione alimentare e l'accumulazione di capitale: Regime significa regolamentazione: esistono 'regole' che gli analisti possono dedurre attraverso il consistente comportamento degli attori rilevanti: stati, imprese, corporazioni, movimenti sociali, consumatori, scienziati. Le regole in questo senso sono difficili da fissare, ma il tentativo è pregevole. Nell'analisi dei regimi alimentari queste regole relazionano sia la regolamentazione statale, a volte indiretta, sia l'egemonia [Friedman, 2009]. Il cibo pertanto è elemento assolutamente centrale per le relazioni globali di valore, così come la forza-lavoro e le risorse energetiche; secondo Araghi, il regime alimentare può definirsi come "regime politico delle relazioni globali di valore [Araghi, 2003]: la crisi alimentare - parallela a quella finanziaria, l'aumento dei prezzi, l'accumulazione di capitale da parte di grandi realtà mondiali, la transizione alimentare e la generale convergenza verso diete sempre più 'mondiali' sono tutti elementi che appartengono al sistema ecologia-mondo [McMichael, 2009b; Wallerstein 1976]. La teoria del regime alimentare tuttavia non si limita unicamente al cibo: come si è visto essa sottende alla crescita del capitale, alla crescita del potere delle multinazionali, in primis dei supermercati [Smith, Lawrence and Richard, 2010; Reardon et all, 2003], alla specializzazione delle industrie alimentari, alla richiesta di aumento di sicurezza alimentare, alla nascita di guerre per l'accesso al cibo. Il regime alimentare pertanto non è limitato al cibo, bensì riguarda le modalità attraverso cui il cibo è: Intrinseco alle relazioni di valore del capitale globale, nella misura in cui esso è centrale per la riproduzione del lavoro subordinato, potendo così rappresentare una proficua 55 industria. Il focus rimane sui movimenti di capitale, piuttosto che sul cibo in senso stretto, che incarna le relazioni di capitale [McMichael, 2008, p. 3]. Al pari di energia, lavoro e materie prime, il cibo funge da impulso all'espansione degli investimenti e dell'accumulazione di capitale. Come detto, la nascita di una visione della natura come di risorsa sfruttabile ed illimitata rappresenta una delle contraddizioni in seno al capitalismo che, specialmente in epoca attuale, deve fare i conti con i crescenti disastri ecologici [Foster 2013]; secondo alcuni, la forma stessa di tale architettura rappresenta un sistema ecologico [Moore, 2014], in quanto parte delle sue espansioni è dettata dalla disponibilità di questi quattro elementi fondamentali [Arrighi, 1999; Moore, 2014]. In questo senso, gli scossoni ecologici e ambientali apportati dal capitalismo, non devono essere considerati come parte del processo di 'antropizzazione' (Anthropocene), ma bensì come risultato del lavoro di 'capitalizzazione' (Capitalocene), che a partire dal Lungo Secolo si è intensificato ed espanso, come modo di organizzare la natura e le risorse [Moore, 2014, 2014b]. Nello scenario descritto, l'illusione di una possibilità di utilizzo pressoché illimitata tuttavia, si scontra con il reale metabolismo naturale, che al contrario necessita di tempo per rigenerarsi [Foster, 2013; Moore, 2011]; il progressivo esaurimento delle risorse - tra cui i combustibili fossili - produce una lievitazione dei prezzi, escludendo così grandi fette di popolazione dall'accesso ad esse. L'equazione è semplice: lo sfruttamento incessante produce un parziale esaurimento; nel contesto alimentare se vengono a mancare le terre coltivabili i raccolti saranno minori; se a ciò si aggiungono delle variabili socioeconomiche, come la crescita dei prezzi dei combustibili, allora anche i prodotti alimentari risulteranno rincarati e per un'utenza ristretta, producendo successivamente disordini sociali, guerre, malattie, con dinamiche molto simili nelle zone interessate. La crisi alimentare si viene così a sovrapporre con la crisi finanziaria, in una relazione già osservata da Marx, in cui la fertilità del terreno agirebbe 'come crescita del capitale fisso' [Moore, 2011. p. 26] e, viceversa. Storicamente infatti, la crescita di ciascuno dei quattro elementi descritti ha rappresentato, oltre alla crescita di capitale, anche a una maggiore disponibilità di lavoro e di cibo, a prezzi contenuti: l'incessante sfruttamento ed esaurimento tuttavia, accelerati dal neoliberismo e dalla 56 globalizzazione, hanno prodotto un'ondata di crisi dei prezzi e disponibilità [Moore, 2014; McMichael, 2009; 2009b]. A una crisi sistemica, in passato, seguivano una nuova ondata espansiva e rivoluzioni ecologiche, che garantivano una rigenerazione dei profitti; quest'opportunità era assicurata, in primis, appunto dall'appropriazione dei quattro elementi citati, la base del 'surplus ecologico-mondiale' [Moore, 2010]; "quando il surplus ecologico è particolarmente elevato, come in seguito alla seconda guerra mondiale, rivoluzioni produttive prendono piede, così come si sviluppano movimenti espansivi. [Parallelamente] all'aumento di capitale e allo sviluppo socio-tecnologico" [Moore, 2010]. L'espansione riprende avvio, nuove aree vengono incorporate e nuove risorse accumulate; riprende corpo la produzione, così come il lavoro e si osserva un abbassamento dei prezzi alimentari, oltre a molteplici e differenti conseguenze sociali. La crescita della popolazione aumenta la forza-lavoro disponibile, mantenuta da un'alta produttività, assorbita quasi per intero. Il raggiungimento di nuovi limiti strutturali tuttavia, ripropone le medesime condizioni di stagnazione ed aumento dei prezzi: questo perché il sistema capitalista - e il neoliberismo attuale non fa alcuna eccezione - è un sistema ciclico, in cui a un trascorso positivo, segue un periodo di decrescita strutturale. Essendo parte integrante del sistema, anche il cibo segue il medesimo andamento, scandito da periodi di crescita in termini di produzione, accesso e consumo, a periodi di stagnazione, in un andamento oscillatorio - o ciclico - che si è osservato essere compreso tra i 20 e i 25 anni [Friedman, 2009; Wolfson, 2003]. L'andamento ciclico del capitalismo fu osservato, come spiega Hobsbawm, fin dagli anni '20, quando: Alcuni osservatori furono colpiti da uno schema ricorrente nell'economia mondiale nel corso dei secoli, per il quale a periodi di circa 20-30 anni di espansione e prosperità economica si alternano periodi di difficoltà economica della stessa durata. Questi periodi sono meglio noti con il nome di 'onde di Kondrat'ev'. [...] Ciascun ciclo di Kondrat'ev nel passato aveva costituito non solo un periodo in senso strettamente economico ma, com'è naturale, aveva anche caratteristiche politiche che l'avevano distinto abbastanza chiaramente dai cicli precedenti e da quelli successivi in termini di politica sia internazionale che interna dei vari paesi e regioni del globo [Hobsbawm, 1997, p. 43]. 57 Il secondo regime alimentare (1950-1970) di origine statunitense indirizzò parte del surplus produttivo verso le aree formalmente decolonizzate, ma orbitanti attorno alla politica statunitense; queste zone, come l'America meridionale, facevano infatti parte di un "impero informale di stati post-coloniali nei perimetri strategici della Guerra Fredda" [McMichael, 2009b, p. 4]. Gli aiuti alimentari che nel trentennio post bellico gli Stati Uniti fornirono alle periferie mondiali - in riferimento alla 'periferia' di Wallerstein - vanno pertanto riletti alla luce di un'espansione commerciale, capitale, geopolitica e alimentare degli stessi Stati Uniti [Friedman, 2009; McMichael, 2009b]. La fedeltà, acquisita attraverso la fornitura alimentare, dei paesi del Terzo mondo o in via di sviluppo, rappresentava un notevole scudo contro la minaccia comunista, nonché la possibilità di aumentare i profitti in relazione alla crescita e allo sviluppo industriale di queste zone, finanziata in parte dalle autorità americane, con l'aiuto dei governi - molto spesso totalitari e appoggiati dagli Usa - locali [McMichael, 2009b; Perkins 2012; 2013]. I paesi in via di sviluppo, come l'India, adottarono tecniche e tecnologie agroindustriali della Rivoluzione Verde, assieme a nuove riforme agrarie che dovunque accelerarono i processi di de-contadinizzazione e appropriazione dei terreni da parte di grandi gruppi agro-industriali [Bursh and Lawrence 2009; Friedman, 2009; McMichael, 2009; 2009b; Pouncy, 2012; Shiva 2010]. 'Il progetto di sviluppo' degli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale e di matrice statunitense, consisteva appunto nell'inglobare gli stati post-coloniali nella propria area d'influenza, in maniera tale da espandere i movimenti di capitale e di produzione alimentare; la rincorsa al business agroalimentare portò alla costituzione di filiere nazionali collegate tra loro, in una catena alimentare mondiale sempre più ampia e fitta [McMichael, 2009b; Perkins 2012, 2013]. Il secondo regime alimentare era pertanto più implicito di quello britannico precedente: gli Stati Uniti infatti, formalmente non gestivano imponenti flussi alimentari come il Regno Unito. La circolazione dei prodotti agroalimentari era infatti considerata come un aiuto, non come commercio [Friedman, 1982]. Attraverso il sistema degli 'aiuti' si celava pertanto un meccanismo di agrobusiness internazionale che facilitò la successiva globalizzazione, nonché la perdita di sovranità alimentare, politica, economica delle zone interessate da tali aiuti [McMichael, 2009]. 60 Con la fine del secondo conflitto mondiale, degli apparati coloniali e la nascita di organizzazioni interstatali con scopi prettamente economici e commerciali - come la Banca Mondiale, FMI, GATT, OCSE, OMC, OMS - i principali attori mondiali, gli Stati Uniti, furono in grado di estendere il proprio raggio d'influenza: la parallela delocalizzazione della produzione industriale, lo sviluppo delle infrastrutture [Perkins, 2013], dei mezzi di trasporto, delle tecnologie impiegate spinsero il business agricolo statunitense a concentrare la propria attenzione sulle principali derrate alimentari, come mais, soia, grano, carne [McMichael, 2009]. Lo sviluppo degli accordi sulle tariffe e sul commercio portò a una generale diffusione delle colture e dei materiali statunitensi: attraverso la fornitura nei paesi del Terzo Mondo di materiale tecnico, di aiuti alimentari, di investimenti economici, gli Stati Uniti - e le organizzazioni mondiali da essi parzialmente controllate - esportarono in tutto il mondo il proprio modello produttivo ed economico, contribuendo così al mantenimento della propria egemonia, facilitata dalla conseguente stabilità dei prezzi alimentari [McMichael, 2009]. L'andamento ciclico intrinseco al sistema capitalista descritto da Hobsbawn [1997] tuttavia, si vide evidente anche durante il secondo Novecento a 'Stelle e Strisce': a partire dagli anni '70 infatti, il sistema fu scosso da una crisi economica ed energetica che, a catena, produsse una serie di effetti negativi come l'aumento della disoccupazione, dei prezzi, del costo della vita. In questo scenario, è facile osservare come energia, cibo, forza-lavoro, materie prime siano elementi fondamentali per la vita politica, economica, sociale e privata. La liberalizzazione e l'apertura di nuovi mercati emergenti, del Terzo Mondo e dell'ex Blocco Comunista fu una delle strade percorse dalle elite mondiali dirigenti per risolvere l'impasse economico e politico prodottosi: in termini alimentari, il risultato fu la nascita di un nuovo sistema produttivo, basato sempre meno sulla produzione e sul capitale nazionale, e sempre più su quello finanziario, privato e multinazionale [Burch and Lawrence, 2009; Friedman 2009; McMichael, 2009; 2009b]. Svincolato da legami nazionali e votato unicamente all'incremento del capitale, il nuovo - e attuale - regime alimentare si è distinto per una produzione affidata principalmente alle grandi multinazionali, grandi catene produttive che, col tempo, hanno inglobato realtà locali e indipendenti. 61 4 Neoliberismo e Regime alimentare multinazionale La crisi degli anni '70 - dalla fine degli anni '60 ai primi anni '80 - scaturita in seguito al florido periodo di crescita economica ed espansione finanziaria e commerciale del ventennio precedente, portò alla luce un nuovo tipo di capitalismo, basato sulla crescita del potere multinazionale, sull'apertura e sulla liberalizzazione dei mercati, sulla de- regolamentazione finanziaria, sullo sfruttamento a livello planetario delle risorse: il neoliberismo [Wolfson, 2003]. La nuova 'struttura sociale d'accumulazione' (Social Structure of Accumulation) nata negli anni '70 permise nuovi e temporanei momenti d'espansione, consolidandosi negli anni '80 ed entrando in crisi nei primi anni del XXI secolo [Moore, 2010b; Wolfson, 2003]. Come si è visto, la continua espansione verso nuove frontiere costituisce uno dei punti di forza del capitalismo, ma anche un limite costitutivo: al raggiungimento dei limiti infatti seguivano nuove espansioni. Ciò si è verificato anche per le espansioni dei regimi del secondo dopoguerra. Il raggiungimento dei limiti strutturali sia del pianeta sia del fenomeno espansionistico iniziato nel lontano XV secolo fanno pensare a più che una semplice crisi ecologica: resta infatti da chiarire se quell'attuale sia solo un "punto critico del neoliberismo, o se l'esaurimento delle quattro risorse principali segnala anche la fine del regime capitalista di una ecologia economica" [Araghi, 2010]. Come detto, l'aumento della disponibilità di tali risorse, storicamente, coincideva con periodi di espansione geopolitica e sviluppi tecnologici, in grado di stimolare e migliorare la produttività, come le varie rivoluzioni agricole ed industriali che, dal XVIII secolo in avanti, hanno interessato sempre più aree del pianeta. La situazione attuale però non permette più movimenti analoghi e, di conseguenza il trend di accumulazione di capitale sembra aver trovato luogo più nei mercati finanziari che non nei commerci di beni [Moore, 2010b], realizzando la crescita del potere finanziario e multinazionale a potenziale realtà egemonica, descritta nel capitolo precedente. Un sistema, in altre parole, basato più sul capitale che sul lavoro, con la conseguente apertura della forbice tra classi ricche e classi povere, queste ultime sempre più a ridosso della soglia di sopravvivenza [Wolfson, 2003]. La strategia di liberalizzazione adottata, in seguito alla crisi degli anni '70, proiettò così la produzione alimentare verso un nuovo modello, un terzo regime alimentare, di 62 Le biotecnologie, come le coltivazioni Ogm, che a partire dagli anni '80 hanno conosciuto una rapida espansione planetaria, non furono infatti concepite in virtù di un aumento della produzione, di un abbassamento dei prezzi e di un'estensione dell'accesso alimentare; esse furono introdotte nel mercato come rimedio a virus e agenti patogeni, ma non risposero mai all'impoverimento del terreno - al contrario ulteriormente accentuato [Benbrook 2009; Moore, 2014] - nè alla necessità di un aumento dei raccolti, fondamentale per la crescente popolazione mondiale. La soia RoundUp Ready (RR) progettata da Monsanto rappresenta l'esempio forse più famoso delle semenze geneticamente modificate: nata con lo scopo di resistere al diserbante Round Up, anch'esso di paternità Monsanto, questo tipo di soia dal 1996 ha invaso il mercato agricolo, contribuendo all'87% della produzione mondiale di soia. Dagli anni '70, la quantità globale di soia, inclusa quella geneticamente modificata, è passata da circa 43 milioni di tonnellate a circa 260 milioni di tonnellate del 2010 [Faostat, 2010]: quest'aumento va considerato in relazione all'espansione della coltivazione di questo legume su scala mondiale, circa quattro volte più estesa rispetto agli anni '70 [Masuda and Goldsmith, 2009]. In questo senso, lo sviluppo di Cina e Brasile ha avuto un notevole impatto sulla coltivazione della soia: dal 1990 al 2009 le esportazioni brasiliane di soia sono infatti passate da 4 a 29 milioni di tonnellate [Weis, 2013], mentre il paese asiatico è divenuto il principale importatore mondiale di soia [McMichael, 2005]. Rilette sotto questa luce le cifre produttive assumono un altro sapore: alla base infatti non c'è un aumento della produttività dei raccolti della soia, principalmente geneticamente modificata, bensì una continua ricerca ed espansione verso nuovi territori coltivabili. La soia Round Up Ready, fiore all'occhiello dell'industria biotecnologica è in questo senso un semplice tentativo di limitare le malattie e assicurare costanti livelli produttivi. La resistenza a malattie e alle tossine del diserbante Round Up sono pertanto gli unici vantaggi di una coltura decisamente invasiva e impattante per i terreni [Benbrook, 2009; Moore, 2014] e che non aumenta la produttività dei raccolti, come al contrario è avvenuto nelle passate rivoluzioni agrarie; vantaggi che inoltre, col passare del tempo, hanno finito con l'esaurirsi in quanto anche gli agenti patogeni, i batteri, i microrganismi, le erbe infestanti hanno sviluppato forme di resistenza alle tossine [Moore, 2014], finendo con l'intaccare ugualmente i raccolti. In questo senso, si è potuta 65 osservare, recentemente, la nascita di 'supererbe' (superweeds), in grado di resistere ai diserbanti Round Up, avendo pesanti conseguenze su raccolti e prezzi. Nel 2013 lo sviluppo di questa resistenza ha afflitto la produzione di circa 60 milioni di acri nei soli Stati Uniti, producendo un dissesto ecologico alimentato da un ulteriore utilizzo di altri pesticidi, nel tentativo di limitare il fenomeno [UCS, 2013]. A partire dalla creazione di questo pesticida, le piante hanno iniziato a sviluppare forme di resistenza al glifosfato, il principio attivo del Round Up, con il risultato che nel South-East, il 90% del cotone e della soia è affetto da infestanti nuove e più resistenti [UCS, 2013]. Attualmente si calcola che circa 24 specie di piante abbiano sviluppato forme di resistenza: in questi termini, se il Round Up non fosse mai stato inventato, i contadini avrebbero evitato l'utilizzo di circa 400 milioni di libbre di pesticidi [UCS, 2013]. La proliferazione delle monocolture, di per sé veicoli di erbe infestanti, unita all'utilizzo di cereali geneticamente modificati ha lasciato come unica scelta l'utilizzo massiccio di altri pesticidi: "L'aumento dell'uso di erbicidi sui nuovi cereali modificati velocizzerà la resistenza delle piante [...] Questo è un cocktail pericoloso che, se combinato con l'attuale sistema agricolo, è la ricetta per un disastro" [UCS, 2016]. Accanto alla proliferazione di nuove superpiante c'è stato uno sviluppo di 'superbruchi' (superbugs), anch'essi resistenti al glifosfato del Round Up di Monsanto. Il colosso industriale ha ammesso che insetti comuni hanno sviluppato forme di resistenza al prodotto [Laskawy, 2010], affermando che lo sviluppo di nuovi agenti biochimici permetterà di mantenere questi fenomeni sotto controllo. Per quanto riguarda la produzione alimentare a livello geografico, il nuovo ordine neoliberista ha prodotto una macrodivisione mondiale tra il commercio al dettaglio nel Nord e le grandi quantità di prodotti alimentari prodotte nel Sud [McMichael, 2009b]. A partire dal 1973 i paesi del Terzo Mondo sono divenuti dipendenti dal commercio di energia e cibo a bassi costi, in modo da ripianare i costi degli apparati industriali, favorendo così l'espansione delle grandi multinazionali e il processo di successiva globalizzazione [Friedman, 2009]. In questo scenario, il ruolo giocato dal Fondo Monetario Internazionale è stato quello di promuovere un sistema internazionale basato sul libero scambio e non più in relazione alla centralità statale [Friedman, 2009]. La promozione di un libero mercato - applaudito dall'Organizzazione Mondiale del Commercio - ha così spostato, a partire dagli anni '80, la maggior parte della produzione 66 alimentare mondiale verso il Sud del Mondo, preservando di fatto i territori e le popolazioni degli stati centrali [McMichael, 2009b]. Il nuovo impianto globale ha radicalmente modificato la produzione alimentare globale: nei paesi in via di sviluppo o del Terzo Mondo - la maggior parte situata geograficamente al di sotto dell'equatore - le coltivazioni locali hanno lasciato il posto a enormi monocolture e allevamenti intensivi di bestiame, da esportare nei grandi mercati mondiali. Nel Nord, l'espansione dei centri abitati, delle industrie e dei servizi ha prodotto un generale abbandono dei terreni, alimentando così la domanda di cibo prodotto altrove, specialmente nel Sud [McMichael, 2009]. La de-localizzazione dei raccolti ha originato logicamente un allungamento della filiera produttiva alimentare, aumentando il ruolo occupato dalle grandi catene di distribuzione e dei colossi produttivi. Sono stati proprio questi fattori a mettere fuori gioco il regime alimentare precedente, basato invece sul mantenimento dell'egemonia statunitense [Friedman, 2009; Le Heron, 1993; McMichael, 2009b]; l'agricoltura globalizzata può essere considerata come il prodotto di una crisi agroalimentare, che accompagnò e fu collegata alla più ampia crisi del capitalismo tra il 1970 e il 1990 [Le Heron, 1993]. Il risultato è stato una riorganizzazione della produzione agroalimentare globale, sulla base di una Seconda Rivoluzione Verde, differente da quella precedente, per almeno quattro aspetti fondamentali: dall'iniziativa pubblica a quella privata, dalla produzione degli alimenti basilari a quella dei cibi più commercializzati (proteine animali, frutta e verdura, cibi trasformati chimicamente), dall'introduzione delle biotecnologie appena descritte e dai mercati locali a quello globale [McMichael, 2009b]. L'accelerazione alla globalizzazione degli anni '90, ha garantito una crescita vertiginosa dei guadagni per multinazionali, fondi d'investimento e istituzioni bancarie, provocando parallelamente una lenta ma inesorabile dipendenza dei territori e delle popolazioni verso questi soggetti, e verso la domanda alimentare mondiale, da essi gestita. Il 'progetto di globalizzazione' rappresenta una visione emergente del mondo e delle sue risorse come globalmente organizzate e gestite in un'economia di libero mercato/libera impresa ricercata dalle élite politiche ed economiche [McMichael, 1996, p. 300]. 67 Un Sud del mondo come 'fattoria mondiale' [Moore, 2009], in cui viene prodotta la maggior parte dei prodotti consumabili nel Nord. La rilocazione del capitale durante il neoliberismo, verso le terre economiche del Sud del mondo è stata quindi stimolata e incentivata, sin dagli anni '80, dall'apertura di un mercato globale, promosso sia dalle istituzioni, sia dalle imprese multinazionali [McMichael 2009]. La liberalizzazione dei mercati incoraggiata dalla Banca Mondiale, dal Gatt prima e dal WTO in seguito e dall'Agreement on Agricultural, se da un lato ha permesso - temporaneamente - la ripresa delle economie e della finanza globale, dall'altro ha provocato, nel lungo periodo, il collasso di diverse realtà del Sud del mondo. Tale accordo stabilisce il comune impegno di tutti i paesi firmatari ad aumentare l'accesso dall'esterno al proprio mercato e a ridurre i sostegni interni e i sussidi all'esportazione; le riduzioni sono stabilite per ogni specifico prodotto prendendo come riferimento il periodo 1986-88 per i sostegni interni; per i sussidi all'esportazione il periodo 1986-1990 [Meregalli 2003]. I sussidi interni sono forme di sostegno erogate dai governi a favore dei propri prodotti agricoli; con l'adozione dell'Aoa, vennero espressi in termini di misura aggregata di sostegno (MAS)3, identificati dall'accordo in una conseguente riduzione del 20% nei paesi sviluppati nel giro di cinque anni, e del 13,3% in dieci anni in quelli restanti. In termini di mercato, la riduzione delle barriere doganali - colpevoli di rincarare i prezzi delle derrate alimentari - ha garantito valori minimi di accesso ai principali prodotti agricoli, fissati in quantità prestabilite e con livelli tariffari più bassi rispetto al passato. Il meccanismo descritto tuttavia, non ha generato benefici per i paesi africani in via di sviluppo - e in altre aree del mondo - in cui la crescita nel periodo tra il 1995 e il 1999 è stata pari a zero [Meregalli, 2003; Wolfson, 2003]; nei paesi sviluppati, al contrario (come Europa e Stati Uniti) hanno saputo far fronte al crollo dei prezzi, derivante dall'eliminazione delle barriere, soltanto modificando i tagli dei sussidi interni tra prodotti primari e non, e reintroducendo forme di sussidio all'agricoltura [Meregalli, 2003]. La disparità degli sviluppi dell'accordo rappresenta uno dei punti fondamentali per il dominio sull'agricoltura dei paesi in via di sviluppo; tuttavia, tale esercizio di 3 Per misura aggregata di sostegno (mas) si intende il livello annuo del sostegno, espresso in termini monetari, fornito per un prodotto agricolo a favore dei produttori agricolo di base o del sostegno non connesso a singoli prodotti, fornito a favore dei prodotti agricoli in generale. Cfr. p.3, Roberto Meregalli, Africa ed Aoa. Ecco perché l’Accordo WTO sull’Agricoltura non ha aiutato e non aiuterà i Paesi Africani, Rete Lilliput. 70 controllo non è rappresentato da imprese nazionali che detengono il monopolio di specifiche derrate alimentari. Il risultato è una progressiva e totale dipendenza dei paesi del sud nei confronti delle multinazionali alimentari, che non solo non si è ridotta, ma ha alimentato un aumento dei prezzi alimentari, dell'instabilità sociale e delle guerre per il cibo [McMichael, 2009]. Storicamente, si è avuto modo di osservare questo andamento sin dalle origini del capitalismo: centri ben definiti ampliavano il proprio raggio d'azione su territori periferici sempre più ampi. A partire dalla minuziosa descrizione di Braudel a proposito del commercio di mais dalle Americhe ai centri europei [1982], l'evoluzione di tale sistema ha portato nel corso dei secoli a inglobare sempre più colture, fino al periodo attuale in cui si è assistito a un'esplosione di coltivazioni rimaste, commercialmente, sempre all'ombra delle braudeliane 'piante della civiltà'. La 'scoperta' in termini medico-scientifici - ed economici - di piante come il miglio, la quinoa, il kamut, ha aperto la strada a un nuovo business privato, generando una rincorsa sfrenata a nuovi terreni e tecnologie produttive; recentemente, ad esempio, in India è stata introdotta una nuova qualità di miglio, geneticamente modificata, in modo da aumentarne la resa in relazione alle malattie che affliggono tali colture [Icrisat, 2006]. Il consumo di kamut a partire dal nuovo millennio è letteralmente esploso nelle aree più sviluppate, tanto da far adottare a De Cecco, azienda specializzata nella produzione di pasta, una linea di prodotti unicamente a base di kamut, un tipo di grano coltivato con metodi biologici e più digeribile [De Frenza, 2011], in relazione alla crescente domanda dei consumatori. Questa nuova pulsione ha interessato la produzione, ovviamente, dei paesi meridionali del pianeta, in relazione ai maggiori guadagni da parte degli investitori, prevalentemente occidentali. Il caso dell'esplosione della quinoa è il più interessante: appartenente alla famiglia delle Chenopodiacae, la stessa di spinaci, barbabietole e cavoli ricci, questa pianta si distingue per i semi che, sottoposti a macinazione, forniscono una farina ricca di amido che la avvicina alle coltivazioni cerealicole; tradizionalmente localizzata nei territori andini di Cile, Bolivia, Ecuador, Colombia e Perù, la quinoa, negli ultimi decenni, è stata soggetto di un boom legato alla produzione e al consumo mondiale [Evans, 2013]. Dagli anni '80 infatti la produzione mondiale di questa pianta è passata da 20 mila tonnellate annue a 100 mila tonnellate, con Bolivia, Ecuador e Perù come principali 71 paesi produttori, per circa il 90% del totale [Evans, 2013]; ricca di proteine, povera di grassi e senza glutine, la quinoa ha sempre rappresentato un alimento importante nella dieta andina, espandendosi all'alba del nuovo millennio in tutto il mondo, tanto da spingere l'Onu a nominare il 2013 'The year of Quinoa' [Reyes, 2013; UN, 2013]. Nell'ultimo decennio, secondo i dati Fao, il volume produttivo di questo cereale è cresciuto circa del 100%, a dimostrazione del boom mondiale nel consumo di quinoa [Reyes, 2013]. Paolo Pedon, manager dell'omonimo gruppo alimentare italiano, importante azienda nel settore mondiale di confezionamento e distribuzione di legumi e cereali secchi, afferma: “Stiamo assistendo ad un boom della richiesta e del consumo di questo prodotto a livello internazionale grazie alle sue straordinarie proprietà nutrizionali. A distanza di pochi anni da quando abbiamo introdotto la quinoa in Italia, oggi esportiamo questo cereale in 11 Paesi trasformandolo da prodotto di nicchia a prodotto mass market” [Newsfood, 2013]. 72 6 Biofuels: feeding the world Il contesto alimentare come si è osservato nel capitolo precedente, è indissolubilmente legato alle fonti energetiche, alle materie prime e alla forza lavoro: quel che Moore e altri studiosi definiscono come Four Cheaps è infatti la dimostrazione di tale legame. L'offerta di cibi economici in altre parole è possibile in virtù dell'accesso alle fonti energetiche, di una folta manodopera e della presenza di materie prime; l'assenza di queste variabili, o soltanto di alcune di esse, produce una lievitazione dei costi produttivi e pertanto una limitazione all'accesso alimentare. Come descrivono (tra i vari autori citati) Braudel, Foster, Moore e McMichael, storicamente l'aumento dei prezzi e le crisi economiche venivano limitate o superate grazie a nuove espansioni che garantivano nuovi accessi a manodopera a basso costo, materie prime e fonti energetiche, in grado di far tornare sui livelli standard (tenuto conto dell'inflazione, delle svalutazioni monetarie, ecc..) i prezzi alimentari. Cibo, denaro e risorse energetiche sono pertanto connesse indissolubilmente [Friedman, 2009]: ciò rende evidente di come le crisi petrolifere abbiano avuto effetti sull'alimentazione mondiale, e non solo. Il petrolio e il suo approvvigionamento a costi contenuti costituisce infatti una delle voci per lo sviluppo interno, a livello alimentare, lavorativo, socio-culturale ed economico. In periodi positivi, come nell'immediato dopoguerra, la disponibilità di petrolio influisce positivamente sullo sviluppo statale; tuttavia esso rappresenta anche un limite allo sviluppo, nel momento in cui aumentano i costi legati alla produzione energetica, come la crisi petrolifera del 1973. Per superare tali problematiche, a partire dalla seconda metà del XX secolo, la quantità di pozzi petroliferi sparsi nel mondo è aumentata vertiginosamente, portando all'attuale picco del petrolio. Ciò significa che la disponibilità di petrolio sta decisamente abbassandosi, fatto che produce un incessante aumento dei prezzi con una serie di conseguenze che investono tutti gli ambiti sociali e produttivi. A partire dalla crisi petrolifera degli anni '70 pertanto l'interesse per i biocombustibili è cresciuto sensibilmente, tanto da farne accrescere i progetti per la produzione di etanolo in Brasile, e negli Stati Uniti per la coltivazione e produzione di oli di granella [Timilsina and Shrestha, 2010]. Negli ultimi dieci anni l'emergenza è stata 'risolta' in seguito a 75 nuove procedure di estrazione, che hanno permesso di contenere l'aumento dei prezzi: i produttori di petrolio hanno infatti sviluppato tecnologie e competenze per frantumare le rocce in cui all'interno risiede la preziosa risorsa [Foster, 2009]. Il risultato è una melma fangosa in cui coabitano detriti e petrolio. Tale pratica, sviluppata soltanto negli ultimi anni, è soprattutto diffusa in Canada, il principale produttore di questa fanghiglia energetica, e negli Stati Uniti, in cui si è assistito alla progettazione di un oleodotto - il Keystone XL Pipeline - che dai territori dell'Alberta, in cui l'attività di frantumazione delle rocce è molto diffusa, arriva fino al Golfo del Messico per essere successivamente imbarcato e diffuso sui mercati mondiali. Rispetto alla produzione di petrolio grezzo, questa sabbia energetica è più difficile da trasportare, in quanto corrode maggiormente le pareti degli oleodotti. La frantumazione delle rocce non rappresenta l'unico metodo non convenzionale di reperimento del petrolio: affianco ad esso infatti, l'ultimo decennio ha visto l'aumento della perforazione delle terre sottomarine, specialmente nel Golfo del Messico, lungo le coste atlantiche del Canada, quelle offshore brasiliane, nel Golfo di Guinea e nelle acque della Cina meridionale [Foster, 2009]. Il legame che unisce il regime alimentare attuale e il picco del petrolio si basa su un'evidente contraddizione, propria dell'economia globale, ossia l'intersezione tra il picco del petrolio, assieme al costo di altri combustibili, con la lunga catena di distribuzione alimentare [Weis, 2007], che di fatto genera un aumento dei costi finali. Lo sviluppo di nuove modalità per l'estrazione di petrolio non rappresenta comunque le uniche forme di produzione energetica: dall'energia solare a quella eolica, passando per gas e metano, la produzione di energia ha assunto caratteristiche tra loro molto diverse. Sulla scia dei movimenti ecologisti e di salvaguardia del pianeta, negli ultimi venti anni ha preso piede la produzione di biocombustibili (biofuels) a livello mondiale, sfruttata da lobby e governi col fine di aumentare i ricavi [Latouche, 2007]. Rispetto ai combustibili fossili i biocombustibili sono potenzialmente energie rinnovabili, a basso impatto ambientale e con costi di gestione decisamente minori. Lo sviluppo tecnologico per la produzione di energie rinnovabili come i biofuels ha provocato un aumento dei fondi statali e delle terre destinate a tali coltivazioni per produrre energie in tutti i territori del pianeta, dall'America settentrionale all'Europa, dall'India all'Indonesia, dalla Malaysia al continente africano. 76 La nuova rincorsa alle energie rinnovabili cambia pertanto la relazione di valore tra cibo, energia e capitale [McMichael, 2009] in quanto il contesto alimentare non è più limitato al fabbisogno calorico di ciascuna persona ma ingloba anche la produzione di energia, storicamente un veicolo per il contenimento dei costi alimentari e ora suo potenziale avversario [McMichael, 2009]. In questo senso la produzione di olio di palma o di mais non fa distinzione tra il fabbisogno alimentare e quello energetico [McMichael, 2009b], comportando così una riduzione della quantità alimentare a favore di una crescita della parte energetica. Questo spostamento produce, e ha prodotto, un aumento dei prezzi alimentari, specialmente nel biennio 2007-2008, in coincidenza con la crisi economica e l'aumento del prezzo del petrolio [McMichael, 2009]. In questo contesto, i prezzi relativi alle coltivazioni destinate ai biocombustibili, nel periodo in considerazione, sono schizzati alle stelle; la Banca Mondiale afferma che la politica statunitense ha provocato un aumento del 65% dei prezzi dei prodotti agricoli [Berthelot, 2008]. Ovviamente la politica di investimenti in biofuels non è limitata agli Stati Uniti, ma qui più che altrove la 'febbre' per i biocombustibili ha preso piede. "I prezzi per quelle coltivazioni utilizzate come biofuels sono cresciute molto più rapidamente di altri prezzi alimentari negli ultimi due anni, con il prezzo della granella cresciuto del 144%, dell'olio di semi del 157%, mentre solo dell'11% per i prezzi di altri cibi alimentari [Berthelot, 2008 p. 27]. Il mais, uno dei cerali più diffusi in tutto il mondo è stato interessato nel biennio 2006-2008 da un aumento del prezzo di 2.8 volte [Berthelot, 2008], in relazione al suo variegato utilizzo, da alimento per le persone, agli animali, al biocombustibile. In questo senso, la ricerca scientifica ha ampliato considerevolmente gli utilizzi possibili del mais. Nel contesto alimentare, oltre a servire come principale e, a volte, unico alimento per l'allevamento di bovini, suini, pollame [McMichael, 2009; Kenner, 2009], e in alcuni casi di alcune specie di pesci [Kenner, 2009], il mais si presta a diversi usi: farina, vari tipi di amido, sciroppi e zuccheri, maltodestrine, destrosio, alcolici e la plastica biodegradabile. Assieme alla soia e l'olio di palma infatti il mais è l'elemento più presente negli alimenti quotidiani e di provenienza industriale. Il tentativo di omologazione rappresenta un'evidente volontà di ridurre i costi di gestione e, contemporaneamente, aumentare i profitti. 77 come la frantumazione delle rocce) ha avuto un certo peso nel calo della produzione dell'olio di palma per fini energetici, rimanendo invece stabile per quanto riguarda la cosmetica e i prodotti alimentari [Obidzinski et all, 2010]. Al di là dei fisiologici periodi di contrazione e sviluppo, non vi è dubbio che i biocombustibili abbiano acquisito rilevanza politica ed economica: tale coltivazione infatti rappresenta una delle voci primarie per l'incremento del prodotto interno di paesi come Malaysia e Indonesia. Il biocarburante prodotto può essere utilizzato sia per mezzi di trasporto sia per usi stazionari come il riscaldamento [WWF, 2007] . Una produzione così vasta, importante per il mercato interno e fondamentale per le esportazioni mondiali, ha bisogno di territori da coltivare sempre più vasti: la risoluzione di questo problema gestionale ovviamente risiede nella deforestazione e nella liberazione dei terreni da coltivare. Molti di questi territori sono storicamente coincisi con gli habitat animali, hanno ospitato colture spontanee o sono stati coltivati per il fabbisogno alimentare locale. La nascita di un'industria così corposa e destinata a crescere nell'immediato futuro, con l'approvazione dei governi e dell'opinione pubblica, rappresenta quindi un decisivo cambiamenti in termini ambientali, zoologici e sociali. La deforestazione rappresenta in questo senso uno strumento molto importante per la produzione di biocombustibili, specialmente in Indonesia dove le foreste coprono una parte cospicua del territorio [Obidzinski et all, 2010; WWF, 2007]. Nel territorio indonesiano sin dagli anni '80 la deforestazione è stata una pratica incessante: tra il 1982 e il 1989 circa 6 milioni di ettari di foresta hanno lasciato il posto alla coltivazione della palma [Obidzinski, 2010]. Il 'Mega Oil Palm Project' del 2006 rappresenta la conversione di 1.8 milioni di ettari di foresta di tre parchi nazionali situati sulle isole di Sumatra e Kalimantan per la coltivazione di palme da olio [Wakker, 2006]. Molto spesso la liberazione dei territori avviene attraverso gli incendi che assicurano un sicuro risultato a costi bassi; tali pratiche tuttavia, hanno effetti devastanti sul clima e perdita della biodiversità [WWF, 2007]: in Indonesia infatti la continua deforestazione ha portato alla decimazione degli orangutan [Brizzo, 2014] e della tigre di Sumatra [Obidzinski, 2010]. Gli effetti della deforestazione si osservano anche sull'accessibilità e fornitura di acqua ai villaggi rurali, direttamente interessati a tali cambiamenti agroindustriali [Wakker, 2006]. 80 Le situazioni indonesiana e malaysiana permettono di comprendere a fondo il legame che unisce cibo, energia, politica internazionale e colossi privati come le multinazionali: la congiunzione tra cibo e particolari fonti energetiche rappresenta infatti il carattere essenziale del regime alimentare attuale, in quanto esplicita il fulcro imprenditoriale di accumulazione di capitale nel breve e lungo periodo. La crescita di nuovi settori mercati destinati alla produzione di energie rinnovabili ha dato l'avvio a una corsa globale alla coltivazione o importazione delle colture designate: non solo l'olio di palma, ma anche la soia e la canna da zucchero, coltivata intensivamente soprattutto in Brasile per la produzione di etanolo [WWF, 2007] sono aumentate esponenzialmente in tutto il mondo. In Europa, l'opinione pubblica e le politiche agroindustriali hanno visto di buon occhio l'espansione dei biocombustibili; l'Unione Europea ha infatti sollecitato e incentivato a più riprese l'utilizzo di biocombustibili. Attualmente le percentuali ricoperte da queste energie rinnovabili non sono in grado di scalfire l'egemonia petrolifera, ma sono in costante aumento [WWF, 2007]. Tra i biocombustibili, l'olio di colza rappresenta la principale fonte energetica, con quasi il 90% del consumo europeo di biodiesel, essendo questa pianta più adatta ai climi europei, mentre i paesi più interessati all'adozione di biocarburanti risultano l'Austria, la Svizzera, la Germania e i Paesi Bassi [WWF, 2007]. L'Unione Europea ha inoltre istituito una piattaforma gestionale in materia di energie rinnovabili, la European Biofuels Technology Platform con lo scopo di pianificare strategie di produzione energetica future. Lo sviluppo di politiche agricole interessate ai biocombustibili di molti paesi membri dell'Unione ha portato a un'intensificazione dello sviluppo dei biocombustibili di seconda e terza generazione, abbandonando alcune procedure, come l'estrazione dell'etanolo dalla canna da zucchero, ritenute - paradossalmente - troppo inquinanti [EBTP, 2014]. Le prime forme di biocombustibili necessitavano di una quantità spropositata di combustibili fossili per la loro realizzazione, rendendoli di fatto decisamente inquinanti [McMichael, 2009]. Attualmente infatti, nonostante le politiche nazionali e gli sviluppi scientifici, gli attuali biocombustibili risultano inquinanti più degli idrocarburi tradizionali: i motivi non riguardano la combustione finale, bensì il processo e i metodi di produzione, come la deforestazione, il trasporto degli oli grezzi, la lavorazione e trasformazione in biocombustibili, la distribuzione finale. Tutte queste tappe inerenti alla produzione di 81 biocombustibili influiscono sulla produzione di gas serra, circa 300 volte più potente del diossido di carbonio, mediamente prodotto [Cockerill and Martin, 2008]. Come osserva McMichael [2009], il risultato è pertanto controproducente in termini ambientali e alimentari: la destinazione di una parte sempre maggiore di terre per i biocombustibili diminuisce infatti i terreni destinati all'alimentazione, aumentando i prezzi dei prodotti agricoli e provocando problemi di accessibilità alimentare per una parte sempre più consistente della popolazione mondiale, argomento discusso nel capitolo successivo. La diffusione dei biocombustibili ingloba tutti i tipi di trasporto e gli usi stazionari. A livello di locomozione essi hanno avuto una rapida diffusione anche nel trasporto aereo: a partire dal 2000, la decisione di adottare i biocombustibili per gli aerei ha portato alla deforestazione o liberazione di 37 milioni di ettari in Asia, Africa e America Latina. Dal 2011 è stato stabilito che le compagnie aeree devono dotarsi di circa il 50% di combustibili rinnovabili, in ragione di un abbassamento delle emissioni di CO2 e di un più facile reperimento [Ross, 2013]. La crescita di India e Cina, oltre che sul piano politico ed economico, si è osservato anche in relazione ai voli effettuati da e per i due paesi asiatici; i due paesi pertanto hanno intensificato notevolmente la produzione e l'importazione di biocombustibili, come d'altronde tutto il resto del mondo, alla ricerca di una diminuzione dei costi, nascosta dall'idea diffusa di rispetto per l'ambiente [Ross, 2013]. La Renewable Fuel Standard, organo federale statunitense che si occupa della gestione dei biocombustibili, ha stabilito che nel 2022 la quota mondiale di biocombustibili dovrà essere di 36 miliardi di galloni: 15 miliardi dall'etanolo prodotto dalle granelle; 16 miliardi da cellulose come alghe; 1 miliardo dagli oli delle piante e dai biodiesel animali; 4 miliardi dai denominati 'biofuels avanzati', vale a dire non prodotti con l'amido delle granelle [Ross, 2013]. L'Unione Europea nel 2011 ha invece deciso unanimemente il graduale ma costante passaggio per l'aviazione civile ai biocombustibili, per una quantità nel 2020 di circa 60 miliardi di galloni [Ross, 2013]. L'aumento del traffico aereo, soprattutto quello indo-cinese, e la contemporanea ricerca ed adozione di biocombustibili ha prodotto un aumento spropositato in termini di fornitura: l'abbattimento della produzione di gas serra rappresenta una delle sfide principali dei biofuels e per il trasporto aereo, nell'immediato e prossimo futuro. Ciò significa che l'industria aerea mondiale necessiterà di circa 13,6 milioni di biocombustibili al giorno [Ross, 2013]. 82 principalmente per le zone periferiche del mondo. Il cibo, chiaramente, rappresenta una delle risorse fondamentali per la sopravvivenza delle specie, e in questo senso, la privatizzazione e limitazione, produce, a livello sociale, instabilità, crisi e guerre. La progressiva limitazione e monopolizzazione di terreni e risorse produce un'altrettanta progressiva dipendenza dalle imprese private, nazionali, straniere, corporative, in maniera sempre più netta a partire dal secondo Novecento [Weis, 2007]; tale dipendenza si manifesta in relazione all'andamento dei mercati finanziari e delle multinazionali e dei relativi investimenti. In termini concreti, ciò significa che l'accessibilità alle fonti alimentari è subordinata a scelte extra-territoriali e non più alle risorse locali da cui attingere direttamente: nel 2007-2008, l'aumento dei prezzi portò a rivolte in oltre 25 nazioni, specialmente nel Sud, in Africa, nel Sudest asiatico, nelle Americhe e nei Caraibi [Bush, 2010; McMichael, 2009]. La dipendenza descritta si manifesta ogniqualvolta grandi gruppi d'investimento s'impossessano di nuovi territori, vale a dire rimuovendo i contadini, per la produzione di monocolture rivendibili sul mercato globale, rispetto ai prodotti tradizionali, commerciabili localmente; l'incorporazione subordina la produzione interna all'esportazione generando in primo luogo deficit statali, privatizzazioni e in seguito rivolte urbane e nazionali [Via Campesina, 2008]. Le liberalizzazioni e i trattati commerciali degli anni 80' hanno generato effetti negativi sui paesi del Sud, i primi interessati nelle variazioni finanziarie dei prezzi alimentari: "paesi come il Bangladesh non possono comprare il riso di cui necessitano perché i prezzi sono troppo elevati. Per anni la Banca Mondiale e il FMI hanno detto ai paesi che un mercato liberalizzato avrebbe fornito il sistema più efficiente per la produzione e la distribuzione del cibo e oggi i paesi più poveri del mondo sono forzati nell'intensa guerra dell'offerta tra speculatori, operatori di borsa e commercianti. [...] In accordo con alcune stime, i fondi d'investimento ora controllano il 50-60% del commercio del grano, il più grande mercato mondiale di genere alimentare" [GRAIN, 2008; McMichael 2009]. In molte aree del mondo, come in Messico, Bangladesh, Egitto e Mauritania, le rivolte popolari per il cibo si sono sviluppate proprio a partire dall'aumento dei prezzi alimentari globali, riducendo drasticamente l'accesso alimentare. L'aumento - quasi a livello monopolistico - del controllo esercitato dai fondi d'investimento, dalle corporazioni, con la connivenza di governi autoritari - che beneficiano dello status quo - 85 ha portato infatti al corrispondente crollo delle produzioni agroalimentari locali, con la degenerazione in disordini, rivolte e conflitti per l'accesso di cibo [Bush, 2010]. Tali aspetti riguardano un persistente problema che, con la diffusione su scala globale del neoliberismo, coincidente anche all'apertura dei mercati ex-comunisti [Arrighi, 1999], ha interessato sempre più aree e popolazioni; le rivolte per il cibo infatti non appartengono solo all'ultimo decennio storico, ma rappresentano una forma d'inefficienza costante del sistema espansivo capitalista/neoliberista [Bush, 2010; McMichael, 2009]. Durante l'evoluzione storica si è sempre assistito a disordini in relazione all'accessibilità alimentare: dalle rivolte delle isole mediterranee, caraibiche e latinoamericane in relazione alla produzione di zucchero [Moore, 2009], a quelle del cotone nelle colonie americane; dalle piantagioni di caffè indiane e dell'America meridionale di proprietà britannica, a quelle di cacao delle coste africane. Nel corso della decolonizzazione, la terra ricopriva una parte centrale del sostentamento di molte popolazioni asiatiche, africane, caraibiche e latinoamericane, generando lotte diffuse in relazione al crescere dei lucrosi investimenti e della privatizzazione delle corporazioni straniere [Weis, 2007]; contemporaneamente alle rivoluzioni agricole avvenute in Cina, Russia e Messico, per una redistribuzione più equa dei terreni, le grandi corporazioni provvidero ad attuare nuovi processi colonizzatori, in relazione alle fonti energetiche e alimentari [Shiva, 2010; Weis, 2007], soggiogando intere popolazioni alla logica del profitto, e alimentando diffusamente focolai di rivolta, dovunque domati con l'uso della forza. L'uso coercitivo del controllo imposto dalle grandi imprese e dei forti interessi degli Stati Uniti - ma non solo - portò alla destituzione di diversi governi, con l'instaurazione di regimi, molto spesso dittatoriali - come in Cile, Bolivia, Indonesia, solo per citarne alcuni - più conniventi, o decisamente interessati, alle politiche commerciali ed espansioniste dei paesi più sviluppati, in primis gli Stati Uniti [Weis, 2007]. L'amplificazione dei mercati, delle multinazionali e dei fondi d'investimento, specialmente del secondo Novecento e del XXI secolo, hanno tuttavia esteso a livello planetario i disordini sociali derivanti dall'inaccessibilità al cibo [Bush, 2010], accelerando vertiginosamente il processo espansionistico precedente. L'aumento dei prezzi, delle esportazioni e di una diffusa inaccessibilità alimentare, portò nel biennio compreso tra il 2007-2009 una generale rivolta di diversi paesi del 86 Sud: in un periodo di lievitazione dei prezzi alimentari, l'aumento delle tasse destinate ai piccoli agricoltori, portò nel febbraio del 2008, in Burkina Faso, a una sollevazione popolare, in diverse zone del paese, concluse con l'intervento delle forze di polizia e con la richiesta del governo agli Stati Uniti di sussidi di emergenza quantificati in 28 milioni di dollari per la fornitura di semenze, fertilizzanti, pesticidi e strumentazione agricola [Bush, 2010]. In Mauritania e Senegal, migliaia di persone manifestarono contro il caro prezzi degli alimenti; a Dakar, i prodotti europei e il riso tailandese erano più economici dei prodotti locali, causando una crescita diffusa del costo della vita. Contro questa situazione di crisi dei prezzi, il Presidente senegalese Wade esortò l'economia interna a una riduzione della dipendenza dai prodotti esteri, chiedendo inoltre la rimozione della Fao, colpevole di aver fallito nella gestione della crisi e avendo generato un abisso tra i compensi dei funzionari e gli oggettivi meriti operativi [Bush, 2010]. Disordini e rivolte si verificarono anche in Marocco, Tunisia, Yemen, Arabia Saudita: in Egitto la situazione fu tra le più critiche, con circa 80 milioni al di sotto della soglia di povertà [Bush, 2010]. L'Egitto è un paese insicuro in termini alimentari, specialmente in seguito alle liberalizzazioni agricole, che l'hanno fatto divenire il secondo paese al mondo con l'importazione più alta di grano [Bush, 2010]. Con l'aumento del prezzo del grano - triplicato durante il 2007 - gli egiziani fecero esperienza di una privazione delle sovvenzioni statali, vedendo così peggiorare le condizioni di vita già complicate. I focolai di rivolta si accesero in tutto l'Egitto, ma anche in altre zone del pianeta, in relazione al legame tra corporazioni, trattati internazionali e popolazioni rurali: in Messico, ad esempio, la stipulazione del NAFTA (North American Free Trade Agreement) negli anni 90', portò alla triplicazione dei prezzi del mais, causando le rivolte della 'tortilla' in tutto il paese [McMichael 2009]. Le rivolte alimentari che interessarono - e interessano attualmente - paesi come Marocco, Uzbekistan, Senegal Guinea, Indonesia, Camerun, Burkina Faso, Egitto, Messico, Argentina, ecc... rappresentano drammaticamente questo stretto legame, sono ampiamente basate sul contesto urbano e costituiscono reminiscenze delle IMF Riots4 dei lunghi anni 80' [McMichael, 2009], in cui la de-regolamentazione finanziaria fu una delle cause dei subbugli. Nel 2006 un nuovo raddoppiamento dei prezzi del mais portò a nuove 'tortillas 4 Rivolte urbane, organizzate in seguito alla de-regolamentazione, liberalizzazione, austerità e privatizzazione promossa dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) per la ripresa economica degli stati più avanzati. 87 con i palestinesi è in una certa misura una guerra per l'acqua. Il Giordano, conteso da Israele, Giordania, Siria, Libano e Cisgiordania, è una fonte indispensabile per l'agricoltura estensiva di Israele che, nonostante sia attraversata per il 3% del bacino del fiume, ne sfrutta le risorse idriche per il 60% [Shiva, 2010]. I conflitti iniziarono sin dal 1948, con la costituzione israeliana del National Water Carrier Project, la più grande opera idraulica della storia d'Israele, che accese tumulti con la Siria, in relazione ai progetti israeliani di deviazione del corso fluviale. "La guerra del 1967, che portò all'occupazione israeliana della Cisgiordania e della alture del Golan, fu in effetti un'occupazione delle risorse di acqua dolce delle alture del Golan, del lago di Tiberiade, del Giordano e della Cisgiordania. [...] Nel periodo tra il 1967 e il 1982 le acque della Cisgiordania erano controllate dai militari. Oggi sono gestite dalla compagnia idrica israeliana, la Mekorot, che le integra nella rete idrica israeliana" [Shiva, 2010, p. 86]. L'uso dell'acqua per i palestinesi inoltre è controllato e ristretto dal governo israeliano, con molte disparità di trattamento in relazione all'accesso di cibo. La situazione descritta non si limita ai contesti citati, ma riguarda diverse aree del pianeta, come quelle interessate dal corso del Nilo, dalla gestione del Colorado, del Rio Bravo tra Messico e Stati Uniti, dall'Indo e dal Gange. Le rivolte e le guerre popolari, molto spesso urbane, che di tanto in tanto scuotono l'opinione pubblica dei paesi più sviluppati, come si è visto, hanno sovente origini alimentari, in termini di aumento dei prezzi, accessibilità, malnutrizione, privatizzazioni. La crescita del prezzo del mais per paesi come il Messico, o del riso in Vietnam, Thailandia - ma non in Giappone, in virtù dell'Uruguay Round e del GATT del 1986 [Friedman, 2009; McMichael, 2009] -, o quello dei prezzi dei prodotti agricoli interni del Senegal contrapposto a costi molto minori di prodotti stranieri, producono inevitabilmente subbugli popolari o conflitti armati. Analogamente, anche la disponibilità di acqua in zone prevalentemente aride come il Medio Oriente, rappresenta una fonte indispensabile per la sopravvivenza e il suo esaurimento, dettato da motivi economici, genera guerre, definite superficialmente e semplicisticamente come guerre di religione o di etnia dai mezzi di comunicazione. 90 Periferie squarciate dall'accessibilità alimentare e molto spesso teatri di rivolte, guerriglie urbane e disordini; catene di fast food presenti in maniera capillare e generalizzata; investimenti privati unicamente finalizzati alla massimizzazione del profitto; continua ricerca di nuove fasce di mercato redditizie, come nel caso dei biofuels; filiere produttive sempre più lunghe e dominate dai supermercati. E' questo lo scenario attuale della produzione alimentare mondiale, in cui la catena produttiva ha come punto d'arrivo il supermercato, principale fonte di approvvigionamento nei grandi centri urbani mondiali. 91 3 Il consumo di cibo 1 Il mondo dei supermercati Il regime alimentare attuale, basato sul predominio delle multinazionali e del capitale finanziario, si caratterizza anche per il fondamentale ruolo giocato dai supermercati all'interno della catena di distribuzione alimentare mondiale. Se dal lato produttivo si è potuta osservare una concentrazione di buona parte del cibo mondiale nel Sud del Mondo, a livello dei consumatori - oltre alle difficoltà di accesso al cibo che sfociano nel consumo di cibo spazzatura - la quasi totalità del cibo consumato proviene dai supermercati; la lunga filiera alimentare che parte da campi de-localizzati e culmina infatti negli scaffali sempre colmi dei centri commerciali. Nei normali supermercati di tutto il mondo si possono trovare nell'era attuale migliaia di prodotti, dando così l'impressione di una scelta d'acquisto potenzialmente infinita. Questa tendenza si è potuta osservare sin dal secondo regime alimentare, relativamente alle zone più ricche del pianeta; la crescita del potere esercitato da questi soggetti è cresciuta nell'arco dell'ultimo trentennio, giungendo negli ultimi venti anni anche nei paesi in via di sviluppo [Reardon and Gulati, 2008], come nei territori africani [Weatherspoon and Reardon, 2003], dell'America latina e dell'Asia [Reardon et all. 2003], e nel territorio australiano [Smith, Lawrence and Richards, 2010]. Una parte fondamentale del Terzo regime alimentare che ha aumentato il processo di incorporazione di nuove terre è proprio il consolidamento della catena produttiva attraverso una 'rivoluzione dei supermercati' [Reardon et all. 2003; McMichael, 2009b], in grado di offrire a clienti privilegiati, frutta e verdura fresca e pesce e carne, tutti i giorni dell'anno. Il regime 'verde e pulito', basato su elementi di freschezza e naturalezza [Burch and Lawrence, 2009], si è così stabilizzato a livello globale con la spinta dei supermercati assieme al business privato, alla finanza, ai fondi d'investimento [Burch and Lawrence, 2009]. 92 mantenere bassi i prezzi dei prodotti agricoli che acquistano. Il potere esercitato dai supermercati, con la liberalizzazione dei mercati, si è pertanto ampliato, aggiungendo al controllo della distribuzione e all'ampliamento dei punti vendita nei centri, la pressione esercitata sui centri produttivi del Sud: in questo senso la riduzione di soggetti lungo la catena, inclusi gli agricoltori stessi, costituisce un punto fondamentale per il potere dei supermercati [McMichael, 2009; Burch and Lawrence, 2009]. La continua ricerca da parte dei consumatori di prodotti freschi, salutari, a prezzi contenuti e di varia natura, trova infatti nella maestosità dei centri commerciali il suo naturale soddisfacimento. Carrefour, ad esempio, grazie alla continua espansione dei propri punti vendita a partire dagli anni 70', è divenuto uno dei principali supermercati a livello mondiale, operando attivamente in 34 paesi del mondo, con circa 15 mila punti vendita e 15 mila dipendenti, e con un fatturato di circa 86 miliardi di Euro [Staertzel, 2011]. La possibilità di offrire generi alimentari a prezzi minori rispetto alla piccola distribuzione locale, nonostante l'origine di essi si perda 'in nessun posto' - food from nowhere [Bove and Dufour, 2001] - ha garantito nei paesi sviluppati di attirare un'utenza via via più vasta, analogamente all'accumulazione di capitale [Reardon et all. 2003]. L'aumento dei consumi nei supermercati, a partire dagli anni '80 nei paesi industrializzati, oltre a un miglioramento del tenore di vita è stato determinato anche dall'ingresso nel mondo del lavoro delle donne, fatto che ha procurato un cambiamento degli stili di vita delle famiglie occidentali, a cominciare dai consumi, specialmente nel contesto delle diete alimentari [Reardon, Timmer and Berdegue, 2004]. La crescita produttiva e di consumo di alimenti precotti ha interessato nel tempo un numero crescente di consumatori, in seguito appunto alle modifiche del tessuto sociale avvenuto nell'ultimo ventennio del XX secolo: oltre ai fast food infatti, il consumo alimentare si è diretto verso cibi veloci da cucinare, a lunga conservazione, pronto all'uso, assieme a un costante consumo di prodotti tradizionali. Anche le fasce dei consumatori hanno subito delle modifiche. Rispetto al passato, adolescenti e single, ad esempio, sono divenuti un'importante classe di consumatori; al pari di essi, anche i ritmi e i consumi familiari si sono amplificati e trasformati, mantenendo però la ricerca di qualità, freschezza, bontà, 'naturalezza' del prodotto. Tali caratteristiche sono, secondo Le Heron [1993], Friedman 95 [2009] e Burch [2009] insite nell'attuale regime alimentare, peculiarità ineliminabili dal contesto di finanza, mercato globale e grande distribuzione. Se ciò è vero per i paesi sviluppati come dell'America settentrionale e in Europa, a partire dagli anni '90 e in maniera più consistente nel nuovo millennio, l'espansione dei supermercati e del capitale finanziario ha raggiunto anche i paesi del Terzo Mondo [Weatherspoon and Reardon, 2003] e quelli in via di sviluppo come l'Australia [Smith, Lawrence and Richards, 2010]. L'avvicinarsi alla saturazione dei mercati settentrionali negli anni '90, ha espanso gli orizzonti capitalisti verso territori fino a quel punto considerati come semplici pedine dello scacchiere produttivo mondiale, come l'America Latina o la Cina, o il Sudest Asiatico. Ciò non significa affatto che l'afflusso economico dei supermercati sia in diminuzione, anzi; la concentrazione di supermercati è infatti aumentata anche negli Stati Uniti e nell'Unione Europa, giungendo agli attuali livelli quasi monopolistici. In Austria, la concentrazione dei principali cinque supermercati (CR5) nel 2006 era circa del 74,2%, in Belgio del 77%, in Danimarca del 80,7%, in Finlandia del 90%, in Francia e Germania del 70%, in Irlanda del 81%, in Spagna del 65,2% [Vander Stichele and Young, 2009]. In questo scenario, soltanto in Italia (35%), Grecia (46,4%), Lettonia (32,6%), Polonia (21%), Romania (19,2%), Slovacchia (36,4%) i primi cinque supermercati non superano il 50% dei consumo interni. Tali cifre espongono inconfutabilmente la massiccia concentrazione dei supermercati all'interno dei territori nazionali. L'indice Herfindhal-Hirschman permette di comprendere la diffusione macroscopica dei supermercati in relazione al territorio; quest'indice di concentrazione si calcola sommando tutti i supermercati presenti sul territorio per ciascuna marca [Domina, 2009] e ha come valore massimo 10000 che indica situazioni di monopolio e valore di concentrazione medio-bassa fino a 1000 e medio-alta da 1800. Nel Regno Unito l'HHI dei primi quattro supermercati (CR4) da 846 nel 2002 è passato a 1309 nel 2007, in Estonia nel 2005 era di circa 1400 punti, mentre in Lituania nel 2005 superava i 1900 punti [Vander Stichele and Young, 2009]. Queste cifre contribuiscono all'analisi dell'incessante accumulazione di capitale dei supermercati che a partire dall'ultimo decennio circa del secolo scorso ha inoltre ampliato i propri interessi nei territori del Sud del Mondo. 96 2 I supermercati nell'America Latina La saturazione dei principali mercati europei ha portato negli anni '90 alla 'rivoluzione dei supermercati' nei paesi in via di sviluppo come gli stati dell'America meridionale; in altre parole, la stabilizzazione dei profitti nei mercati europeo, giapponese e statunitense ha portato a rivedere le strategie, indicando nei paesi in via di sviluppo la nuova espansione economica. Basti pensare che, negli anni '90, l'apertura verso il mercato argentino permise a Carrefour di guadagnare il triplo rispetto ai profitti in terra francese [Reardon, Timmer and Berdegue, 2004]. Tale espansione fu possibile grazie alle liberalizzazioni del neoliberismo e dei conseguenti Investimenti Diretti all'Estero (FDI), a partire dal 1994 in Messico, Brasile e Argentina. La centralizzazione delle catene alimentari a favore dei supermercati permette a questi ultimi di ridurre sensibilmente i costi, spostandoli sulle industrie agricole e sulle piccole-medie imprese; l'abbattimento dei costi permette, logicamente, di disporre di maggiori profitti, riutilizzabili come investimenti per nuovi punti vendita [Reardon, Timmer and Berdegue, 2004]. L'esplosione dei supermercati nell'America Latina ha guidato lo sviluppo e la crescita dei vari componenti dei supermercati nel commercio alimentare [Reardon, Timmer and Berdegue, 2005]. Negli anni '80 i supermercati erano pochi, nazionali e mediamente per le classi agiate delle grandi città, ma nel decennio successivo l'apporto alle vendite nazionali del settore alimentare crebbe fino al 20%, arrivando fino al 50-60% negli anni 2000, vicino alle percentuali di Usa e Francia, del 70-80% [Reardon, Timmer and Berdegue, 2004]. In Brasile si trova la più alta percentuale di vendita al dettaglio occupata dai supermercati di tutta l'America Latina, seguito da Argentina, Cile, Costa Rica, Colombia e Messico. Questi paesi costituiscono il traino dello sviluppo economico dell'America Latina e rappresentano l'85% dell'economia totale sudamericana, nonché il 75% della popolazione. A livello di consumo, in America Latina la vendita di prodotti alimentari comprende quattro gruppi [Reardon and Berdegué, 2002]. Il primo è costituito dalla presenza di numerosi e piccoli negozi indipendenti, o dai chioschi lungo le strade, in cui è possibile trovare alimenti specifici come alcuni tipi di pesce o carne, o la maggior dei parte dei prodotti consumati abitualmente. Nel secondo gruppo rientrano i 'mercati tradizionali' al 97
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