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Christian Uva. Sergio Leone, il cinema come favola politica, Sintesi del corso di Storia E Critica Del Cinema

riassunto completo del libro "Sergio Leone. il cinema come favola politica"

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 02/12/2019

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Scarica Christian Uva. Sergio Leone, il cinema come favola politica e più Sintesi del corso in PDF di Storia E Critica Del Cinema solo su Docsity! Christian Uva SERGIO LONE. IL CINEMA COME FAVOLA POLITICA I. Il “secolo breve” di Sergio Leone Sergio Leone nasce a Roma il 3 gennaio 1929. I suoi genitori sono due nomi noti nell’ambito del cinema muto italiano. La madre, Edvige Valcarenghi, era un’attrice comica, il padre, Vincenzo Leone, è stato una personalità attiva negli anni in cui il cinema italiano viveva il suo primo boom. Si tratta, infatti, di anni in cui pionieri come Roberto Roberti (pseudonimo del padre di Leone, il quale era attore e direttore artistico), piantano le fondamenta del cinema italiano. A giocare un ruolo di primo piano nel panorama della produzione leoniana sono i film diretti da Roberti. In particolare, 51 anni prima che il figlio rivoluzioni il genere western, Roberti realizza un’opera muta, “La vampira indiana” (1913), la cui particolarità è di costituire il primo western realizzato in Italia. Successivamente Roberti realizza un’opera che avrà anch’essa un punto di contatto con il cinema leoniano, (in particolare con il suo debutto da regista nel genere mitologico) si tratta di “Maciste poliziotto” (1918). Il padre di Leone, sebbene iscritto fin dall’inizio al Partito Nazionale Fascista, decide di non rinnovare la tessera a causa di un processo di disillusione vissuto dall’uomo nei confronti della “causa” fascista. Tuttavia, Sergio respira a pieni polmoni la pesante aria che il regime porta intorno a sé e il crescente antifascismo del padre è il medesimo che accompagnerà Sergio per tutta la vita. Il “fantasma” di Mussolini finisce per proiettarsi, in momenti e modalità diversi, nella vita e nell’opera del padre così come in quella del figlio. Ad esempio, Vincenzo si trova a dover rispondere ad un’offerta di collaborazione dello stesso duce. Si tratta della richiesta di portare sullo schermo “L’amante del Cardinale. Claudia Particella”, che racconta una vicenda scandalosa dalle forti valenze anticlericali. Il padre, giudicato pessimo il romanzo, rifiuta. Il primo vero avvicinamento al cinema da parte di Sergio avviene invece nel 1914, quando entra in contatto con i set di Cinecittà ed ha l’occasione di vivere sulla sua pelle il fervore di un apparato produttivo prossimo, tuttavia, ad essere messo in crisi dai pessimi esiti della guerra. Nel 1943, nell’Italia della Resistenza, Leone Jr. sembra voler intraprendere la lotta partigiana che vedrà coinvolti alcuni dei suoi colleghi, tra cui Visconti. Gli sforzi della madre per dissuaderlo e probabilmente il “richiamo” del cinema avranno la meglio, e così nel 1943 Sergio ricopre per la prima volta il ruolo di assistente alla regia accanto al padre nel suo ultimo film “I fuochi di San Martino”. Sergio prosegue, dunque, la sua strada verso il mondo del cinema, e il suo radicamento in tale ambiente è ormai totalizzante: Camerini è stato il suo padrino, Bonnard è il migliore amico di suo padre, Gallone è un assiduo frequentatore della sua famiglia. Leone, solo due anni dopo il suo debutto come assistente di Gallone nel film-opera “Rigoletto” (1946), si ritrova a contatto con la modalità di fare film concepita da Vittorio de Sica in “Ladri di biciclette” (1948), sul cui set ricopre il ruolo di assistente volontario. L’esperienza maturata accanto a Gallone nelle cine-opere, fa maturare in lui una sensibilità musicale il cui esito sarà la collaborazione con Ennio Morricone. Importante è anche la vicinanza a personaggi come De sica, Zavattini e Amidei, da cui prende il gusto per la crudezza delle immagini e per la verità delle ambientazioni. Nel frattempo, un’altra tipologia di cinema consente a Leone di ampliare le sue esperienze di gavetta; nel 1947, in veste di assistente alla regia non accreditato, è al fianco di Alessandro Blasetti sul set di “Fabiola” (1949), film che apre la strada a quel filone di peplum nel quale, 12 anni più tardi, si compirà il suo debutto alla regia. Dalla cine-opera al neorealismo, dal peplum al filone avventuroso, nel repertorio di formazione di Leone sembra esserci tutta la gamma produttiva che il cinema italiano sperimenta dopo il disastro bellico e l’irruzione nel proprio mercato del prodotto americano. Leone acquisisce sempre di più una conoscenza a tutto tondo degli elementi costitutivi della macchina-cinema, fino a diventare in pochi anni uno degli aiuto-registi più richiesti. Nel frattempo, questa sua predisposizione tecnica comincia a integrarsi con un’urgenza narrativa, tant’è che Leone comincia a mettere alla prova, solo su carta, le sue doti espressive, scrivendo la sceneggiatura di Viale Glorioso, un’opera che ha come protagonista i borghesi, di cui fa parte lo stesso Sergio, i quali guardano dall’alto della Roma da cartolina, il mondo della vera e tradizionale Trastevere. Questo scritto affonda le radici nelle sue esperienze adolescenziali, divise tra la passione per i gangster americani e quella per la magia dello spettacolo dei burattini; Leone si ricorderà di entrambe queste esperienze quando riuscirà a passare dietro la macchina da presa. Viale Glorioso, tuttavia, non diventerà mai un film poiché, nel frattempo, Federico Fellini ha avuto la “stessa idea”, realizzando un’opera che racconta i medesimi riti di passaggio giovanili e che segnerà la storia del cinema italiano: “I Vitelloni” (1953). Intanto la fama dell’affidabilità di Leone come aiutoregista si diffonde sempre più anche tra le produzioni americane e nel 1950 Leone compie la sua prima esperienza lavorativa in una produzione statunitense, collaborando alla versione di Quo vadis diretta da LeRoy e in Helen of Troy di Wise. L’apprendistato come aiutoregista si conclude all’insegna di un’immersione nel cinema americano di carattere professionale, quando la Warner Bros lo chiama a lavorare in The nun’s story (1959) a fianco di Fred Zinneman. La fine degli anni ’50 segna un momento di grande rilancio industriale per l’attività produttiva del cinema italiano, che deve rispondere ad un maggior consumo così, alle soglie degli anni ’60, si afferma un filone sulla linea romano- mitologica nella quale il contesto di una storia lontana e spesso rivisitata in una luce fantastica determina una radicale fuga dalla realtà. È insomma il tempo del peplum (dal nome latino di un tipico indumento dell’antichità) dominato da figure eroiche oppure da greci, romani e barbari nell’orizzonte di una contrapposizione tra bene e male. È in particolare Bonnard ad essere considerato uno dei più esperti e competenti confezionatori di questi film, il quale dà vita a film come Afrodite dea dell’amore (1958) e gli Ultimi giorni di Pompei (1959)-> quest’anno è decisivo nella carriera di Leone, visto che vede la morte del padre e al contempo il suo grande passo verso la regia. Gli ultimi giorni di Pompei segna il passaggio di Leone dietro la macchina da presa, anche se il ruolo di regista non gli viene formalmente conosciuto nei titoli di testa. Sta di fatto che Leone prende il comando del set, chiamando al suo fianco gli amici Sergio Corbucci e Duccio Tessari come capo della seconda unità e aiuto-regista; a essi si aggiungono Franco Giraldi ed Enzo Barboni rispettivamente come direttore della fotografia e della seconda unità. Ognuno di essi si ritroverà proiettato, di lì a poco, nell’olimpo del western italiano. NB: la prima regia di Leone risalirebbe in realtà al 1953, anno in cui avrebbe diretto il cortometraggio ambientato a Roma Taxi… signore? Gli ultimi giorni di Pompei ottiene un enorme successo commerciale e per Leone si prospetta la possibilità di accreditarsi nel mondo del cinema italiano anche il ruolo di regista. Alcuni dei produttori de Gli ultimi di Pompei gli propongono di dirigere un altro peplum, Il colosso di Rodi (1961), Leone accetta per ragioni puramente “alimentari”. Il 1961 non è soltanto l’anno del suo esordio ufficiale alla regia, ma anche quello del suo matrimonio con Carla Ranalli, con la quale avrà tre figli; dunque Il colosso di Rodi consente a Leone di pagarsi il viaggio di nozze in Spagna, ma costituisce anche un ottimo banco di prova per le sue effettive capacità di director. Per Leone questo debutto si configura come un modo per potersi sbizzarrire tentando di rinnovare un filone che si sta consolidando proprio in quegli anni. Il colosso di Rodi, in effetti, partecipa attivamente al trend di espansione industriale del cinema italiano visto che ottiene un notevole successo al botteghino nazionale, registrando un incasso di 657 milioni di lire. Dunque, Leone comincia ad interrogarsi sulla propria identità di artista e mentre i suoi colleghi iniziano a esprimere il fatto che stanno politicamente percorrendo le istanze del ’68, Leone mantiene un atteggiamento di distacco dalle parole d’ordine e dai proclami ideologici rifiutando di farne un manifesto su cui improntare la propria attività artistica. È così che, nei primi anni ’60, Leone torna al ruolo di co-sceneggiatore e aiutoregista, ma nello stesso periodo deposita il titolo di progetto (Romolo e Remo) per un altro peplum ambientato all’epoca della fondazione di Roma, il cui trattamento dettagliato anticipa scelte narrativo-visive che connoteranno la sua produzione western. Romolo e Remo (1961) non verrà diretto da Leone, il quale si dichiara non particolarmente attratto dall’idea di esserne il regista, ma da Sergio Corbucci. Nello stesso anno Leone accetta di dirigere la seconda unità di Sodom and gomorrah (1962) di Aldrich, Leone viene incaricato di dirigere soprattutto le grandi scene di battaglia. Leone capisce come è ormai giunto il momento del debutto in un orizzonte in cui l’enorme esperienza personale maturata, possa essere messa al servizio di una poetica e di uno stile personali. Intorno la metà degli anni ’60 in Italia, il peplum lascia spazio al western e quale migliore occasione di quella di un genere amato sin dalla tenera età che ora, nella declinazione italiana spregiativamente ribattezzata oltre oceano “spaghetti western”, sembra offrirsi quale territorio di sperimentazione e innovazione. In realtà già alla fine degli anni ’50 si iniziano a realizzare western, seppur parodici o di stretta imitazione americana. Il western americano, tuttavia, a causa degli alti costi di produzione entra in uno stato di “recessione”. In Europa, invece, il genere western spopola, e nasce così Per un pugno di dollari , il vero debutto nella regia per Leone. Il film deriva da un’opera di Kurosawa (La sfida del samurai, 1961), in cui la mescolanza tra ritualità e ironia folgora subito Sergio Leone. L’idea dei produttori italiani è quella di realizzare il film con parte del capitale investito in un altro western Le pistole non discutono (1964) di Caiano, costringendo Leone a riciclare le location, i costumi e impiegare alcuni degli stessi attori e parte della medesima troupe. Iniziano così le riprese in Spagna, nella provincia desertica dell’Almeria zona dell’Andalusia; quanto al cast Leone fa interpretare il suo straniero ad uno sconosciuto attore statunitense, Clint Eastwood. Il primo western di Leone segnala, dal punto di vista tecnico, l’adozione di un sistema in grado di impiegare esattamente la metà del negativo normalmente utilizzato, determinando un formato panoramico congeniale a visioni di carattere spettacolare. All’uscita in sala, il film assume nei titoli le sembianze di un western americano visto che i nomi dei membri del cast artistico e tecnico appaiono tutti in versione inglese (Leone diventa Bob Robertson, in onore del padre Vincenzo, in arte Roberto Roberti-> Robertson, letteralmente Robert son, figlio di Roberto). Grazie all’incasso record di circa due miliardi di lire a fronte del costo stimano intorno ai 120 milioni, Per un pugno di dollari si impone come un successo di ampie proporzioni, determinando una notevole accelerazione del processo di recensori statunitensi a descrivere il film come un “imperscrutabile trailer”, dunque si realizza un’ulteriore versione di 227 minuti, dove tuttavia il film risulta un catastrofico insuccesso. La dimensione colossale di quest’ultima impresa, sembra rispecchiarsi anche in un altro progetto al quale Leone torna a pensare dopo averlo cullato, Leone desidera dar vita, raccontando filmicamente, ai 900 giorni dell’assedio di Leningrado. Leone concepisce un’opera monumentale, persino più grande di C’era una volta in America , tuttavia L’assedio di Leningrado non fa in tempo a prendere forma nemmeno nelle pagine di una sceneggiatura, a causa di svariati rinvii, dietrofront e ripensamenti. È così che Leone decide di tornare alle origini, lavorando per qualche tempo a un vero e proprio film di genere, Un posto che solo Mary conosce. In questo caso il regista è Luca Morsella e il film dovrà essere omaggio ad alcuni scrittori americani come Edgar Lee Masters, Mark Twain ma soprattutto Margaret Mitchell, autrice di Via col vento. Leone desidera portare sullo schermo una “sua” versione del film, tuttavia non ce ne sarà il tempo perché nella notte del 30 aprile 1989, il malandato e trascurato cuore di Sergio Leone si ferma all’improvviso, lasciando in sospeso ancora molti progetti. II. Il cinema tra favola e mitologia politica Spettacolo, mito, favola. Sono queste le principali dimensioni all’interno delle quali la produzione filmica di Sergio Leone è stata tradizionalmente collocata. Dietro a quest’impianto cinematografico fondato sul rispetto dei grandi autori della storia del cinema, è possibile evidenziare una corposa dimensione politica. Si badi bene che Leone è “allergico” a qualsiasi atto artistico politicizzato in maniera dichiarata, “un film politico in Italia è quello che tenta di imporre delle idee politiche senza mezzi termini. Io seguo un procedimento diverso: attraverso i miei film lotto per difendere le mie idee, per esprimerle. Tra queste idee c’è la mia visione politica. Chi la vuole cogliere la può cogliere, ma non è obbligato perché ci sono altre cose nel mio cinema”. Tale dimensione politica va intesa, quindi, nella direzione di uno sguardo critico tanto nei confronti della materia raccontata quanto degli stessi dispositivi linguistici e drammaturgici che presiedono la sua messa in forma. Oltre a ciò, l’aggettivo politico attribuito al cinema leoniano assume profonda importanza nel momento in cui segnala una capacità di raccontare e interpretare aspetti salienti dell’identità e della storia del nostro paese. Il carattere astratto della produzione leoniana costituisce la prospettiva ideale in cui collocare riferimenti simbolici alla storia e all’attualità, mentre sul piano linguistico, la continua rottura dei tratti distintivi classici e la costante necessità di rivoluzionare la forma appaiono mossi da una volontà di fare film politicamente. L’opera leoniana deve essere interpretata nei termini di una costante reinvenzione dei generi tramite una scrittura critica, ciò vale per il western ma anche per gli altri due generi caratteristici della filmografia di Leone: il peplum, e il gangster movie. Il cinema leoniano si configura come una costruzione estremamente articolata basata su un equilibrio la cui fragilità costituiste la forza stessa della poetica dell’autore. È la contraddizione, dunque, a connotare l’atteggiamento di Leone nei confronti di quanto messo in scena. Ecco allora che la prospettiva abbracciata da Leone può essere definita come non “riconciliata” proprio perché fondata sulla comprensione di componenti posizionate in una condizione di perenne, ma produttiva, tensione e instabilità. Ragione che spiega, tra l’altro, perché sia proprio un genere in sé politico come il western il principale punto di riferimento cui il cineasta ancora la propria visione del mondo e del cinema. Non stupisce quindi che, se i giovani di destra si ritrovavano nei film di Sergio Leone perché riconoscevano tutti i temi cari al loro mondo: il disprezzo per l’utilitarismo, il coraggio, la vita avventurosa, di contro, Sergio Leone è stato anche un grande regista di sinistra, perché ribalta i vecchi schemi del western americano basato sulla distinzione fra buoni e cattivi (nel cinema di Leone esistono oppressi e oppressori, e la simpatia del regista per i primi è evidente). Leone e il suo cinema, allora, assumono negli anni la condizione di “oggetto non identificato”. Il suo cinema intende configurarsi quale specchio in cui il neorealismo guarda a Hollywood, producendo una collisione tra queste due immagini e rispondendo, dunque, alla volontà di realizzare film popolari interrogando costantemente l’immaginario europeo di fronte a quello americano. Nel cinema leoniano il neorealismo costituisce un punto di riferimento, e l’eredità di quest’ultimo è riscontrabile soprattutto nella preoccupazione morale che pervade il cinema leoniano a livello del trattamento di personaggi impegnati nell’incessante lotta per la sopravvivenza in società ostili al cambiamento e alle pratiche collettive. La politicità di Leone risiede insomma anche nella strenua volontà dell’autore di ribaltare di senso la “battaglia culturale” per un cinema artistico-impegnato in contrapposizione e opposizione a un cinema commerciale e di evasione. Da un certo punto di vista l’atteggiamento del regista assume una connotazione gramsciana laddove la sua produzione sembra voler sanare proprio l’assenza di uniformità di concezione del mondo tra intellettuali-artisti e popolo. Se dunque, il cinema di Leone pesca profondamente da generi e territori come quelli della commedia dell’arte e del teatro delle marionette, l’intento del regista è quello di recuperare la componente popolare dell’arte ma non certo quella populista. Durante il corso della sua carriera Leone sembra insomma voler dimostrare che l’alto e il basso possono convivere produttivamente, non si dimentichi che lo stesso immaginario del regista romano si nutre di riferimenti eterogenei relativi ad un universo variegato nel quale l’ammirazione per Chaplin e Ford convive con quella per Cassavetes e Godard. Tale trasversalità tra alto e basso la si ritrova anche sul piano delle colonne sonore composte da Morricone, le quali assumono una conformazione operistica. L’immaginario americano al quale il regista si interessa, è il territorio da cui Leone attinge profondamente in termini di motivi e linee guida, svuotandoli della loro funzione e del significato originari e rigenerandoli mediante l’inserimento di contenuti provenienti da un orizzonte culturale differente. Tutto ciò coincide, sul piano cinematografico, con la sua attrazione nei confronti di forme espressive e narrative connotate da “meccanismi ludici” al cui interno convivono l’alto e il basso, il colto e il popolare. Nella filmografia leoniana, la dimensione mitica esaltata dal cineasta deve essere costantemente posta in relazione con un orizzonte di storicità senza il quale non è possibile comprendere appieno l’operazione politica attraverso cui Leone intende parlare del suo tempo e del sistema sociale in cui è nato e cresciuto. Il cinema di Leone sembra quindi perseguire tenacemente questo scopo, ovvero destrutturare il mito stesso, rifondandolo su nuove basi e ampliandone ulteriormente la portata nella contemporaneità. È in questo senso che deve essere letta l’operazione critica compiuta dal regista nei confronti del western, genere già di per sé profondamente “politico”. L’operazione compiuta da Leone nei confronti di tale ingombrante genere è quella di trapiantarne il seme originario su un altro terreno per poi “annaffiarlo” con l’acqua di una filosofia di segno diverso da quello che ne caratterizza il DNA. Ecco allora che il mito americano della frontiera sopravvive nel cinema leoniano tramite un processo di attribuzione di significati molteplici e conflittuali che hanno contraddistinto il western dalla fondazione. In questa strumentalizzazione di formule e linguaggi canonici risiede quel fare film politicamente che il regista condivide con Godard; è all’interno di tale orizzonte che possono trovare modo di esprimersi le tre direttrici a cui si associa il cinema leoniano: il pessimismo, la disillusione e la nostalgia. Se il pessimismo e la disillusione sembrano avvicinare Leone al cinema più strettamente politico, la nostalgia appare come la componente maggiormente responsabile della sua presa di distanza da esso. La natura della nostalgia è sempre temperata (in dosi maggiori nella prima trilogia western rispetto agli ultimi film) da una persistente ironia. Ecco quindi riproporsi nuovamente quella vitale convivenza tra elementi e tematiche di diversa matrice. Importante è la componente violenta che ha procurato per lungo tempo seri problemi di accoglienza ai film dell’autore italiano e che risulta parte fondante non solo della poetica, ma più specificatamente della sua politica leoniana. La brutalità si configura nel suo cinema come condizione che sostanzia la denuncia di una condizione umana e sociale intollerabile, offrendosi al contempo quale provocatoria componente di stampo borghese. È questa infondo la differenza tra il western italiano e quello americano: nel primo si parte dall’odierna realtà di violenza e se ne applicano le regole alla mitologia del passato vista in modo nettamente antieroico, mentre nel secondo la violenza serve alla costruzione di un’immagine epica del passato tale da eroicizzare il presente della american way of life. Dunque, la violenza non è una novità né una peculiarità del western di declinazione italiana, bensì un elemento connaturato al genere sin dalla sua fondazione che non rappresenta più la dimensione cui opporre il senso dell’onore, della giustizia e di un’identità democratica, bensì la componente pervasiva e cinica su cui si regola qualsiasi rapporto umano e sociale in un contesto, a dominante maschile, di corruzione generalizzata. È certamente un mondo, quello dei film di Leone, in cui ognuno può essere comprato e venduto, di omicidi su commissione, faide e vendette; ma è soprattutto un mondo in cui pochi gestiscono la totalità della ricchezza, e la motivazione esistenziale di ciascuno è fondata sull’avidità e sull’autoconservazione. A differenza di quanto accade nel western più dichiaratamente politico, nel cinema leoniano manca quel residuo di manicheismo (Il manicheismo fu una religione fondata dal profeta iraniano Mani all'interno dell'Impero sasanide. Predicava un'elaborata cosmologia dualistica che descriveva la lotta tra il bene e il male). L’universo di Leone è pervaso da un nichilismo (senso generico di critica radicale demolitrice di ogni filosofia che pretendesse di possedere un reale contenuto di verità) che spinge la sua macchina da presa a prediligere la microfisionomia dell’individuo piuttosto che l’aspetto corale delle grandi masse. Il cinema di Leone si configura come una galleria di ritratti individuali in cui il singolo appare quasi sempre scisso dalla massa; d’altronde se il western è un genere universale, ciò accade proprio perché tratta l’individualismo, motivo per cui non c’è niente di particolarmente strano se i politici sono gli amanti più accaniti di questo genere. Il socialismo e la rivoluzione arretrano dal primo piano allo sfondo, secondo un percorso lucidamente esemplificato dalla sua stessa filmografia; se infatti Il colosso di Rodi sembra ancora dare conto di una sorta di atteggiamento illusorio (velleitarismo) verso un’ideologia che induce l’autore a divertirsi a mettere nel mettere in scena la massa degli sfruttati stretti contro il gioco della classe dominante, le opere delle due trilogie successive (quella del “dollaro” e quella del “tempo”) impongono progressivamente una pensosità che si sostanzia nel crudo realismo con cui descrive la brutale recisione del cordone ombelicale che nel primo film ancora teneva unito l’individuo alla massa. Molte sono le parole chiave impiegabili per descrivere l’orizzonte cinematografico delineato dalla filmografia di Sergio Leone: mito, favola, epos, individualismo, anarchia, rivoluzione, gioco, realismo, astrattismo, disillusione, pessimismo… Nella produzione leoniana convivono un gruppo di elementi mutevoli e giustapposti; sul piano strettamente politico non c’è alcuna specifica ideologica cui possa essere ricondotto il suo cinema, dunque la politicità della produzione del cineasta romano deve essere rintracciata ad un livello che presupponga uno scollamento tra le stesse componenti della politica e dell’ideologia. Non c’è dubbio che quest’ultima rappresenti nell’orizzonte leoniano uno dei grandi racconti la cui legittimazione viene totalmente messa in crisi. Il cinema di Sergio Leone è postmoderno per la filosofia che lo abita, “allergica” a qualsivoglia monoteismo culturale o ideologico. Tuttavia, le opere filmiche di Leone non possono considerarsi immuni da quel radicale assolutismo con cui veicolano la visione del mondo dell’autore. Lo sguardo del cineasta continua a essere capace di farsi carico di una soggettività autoriale sempre ben marcata, in questo senso anche i movimenti di macchina diventano a loro modo una “questione morale”. Quello di Leone sarebbe un cinema che affronta una frattura interna alla cultura ripartendo da essa per guardare il mondo così come appare. Questa frattura conduce l’autore alla consapevolezza nietzschiana di non possedere più alcuna verità e ragione: di qui il nichilismo che avvolge le soggettività individuali messe in scena da Leone-> nichilismo concepito come condizione di un soggetto depotenziato; infatti negli eroi dei film di Leone vi si riscontra delle identità deboli, incapaci di interpretare il ruolo di soggetti attivi alla Storia poiché sono immersi in una condizione che sembra essere un mondo divenuto favola. Favola, come orizzonte postmoderno in cui la parodia convive con la nostalgia e in cui a dominare è soprattutto una post-Storia, ossia un’interpretazione non autentica della Storia figlia di quell’avversione per qualsiasi versione ufficiale degli eventi che maturano in lui in quanto cresciuto sotto un regime dittatoriale. Il suo cinema rientra così nell’orizzonte di quella produzione di fine anni ’60 che riflette più in generale l’inquietudine di uno specifico momento culturale. Tutto ciò può indurre ad avanzare una considerazione sul controverso rapporto con la modernità. La scelta di Leone di mostrare l’affermazione degli strumenti e degli oggetti in cui si identifica il progresso appare in totale sintonia con una produzione culturale che, negli stessi anni, propone nel nostro Paese una riflessione più o meno esplicita sull’italianità come condizione in cui si condensa una sofferta dialettica nei confronti della civiltà moderna. Ecco allora che l’aggettivo italiano con cui si suole definire una certa produzione filmica degli anni ’60 e ’70 finisce per indicare un modo particolare di accordare, tanto sul piano tematico, quanto su quello formale, arretratezza e innovazione. È qui che Leone si sgancia nettamente dai colleghi con cui condivide lo stesso antagonismo verso le strutture e i poteri dominanti, rifiutando le grandi narrazione ideologiche che pervadono il cinema più ufficialmente politico, nel tentativo di andare al di là degli schemi predefiniti. La convivenza tra direttrici diverse e spesso in aperta opposizione costituisce uno degli aspetti più interessanti dell’operazione culturale svolta da Sergio Leone, consentendo al cineasta romano di dialogare con modelli di pensiero di grande corposità e mantenendo un radicamento nella realtà storica. Si notino nel corpus filmico di Leone i rimandi a un altro punto nodale del pensiero di Gramsci come la “questione meridionale”, il più delle volte connessa all’idea di uno spazio di “evacuazione del progresso” dominato da un certo fatalismo. Ma certamente è il tratteggio di certi personaggi di estrazione proletaria a evidenziare più di un collegamento con alcuni passaggi del pensiero gramsciano inerente alla “questione meridionale”, come accade in Giù la testa: “dannati della terra” in senso “servi della gleba” incapaci di pensare sé stessi come membri di una collettività. Tutto il cinema leoniano raffigura del resto uno scenario in cui si pone continuamente alla prova quel tema della legittimità della violenza che alla fine degli anni ’60 riveste un particolare rilievo in concomitanza con le incertezze politiche e sociali diffuse su scala mondiale. La visione leoniana del mondo è estremamente cinica e nichilista e si specifica in una vena esplicitamente ferale e funerea. In un simile scenario una sola cosa sembra riuscire a scalfire la patina di nichilismo che ricopre ogni cosa: la libertà. Antieroe su tutti i fronti, l’”uomo senza nome” leoniano riconquista la statura dell’icona nel momento in cui diventa veicolo di quel libertarismo che costituisce la sua vera arma di sovversione del Sistema. Ed ecco così affacciarsi l’altra grande corrente di pensiero cui si associa solitamente il cinema di Sergio Leone: l’anarchia. Leone lo si piò definire un “anarchico di destra”, poiché condividerebbe con tale ambito di pensiero alcuni tratti peculiari: la predilezione, sul piano estetico, per un formalismo cerebrale e decadente, la rappresentazione di un mondo percorso da individui che non subiscono ma scelgono la propria solitudine, e soprattutto uno “sguardo perduto in un passato ideale” che, come si è visto, risulta centrale nella sua poetica. Un esempio in cui questo paradigma trova la sua esplicita messa in scena è in Giù la testa, in quanto Leone sembra spiazzare lo spettatore producendo un ennesimo scarto rispetto allo stereotipo: il riferimento va alla sequenza in cui il rivoluzionario irlandese getta nel fango il testo The Patriotism di Bakunin, come a dire che il vero libertarismo non deve essere contaminato dalle teorie o dalle sovrastrutture ideologiche. Ecco allora che l’eroe leoniano sembra avvicinarsi alla figura dell’anarca. Ciò che caratterizza le figure leoniane sono il ribellismo individuale contrapposto a qualsivoglia partigianeria collettiva, e quindi la capacità di vivere il proprio sentimento di libertà e di individualità senza doverlo sorreggere su alcuna “stampella ideologica”. Un altro aspetto della poetica leoniana è infine quello relativo al discorso della tecnica; nell’ovest di Sergio Leone la tecnica, identificata per antonomasia con la ferrovia, decreta malinconicamente l’esilio definitivo dell’eroe. A ciò va aggiunta la funzione ferale cui la tecnologia si associa nella poetica di Leone, diventando vero e proprio simbolo della “forza inesorabile del capitalismo che avanza”. l’innovazione più appariscente ma anche più difficile da accettare, la novità è rappresentata dal mostrare chi spara e chi è colpito in una sola inquadratura (in America non era consentito dal Codice Hays): “i personaggi muoiono urlando, il sangue scorre in abbondanza, tuttavia, la violenza autentica è suggerita più dagli atteggiamenti e dall’ideologia dei personaggi che da un esplicito ricorso alla crudeltà fisica”. È da notare che Leone sembra trovare la morte meno interessante dei momenti che la precedono. Infatti, la violenza è oggetto di un sostanziale processo di stilizzazione, tramutandosi in una sorta di danza astratta nella quale l’accumulo e la reiterazione del gesto brutale finiscono per fumettizzare il tutto. La violenza si configura come “il lato oscuro della favola”, ossia la componente che rende quello stesso racconto una “favola per adulti” al cui interno i personaggi, differentemente dalla “morfologia della fiaba” tradizionale, non sono più distinguibili in buoni e cattivi. Con il secondo western leoniano, Per qualche dollaro in più, la quota di mascolinità cresce ulteriormente a scapito della presenza femminile, qui ridotta a una sorta di apparenza fantasmatica. È il colonnello Douglas Mortimer, interpretato da Lee Van Cleef, che con il suo volto da bounty killer si impone come faccia complementare all’uomo senza nome eastwoodiano, qui nei panni di un personaggio soprannominato Il Monco. Seppur accomunate dal medesimo fine, queste due figure appaiono separate da una distanza a volte incolmabile, amplificata sul piano visivo dal formato wide screen. Dal punto di vista strettamente fisiognomico il viso da faina di Van Cleef si contrappone alla “stone face” di Eastwood. A differenza dello Straniero eastwoodiano, inoltre, il personaggio di Van Cleef ha un nome e cognome nonché una qualifica che lo “storicizzano”, fornendogli connotati identitari ben precisi e legittimando l’esistenza di un suo passato personale invece del tutto assente in Joe di per un pugno di dollari. Si conferma la presenza di Volonté nei panni di un personaggio ancora più brutale e folle del Ràmon Rojo dell’opera precedente: il suo El Indio è infatti presentato da subito come uno psicopatico assassino fumatore di marijuana. È così che questo delinquente si ritrova a diventare il vero primo orco delle favole leoniane. Tale deformazione verso il mostruoso trova conferma nel tratteggio di uno dei soldati di El Indio, Wild, il gobbo interpretato da uno spiritato Klaus Kinski. La malvagità di questi freaks è destinata, per la prima volta nel cinema leoniano, a condizionare l’esistenza di uno dei protagonisti, come succede al colonnello Mortimer che, proprio per superare il trauma della morte della sorella provocata da El Indio, persegue come unico scopo personale la vendetta. Quest’ultima si consumerà nel duello finale, anticipato dalla “scena originaria” rivissuta da El Indio sotto forma di flashback. In tale occasione il personaggio di Volontè si rivede nelle vesti di un animale ferito che, dopo aver spiato da una finestra le effusioni tra Mary (sorella di Mortimer, di cui è innamorato) e il suo compagno, preso da un raptus, uccide selvaggiamente lui e violenta lei, la quale finisce per suicidarsi sparandosi un colpo al costato con la pistola di El Indio. Quest’accumulazione di motivi tragici conferisce al secondo western di Leone un tono maggiormente cupo rispetto al film precedente, senza che ciò ostacoli un contrappunto ironico, come dimostra la sequenza il cui il Monco e Mortimer danno vita a una sfida che, in un crescendo farsesco, assume i connotati di una sorta di balletto infantile il cui principio è un vicendevole pestarsi i piedi da parte dei due contendenti. È così che in quest’opera la dialettica tra stilizzazione e realismo viene marcata in maniera ancor più esplicita, confermando la scelta, da parte di Leone, di collocare il proprio discorso autoriale in quella zona in cui il pessimismo e la disillusione vengono continuamente trascesi dall’ironia e dalla fumettizzazione in cui finiscono risucchiati i personaggi. È quanto sembra esplicitare un passaggio presente all’inizio di per qualche dollaro in più in cui El Indio, fatto evadere di prigione, dopo aver fatto strage delle guardie, si presenta al pubblico con un riso isterico cui segue la sua effigie in manifesto nel quale capeggiano i 10 mila dollari di taglia spiccati sulla sua testa. La seconda tappa della trilogia del dollaro conferma dunque la legge per cui ogni film di Leone risulta la sublimazione del film che lo precede, e appare come l’irriconoscibile attacco del film successivo. È qui evidente ad esempio nel momento in cui il colonnello vede sul giornale la fotografia di colui che si profila come suo primo rivale, ossia il Joe di Per un pugno di dollari. Il gioco di rifrazioni con il film precedente si attiva nel momento in cui ci si accorge che quell’immagine ne è praticamente un fotogramma, visto che ritrae l’”uomo senza nome” in una tipica posa da cacciatore, con un piede sul cadavere di Ramon Rojo, l’antagonista eliminato nella resa dei conti finale che ora risorge nei panni di El Indio. Tutti i pistoleri di Per qualche dollaro in più hanno le stesse facce di quelli che erano morti in Per un pugno di dollari. Il loro “ritorno” in ruoli analoghi comunica allo spettatore la strana sensazione di vedere un film di “morti viventi”. In per qualche dollaro in più, i loro ornamenti rimangono uguali nei simbolismi: la pipa del colonnello è indice di un temperamento ostinato e riflessivo, il mezzo sigaro del Monco, gli dà un aria strafottente, la sigaretta di marijuana, che spiega lo sguardo allucinato dell’Indio. In generale si può dire che in questo film, anche grazie al budget più elevato, il regista precisa il suo gusto per il dettaglio che serve per conferire spessore al passato o ad assecondare la sua “ossessione documentaria per il mito”. A determinare una maggiore referenzialità alla Storia è poi la presenza del più terreno dei personaggi di Per qualche dollaro in più, quel colonnello Mortimer la cui qualifica di ex ufficiale sudista conferma in maniera più precisa il riferimento alla guerra civile americana. A proposito del personaggio di Mortimer è interessante notare, sulla base delle considerazioni già anticipate riguardo la lettura “cristiana” del cinema leoniano, come il colonnello venga presentato all’inizio del film quale uomo di religione, ignorando la sua reale identità di bounty killer. Si tratta di quei riferimenti di Leone al “West senza Dio” che trova conferma nella scena in cui El Indio, all’interno di una chiesa sconsacrata, parlando da un pulpito, espone ai suoi uomini il piano per rapinare la banca di El Paso (immagine blasfema di cristo e gli apostoli). In Per qualche dollaro in più, inoltre, viene alimentato ulteriormente il discorso sullo spionaggio e sulla brama di conoscenza che inscriveva già alcuni motivi del precedente western nell’orizzonte storico della guerra fredda. Interessante è la dinamica che va creandosi tra i personaggi, Mortimer, il Mondo ed El Indio, la cui relazione più essere interpretata nei termini di una “sorta di spionaggio e contro-spionaggio”. Si intuisce però come un simile rapporto si presti ad essere sviluppato in quella direzione comica che trova gli esiti più radicali nel successivo Il buono, il brutto, il cattivo. Con il suo terzo western Sergio Leone sembra approdare ad un’esplicita parodia del genere che tuttavia intende radicalizzare la propria resa dei conti con la Storia. Da un lato si impone dunque una dichiarata dimensione commedica, l’ironia comincia dal titolo e confluisce in un grande affresco che sembra profilarsi come una sorta di La grande guerra (1959) in chiave western. Con i soprannomi dei protagonisti, evocativi di un sottotesto ironico, le loro figure incarnano degli archetipi che rispecchiano le figure di una società precivilizzata: il buono esemplifica una tendenza verso una forma di solidarietà nei confronti degli altri. Il cattivo esibisce un menefreghismo ed incurante del rispetto di qualsiasi valore umano; il brutto rivela un’analogia con gli aborigeni tribali i quali hanno la propria fedeltà interna e sono diffidenti verso gli estranei. Dunque, il Brutto va al di là del Buono e del Cattivo. D’altronde è proprio Tuco (il brutto) il vero protagonista del film, e colui nel quale si incarna la venatura politica di quest’opera. Non a caso, tra i personaggi in gioco è l’unico di origine messicana e, in quanto tale, è dunque il “peone brutto sporco e cattivo” la cui fama di riscatto sociale risulta giustificabile assurgendo a “simbolo di tutti i popoli del Sud che la civiltà occidentale ha sottomesso”. Figura carnevalesca e a tratti grottesca, è emblema di quei personaggi portatori del carnevale nella vita comune, laddove il carnevale rappresenta il trionfo di una sorta di liberazione dalla verità dominante e dal regime esistente. Tuco, dunque, non può che guadagnarsi l’affetto di Leone; sembra infatti che la fisionomia grossolana del villain risulti maggiormente congeniale alla visione che il cineasta va maturando, in quanto emblema di un mondo “alla rovescia”. Alla fredda trascendenza del personaggio reso celebre da Eastwood sembra insomma che Leone prediliga l’incarnazione della “predominanza del principio materiale e corporeo della vita” che la figura impersonata da Eli Wallach è in grado di restituire con il suo realismo grottesco. Tuco diventa, nel film di Leone, corpo sociale e corpo politico; emblematici sono alcuni passaggi che lo vedono, da un lato farsi portatore della carica antiborghese, dall’altro di una velata denuncia del proprio status sociale di “dannato della terra”. La rivendicazione di Tuco è la stessa di tanti altri individui del western italiano politico e costituisce uno dei momenti in cui il film di Leone affonda lo sguardo nelle motivazioni socio-esistenziali dei suoi personaggi. Se tuttavia un film come La Grande guerra, il teatro dell’azione era quello del primo conflitto mondiale, ne Il buono, il brutto, il cattivo è la guerra di secessione americana lo scenario in cui Leone colloca i suoi personaggi. È come la sanguinosa opposizione tra sudisti e nordisti de Il buono, il brutto, il cattivo fosse una diretta discendenza della miserabile contesa tra i Rojo e i Baxter del primo western. Leone ha la capacità di impregnare l’opera di un senso di morte, malgrado il contrappunto da commedia di cui s’è detto. È la conclusione di un’epoca e di un’epopea filmica; si tratta del risultato della crescente disillusione esistenziale e politica maturata negli anni dal cineasta, il quale sembra interessato a tornare in maniera ossessiva su eventi che hanno segnato la storia dell’Italia pre-repubblicana e dunque il suo stesso terreno di crescita e di formazione. Si pensi così ad Il buono, il brutto, il cattivo, in particolare alla ricostruzione del campo di prigionia nordista di Betterville, in cui la musica suonata da un’orchestra copre le grida dei prigionieri torturati: in questo caso la fonte di ispirazione sono le foto d’epoca di campi di concentramento nordisti e sudisti. Ma, inevitabilmente, è l’intero immaginario legato ai lager nazisti a confluire all’interno di simili rappresentazioni, a conferma di come l’orizzonte storico-politico del nazifascismo sia spesso rintracciabile nella filigrana del cinema leoniano. Secondo una diversa interpretazione, è la guerra del Vietnam il referente più immediato delle allusioni di Leone. Del resto, all’epoca (1966) il conflitto comincia ad assumere la sua portata più tragica. Vista secondo quest’ottica, l’opera di Leone appare disseminata di rimandi diretti alla guerra nel Sud-est asiatico: dalle armi semiautomatiche di cui sono dotati i soldati, all’esplosione di bombe dagli effetti catastrofici, fino alla presenza di un “mezzo soldato”, ossia di un reduce con le gambe amputate che chiede l’elemosina. Le figure dei tre criminali, man mano che la narrazione procede, si incastonano nel quadro della Storia che avanza alle loro spalle e che, progressivamente, sembra bruciare loro il terreno sotto i piedi. Si pensi, ad esempio, alla comica scena in cui Tuco sta per sparare alle gambe dello sgabello sul quale, con un cappio al collo, è posizionato il Buono: proprio un attimo prima che il proiettile esca dalla pistola, Leone stacca su un’altra bocca, quella del cannone nordista che fa saltare in aria l’edificio in cui si trovano i due. Si tratta della brutale irruzione della Storia nelle vicende individuali. Tale dialettica tra storie si traduce soprattutto a livello di linguaggio filmico. Da una parte ci sono i primi/ primissimi piani leoniani che isolano e astraggono i personaggi dal contesto, dall’altra parte si impongono i campi lunghi/totali impiegati con il massimo pudore e rispetto delle distanze e dei personaggi per filmare la guerra. Il buono, il brutto, il cattivo propone dunque su più livelli un intreccio che riguarda tanto il rapporto tra gli individui e la Storia, quanto le relazioni reciproche che si stabiliscono tra le vicende personali dei protagonisti. Le figure dei protagonisti tornano ad assumere le fattezze di una sorta di presenza ultraterrena, soprattutto nel momento in cui si ritrovano ad assistere da spettatori al massacro quotidiano di vite umane della guerra. Si pensi alla scena della battaglia tra nordisti e sudisti a cavallo del fiume: qui il Biondo conforta prima l’agonizzante comandante nordista, esaudendone il sogno di far saltare il ponte, e poi il soldato sudista riverso sul campo di battaglia, dandogli soprabito e sigaro prima che questo muoia. Se il finale de Il buono, il brutto, il cattivo chiude il cerchio della “trilogia del dollaro”, il successivo C’era una volta il West annuncia l’apertura di una seconda fase del cinema leoniano, quella della cosiddetta “trilogia del tempo”, in cui il cineasta instaura un dialogo più diretto con la politica e la graduale istituzionalizzazione della violenza stessa. È qui che l’autore si cimenta con l’ultima e più complessa prova: sfidare il western sul suo terreno di gioco, decretando la definitiva consegna del genere alla fiaba. Ora l’attenzione del regista si appunta sulla saga dell’avanzata nelle praterie dell’Ovest del progresso incarnato dalla ferrovia e dunque sulla corsa verso l’era industriale. Si tratta di quella transizione dalla natura selvaggia alla modernità che trova la sua più emblematica esplicitazione nell’incipit del film dove Leone gioca con la dialettica interno/esterno consentitagli dall’uso delle porte e delle finestre della stazione di Flag, ad evidenziare il momento di passaggio tra la civiltà e la wildness. Quest’opera viene considerata come la più postmoderna di Leone, visto che qui realismo e approfondimento psicologico lasciano il posto a figure archetipiche, mentre abbonando i rimandi intertestuali ad altri titoli, non soltanto western. Leone con il suo quinto film giunge alla sua personale resa dei conti con il genere western, come dimostra in primis la scelta di contestualizzare la sua opera in un preciso territorio (Arizona) e non più in una generica “terra di nessuno”. Leone impiega un attore quale Henry Fonda, interprete per antonomasia di personaggi di forte integrità morale, trasformandolo in uno dei cattivi più freddi di tutto il suo cinema. Il Frank nerovestito di Fonda, è insieme ad Armonica (Charles Bronson), erede dell’”uomo senza nome” di Eastwood; mentre Cheyenne (Jason Robards) è il simbolo di una nazione fatalmente al tramonto che cede il passo a una nuova, nascente America, quella di Jill (Claudia Cardinale), prima e vera presenza femminile del cinema di Leone. La vera novità di C’era una volta il West è proprio la donna, simbolo di una vera rivoluzione che coincide con l’inizio del matriarcato e la fine di quell’universo specificatamente maschile che era il Far West. In tutto il cinema leoniano si respira odore di morte, fattore accentuato in C’era una volta il West attraverso una dilatazione dei tempi in cui si consuma la danza macabra riconducibile a una motivazione di ordine storico, quella che porta per l’appunto Jill a divenire il punto di riferimento di un’intera comunità al prezzo della scomparsa, dell’annientamento di coloro che finora ne hanno dettato le leggi. Jill ha in sé i segni della morte, a partire dal vestito nero che indossa all’arrivo alla stazione di Flag fino alle stesse vittime che insanguinano la strada della sua ascesa: il neo marito Brett McBain con i tre giovani figli, poi Frank, Cheyenne, l’industriale ferroviario Morton e Armonica, il quale, da ennesima presenza “soprannaturale”, non muore ma è ugualmente destinato a uscire di scena in quanto richiama il precedente ”uomo senza nome”. la forza di Jill si condensa nell’inquadratura in plongée, attraverso i pizzi del baldacchino, di lei distesa sul letto e soprattutto nelle immagini finali in cui, da vera domina distribuisce l’acqua agli operai intenti a costruire la ferrovia. Jill rappresenta la “promessa del West”, ma soprattutto si fa veicolo di una vera e propria visione ideologia: nel finale, infatti, il disilluso Leone sembra trapiantare il sogno socialista del ventesimo secolo nel terreno del vecchio West. L’immagine finale del film rappresenta un mondo del quale la distruttiva macchina del capitalismo ha aperto la strada al rispetto per i lavoratori e per il loro benessere. Se dunque C’era una volta il West racconta la transizione dalla wilderness alla civiltà moderna, si tratta di un racconto che lascia spazio alle possibilità del progresso. Quel che va tuttavia evidenziato è che tale passaggio epocale, coincide pienamente con l’avvento di un matriarcato o di un nuovo ruolo interpretato dalla donna nella società. Alla scrittura del film partecipa una nuova coppia di sceneggiatori: Dario Argento e Bernardo Bertolucci; quest’ultimo opera un grande lavoro sul personaggio di Jill. Bertolucci vede nella Vienna interpretata da Joan Crawford in Johnny Guitar (1954) di Nicholas Ray, la dark lady che si trasforma in fair lady, un modello ideale cui ispirarsi per la costruzione di una figura femminile la cui corposità e importanza sembrano determinare il dissolvimento delle mitologie annunciato inderogabilmente dal quarto western del regista romano. Inoltre, assistiamo all’uscita di scena dei personaggi-simbolo leoniani; Frank è infatti la personificazione del male e il suo capo, Mr. Morton, l’archetipo del capitalista. Gli altri personaggi sono tutti iscrivibili a quel territorio in cui vige quale unica forma di espressione, la il movimento ascensionale del dolly nella scena dell’arrivo di Jill alla stazione di Flag serviva a scoprire “l’ultimo orizzonte” nel cui “mare”, leopardianamente, appariva ancora “dolce” il “naufragare” dello sguardo. Al contrario, nell’ultima opera di Leone, il dolly scende in basso come una ghigliottina, a recidere i legami di Noodles e le sue ultime illusioni. Leone rinuncia all’ariosità del formato panoramico del Techniscope per enfatizzare l’estrema limitatezza dell’orizzonte raccontato. La vicenda del film si sviluppa nel cuore del “secolo breve”, arco di tempo che copre più di 40 anni: dagli anni Venti, periodo in cui, in pieno regime proibizionista, il giovanissimo Noodles compie la sua gavetta nella malavita assieme agli amici Patsy, Cockeye, Dominic e Max, al fatidico 1968, l’anno dell’”immaginazione al potere” e dunque, simbolicamente, l’ultimo anno in cui al protagonista Noodles è dato di sognare, ripercorrendo, proprio come in una lunga e nostalgica visione onirica, il suo passato. È questo il contesto in cui il regista ambienta la sua storia, i “ragazzi di Viale Glorioso” della sua infanzia trasteverina si trasfigurano negli ebrei che compiono le proprie violente scorribande nella New York degli anni Venti. Malgrado la persistente crisi identitaria di sui soffrono, le figure che popolano C’era una volta in America condividono una provenienza etnica e religiosa specifica e originale per un genere come il gangster movie. La scelta di raccontare una storia di gangster ebrei deriva per Leone dalle suggestioni rintracciate in un mondo che ai suoi occhi sembra comunicare direttamente con l’ineffabile; del resto, C’era una volta in America deve essere messo in relazione con il successo riscosso all’epoca da alcuni importanti libri in cui risultava centrale il tema della jewishness. Tuttavia, C’era una volta in America costituisce una lettura critica della stessa jewishness poiché mette in scena un sostanziale tentativo di emancipazione rispetto a tale orizzonte culturale e religioso. Interpreti di questa azione sono proprio le due figure più importanti nella vita di Noodles: Deborah e Max. Se la prima attiva una sofferta dialettica nei confronti della sua originaria ebraicità, il secondo cerca di sfuggire alla sua identità etnica e alla sua origine sociale finendo per rinnegarle, rinascendo sotto le mentite spoglie del senatore Bailey. Del resto, è proprio il tema dell’amicizia a interessargli in maniera esclusiva, soprattutto se di mezzo c’è una donna: nel western si trattava della fanciulla che John e il suo amico fraterno baciano; in C’era una volta in America è Deborah, grande amore della vita di Noodles e amante, in età avanzata di Max. La figura della donna si rivela un oggetto attivo in una trama in cui i veri deboli sono gli infantili e autodistruttivi personaggi maschili. Va considerato anche il ruolo di Carol, la fidanzata di Max, la quale, presentata al principio come una sgualdrina ninfomane priva di personalità, alla fine determinerà il destino stesso del gruppo di amici. Sarà lei infatti, che per impedire a Max di portare a termine l’impresa suicida di rapinare la Federal Reserve, suggerirà a Noodles di denunciare la gang e di farla arrestare mentre trasporta l’ultimo carico di whisky, creando l’occasione in cui, durante la sparatoria, insieme a Patsy e Cockeye, Noodles crederà sia rimasto ucciso anche Max. Secondo tale prospettiva, la stessa violenza sessuale che il protagonista finirà per esercitare su Deborah acquista i connotati di un atto tragico ma, in fondo, impotente attraverso cui il marchio crede di poter riequilibrare la disparità di cui è vittima; la donna è ora protagonista della storia e l’uomo, sentendosi emarginato, cerca di rallentare l’inevitabile processo. Loser, individualista ed ebreo melanconico, Noodles è dunque colui al quale non resta altro che trovare riparo nella dimensione di una memoria poiché il presente è un luogo sempre più indecifrabile. Emblematica è la scena del prefinale in cui Noodles vede o crede di vedere Max scomparire dentro a un camion tritarifiuti, per poi imbattersi in un’auto d’epoca piena di persone che festeggiano la fine del proibizionismo. È la compresenza di epoche storiche differenti la chiave per comprendere un film il cui soggetto è la ricerca del “raccordo impossibile tra i sogni di bambino e il mondo degli adulti”. C’era una volta in America può essere considerata l’opera leoniana dai connotati più mitici o favoleschi, al punto da lasciare nello spettatore il dubbio che quanto mostrato non sia che il frutto della rêverie all’oppio di Noodles. Max, insieme al personaggio di Jimmy O’Donnel, anticapitalista e protettore dei lavoratori, è la personificazione dell’idea negativa maturata da Leone nei confronti della politica, a conferma della disillusione radicale con cui il regista guarda a tale sfera. Sul piano visivo la condanna di Leone nei confronti di un mondo rispetto al quale egli, come Noodles, decide di tenersi in disparte si traduce in una soffocante claustrofobia che riguarda proprio le sezioni del racconto contestualizzate nell’epoca del proibizionismo. È qui infatti che a differenza dei segmenti relativi all’infanzia di Noodles ambientai in una New York anni Venti idealizzata e favolesca, abbondano gli “interni sordi e fumosi”; da tutto ciò deriva il lunghissimo addio al mondo decretato da Leone-Noodles, “uomo-bambino” che si ribella alla fine dell’infanzia rifugiandosi nella completa alterazione della realtà. Anche l’ultimo film di Leone, come Giù la testa si conclude infatti con il sorriso straniato di un personaggio che “viaggia nel tempo”. Sia John, dell’opera del ’71, che Noodles, compiono il loro trip aspirando del fumo quasi a confermare l’inconsistenza della materia di cui sono fatti i sogni, ma anche le immagini cinematografiche. Il suo andirivieni temporale fa di C’era una volta in America uno dei film maggiormente “fuori tempo” della storia del cinema, l’opera più antilineare di Leone, un vero e proprio “puzzle film” che dichiara una compiuta crisi della forma narrativa tradizionale e inaugura nuove posizioni spettatoriali nei confronti della storia. Secondo questa prospettiva il film si configura come un manifesto che celebra il cinema quale “un’eterna possibilità per ripercorrere i nostri passi” III. Tre sequenze Se tutto il cinema di Sergio Leone può essere considerato un orizzonte in cui si attua continuamente un procedimento di spostamento e risistemazione di elementi e direttrici provenienti da ambiti culturali differenti, l’opera conclusiva della prima trilogia western, Il buono, il brutto, il cattivo, propone senz’altro alcuni tratti paradigmatici in tal senso. Tutto il film è attraversato da una dialettica sempre più stringente tra microstoria e macrostoria, attraverso la quale il regista punta alla raffigurazione di un affresco che tende a “elevare” il suo West a una condizione assoluta e totalmente mitica. Per comprendere la sua operazione bisogna concentrarsi al sottofinale, che rappresenta un esperimento di cinema senza dialoghi, capace di offrire allo spettatore un’esperienza a suo modo straniante. Qualcosa di simile accadeva già nei primi dieci minuti iniziali dell’opera durante i quali ci si trovava in presenza di una dislocazione della guerra in Vietnam: prima che si giungesse alla presentazione dei tre protagonisti, si vedevano infatti scene dispari, esplosioni, uomini in fuga, senza che si capisse realmente chi fosse vivo e chi ferito. Un orizzonte la cui identità era quella di una sostanziale terra di nessuno o di un postmoderno spazio distopico che “divora il tempo”. Lo stesso può dirsi del sottofinale del film, scandito dalla celebre sequenza del “triello” ambientato nel cimitero di Sad Hill, nel luogo in cui Tuco (Il Brutto) e il Biondo (Il Buono) sanno che si cela il tesoro desiderato. Vi arrivano quasi pet caso, ed è un lento dolly ascendente, sottolineato alla tonalità melanconica della musica di Morricone a inscrivere Tuco nell’immensa area funerea in cui si decideranno le sorti dei personaggi. Prima, tuttavia, che abbia inizio la resa dei contri conclusiva, Leone sembra voler rispecchiare anche a livello di struttura filmica l’idea della circolarità che connota il luogo in cui si ambienta questa sezione conclusiva de Il buono, Il brutto, il cattivo, dando vita a un pezzo di “cinema astratto” che ricolloca tale parte dell’opera in una dimensione profondamente mitica e a suo modo religiosa. Il riferimento va alla corsa forsennata di Tuco tra le lapidi del cimitero, alla ricerca della tomba che dovrebbe custodire l’agognato tesoro: la mdp, panoramicando a 360 gradi verso sinistra, mantiene la mezza figura del personaggio al centro del fotogramma mentre questi le corre circolarmente intorno. Attraverso un montaggio alternato il registra mostra quindi quella che dovrebbe essere la soggettiva di Tuco durante la corsa, la cui risultante è un effetto mosso in cui forme e colori si mescolando impressionisticamente perdendo il loro statuto realistico e proiettandosi in una dimensione prossima all’allucinazione. Tale concitato momento di climax viene però bruscamente interrotto dall’arrivo sulla scena, prima del Buono – il quale dopo aver portato alla luce la bara, rivela che i dollari non sono sotterrati lì e che quella tomba contiene solo ossa – e poi del Cattivo. La “danza con la morte”, dunque, può avere inizio. A decretarne l’avvio è il Buono che getta ritualmente a terra la pietra sulla quale scrive il nome inciso sulla lapide sotto cui è veramente sotterrato il tesoro. Un campo lungo con posizione lievemente sopraelevata della cinepresa inquadra i tre personaggi mentre si dispongono ai tre vertici di un triangolo immaginario iscritto nell’area mortuaria. Il tempo regola questa sezione finale dell’ultimo atto della “trilogia del dollaro”; Leone capisce l’importanza di allungare i tempi del duello giocando sulle attese, sugli sguardi, sulle mosse abbozzate e rapidamente rientrate, e finalmente sullo sparo, fulmineo in maniera quasi beffarda rispetto alla complessità della preparazione. Si tratta di una minuziosissima partitura di piani: prima tre classici piani americani dei tre sfidanti, poi altrettanti piani a due in cui il grandangolo permette di tenere a fuoco sia la quinta del personaggio più vicino alla mdp che la figura lontana di quello sullo sfondo, quindi tre dettagli delle armi, tre piani frontali e altrettanti primissimi piani, sempre frontali. Assistiamo dunque ad un’alternanza tra inquadrature ravvicinate e campi più lunghi il cui scopo è quello di creare un crescendo di tensione. Quest’ultima subisce uno scarto quando Leone decide di rompere la menzionata regolarità del découpage inserendo il particolare di una mano che entra in campo dall’alto per scendere lentamente fino quasi all’altezza della pistola, lasciando ben visibile la figura di uno dei contendenti sullo sfondo. Ad affiancarsi a tale ripresa è un primissimo piano del Cattivo mentre rotea rapidamente gli occhi da destra verso sinistra. L’orchestrazione successiva delle inquadrature fa comprendere che è proprio il personaggio interpretato da Lee Van Cleef il perno su cui si articola il montaggio. Appare dunque evidente che qualcosa sta per accadere e che quel qualcosa vedrò probabilmente protagonista proprio il Cattivo. Cresce il climax, i particolari degli occhi dei tre personaggi si succedono in un montaggio sempre più serrato, le loro mani sono sempre più vicine a impugnare le armi, e si arriva, infine, al culmine della tensione attraverso il colpo mortale inferto dal Buono al Cattivo, facendolo cadere in una fossa vuota. A quel punto il Buono spara alla pistola e al cappello, e li manda a raggiungere “Sentenza” nella fossa (cappello e pistola sono gli accessori peculiari del cowboy che neppure un nemico oserebbe separare dal padrone). L’eliminazione del Cattivo sancisce una presa di distanza definitiva dal canone per quanto riguarda la configurazione del luogo in cui si espleta lo scioglimento della narrazione: la linearità del western tradizionale cede infatti il posto alla circolarità dello spazio in cui si svolge la resa dei conti finale. Siamo all’interno di una diligenza. La portiera si apre scoprendo il primo piano di un uomo con barba scura e cappello, dall’aspetto trasandato. Si tratta del peone Juan Miranda che sale sulla carrozza diretta a San Felipe. Segue nel montaggio la sua soggettiva: è una panoramica all’interno della diligenza tramite cui la cinepresa scopre altri viaggiatori i quali, guardando in macchina, rivolgono uno sguardo tra il meravigliato e lo sprezzante in direzione del nuovo arrivato, si tratta di persone dell’”alta società”. Dopo un totale dell’interno, Leone mostra l’incedere del peone tra gli astanti seduti con un carrello da sinistra verso destra funzionale a sottolineare quella che appare a tutti gli effetti una vera e propria “sfilata”. L’atmosfera è quella di un’artificiosa calma che non lascia presagire nulla di buono… D’altronde la massima tratta da Mao Tse-Tung a esergo del film – in maniera non dissimile da quanto accadeva in La corazzata Potemkin (1925), in cui Ejzenstejn poneva in testa alla sua opera una lunga frase di Lenin inneggiante alla rivoluzione in quanto atto di violenza non solo legittimo ma necessario – non lasciava presagire nulla di “soft”, specialmente l’ultimo cartello della citazione che recitava “La rivoluzione è un atto di violenza”. Il riferimento va alla lunga inquadratura aperta dal formicaio su cui urina Juan e chiusa dalla mezza figura del peone in un campo lungo della vallata in cui si scorge la diligenza che, di lì a breve, lo ospiterà. Il contrasto tra il “dannato della terra” e la “razza padrona” impersonata dai passeggeri della diligenza è enunciato dal cineasta senza mezzi termini: uno dei presenti si rivolge a Juan con sufficienza, trattandolo come un animale. È l’inizio di una discussione tra i presenti durante la quale, mentre questi cominciano a consumare avidamente il loro pranzo, Juan diventa l’oggetto di una serie di considerazioni sui peones a cui non si vuole riconoscere nemmeno lo status di bestie. La logica della scena è quella di un’autorappresentazione con cui i borghesi intendono ratificare di fronte al testimone di una classe sociale “inferiore” la propria egemonia non soltanto sociale e politica, ma anzitutto razziale. A innescare la sequenza con cui Leone esaspera la loro provocazione è uno zoom “a schiaffo” sulla bocca dell’uomo vestito di bianco con gli occhialini tondi il quale schernisce e oltraggia il peone. I “piani di ascolto” di Juan continuano a intervallare quelli ravvicinatissimi sui borghesi, servendo a caricare sempre di più la tensione. A questo punto Leone indugia sulla bocca di uno dei borghesi mentre questi vi infila avidamente del cibo, nel frattempo l’invettiva contro Juan si fa sempre più aggressiva e intollerabile. La sequenza si arricchisce di un’orgia di particolari sempre più disgustosi: dagli occhi del prelato si passa alla sua bocca, indecorosamente ricolma di cibo, quindi ancora alle fauci dell’uomo in bianco. Il climax cresce, tutto è pronto per il ribaltamento della situazione e per il risarcimento, almeno simbolico, che Leone vuole offrire ai proletari come Juan. Il “pranzo di gala” degli orribili latifondisti viene infatti bruscamente interrotto dall’”attacco alla diligenza”. A esserne protagonista è la famiglia di Juan, armata fino ai denti. Si tratta di uno dei momenti di massima corposità ideologica del film: è qui infatti che il protagonista compie l’”atto di violenza” più antiborghese di tutto il cinema leoniano, smascherando e mettendo letteralmente a nudo i latifondisti, rivolgendo loro la stessa bestialità cui è stato associato. In C’era una volta in America è centrale il tema dell’esperienza americana degli ebrei e dunque la rappresentazione di un preciso spaccato umano, sociale, religioso e antropologico: quello del quartiere newyorchese del Lower East Side, simbolo della Jewish way of life. Il film si impreziosisce di una serie di ritratti e rappresentazioni la cui capacità è quella di riflettere su una memoria storia poco trattata nel cinema mainstream, soprattutto nel gangster movie. Leone consulta romanzi, memoriali, giornali e fotografie del Lower East Side, così da poter dare vita a una mise en scène che enfatizzasse la visione da essi restituita di quell’ambiente. Questa enfasi sulla visività diventa particolarmente evidente nella proliferazione di immagini che circondando Deborah. Ogni volta che Leone la mostra sembra infatti preoccuparsi di fare in modo che il suo personaggio sia costellato di fotografie, specchi, spioncini che enfatizzino l’atto del guardare ma anche quello dell’essere visti. Emblematiche sono le scene ambientate nel retro del ristorante della sua famiglia, il Fat Moe, in cui da adolescente Deborah si allenava nella danza visto che la prospettiva di una carriera nel campo dello spettacolo si profila quale unica strada privilegiata per uscire dal ghetto e avvicinarsi sempre più allo status di “donna americana”. È qui che Noodles ama spiarla attraverso la feritoia nel muro la cui forma è simile a quella di un mascherino cinematografico. Il “racconto” della storia di Deborah e della sua ascesa sociale è del resto il frutto delle visioni e dei ricordi dello stesso Noodles, il quale è cosciente del ruolo assolutamente attivo incarnato dalla donna all’interno della sua esistenza di “povero” gangster incapace di ritagliarsi una parte nella Storia. La stessa sequenza in cui Deborah viene spiata dal giovane Noodle mostra una “regia” orchestrata dalla ragazzina, confermando il ruolo di puro spettatore assunto dall’antieroe maschile leoniano nell’ambito del “sogno americano”. Come dimostra anche la scena in cui, anziano, Noodles si trova ad ammirare Deborah, prima su un palco teatrale e poi nel suo camerino mentre si strucca. La rappresentazione di Deborah risulta ancora fortemente collegata con la sua ebraicità: la cuffietta che indossa ricorda il kippah, la parrucca ricorda quella tradizionale indossata dalle spose ebree, la sheitel. Ella reca le tracce della sua origine e i segni dei suoi sforzi per sfuggirvi. La sequenza in cui la giovane offre a Noodles la lettura rivisitata di un passo della Bibbia assume una valenza simbolica. Il contesto è sempre quello del retrobottega del Fat Moe; qui Noodles adolescente ha per la prima volta
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