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Cinema Americano Classico, Sintesi del corso di Storia Del Cinema Americano

Riassunto libro per l'esame di Storia del cinema Nordamericano

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 25/02/2022

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Scarica Cinema Americano Classico e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Cinema Americano solo su Docsity! L’APPARATO PRODUTTIVO <<IL MAGO DI OZ>> 1. Lo <<studio system>> Il Mago di Oz è uno dei titoli più noti di tutta la storia del cinema, in quanto rappresenta un esempio importante del modello produttivo hollywoodiano. È un caso eclatante di film senza autore: infatti, nasce dalla collaborazione tra persone diverse, nessuno può attribuirsi la completa paternità, neppure il produttore LeRoy, che ne seguì tutte le fasi di realizzazione. Il Mago di Oz è il frutto del lavoro comunitario di un'impresa artigiana, in cui l'individualità dell’autore si scioglie nella dimensione collettiva dello studio system. In italiano la parola studio indica il teatro di posa, ma nella lingua inglese indica anche l'insieme degli edifici dove ha sede una casa di produzione e la compagnia in quanto tale. Con studio system si indica l'assetto industriale della Hollywood classica, caratterizzato dal predominio di alcuni grandi Studios capaci di realizzare e distribuire film su larga scala. È già operativo dagli anni 20, prima dell'introduzione del sonoro, e rimane in vita fino agli inizi degli anni Cinquanta. Selznick, uno dei più grandi produttori della Hollywood classica, descrive l'organizzazione della Paramount negli anni Venti come un'industria. Questa organizzazione che ricorda le pratiche fordiste diventa obsoleta nel momento della transizione dal muto al sonoro, cioè del passaggio dal central producer system al producer unit system. Dalla metà degli anni Dieci fino alla fine del decennio successivo le case hollywoodiane operano sotto il controllo di un unico produttore (il central producer) che sovrintende a tutto il lavoro. A partire dai primi anni Trenta, invece, subentra un'organizzazione più complessa, in cui un gruppo di uomini supervisionava tra i sei e gli otto film all'anno, e ogni produttore si concentrava su un particolare tipo di film, operando spesso con lo stesso gruppo di registi, sceneggiatori, attori e tecnici. Un esempio è il caso della “Freed Unit” della Metro Goldwyn Mayer, equipe diretta dal produttore Arthur Freed che realizzò i principali musical della casa degli anni Quaranta e Cinquanta, come Incontriamoci a Saint Louis (1944), Gigi (1958), Un americano a Parigi (1951) e Cantando sotto la pioggia (1952). Tutti i film in cui compaiono più o meno gli stessi attori (Judy Garland, Fred Aster, Gene Kelly, Cyd Charisse, Leslie Caron), coreografi (Busby Berkeley, Robert Alton) e registi (Vincente Minnelli, Stanley Donen). Buona parte della storia della Hollywood classica vede il predominio di alcune grandi case di produzione, che esercitano un potere di tipo oligopolistico. Durante il periodo sonoro, invece troviamo cinque compagnie maggiori le cosiddette Majors (o Big Five): Metro Goldwyn Mayer, Warner Brothers, Paramount, 20th Century Fox, RKO. Ognuno possedeva delle strutture per realizzare i film (teatri di posa, studi per la post-produzione, magazzini eccetera) e ha sotto contratto del personale che opera in base alle direttive dei vertici della compagnia. Ogni Major ha una propria politica, si specializza in alcuni generi o tipi di produzioni, e sviluppa un proprio stile. Un esempio sono i musical della RKO degli anni Trenta, con Fred Aster e Ginger Rogers, le scenografie in stile déco di Van Nest Polglase, che sono immediatamente distinguibili dei musical della Warner dello stesso periodo, caratterizzati dalle complesse coreografie di Berkeley. Basta mettere a confronto Cappello a cilindro (1935) e Follie d'inverno (1936) della RKO con Quarantaduesima strada (1933) e La danza delle luci della Warner: nei primi due, le sequenze coreutiche sono legate alla coppia di innamorati, la grazia e l'eleganza del movimento di Fred Aster conquistano il cuore di Ginger Rogers; negli ultimi due , invece, il ballo è declinato nella chiave dello spettacolo di massa, Berkeley dispone decine di ballerini che ripresi dall’alto compongono elaborate figurazioni astratte. Sia Fred Aster che Berkeley passeranno alla MGM, nella Freed Unit. I musical MGM degli anni Quaranta e Cinquanta presentano uno stile ancora diverso: si tratta di produzioni molto ricche che vogliono colpire il pubblico con uno spettacolo grandioso dei colori sgargianti. Basta pensare alla ricostruzione della Parigi di inizio ‘900 di Gigi, con gli splendidi costumi di Cecil Beaton. A sua volta la produzione presenta delle diversificazioni interne, a seconda dei registi e degli attori ballerini che lavorano sul singolo progetto. Ad esempio, Incontriamoci a Saint Louis e Gigi (entrambi di Minnelli) sono storie d'amore con al centro un adolescente, favole sul passaggio dall' infanzia alla maturità ambientate in un passato sfarzoso e idilliaco. Invece, Un americano a Parigi di Minnelli e Cantando sotto la pioggia della coppia Donen-Kelly, sono dominati dalla fisicità di Kelly, il quale trasforma i numeri da ballo in vere performance ginniche, laddove in incontriamoci a Saint Louis e in Gigi, la dimensione e coreutica risultava secondaria rispetto a quella canora. Ne Il pirata (1948), diretto di Minnelli e interpretato da Garland e Kelly, vi è la fusione tra il mondo adolescenziale, l’atletismo e l’autoironia. Le Majors, inoltre, possiedono anche delle strutture per distribuire i loro prodotti, sia sul mercato nazionale che su quello estero, e delle sale cinematografiche sparse per gli Stati Uniti. È quella che si chiama integrazione verticale: le Majors controllano produzione, distribuzione ed esercizio dell'industria cinematografica. Così facendo si collocano in una posizione di vantaggio nei confronti dei produttori indipendenti e degli esercenti. Infatti, disponendo dei cinema in cui proiettare i propri film, possano operare anche in modo autonomo e sono in grado di imporre le proprie condizioni ai proprietari delle sale. Una pratica comune era quella del block booking: la major non dava a noleggio le pellicole singolarmente, ma a blocchi. I blocchi erano costituiti da un film con grandi divi ed altri film di minore interesse, che potevano risultare finanziariamente rischiosi per l'esercente, il quale però era costretto a prenderli. Le tre compagnie minori, le cosiddette Minors (o Little Three), ossia Columbia, Universal e United Artists, erano considerate tali in quanto non avevano una propria rete di sale cinematografiche. Questo non indica che le loro produzioni fossero necessariamente più povere, infatti soprattutto la Columbia e la Universal dimostrarono spesso una capacità produttiva simile a quella delle majors. La United Artists fu fondata nel 1919 da alcuni dei registi e degli attori più in vista dell'epoca (David W. Griffith, Charlie Chaplin, Douglas Fairbank, Mary Pickford), si occupava della distribuzione dei film indipendenti (come quelli dello stesso Chaplin). Accanto alle Majors e alle Minors, a Hollywood erano presenti altri marchi: Monogram e Republic, che erano specializzate in film a basso costo. Inoltre, c'erano alcuni produttori indipendenti, ex dirigenti delle Majors, come Goldwyn e Salznick, che producevano pochi film ma di un grande impegno finanziario. Le differenze tra Majors, Minors e indipendenti non sono poi così nette. Il più grande successo della storia del cinema americano classico, Via col vento (1939) è opera di Selznick (che per poter terminare l’opera poté contare sul sostegno finanziario del MGM). La Republic era specializzata in B- movies, ma produsse anche alcuni film di registi importanti, come un Uomo tranquillo (1952) di John Ford e Johnny Guitar di Nicholas Ray. A loro volta, le Majors non realizzavano solo film a grosso budget, ma si dedicavano anche alle pellicole di serie B. I B-Movies erano fatti con meno soldi, in meno tempo e con attori meno noti, ma proprio per questo in caso di insuccesso avrebbero causato un danno finanziario di poco conto e a volte erano l'occasione per sperimentare nuove tecniche o affrontare temi che un film di serie a non poteva permettersi di toccare. Grazie a questa maggiore libertà creativa, alcuni B-movies furono in grado di ottenere ottimi risultati commerciali, come per esempio il caso degli horror prodotti da Val Lewton per la RKO, diretti da Jacques Tourneur: Il bacio della pantera (1942), Ho camminato con uno zombie (1943) e L'uomo leopardo (1943). I B-movies rappresentavano i titoli di seconda scelta del pacchetto del block booking. Gli esercenti abbinavano, con un sol biglietto, un film di serie A e uno di serie B, oppure nelle sale di provincia e negli spettacoli mattutini del weekend pensati per il pubblico infantile due B-movies. All'epoca della Hollywood classica, andare al cinema non significava soltanto vedere dei lungometraggi. Il programma comprendeva anche uno o più cortometraggi: una comica, un disegno animato, il numero di un cinegiornale. Questo tipo di assetto caratterizza la produzione hollywoodiana fino alla fine degli anni Quaranta. nel decennio successivo la situazione si modifica in maniera rilevante: già da prima della Seconda guerra mondiale, alcuni cineasti e attori di Hollywood avevano iniziato a porsi il problema di una maggiore autonomia espressiva dai vertici dell'industria. Nel 1935, Cary Grant scioglie il suo contratto con la Paramount e diviene il primo divo freelance. Il regista Frank Capra insieme ai colleghi William Wyler e George Stevens, riesce a dar vita a una compagnia indipendente, la Liberty Films, che produrrà il suo film più famoso La vita è meravigliosa (1946). Altri si metteranno in proprio, come John Ford e Humphrey Bogart. In Lady Lou- La donna fatale (1933), Cary Grant e Mae West, hanno uno scambio di battute sessualmente allusivo. Nel 1930, Hays aveva fatto adottare un nuovo codice di autoregolamentazione, basato largamente sul precedente del 1927. Autori del cosiddetto Production Code, passato alla storia come Codice Hays, furono due esponenti dell’intellettualità cattolica: il gesuita e docente universitario Daniel Lord, e il giornalista Martin Quigley. Il codice raccomandava prudenza o vietava un riferimento di qualsiasi genere al gran numero di temi e comportamenti ritenuti devianti: crimini, omosessualità, alcol, droga, offesa alla religione e alla bandiera, prostituzione, aborto ecc. Molte case di produzione non si adeguarono al nuovo codice. Nel 1934, a fronte della minaccia di boicottaggio dei film ritenuti più scandalosi da parte della Legion of Decency, un'organizzazione cattolica alla cui battaglia si unirono anche gruppi protestanti ed ebraici, Hays impose il codice con forza. Lo Hays Office decretò che nessun film potesse essere distribuito nelle sale appartenenti alle Majors senza la sua approvazione preventiva, in caso di violazione di tale regola, la casa di produzione del film sarebbe stata multata. La forza del codice risiedeva nell’integrazione verticale: finché i membri del MPPDA possedevano catene di sale cinematografiche, non avere il nulla osta di Hays significava di fatto non poter distribuire il film. Il codice inizia ad entrare in crisi negli anni Cinquanta, proprio quando si verifica la separazione tra produzione ed esercizio. Tra i primi casi di violazione figurano due film di Otto Preminger, entrambi distribuiti dalla United Artists: La Vergine sotto il tetto (1953) che presenta dei dialoghi considerati audaci e L'uomo dal braccio d'oro (1955), in cui Frank Sinatra interpreta il ruolo di un tossicomane. Con gli anni Sessanta, il codice si dimostra sempre più anacronistico perché la composizione dell’audience è radicalmente cambiata. Le famiglie, che avevano rappresentato il cuore del pubblico del cinema classico, rimangono a casa a guardare la televisione e al cinema ci vanno quasi unicamente i giovani. È proprio a quest’ultimi che appartiene una generazione poco in sintonia con i dettami del Production Code: è il periodo della lotta per i diritti civili, dell’opposizione alla guerra del Vietnam, degli hippies. Il codice verrà definitivamente abrogato nel 1968, a favore di un sistema di classi, sul modello di quello in uso in Gran Bretagna e in altri paesi europei, che vieta la visione di alcuni film agli spettatori al di sotto di certe fasce di età. 4. Il genio del sistema: <<Il mago di Oz>> I registi erano solo un tassello di una complessa macchina, alla cui guida vi era il produttore, e di cui facevano parte altre figure che fornivano un lavoro determinante al risultato finale, a volte anche superiore a quello del regista stesso. Un caso di tale modus operandi è rappresentato da Il mago di Oz, la cui vicenda produttiva espone perfettamente la natura del genio del sistema di cui parlava Bazin a proposito della tradizione hollywoodiana. Il mago di Oz è tratto dal romanzo di Frank Baum, pubblicato per la prima volta nel 1900, è uno dei testi più popolari della letteratura americana per infanzia: racconta della piccola Dorothy, trasportata da un tornado dal Kansas alla favolosa terra di Oz, dove la bambina vive avventure in compagnia dello spaventapasseri, dell'uomo di latta e del leone codardo. Di questo libro erano già state realizzate numerose riproduzioni teatrali e cinematografiche, in buona parte con l'aiuto dello stesso Baum, a partire dal 1902. Nell'autunno 1937, la Metro Goldwyn Mayer decise di fare un nuovo adattamento dell'opera per rispondere l'imminente uscita nelle sale di Biancaneve e i 7 nani (1937), il primo lungometraggio della Disney. La convinzione generale era che il film della Disney avrebbe ottenuto ottimi risultati di botteghino, per questo la MGM voleva disporre di una favola in technicolor da offrire al pubblico. Il mago di Oz viene costruito sullo schema adottato da Disney: un soggetto fiabesco che va ad ibridarsi con il pattern dei musical. La scelta di utilizzare il colore per le scene ambientate ad Oz, in contrapposizione al bianco e nero virato al seppia del prologo e dell'epilogo che si svolgono nel Kansas, fu dettata dalla voglia di rivaleggiare le creazioni di Walt Disney. Sin dai primi anni Trenta, la Disney si era largamente affidata al colore per creare il clima magico delle sue storie. Il primo film hollywoodiano in technicolor è stato prodotto proprio da Walt Disney: Fiori e alberi (1932), un cortometraggio della serie Silly Simphonies. I colori brillanti che caratterizzano l'avventura di Dorothy, a partire dal rosso rubino delle scarpe fatate della ragazza, sono volutamente antinaturalistici, pensati per una messinscena favolistica che faccia somigliare il film ad un disegno animato. Il progetto de Il mago di Oz nasce, quindi, come risposta ai risultati ottenuti da una casa concorrente: vuole distinguersi da Biancaneve e i 7 nani, perché si tratta di un film dal vero anziché di un cartoon, ma al tempo stesso fa proprie alcune opzioni stilistiche della pellicola Disney. Nel 1938 la MGM era guidata da Louis Meyer. Fino alla metà degli anni Trenta, Mayer aveva dovuto condividere la gestione con Irving Thalberg, enfant prodige divenuto capo della produzione a soli 25 anni. Thalberg sarà il modello del protagonista dell'ultimo romanzo di Scott Fitzgerald, Gli ultimi fuochi, ambientato nel mondo del cinema. La morte prematura di Thalberg, avvenuta nel 1936, lascia Mayer da solo al vertice della compagnia che dirigerà fino al 1951. Mayer affida il progetto del Mago di Oz a Mervyn LeRoy, ex regista della Warner arrivato da poco alla MGM, dove svolge funzioni di produttore. Mayer gli impone di essere affiancato da Arthur Freed, un compositore, il cui aiuto è ritenuto necessario per la realizzazione di un musical. Meyer cerca anche di prendere in prestito la diva bambina Shirley Temple, sotto contratto presso la 20th Century Fox. Quella del prestito di registi, attori e tecnici da uno studio all'altro era una pratica piuttosto comune, ma in questo caso la trattativa non va in porto. La scelta cade quindi su Judy Garland, una giovane promessa della MGM. La Temple risultava sicuramente più congruente rispetto alla trama del libro, perché l'eroina di Baum è una bambina e non un adolescente, qual era Judy Garland che venne truccata per dimostrare anni in meno. Ma alla fine la presenza della Garland si rivelerà fondamentale, infatti se Il mago di Oz è diventato uno dei classici del cinema americano e Over the Rainbow è uno dei brani più famosi di tutta la storia della musica per il film, lo si deve in buona parte alle grandi doti canore della star. Inoltre l’incontro tra Judy Garland e Arthur Freed influenzerà in modo determinante lo sviluppo successivo del musical della MGM. L’attrice, infatti, costituirà uno degli elementi centrali della Freed Unit. Il primo sceneggiatore a cui viene affidato il compito di ridurre il testo di Baum per lo schermo è Hermann Mankiewicz, autore dello script di Quarto potere. Stende un primo adattamento, senza sapere che altri due sceneggiatori Ogden Nash e Noel Langley, sono stati messi a lavorare sulla stessa materia. A Hollywood accadeva spesso che diversi sceneggiatori operassero contemporaneamente su un medesimo soggetto, in modo tale che i produttori potessero scegliere tra ipotesi differenti ed estromettere dal processo produttivo coloro che contribuivano in maniera poco efficace. I titoli di testa attribuiscono la sceneggiatura a Langle, Florence Ryerson e Edgar Allan Woolf, ma in tutto furono ben dieci gli scrittori che lavorarono alla sceneggiatura del film in fasi diverse. Ma la parte più rilevante del lavoro venne svolta da Langley. Una situazione simile si può ritrovare anche sul piano della regia, in quanto sul set del Mago di Oz si alternarono quattro registi diversi. Il primo è Richard Thorpe, che dopo due settimane venne allontanato perché LeRoy non lo riteneva all'altezza del compito. A sostituirlo arriva George Cukor, uno dei registi più importanti dell'epoca e autore di alcune delle migliori commedie hollywoodiane come Donne (1939) e Scandalo a Filadelfia (1940). Ma rimase solo tre giorni per poi andare a dirigere Via col vento. In questo breve lasso di tempo però fornisce un aiuto importante, cambiando la pettinatura della protagonista per renderla più possibile una semplice ragazza di provincia. Dopo di lui giunge Victor Fleming, anche lui un regista artigiano come Thorpe. Fleming lavora al film per ben quattro mesi, arrivando quasi fino alla fine della lavorazione. Infatti sui credits compare il nome di Fleming, che però a pochi giorni dalla fine delle riprese dovrà lavorare a Via col vento, dal qui set nel frattempo Cukor è stato cacciato. Il quarto regista è King Vidor (per dieci giorni), il più indipendente dei registi della MGM. Durante il periodo del cinema muto, Vidor era stato uno tra più importanti cineasti americani, firmando opere come La grande parata (1925) e La folla (1928). Negli anni Trenta, si misura con temi scottanti come nel caso di Nostro pane quotidiano (1934), un film autoprodotto dove affronta la tragica realtà della Grande Depressione. Vidor era un regista piuttosto lontano dallo spirito del Mago di Oz, ma essendo comunque dipendente di una Major accettò di buon grado di portare a termine il film senza neanche comparire nei titoli di testa. Nel caso dei film con budget molto alti, che coinvolgevano centinaia di persone, la stesura dei credits poteva essere oggetto di complesse trattative tra la casa di produzione, coloro che avevano collaborato alla pellicola e le organizzazioni sindacali che rappresentavano i diversi ruoli professionali (la Screen Directors Guild per i registi, la Screen Writers Guild per gli sceneggiatori ecc.), e spesso capitava che qualcuno non figurasse o fosse sminuito, oppure che la persona sbagliata ottenesse dei meriti. Si considera il 1939 come l'anno simbolo della Hollywood classica. Dopo il conflitto, le Majors colpite dalla Paramount decision e dalla concorrenza della televisione, non saranno più in grado di sviluppare la fantasia e la forza produttiva espresse nel periodo prebellico. Nel 1939 escono alcuni dei più grandi capolavori del cinema americano classico: in primo luogo Via col vento, che ha tanto in comune con il Mago di Oz, a partire da due dei suoi registi e dall'utilizzo del technicolor. Ma ci sono anche Ninotchka di Lubitsch, Mister Smith va a Washington di Frank Capra, Ombre rosse di John Ford, La voce della tempesta di William Wyler, La via dei giganti di Cecil De Mille, Avventurieri dell'aria di Howard Hawks e Donne di George Cukor. Il mago di Oz, in quest'anno di incredibile abbondanza, ottiene buoni risultati al botteghino, ma a fronte di costi di produzione promozione molto alti finisce per rappresentare una perdita per la compagnia. Il film inizierà a produrre utili grazie ai passaggi televisivi e all'home video, quando si sarà profondamente inserito nella cultura popolare americana. Negli Stati Uniti, infatti Il mago di Oz è uno di quei film a cui si allude spessissimo, al cinema così come nelle conversazioni quotidiane, a partire dalla famosa frase che Dorothy pronuncia quando arriva ad Oz: <<Ho l’impressione che non siamo più nel Kansas>>. Ma anche per il droide D3BO di Star Wars (1977) chiaramente ispirato all'uomo di latta, e la comparsa di Glinda, la strega buona che protegge Dorothy, a conforto di Nicholas Cage nel finale di Cuore selvaggio (1990) di David Lynch. LO STILE CLASSICO <<CASABLANCA>> 1. La classicità hollywoodiana Il cinema dell'età d'oro di Hollywood è un riferimento imprescindibile per l'immaginario del 900. Ha costituito, una potenza economica, uno strumento politico e propagandistico fondamentale, ma anche una produzione culturale che ha diffuso forme narrative, tecniche linguistiche e schemi iconografici, rendendolo un modello di riferimento. Tale importanza è il risultato di sperimentazioni tecniche e narrative, di progressive modificazioni e razionalizzazioni dell’apparato industriale, in un processo che ha come fine il raggiungimento di una stabilità di modi di produzione di rappresentazione, ma anche come espressione di una cultura capace di segnare un epoca, di raccogliere l'eredita di tradizioni precedenti, di fondare una nuova civiltà culturale, proseguire ricreare una mitologia che uniscono l'universo culturale della vecchia Europa e quello giovane dell’America. Il critico francese André Bazin fu tra i primi a riconoscere nel cinema tutti i caratteri di un’arte classica, riferendosi particolarmente agli elementi linguistici e stilistici. In Europa, ma soprattutto in Francia, l'entusiasmo di molti intellettuali si contrappose al disprezzo della cultura accademica, celebrando con Hollywood la nascita di un cinema capace di raccontare con un proprio linguaggio e un proprio stile, non più dipendente dal teatro e dalla letteratura. L'icona di Charlot, ripresa nel film d'avanguardia del pittore Léger Ballett mécanique (1924) ne è una testimonianza significativa. Nella decostruzione delle forme artistiche tradizionali e nel “balletto meccanico” che ne deriva emerge la silhouette del tipico personaggio del cinema hollywoodiano di allora. Per Léger e l'avanguardia storica, il riferimento al cinema hollywoodiano vale come provocazione nei confronti della vecchia arte europea e sono soprattutto qualità ritmiche e dinamiche dei film a fornire uno stimolo per un cinema fatto da pittori, poeti e musicisti. Vi è l'idea che la cultura di Hollywood sia in qualche modo erede e depositaria della cultura tradizionale, o che ne abbia introiettato in forme proprie il lascito. Per il poeta francese Blaise Cendrars, Hollywood è da considerare una vera e propria città d'arte, strettamente imparentata con altri luoghi e città simbolo della civiltà culturale, diventandone una sorta di erede. Anche il regista francese Erich Rohmer conferma l'idea di Hollywood come patria della nuova arte, un po’ come Firenze nel 400 per i pittori o Vienna per i musicisti. In un articolo del 1975 sul l’Espresso, Umberto Eco individua nel cult movie (Casablanca) di Michael Curtiz, un intreccio di infiniti stereotipi letterari, archetipi e motivi narrativi, che Lo spazio organizzato dal decoupage è di 180°, cioè l'articolazione visiva viene condotta attraverso angolazioni che appartengono ad una stessa metà dello spazio complessivo, consentendo allo spettatore di percepire l'azione da una prospettiva omogenea. Questa logica sintattica trova un forte fattore di potenziamento nella colonna sonora: questa mantiene la progressione narrativa a dispetto degli stacchi di montaggio. A livello extradiegetico, la musica di accompagnamento è in grado di raddoppiare le strategie testuali e di scrittura condotte su altri livelli. A ciò si aggiunge un sistema di punteggiatura convenzionale, per cui stacchi netti segnano transazioni di diverso ma chiaro significato guidando in modo coerente e privo di ambiguità il percorso del racconto. 4. <<Casablanca>>, ovvero il culmine della Hollywood classica Casablanca pare come il film hollywoodiano classico per eccellenza. La pienezza e la stratificazione individuata da eco, la prevedibilità e il raccontare personaggi mitici come il Rick di Humphrey Bogart, il suo linguaggio tipicamente classico ne fanno un film chiave giustificando il suo essere, anche dopo molti anni, un cult movie condiviso da diverse generazioni di spettatori. Casablanca è prodotto dalla Warner Bros, che l'anno prima aveva realizzato Il mistero del falco (1941) con regia di John Huston, film che aveva promosso Bogart a un ruolo di divo. Il Rick di Casablanca riprende molti tratti del personaggio del film precedenti, quelli del good bad boy, attivando percorsi di lettura intertestuali che risultano fondamentali nel guidare le attese e l'adesione dello spettatore. Del film precedente provengono anche Sydney Greenstreet e Peter Lorre, che servono a tener viva una dimensione vagamente noir che contribuisce ad alimentare lo schema narrativo di motivi familiari allo spettatore dell'epoca, proiettandoli nel contesto allargato dei film anni Quaranta. Il film è il risultato di una catena di montaggio, di un lavoro del tutto plurale, condotto sotto la supervisione del produttore esecutivo Hal Wallis, che omogeneizzò tutti gli apporti, intervenendo a vari livelli, a partire dalla sceneggiatura fino al montaggio finale. In questo senso è più significativo il ruolo di Wallis rispetto a quello del regista Michael Curtiz. Per quanto riguarda la preparazione della sceneggiatura, possiamo constatare la presenza di una polifonia di studio, ma anche la stratificazione narrativa tipica del cinema hollywoodiano che trova origine proprio nel processo di lavorazione. È quindi evidente che il film è totalmente frutto dello studio system, più che di una logica autoriale, testimoniando l'alto grado di professionalità raggiunto da questo sistema, ma anche la capacità di distillare un immaginario dalle molteplici fonti e provenienze anche in senso geografico, data la presenza di maestranze di origine europea impiegate negli studios hollywoodiani. Le ristrettezze economiche imposte al film con l'ingresso in guerra degli Stati Uniti, vengono risolte riciclando scenografie utilizzate in altri film ho avvolgendo in una nebbia da film noir gli spazi ricostruiti in studio, come il mitico aeroporto della sequenza finale. A questi riferimenti interni al sistema cinema si aggiungono richiami all' attualità, alla storia, che vanno a creare un racconto costruito su stereotipi classici con esigenze di propaganda ideologica del momento, amministrata da precise regole e convenzioni a uso delle case di produzione. Casablanca, attraverso il sacrificio amoroso di Rick a favore dell'impegno nella resistenza contro il nazismo, racconta la necessità dell'intervento statunitense nel secondo conflitto mondiale e la fine della politica isolazionista americana. Per questo venne recensito positivamente dal Bureau of Motion Picture, che aveva l'incarico di schedare i film sulla base del loro contenuto ideologico; i riferimenti alla guerra aggiungevano chiavi di lettura per lo spettatore, Nell'intreccio narrativo tra storie individuali, private si aggiunge la storia contemporanea. Il film utilizza al meglio la logica del double plot, dosando abilmente gli schemi di genere a cui le due linee narrative principali fanno riferimento. Nel film, tutto tende a costruire una mappa che risulta legata sia sentimenti che a valori: Parigi, Casablanca e la terra promessa, cioè l'America, disegnano i contorni fisici del processo ideologico uno che l'intreccio del film sostiene. Per esempio, la contrapposizione tra Rick e Laszlo, riprendi il conflitto classico tra outlaw hero e official hero, c'è l'eroe che si colloca fuori dalla legge e l'eroe ufficiale. Da questo punto di vista lo schema ideologico del film risulta molto interessante. L'andamento dell' intreccio celebra la riconciliazione tra i due eroi, ma non bisogna dimenticare che l'outlaw hero, cioè Rick, coincide con la star del film, creando l'identificazione e la passione spettatoriale che rappresenta il fulcro del film, come dimostra anche lo stile di ripresa che regala un numero di piani ravvicinati maggiore rispetto a quelli riservati all'altro attore, Laszlo, e in generale un découpage che tende a mitizzare il ruolo, l’immagine e l’universo ideologico di cui è portatore. Al sistema ideologico dei personaggi si affianca un vero e proprio sistema stilistico che stabilisce gerarchie e ruoli. I primi piani sono riservati ai soli protagonisti, i due eroi maschili e la donna, Ilsa- Ingrid Bergman, ma in quantità e qualità diverse: i primi piani della Bergman sono contraddistinti da una fotografia meno contrastata, con toni più morbidi e opalescenti; mentre quelli di Bogart, appaiono più duri e luministacamente frammentati. Rick domina il film, così come l'America, simboleggiata da Rick stesso e dal suo Café Américain nel cuore di Casablanca, luogo fisico e mentale verso cui tutti tendono. Sebbene la stretta di mano finale tra Rick e Laszlo simboleggi la riconciliazione tra i due eroi e la fine della posizione isolazionista dei Rich e dell’America, è anche vero che l'eroe americano pur decidendo per l'impegno, lo fa mantenendo la sua indipendenza e allontanandosi, senza la donna, verso un luogo oltre, in una formazione piena della mitologia e dell’ideologia americana più profonda. Il personaggio di Rick, in cui molti hanno riconosciuto anche Huckleberry Finn, è un topos americano che con Bogart diviene un'icona visiva. 5. La presentazione di Rick. Esercizi di stile (classico) Casablanca, insieme ai film precedenti e successivi interpretati da Bogart, aiuta delineare i tratti di questa icona. Michael Wood in America in the Movies, fa riferimento all' inquadratura successiva all'arrivo di Ilsa al Rick's Café, quando Rick- Bogart è solo e amareggiato, dopo il ritrovamento e lo scontro con la donna amata. Questa inquadratura soprattutto, insieme ad altre, aiutano a definire l'icona Bogart nel loro insieme e nella loro somiglianza, coerenza. In quell'immagine vi è una fotografia, un'angolazione a cui si arriva con e dopo un certo découpage, cioè una ben precisa strategia retorica che ne prepara l'apparizione e funziona come punto di raccolta e rilancio di tutto ciò che è il personaggio di Rick, o Bogart, ma anche tutti gli altri personaggi interpretati dall'attore. La sequenza di presentazione di Rick colma sin da subito il desiderio dello spettatore di vedere il divo, rispondendo così alla sua attesa. Tale attesa e alla base del film e del suo funzionamento, infatti questo è stato lanciato tramite gli organi di stampa i cinegiornali, come un film Warner con Henry Bogart e Ingrid Bergman. Dal momento che lo spettatore è seduto in sala, attende e desidera che alcune promesse narrative vengano mantenute e soprattutto in un certo modo. Bogart è una di queste promesse come il personaggio di Rick che viene evocato ripetutamente nella sequenza di esordio del film, ben prima di apparire nell’inquadratura. Infatti dopo la presentazione del luogo in cui si svolge il film e dei luoghi a cui si farà più spesso riferimento, l'insegna del Rick's Café fa riferimento non solo all'ambiente più importante del film, a livello di intreccio e a livello simbolico, ma anche a un nome Rick, anticipando graficamente l'enunciazione orale che avverrà successivamente. Questi riferimenti ci dicono già qualcosa del personaggio di Rick, dandoci degli indizi. Le aspettative dello spettatore in questo modo vengono guidate, ma anche stimolate. Infatti non si fa che parlare di Rick, ma ancora non lo si vede grazie al découpage che rinvia il più possibile la sua apparizione nell’inquadratura. Nel locale, dove le porte si aprono su un universo ben differente rispetto a quello esterno, il montaggio alterna alcune inquadrature di clienti che guardano fuori campo chiedendo di Rick. I raccordi di sguardo tra un piano e l'altro, fanno in modo che la successione risulti morbida e naturale, e che i loro sguardi coinvolgano lo spettatore nello spazio della finzione alla ricerca di Rick. Alcuni movimenti di macchina, interni alle singole inquadrature, aggiungono fluidità al decoupage, ma allo stesso tempo intensificano l'attesa con l'instabilità del punto di vista dell'obiettivo. Sebbene dopo questa prima attesa e dopo l'annuncio costituito dagli sguardi dei clienti, sull'immediata apparizione di Rick, il montaggio estremamente frammentato e l'immagine poster di Bogart non arriva se non dopo un percorso preciso scritto a tavolino a dispetto della naturalezza e dell'illusione di realtà che caratterizzano l'ingresso in scena del personaggio nel mondo della finzione. Dopo un paio di inquadrature in movimento che mostrano gli sguardi dei clienti che chiedono di Rick, un raccordo di sguardo ci conduce ad una nuova inquadratura in cui vediamo un croupier porgere un assegno a qualcuno. Pochi istanti e un nuovo accordo, sul movimento e sulla direzione del braccio del croupier, ci porta ad un piano più ravvicinato che riprende il gesto della consegna dell'assegno a qualcuno di cui vediamo il braccio. Una mano firma l'assegno. Un nuovo stacco e sul braccio, mostrato ora quasi frontalmente, con una leggera obliquità, accanto ad un bicchiere da cocktail, una sigaretta e una scacchiera. Tali oggetti acquistano una funzionalità notevole: grazie ad essi si capisce già di che tipo di personaggio si tratta. Poi la macchina da presa si muove in diagonale, verso l'alto, seguendo la traiettoria della sigaretta portata la bocca e mostrandoci finalmente il mezzo primo piano di Rick-Bogart, in smoking bianco: vi è un utilizzo dell'illuminazione contrastata, dura, inquieta. Un ulteriore stacco mostra Rick di profilo, leggermente dal basso verso l'alto, incrociando questo con il gioco luministico e con l'espressione chiusa, amara e distante. Altre inquadrature lo riprendono mentre si limita a rispondere, tramite cenni, ai suoi interlocutori. Torna infine il mezzo primo piano, l'immagine poster, il punto di arrivo e di raccolta. E la logica del frammento, del decoupage, che rende mitiche quelle fattezze, avendo celebrato i dettagli del braccio, della mano, del volto ecc. Una strategia di scrittura convenzionale, mascherata dalla continuità narrativa, dal desiderio dello spettatore, dalla logica degli accordi che gettano ponti tra un frammento e l'altro. Il continuity system rende invisibile l'artificio su cui si basa l'apparizione di Bogart, con una colonna sonora che registra la continuità dei suoni diegetici: rumori e dialoghi e la musica di Sam, che prepara l'arrivo di Rick cantando It Had To Be You. IDEOLOGIA E STORIA NAZIONALE <<SENTIERI SELVAGGI>> 1. Hollywood, la società, la politica Sentieri Selvaggi (1956) di John Ford, che al momento della sua uscita non destò entusiasmo, ha esercitato una marcata influenza sui cineasti delle generazioni future, poiché si configura come sintesi dei grandi temi dell’immaginario e della cultura degli Stati Uniti: costruzione della civiltà in uno spazio vergine, il viaggio oltre la Frontiera e lo scontro con i “selvaggi”, l’amicizia virile, il fascino oscuro della violenza, il terrore dello stupro della donna bianca da parte di un uomo “di colore”. Il cinema americano, nel corso del XX secolo, è stata la grande fabbrica dei sogni, cioè un luogo ideale in cui intere generazioni si sono rifugiate per lasciarsi alle spalle le angosce della vita. Ma allo stesso tempo, anche i film “leggeri” presentano tracce di problemi sociali, politici, economici dell’epoca in cui sono stati realizzati. Un esempio è Il bacio della pantera (1942) di Jacques Tourneur, un B-movie della RKO. Un classico dell’horror che racconta la vicenda di Irena (Simone Simon), una disegnatrice di moda originaria di un villaggio sperduto della Serbia, le cui donne sono perseguitate da una maledizione: in caso di forte turbamento emotivo, si trasformano in belve feroci e uccidono, anche la persona che amano. Il film si apre con l’incontro tra Irena e Kent allo zoo, davanti alla gabbia di una pantera. Kent, ingegnere navale, corteggia la donna e poco dopo i due si sposano. La prima notte di nozze, Irena si chiude in camera da sola perché teme di trasformarsi in pantera e sbranare il marito. Kent manda la donna da uno psicanalista, ma la terapia non le è da aiuto. La donna inizia a nutrire una violenta gelosia verso il marito, sempre più legato ad Alice, una sua collega chiaramente innamorata dell’uomo. Le cose precipitano quando Irena tenta di sbranare Kent e Alice, sbrana il dottore che le aveva fatto delle avances e muore nel giardino zoologico, uccisa dalla pantera che ha liberato. La lettura più ovvia è quella psicanalitica: Irena è frigida, la ragazza è terrorizzata dal sesso e dall’uomo con la spada (il re medievale che le appare in sogno e che, secondo la leggenda, sterminò i mostri del suo villaggio; ma anche l’analista, che nella scena dell’aggressione estrae una lama dal bastone da passeggio). Ma Il bacio della pantera si presta ad analisi di diverso taglio metodologico: infatti emergono vari elementi di interesse. Alice, “fidanzatina d’America” di tipo canonico, agli antipodi rispetto alla fascinosa e inquietante Irena, e Kent, ragazzo sano e schietto, rappresentano l’americano medio soddisfatto, senza problemi e senza un passaggio tragico da cui sfuggire. Ci sarebbe la terribile storia della schiavitù, rappresentata dalla cameriera nera del ristorante davanti allo studio dove i due lavorano, ma nessuno sembra ricordare. Parlando con Alice delle sue difficoltà matrimoniali, Kent afferma che tutto è sempre andato bene per lui, questa è un'idea squisitamente americana secondo cui il male è altrove. Irena, discendente di una stirpe dannata i cui membri nel medioevo venivano passati a fil di spada, il simbolo della progressivamente verso ovest, fino a scomparire con la conquista dell'intero continente da parte dei bianchi intorno al 1890. Secondo Turner, è in questo territorio, dove si sono riversati i coloni provenienti dalle nazioni più diverse, che si è generata la specificità della democrazia americana, libera dal retaggio feudale europeo. Il confronto dell'uomo bianco con il territorio selvaggio e con coloro che vi abitano, rappresenta uno dei centri vitali dell'intera tradizione culturale americana. La scena di Johnny Guitar, quella del falso processo a Vienna, rappresenta alla perfezione questo archetipo: Vienna si trova nel salone del suo locale e sta suonando il pianoforte. Joan Crawford indossa un ampio vestito da sera bianco, che contrasta violentemente con il nero della folla intenzionata a linciarla (stride anche con gli abiti maschili che la donna porta nel resto del film). Il pianoforte, il vestito, il nome stesso del personaggio, rimandano all’idea di civiltà, ad un mondo elegante e raffinato. Ma la parete di fondo della sala è fatta di roccia: la casa da gioco di Vienna fa riferimento alla wilderness, un pezzo di natura nella cultura dei pionieri non ancora soggiogata. Johnny Guitar è un western anomalo, poiché le due figure forti al centro del conflitto sono due donne: Vienna ed Emma. Anche il duello finale si svolge tra i due personaggi femminili, mentre gli uomini (persino Johnny Guitar) rimangono ai margini. Nella tradizione del cinema western sono le donne a essere collocate ai margini della vicenda, quando non sono del tutto assenti. Dall’Ultimo dei mohicani di James Fenimore Cooper alle Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, passando per Le avventure di Gordon Pym di Edgar Allan Poe e Moby Dick di Herman Melville, l’eroe americano è un uomo in fuga dalle donne e dalla civiltà, che sceglie una vita errante nella prateria o sui mari, a caccia o in guerra, in compagnia di un “selvaggio”. L'unica forma di amore presente in queste vicende e quello tra uomini sublimato nell’amicizia virile tra compagni d'arme. L'erede novecentesco di questa tradizione letteraria è stato il cinema hollywoodiano e in particolare il western che, nelle mani di registi come John Ford, Howard Hawks, Anthony Mann, ha messo in scena la storia del maschio fuggiasco. Basta solo pensare ai molti film western in cui, alla fine, l'eroe cavalca da solo verso il tramonto, lasciandosi alle spalle una donna che lo ama: da Sfida infernale (1946) di Ford a L’uomo di Laramie (1955) di Mann, passando per Il cavaliere della valle solitaria (1953) di George Stevens. Il cinema western ha rielaborato temi e figure della cultura, sia bassa che alta, nata nell’Ottocento attorno all'esperienza della frontiera per produrre racconti che hanno costituito l'incarnazione dell'idea che l'America ha di se stessa. 3. <<Mi chiamo John Ford. Faccio western>> Il cineasta hollywoodiano che più si è dedicato al western, dal suo debutto alla regia nel 1914 sino al ritiro nel 1966, è stato John Ford. Ford si è anche misurato con altri generi, i quali gli hanno portato i maggiori riconoscimenti professionali. Infatti, nonostante la centralità di questo genere all'interno del cinema americano classico, l'establishment hollywoodiano ha sempre guardato i western con sufficienza, come a film da adolescenti, strutturalmente incapaci di esprimere valori artistici. Tutti gli Oscar vinti da Ford per il miglior film o la miglior regia sono relativi a drammi a sfondo sociale oppure a commedie: Il traditore (1935), Furore, Com'era verde la mia valle (1941), Un uomo tranquillo (1952). Il principale contributo di Ford al cinema americano è però sicuramente rappresentato dai suoi film incentrati sul mito della Frontiera, a partire da Ombre rosse (1939), che è uno dei titoli che amo maggiormente segnato il passaggio del western dallo status di B-movie a genere di prima grandezza. Il film che rappresenta al meglio l'opera di Ford, ma più in generale del western nel suo complesso, è Sentieri selvaggi. Sentieri selvaggi si presenta come la quintessenza del cinema fordiano già a partire dal cast e dai credits. Il personaggio principale, Ethan Edwards, è interpretato da John Wayne, attore fordiano per antonomasia. Tre personaggi secondari troviamo caratteristi abituali del regista, come Ward Bond e Harry Carey Jr. Quest'ultimo era il figlio del divo del western muto Harry Carey, che era stato il mentore di Ford all'epoca del suo debutto come regista. Il gesto di Wayne di tenersi il braccio destro con la mano sinistra all'altezza del gomito era un gesto tipico di Harry Carey. Lo script è di Frank Nugent, autore delle sceneggiature di alcuni dei film più nodi di Ford, come Il massacro di Fort Apache (1948), I cavalieri del nord-ovest (1949), La carovana dei mormoni (1950) e Cavalcarono insieme (1961). La location principale è la Monument Valley, zona desertica coperta di mesas (formazioni di roccia dalle pareti ripide e dalla sommità piatta), nel sud ovest degli Stati Uniti, che Ford utilizzò per la prima volta in Ombre rosse e dove continuò a lavorare periodicamente. È uno spazio intimamente fordiano, in cui nessun altro regista vi si è mai avventurato, se non per fare un omaggio al maestro del western, come Dennis Hopper in Easy Rider (1969). La colonna sonora (sotto la direzione di Max Steiner) è costruita largamente da motivi della tradizione folk americana, tra cui Gather at the River, un inno di chiesa presente in molti film di Ford. 4. Un’odissea americana: <<Sentieri selvaggi>> All'inizio del film un cartello ci informa <<Texas 1868>>. Una porta si apre sul paesaggio maestoso della Monument Valley. Una donna esce sul portico di casa seguita dai suoi figli e dal marito, a osservare un cavaliere che giunge dal deserto. È Ethan, reduce della guerra di secessione che a tre anni dalla sconfitta torna alla fattoria del fratello Aaron e di sua moglie Martha. Sin dalla scena iniziale, Sentieri selvaggi richiama l'attenzione sulla dialettica tame/wild: da una parte c'è un luogo chiuso, la casa con al centro una donna; dall'altro c'è il deserto sconfinato, in cui si staglia la figura solitaria di un uomo. Il campo di ripresa proprio degli uomini è il campo lungo, che permette di abbracciare la vastità dell'orizzonte mentre quello delle donne è il campo totale che mostra il chiuso dell'universo domestico. Da subito la dimensione che domina il film è quella dello spazio immenso del West, la cui ampiezza viene enfatizzata dal formato panoramico (Vista Vision), che favorisce il movimento orizzontale, legato all'idea della ricerca (Il titolo originale è The Searchers, i cercatori). A questo si aggiunge il tipo di colore usato da Ford, cioè il technicolor che è lo strumento più adatto alla mitizzazione che al realismo. La scenografia di Sentieri selvaggi è fortemente stilizzata: è lo spazio del mito, svincolato da precise coordinate geografiche. L'esistenza di una fattoria in mezzo alla Monument Valley è inverosimile, perché si tratta di un territorio del tutto inospitale. La forza di questa location sta nella sua portata simbolica: la casa nel deserto è la perfetta visualizzazione dello scontro tra il colono bianco e la wilderness. Sentieri selvaggi racconta l'inseguimento da parte di Ethan degli indiani Comanche che hanno rapito Debbie, la figlia più piccola del fratello, e hanno sterminato gli altri membri della famiglia, dopo aver violentato Marta e la figlia più grande Lucy. Ethan è accompagnato da Martin (Jeffrey Hunter), un ragazzo di sangue misto allevato da Aaron e Marta dopo il massacro dei suoi genitori a opera dei pellerossa. Ethan e Martin vagano per anni nelle sconfinate plaghe del West, in cerca della banda del capo Scar (Scout nella versione italiana). La ricerca di Ethan e Martin dura cinque anni, ma si tratta di un tempo assolutamente astratto: quello che conta è il tempo interiore del viaggio iniziatico. Il montaggio fa procedere le stagioni, spostando i personaggi dalle distese innevate del Nord alle dune del deserto del Sud-Ovest, in un percorso circolare che porterà i due inseguitori al punto di partenza. Infatti la liberazione di Debbie avverrà poco lontano dalla fattoria. Mentre l'avventura dei due procede, la fidanzata di Martin, Laurie Jorgensen (Vera Miles), esasperata dall' attesa del ritorno dell'amato, decide di sposare Charlie McCorry, membro della compagnia di Texas Rangers insieme alla quale, all'inizio del film, Ethan e Martin avevano tentato di salvare Debbie (Natalie Wood). Quando i due protagonisti trovano finalmente la ragazza, questa è ormai diventata una donna: una squaw sposata Scar, che all'inizio non ricorda neanche l'inglese e parla nella lingua dei Comanche. Ethan, che odia completamente gli indiani, è intenzionata ad ucciderla, ma Martin riesce a fermarlo. Segue uno scontro con i guerrieri di Scar: Ethan viene ferito e i due sono costretti alla fuga. Giungono alla fattoria dei Jorgensen, dove sta per celebrarsi il matrimonio tra Charlie e Laurie. Il rito viene interrotto, Martin e Charlie si battono sotto lo sguardo di Laurie, la quale ha già scelto di tornare con l'amato. Proprio quando la coppia si è ricongiunta, Martin deve nuovamente partire. Arriva un ufficiale di cavalleria, insieme a Mose Harper, un vecchio che rivela a Martin dove si trova il campo di Scar. Martin ed Ethan partano per la battaglia, accompagnati dai Rangers. Nonostante l'opposizione di Ethan, Martin si introduce nel villaggio, prima dell'attacco, per tentare di ritrovare Debbie. Il ragazzo riesce ad entrare nella tenda del capo, uccide Scar e porta via Debbie. I Rangers assaltano l'accampamento, e nella confusione dello scontro, Ethan toglie lo scalpo al cadavere di Scar, per poi lanciarsi all'inseguimento della nipote. Liberatosi di Martin, Ethan afferra Debbie e la stringe teneramente a sé. I due uomini tornano con la donna dagli Jorgensen, tutti entrano in casa tranne Ethan che rimane fuori, inquadrato dall'interno attraverso la cornice della porta. La porta si chiude, in modo speculare rispetto all' incipit, per sottolineare la natura circolare della struttura del testo. La dialettica tame/femminile vs wild/maschile, presente nella scena d'apertura, attraversa tutto il film. Ethan è la perfetta incarnazione del maschio fuggiasco. Pur amando Martha, è andato in guerra, alla quale Aaron non ha partecipato. Dopo la capitolazione del Sud, Ethan ha fatto il bandito e il mercenario in Messico. È un guerriero di professione, che non ha accettato la sconfitta del Sud e ha continuato a combattere anche una volta terminato il conflitto. Subito dopo Clayton, che ha arruolato protempore Ethan nel suo reparto, cerca di farli prestare giuramento come volontario, ma questo gli risponde di aver già fatto un giuramento agli Stati Confederati d'America. Questo comporta la stizza di Clayton, in quanto Ethan gli sta rinfacciando di essere venuto a patti con il nemico. Infatti, facendo parte dei Rangers, Clayton è al servizio del governo federale che è stato loro avversario durante la guerra. Poco prima questo si era definito ufficiale dello Stato sovrano del Texas, sottolineando che la sua fedeltà non era verso Washington, bensì al Sud. Alla fine del film, Ethan e Clayton si troveranno uniti nel prendere in giro il giovane tenente di cavalleria che li accompagna nel raid contro i Comanche, perché questo indossa l'uniforme blu dell'esercito del Nord. L'elemento paradossale e affascinante del personaggio di Ethan è che da un lato odia gli indiani, ma dall'altro non fa parte di quella civiltà che sta sorgendo nell'Ovest e di cui è il guardiano. Ethan, come l'eroe dell'Ultimo dei mohicani, è in bilico tra i due mondi, tanto che al termine della vicenda, non entra in casa ma rimane fuori nel deserto: la famiglia si ricompone, ma lui ne è escluso. Ethan, a furia di combattere pelle rossa, ha finito per diventare molto simile a loro: a una custodia per il fucile e dei mocassini di fattore indiana, parla la lingua dei Comanche, toglie lo scalpo a Scar. Il quale è il doppio malefico di Ethan: morto il capo indiano, il guerriero bianco non ha più un obiettivo nella propria vita. Lo spirito della Frontiera, la fiducia nelle sorti progressive del paese e nella trasformazione della wilderness in un territorio tame, non è incarnato da Ethan, ma dalle due figure materne che reggono le famiglie degli Edwards e degli Jorgensen: Martha e la madre di Laurie (Olive Carey). A quest'ultima viene affidato il discorso ideologico sul destino manifesto: noi pionieri siamo dei poveri esseri umani sperduti in una landa isolata da tutti, ma prima o poi questa regione sarà un luogo meraviglioso per viverci. Combattere gli indiani è compito degli uomini, ma sono le donne a edificare il nuovo mondo, ad addomesticare la wilderness. In Sentieri selvaggi i maschi legati alla dimensione domestica, Aaron Edwards e Lars Jorgensen (John Qualen), sono presentati come l'opposto dell'ideale virile: il primo è un inetto incapace di difendere i propri cari dagli indiani, oltre che cieco di fronte all'amore tra Martha e il fratello; il secondo è completamente subalterno alla moglie e rappresenta una figura comica. Anche il terzo maschio domestico, Charlie McCorry, è presentato come un personaggio comico. Martin è a metà strada tra il modello del maschio fuggiasco e quello del maschio domestico. Mentre Laurie dimostra apertamente il proprio desiderio fisico per Martin, quest'ultimo non si dimostra mai interessato alle donne, neppure quando una bella cameriera messicana gli fa delle avances. Martin vuole sposare Laurie, ma nei cinque anni della lunga caccia agli indiani, le scrive un'unica lettera sgrammaticata, in cui le racconta che si è sposato per errore con una squaw. Solo alla fine il giovane accetterà di accasarsi, evitando così il destino solitario di Ethan. La storia d'amore mancata tra Ethan e Martha, e il matrimonio di quest'ultima con il goffo Aaron, sono speculari rispetto alla relazione tra Martin e Laurie. Il tema del doppio è centrale nell'intera economia del testo, a partire dal doppio ruolo di Clayton (soldato e pastore di anime), o dai due nomi del capo indiano (Scar e Cicatriz, medesimo nome ma in lingue diverse). Sentieri selvaggi presenta un altro grande archetipo della cultura americana: il captivity tail, la storia del rapimento e dello stupro di una donna bianca da parte degli indiani. Il film di Ford si basa sul romanzo omonimo di Alan Lemay, ispirato al l'episodio autentico di Cynthia Ann Parker, una bambina bianca rapita dagli indiani nel 1836. L’avventura di Cynthia fu molto diversa da quella di Debbie: anche lei divenne moglie di un capo, ma quando fu salvata tentò inutilmente di tornare dei pellerossa, dopo di che si uccise. Suo figlio fu l'ultimo capo dei Comanche, prima che la tribù si arrendesse al governo di Washington nel 1875. Inoltre, nella realtà storica erano molto più frequenti casi di stupro di donne indiane da parte dei bianchi, leopardo. Tutto il film è costruito attorno a situazioni paradossali, in cui il personaggio maschile, ingannato e molestato, tenta inutilmente di sfuggire alla fanciulla, di cui alla fine però si innamorerà. La scena di chiusura è molto indicativa di questo sottogenere: Cary Grant è in cima ad un'impalcatura, accanto allo scheletro del dinosauro su cui sta lavorando, Katharine Hepburn si arrampica su una scala per parlare con l'uomo e, proprio mentre lui ammette di amarla, lei provoca il collasso del prezioso reperto preistorico. Il dialogo screwball è caratterizzato dal sabotaggio delle regole del linguaggio amoroso tradizionale: Cary Grant confessa Katharine con una formula dubitativa- “ti amo, credo” - e subito dopo c'è l'implosione dello scheletro. Hawks soffoca il sublime della dichiarazione d'amore, momento supremo del rituale di corteggiamento, attraverso il movimento dello slapstick. Negli anni Cinquanta e Sessanta, i toni saranno più pacati: Colazione da Tiffany, uno dei titoli chiave della romantic comedy del periodo, si chiude con un bacio canonico sotto la pioggia tra Audrey Hepburn e George Peppard, con l'accompagnamento musicale di Moon River. La screwball è legata all'età prebellica: dopo la Seconda guerra mondiale, i lunatics non troveranno più posto nel cinema americano. Quando Hawks li ripropone per l'ultima volta, nel Magnifico scherzo, deve giustificare le stranezze del protagonista (Cary Grant) facendogli bere una pozione che lo fa regredire all'infanzia. Non tutta la commedia degli anni Cinquanta e Sessanta ha completamente messo da parte la spregiudicatezza della screwball: per esempio nel cinema di Billy Wilder, rimane lo spirito sovversivo del passato e il finale dell'Appartamento (1960) è molto più vicino a quello di Susanna! che a quello di Colazione da Tiffany. Jack Lemmon e Shirley MacLaine giocano a carte; lui la guarda adorante e le sussurra che la ama, ma la ragazza gli risponde di stare zitto e di dare le carte. Nell'America conformista della guerra fredda però non sono in molti a possedere tale ironia, e le commedie con Rock Hudson e Doris Day (come Il letto racconta… di Michael Gordon, 1959) sono meno graffianti e sottili di quelle degli anni Trenta con Cary Grant e Katharine Hepburn. 2. Howard Hawks, un artista americano Nella Hollywood classica i registi più importanti tendevano a specializzarsi in alcuni generi (Ford faceva western, Hitchcock gialli, Minnelli musical e melodrammi). Erano registi di secondo piano, che operavano da semplici impiegati nelle Majors, a passare da un genere all'altro. Esempio è Richard Thorpe, il primo regista del Mago di Oz, il quale diresse quasi 200 film, tra cui si trovano western, la serie di Tarzan, musical, commedie, film in costume. Howard Hawks è un caso anomalo, infatti nella sua lunga carriera si è cimentato nei generi più diversi: gangster movies (Scarface, 1932), film d'avventura (Avventurieri dell'aria, 1939), film di guerra (Il sergente York, 1941), noir (Il grande sonno, 1946), western (Il fiume rosso, 1948), musical (Gli uomini preferiscono le bionde, 1953), film storici (La regina delle piramidi, 1955) e commedie. In qualità di produttore e co-regista della Cosa da un altro mondo (1951) di Christian Nyby, Hawks si è cimentato anche con la fantascienza, un genere di serie B cui nessun altro grande cineasta della Hollywood classica si avvicinò. Hawks fu sempre considerato un buon regista commerciale, ma non ottenne mai la stima di cui godevano i colleghi. La scoperta di Hawks avvenne in Francia, grazie ai cahiers du cinéma. I giovani critici della rivista rivendicarono la natura artistica del lavoro del regista, in quanto affermavano che al di sotto dell’apparente disomogeneità della filmografia è possibile trovare una forte coerenza interna: uno stile personale e un insieme di temi ricorrenti che fanno della produzione hawksiana il corpus di un autore. I suoi film raccontano spesso la stessa vicenda, pur essendo collocata in contesti spazio-temporali molto diversi: un gruppo di uomini, privi di legami con la società che li circonda, si misura in un'ardua sfida che metterà alla prova le loro capacità. Si tratta di un universo maschile, dominato dall'amicizia virile ed al culto del professionismo, in cui anche le donne trovano spazio. Se Jean Arthur in Avventurieri dell'aria o Angie Dikinson in Un dollaro d’onore (1959) si presentano come personaggi femminili di tipo tradizionale altre eroine hawksiane conquistano il cuore dell'eroe assumendo comportamenti considerati appannaggio degli uomini. È il caso di Lauren Bacall in Acque del Sud (1944), la quale affascina Humphrey Bogart dimostrandogli di essere insolente e portata all'azione tanto quanto lui. È nella costruzione di figure femminili anomale che risiede uno dei maggiori elementi di continuità tra le commedie di Hawks e gli altri suoi film: Katharine Hepburn in Susanna! e Rosalind Russell nella Signora del venerdì (1940) sono compagni di gioco ed avventura del protagonista maschile (Cary Grant in entrambi i film), con il quale stabiliscono un rapporto paritario. 3. <<La rubo e la rifaccio>>: << La signora del venerdì>> e la commedia anni Trenta La signora del venerdì, titolo chiave della screwball comedy, ci offre la possibilità di comprendere come un film possa essere interno al lavoro personale di un autore e parte integrante di un genere. La presenza di un personaggio femminile volitivo, che agisce come pal (termine gergale, caratteristico dell'immaginario maschile americano che equivale a “amico per la pelle”) dell'uomo, è un tratto tipico del cinema di Hawks, ma è anche un elemento ricorrente nella screwball comedy e nella commedia degli anni Trenta, dove abbondano le coppie di amanti- compagni di avventure, dai due ladri di mancia competente al duo on the road di accadde una notte. Nella Signora del venerdì si ritrova lo stile e i temi caratteristici del regista, ma appaiono anche dei legami con i film di altri registi, a partire dal fatto che si tratta di un remake. La signora del venerdì è la seconda riduzione cinematografica di una pièce di Ben Hecht e Charles MacCarthur, Prima pagina, portata sullo schermo per la prima volta da Lewis Milestone nel 1931. Tutta la romantic comedy degli anni Trenta e Quaranta risente dell'influenza del teatro: non solo alcuni film sono tratti da commedie teatrali (Partita a quattro e Scrivimi fermo posta di Lubitsch, 1940; Pranzo alle otto di Cukor, 1933), ma la brillantezza dei dialoghi derivava dai commediografi del tempo che spesso venivano assunti come sceneggiatori ad Hollywood. A questi si aggiungono scrittori cresciuti nei quotidiani, che contribuiscono alla verve delle commedie hollywoodiane. Significativo è il caso di Ben Hecht che fa il suo debutto nel giornalismo, per poi passare al teatro e al cinema, collaborando ad alcuni film di Hawks, tra cui la Signora del venerdì. Nel cinema di Hawks, accanto alla rielaborazione di materiali prelevati da altri film, è presente lo scarto rispetto alla norma, l'innovazione geniale e spiazzante. In Prima pagina, i due protagonisti sono uomini: il direttore di un giornale e il suo miglior reporter. Quest'ultimo vorrebbe sposarsi e cambiare lavoro, ma l'altro cerca di impedire le nozze in tutti i modi per non perdere il prezioso collaboratore. Da una parte ci sono l'amicizia virile e il mito del professionismo, dall'altra la minaccia della presenza di una ragazza, che allontana l'uomo dal rapporto privilegiato con i suoi pals. Nella signora del venerdì, però; Hawks compie una modifica e trasforma il personaggio della reporter in una donna. La signora del venerdì è una tipica commedia del “rimatrimonio”, che racconta della difficile storia d'amore tra Hildy Johnson (Rosalind Russell) e Walter Burns (Cary Grant), giornalista e direttore del Morning Post. All'inizio del film, i due hanno appena divorziato e la donna si reca in redazione per annunciare all'ex consorte che sta per risposarsi con Bruce Baldwin (Ralph Bellamy), un assicuratore che contrariamente a Walter può garantirle una vita normale, a differenza del primo matrimonio che era stato caratterizzato da un’immersione totale nella dimensione lavorativa. Walter, personaggio esuberante e spregiudicato, inizia a far di tutto per annullare le nozze. Con l'aiuto di Louie, un gangster italoamericano che gli fa da assistente, e di Vangie, un’appariscente bionda platino, riesce per ben due volte a far incarcerare Bruce con delle false accuse (furto dell'orologio di Louie e molestie nei confronti della ragazza). Ma l'arma con cui volte riconquisterà Hildy è il lavoro. La donna, nonostante all'inizio dichiari di voler smettere con la vita da cronista, in realtà è nata per fare la reporter, e quando Walter, con l'inganno, la convince a seguire il caso di Earl Williams, lei non sa resistere. Williams deve essere impiccato e il corrotto sindaco di Chicago deve sfruttare la sua situazione per fini elettorali. Dopo una serie di intricate avventure, Walter e Hildy riescono a salvare il condannato e a far fallire i piani del primo cittadino. Bruce riparte tristemente per Albany, la sua terra natia, in compagnia della madre. Il film si chiude con Walter e Hildy che progettano un viaggio di nozze alle cascate del Niagara, anche se l'uomo propone una tappa proprio ad Albany per seguire lo svolgimento di uno sciopero appena iniziato. Risulta chiara la natura del rapporto tra Walter e Hildy: all’inizio, la donna sembra desiderare un uomo con il quale costruire una famiglia ed è infastidita dalla mancanza di cavalleria dell’ex, il quale non le accende le sigarette e non la lascia passare per prima dalle porte. Ma essendo una donna che lavora, libera e intelligente, la sua natura le impedisce il sogno domestico che desidera. Rosalind Russell indossa abiti eleganti e assurdi cappellini tipici della romantic comedy degli anni Trenta, ma quando scrive l’articolo su Earl Williams, il cappellino si trasforma in un cappello da cowboy, negando così la sua femminilità. Allo stesso modo, nella scena in cui insegue un testimone che cerca di sottrarsi alle sue domande, Hildy si solleva la gonna per correre meglio e poi ferma l’uomo con un placcaggio da giocatore di football. Hildy è il collega più fidato di Walter, il suo pal nella battaglia quotidiana del Morning Post: lei stessa si definisce con questo termine prettamente maschile, nella scena in cui saluta i colleghi della sala stampa perché ancora convinta di lasciarsi alle spalle il mondo del giornalismo. Il titolo originale His Girl Friday, “la sua ragazza Venerdì”, allude al compagno di Robinson Crusoe. La scena iniziale al ristorante, quando Walter, Hildy e Bruce pranzano insieme, è anticipatrice del fatto che sarà il primo a vincere il contrasto amoroso, perché tra Cary Grant e Rosalind Russell c’è una sintonia perfetta (bevono alcolici e fumano, si scambiano battute), mentre Bruce è visibilmente fuori posto. Nella screwball comedy i personaggi rifiutano il linguaggio canonico dell’amore, ma parlano tantissimo: è proprio grazie ai dialoghi che si innamorano. È scontato che alla fine Hildy sceglierà Walter, non solo perché è interpretato da uno dei divi più fascinosi, ma anche perché dimostra una capacità oratoria sconosciuta al rivale. I dialoghi della Signora del venerdì sono molto rapidi e pieni di ironia, ma sono anche ricchi di allusioni sessuali. Per attenersi alle regole del codice Hays, registi e sceneggiatori delle commedie svilupparono tecniche raffinate per far ridere gli adulti senza turbare i più giovani, giocando sul doppio senso. Ad esempio, quando Bruce si lamenta con Hildy di non trovare più il portafogli, la donna risponde che mancano altre cose, facendo riferimento al fatto che non è più vergine. La scena del ristorante è interessante anche per altre ragioni. La prima è che in questa scena emerge un elemento tipico della romantic comedy, cioè la vocazione metropolitana: quando Bruce spiega che dopo il matrimonio vivranno ad Albany, insieme alla madre di lui, Walter inizia a prendere in giro i promessi sposi sulla “fortuna” di abitare in quella “ridente cittadina”. Nonostante alcune commedie abbiano parzialmente (Susanna!, L’orribile verità) o totalmente (Accadde una notte, Scandalo a Filadelfia) un’ambientazione extraurbana, lo spazio naturale della romantic comedy è la grande città (essenzialmente New York) e l’ironia verso coloro che vivono in provincia è sistematica. Il semplice fatto che Walter e Hildy siano giornalisti e significativo: quella del reporter d'assalto, cinico e pronto a tutto, è una professione metropolitana, che caratterizza i protagonisti di molte commedie del periodo, da Accadde una notte a La donna del giorno (1942) di George Stevens, passando per Nulla sul serio (1937) di William Wellman. La seconda ragione è perché Hawks da prova della sua “cleptomania”, rifacendo quasi alla lettera un dialogo dell'orribile verità, dove Cary Grant si beffava di Ralph Bellamy, il quale progettava di portare l'ex moglie dell'altro a vivere a Oklahoma City. Ruba dal film di McCarey, uscito solo tre anni prima, non nascondendolo, ma anzi ostentando le dinamiche di interscambio tra i testi che compongono il genere. Poiché la screwball comedy è un tipo di spettacolo leggero, che non ha l'obbligo dell'illusione della realtà, la propensione di Hollywood ai giochi di natura metadiscorsiva emerge in maniera evidente. Nella signora del venerdì troviamo due esempi eclatanti di questa tendenza: nella scena in cui Vangie viene incaricata di incastrare Bruce, la ragazza chiede a Walter come potrà riconoscerlo e lui le risponde dicendo che assomiglia a Ralph Bellamy; verso la fine del film Walter risponde a una minaccia del sindaco dicendo che l'ultima persona che gli ha detto una cosa simile era Archie Leach, una settimana prima di tagliarsi la gola. Archie Leach era il vero nome di Cary Grant. Il film è costruito su un equilibrio tra commedia e tragedia: il primo piano abbiamo la storia d’amore screwball, ma sullo sfondo ci sono un uomo che sta per essere impiccato e una città in mano a politici senza scrupoli. Nella commedia anni Trenta e Quaranta, per quanto le storie siano raccontate con un registro frivolo, non mancano richiami a problemi politici e sociali. In Pranzo alle otto, vi sono continui riferimenti alla Grande Depressione; mentre Vogliamo vivere (1942) di Lubitsch parla delle persecuzioni razziali a opera Germania nazista. Nella Signora del venerdì la realtà dell’epoca affiora chiaramente: la denuncia della corruzione della classe dirigente di Chicago, cui Walter contrappone il modello positivo del sindaco di New York, Fiorello La Guardia; o la battuta di Cary Grant su Hitler (il protagonista ordina a uno dei suoi redattori di rifare la prima pagina, per dar spazio alla vicenda Williams, dicendo di relegare il Fuhrer nella pagina dei questa messa in scena, nel noir, diventano dei simulacri, dei fantasmi mentali, delle ombre. È proprio in questo senso che il film di Preminger risulta rappresentativo ed esemplare. Vertigine esce nel 1944, lo stesso anno della Donna del ritratto di Fritz Lang e della Donna fantasma di Robert Siodmak. Tutti e tre i film rinviano fin dal titolo a un soggetto femminile, intorno al quale la narrazione elabora una dialettica tra presenza e assenza, trovando un denominatore comune e un luogo simbolico narrativizzato nel motivo del ritratto. Come era già successo pochi anni prima in Rebecca, la prima moglie. Il topos del ritratto rinvia a un itinerario che si svolge tra simulacri, la cui essenza resta indicibile, persa in universo onirico più o meno esplicito o esplicitato (dalla dissolvenza che darà inizio al racconto retrospettivo della giovane Lady de Winter; inaugurando un universo nebbioso e fiabesco in Rebecca, alla prima moglie; al sogno che si rivela come tale alla fine del film nella Donna del ritratto). Negli esempi citati, ciò che definisce la qualità onirica della narrazione e lo statuto di simulacro dei personaggi- spettro, che vi agiscono come attori, non è tanto la presenza di singole cifre stilistiche deputate ad alludere allo stato onirico, né la diegetizzazione del sogno o del risveglio nel finale del film di Lang. In realtà si tratta di una strategia narrativa che mette in scena, rappresenta degli universi fantasmatici e onirici. 3. Dal romanzo al film. Dal giallo al noir Gli aneddoti riguardanti la tormentata lavorazione del film, paralleli alla tormentata collaborazione con Vera Caspary per la sceneggiatura, fino al dissenso della scrittrice nei confronti delle modificazioni attuate rispetto al romanzo, rendono conto della profondità diversa dei due testi e della diversa qualità e materia dei sogni raccontata. Si tratta di una qualità e di una materia che Preminger ha conquistato e definito progressivamente tramite scontri, contrattazioni e compromessi con le esigenze dello studio (più direttamente con le esigenze e le intemperanze del tycoon della Fox, David Zanuck). Attraverso queste peripezie, il film passò dal settore di produzione dei B-movies a quello di “serie A” e Preminger passo dal ruolo di producer a quello di regista nonostante le resistenze di Zanuck che aveva già scelto Rouben Mamoulian. È rilevante notare come il regista riesca via controllare pienamente direttamente tutte le fasi della lavorazione di vertigine e in particolare del lavoro di sceneggiatura. La personalità di Preminger porterà il regista a divenire fin dagli anni Cinquanta, un produttore indipendente e a realizzare come registra una serie di film sempre innovativi dal punto di vista narrativo e stilistico, spesso spregiudicati tematicamente e ideologicamente. Oltre ad alcuni noir di particolare intensità (tra cui Il segreto di una donna, 1949 e Seduzione mortale, 1952), film come La magnifica preda (1954), un western atipico in Cinemascope, e Carmen Jones (1954), una versione nera della Carmen di Bizet, testimoniano una autorialità che porterà Preminger a trattare in maniera crudamente realistica il problema della droga con L’uomo dal braccio d’oro (1955), dopo aver sfidato il codice Hays con La vergine sotto il tetto (1953) e ad affrontare il kolossal con l’adattamento dell’omonimo romanzo di Uris in Exodus (1960). Era stato Preminger a scegliere il romanzo della Caspary e a iniziare immediatamente il lavoro sulla sceneggiatura insieme a Jay Dratler invitando a collaborare anche la scrittrice, la quale subito esprime il proprio disaccordo riguardo delle modificazioni apportate al romanzo (riguardante l'arma del delitto, nel romanzo è un revolver nascosto nel bastone del giornalista Waldo Lydecker; nel film il fucile da caccia nascosto nella pendola- oltre che per la diversa caratterizzazione di Laura). Al di là di questi elementi, è un'operazione di riscrittura più complessiva e generale quella che gli sceneggiatori rielaborano il soggetto insieme a Preminger a partire dal testo di partenza. Le modificazioni operate sul romanzo si collocano a diversi livelli. A livello di oggetti (il pendolo, il fucile ecc.); a livello di personaggi (non soltanto una diversa connotazione globale del personaggio di Laura che nel film risulta piatta e convenzionale, secondo la Caspary; ma anche la diversa caratterizzazione fisica di Waldo, con la scelta di un attore come Clifton Webb, magro al contrario del Waldo obeso del film, e più anziano); ma soprattutto a livello di scrittura e strategia narrativa con l'eliminazione di tutti i racconti retrospettivi del romanzo, a esclusione di quello di Waldo, con il risultato che alla strategia pirandelliana del punto di vista del testo scritto, il film ne sostituisce una nuova e ambigua, vero perno strutturale e semantico del film, e supporto della materia onirica. Il testo della Caspary costituisce e racconta la storia della morte del ritorno di Laura attraverso cinque differenti narrazioni retrospettive e in prima persona, a eccezione del caso relativo al personaggio di Shelby Carpenter (Jimmy, nella versione originale del film), riconducibili a diversi soggetti a diverse strategie enunciative, a diversi punti di vista, corrispondenti anche a diversi stili di scrittura. Il romanzo rispetta esteriormente il duplice schema tipico del giallo-enigma. Infatti secondo Todorov, il giallo-enigma non contiene una sola storia ma ben due: la storia del delitto e quello dell'inchiesta, laddove la prima si conclude prima che incominci la seconda (anche se nel caso del romanzo Laura, la conclusione della prima il solo apparente). La seconda storia coincide con una sorta di lento apprendistato che giunge a modificare radicalmente tutte le conoscenze acquisite sulla prima storia (l'omicidio di Laura non è l'omicidio di Laura). Altro elemento tipico è la storia dell'inchiesta, che gode di uno statuto particolare essendo spesso raccontata da un amico del detective che dichiara di star scrivendo un libro. Quindi la seconda storia coincide con la storia del libro stesso. La prima storia, quella del delitto, diventa la storia di un'assenza ed è l'unica reale; la seconda può essere sostituita con dossiers resoconti di polizia, verbali ecc. La prima storia viene raccontata attraverso una serie di convenzioni letterarie, come inversioni temporali punti di vista particolari, la seconda e il luogo in cui questi procedimenti trovano una giustificazione. In realtà, tale schema si ibrida con quello del genere suspense visto che la prima storia, dal momento del ritorno di Laura, in qualche modo continua insieme alla seconda e visto che il detective e il narratore non godono dell'incolumità (Il tenente Mark McPherson si innamora della falsa vittima dell'omicidio e Lydecker, narratore menzognero e assassino, è destinato a morire). Il primo racconto del romanzo è quello di Waldo (dall' arrivo di McPherson a casa sua, dopo l'omicidio di Laura, alla sera precedenti il ritorno della donna creduta morta), delegato a presentarci Laura a raccontarla e vivificarla, partendo dalla sua morte; il secondo è quello di Mark (che ha inizio dal ritorno di Laura, parte quindi dalla sua vita fino al complicarsi dell'inchiesta); il terzo è un resoconto stenografico dell' interrogatorio subito da Shelby Carpenter, fidanzato della vittima; Il quarto è quello di Laura (dagli apparenti sospetti di Mark su di lei, con il parallelamente innamoramento, all'ultimo squillo di un campanello prima della tragedia e dello svelamento finale); infine, il quinto è un racconto di Mark, con lo scioglimento dell’intrigo poliziesco e amoroso, che si conclude con le ultime parole di Waldo, riportate da Mark. Il ruolo fondamentale dei due personaggi maschili principali emerge dal dato quantitativo delle pagine relative ai loro racconti, anche la funzione puramente strumentale del personaggio di Shelby e allusa dal suo essere privato del diritto di parola come narratore, se non all'interno dell'interrogatorio riportato da copia stenografata. Il racconto di Laura è reso possibile dagli altri e non ha senso se non in rapporto ai primi due, che la pongono il primo come donna morta, il secondo come donna viva, lasciandole la parola. L'elemento stilistico contribuisce ulteriormente a conferire spessore, intensità e capacità evocativa e di coinvolgimento sempre differenti. Evidente che alle differenti opzioni stilistiche corrispondono anche i diversi punti di vista, nel senso metaforico, cioè differenti visioni del mondo. Il virtuosismo della Caspary nel montare questo meccanismo narrativo e stilistico molto preciso è indubbio; tuttavia, si ha l'impressione che il tentativo di creare il corrispettivo stilistico della modificazione del punto di vista narrante diventi in qualche modo contraddittorio. Il collage dei diversi testi della storia di un oggetto di desiderio prima perduto e poi ritrovato (Laura) funziona efficacemente come assemblaggio di frammenti di soggetti incompleti, con l'assenza di un vero e proprio testo unificatore che è l'idea forte del romanzo; l'eccessiva definizione stilistica dei diversi narratori tende a personificarli e a psicologizzarli, attenuando l'astrazione di fondo. Le modificazioni attuate dalla sceneggiatura, dove vengono aboliti tutti i racconti retrospettivi a eccezione di quello di Waldo, risultano essenziali. In questo modo la struttura enunciativa va a coinvolgere forme soggettive complesse, la cui ambiguità comporta un effetto di sdoppiamenti successivi e di onirismo che pervade l'intero testo, al di là di una singola sequenza onirica. Il meccanismo dell'esplicito passaggio del testimone tra i diversi soggetti narranti presenti nel romanzo lascia il posto a una sorta di ambiguità e a un indefinito scivolamento progressivo; un'ambiguità su cui si fonda e costruisce il teatro d'ombre, quel carosello di proiezioni soggettive che il romanzo si limita a suggerire. Dal punto di vista della gerarchia quantitativa di presenza dei personaggi, i ruoli stabiliti dal film di Preminger rispettano le indicazioni del romanzo, con un analogo peso assegnato ai due personaggi maschili che si contendono la narrazione. La scelta di strutture e strategia narrativa e coerente con le scelte stilistiche attua te in sede di messa in scena. Per riguarda la fotografia, per esempio, con effetti luministici che esaltano imbiancano il contorno degli oggetti e dei corpi, ai movimenti di macchina da presa che sono fluidi, agili e leggeri che creano quella tipica fascinazione e sguardo fantastico. L'unità stilistica dell'intera narrazione contribuisce a confermare la totalità del regime onirico o immaginario che riguarda tutto il testo e che sembra inaugurato con il racconto del primo soggetto narrante, cioè Waldo Lydecker. Una traccia del differente trattamento stilistico in riferimento alla diversa caratterizzazione dei personaggi, può risiedere nella diversità degli stili di recitazione che distinguono il virtuosismo brillante della recitazione più accademica e teatrale di Clifton Webb (Waldo), dalla secchezza più naturalistica di Dana Andrews (Mark) o dalla semplicità di Gene Tierney (Laura). La direzione di Preminger sembra voler accentuare la teatralità dell'attore e del personaggio di Lydecker, che appare significamente come un attore. 4. Sogni, simulacri e strategia narrativa La sequenza iniziale rivela immediatamente una strategia narrativa essenziale in rapporto al film nel suo complesso. Le parole di Waldo iniziano con lo schermo nero, sullo svanire della coda del tema musicale di David Ruxin a cui si sostituiscono, e proseguono con una carrellata che scopre l'appartamento dell'uomo, i suoi mobili, le maschere, gli idoli orientali, i ritratti femminili, la pendola barocca, la vetrina con la collezione di porcellane e cristalli, fino a mostrare McPherson che viene redarguito dalla stessa voce proprio perché tocca uno di quegli oggetti. Solo dopo una carrellata di raccordo spaziale che accompagna Mark nella stanza da bagno, un'improvvisa e rapida panoramica raggiunge Waldo immerso nella vasca, ancorando quella voce al suo corpo nudo, anziano e fragile. Un soggetto narrante, inizialmente indistinto, dà avvio in prima persona a una retrospezione; da un tempo e uno spazio imprecisati, ci si muove verso un altro tempo e un altro spazio che appaiono sullo schermo quando la voce di Lydecker annuncia la presenza di un poliziotto, in effetti è il corpo di Mark a essere mostrato per prima. In questo modo si può dire che Waldo venga messo in scena ma non inquadratura, cioè che la sua immagine propria venga sostituita da quella di Mark. Non solo i due personaggi, la cui specularità e reciprocità risultano nel film molto più forti che nel romanzo, appaiono fin da subito l'uno il doppio dell'altro, ma anche il loro statuto e fin dall'inizio instabile, incompleto. Il mondo che prende forma dal nero iniziale e un mondo in cui, intorno ai due personaggi, la macchina da presa segnala la presenza di maschere, ritratti cioè simulacri, come quello della prima immagine del film, il ritratto della protagonista (Laura). La narrazione della storia di Laura corrisponde a una retrospezione, attivata da una serie di flashback soggettivi e intermittenti di Waldo. In realtà la voce che ci introduce alla storia di Laura e senza origine, proviene da un tempo che rimane indeterminato. Da questo punto di vista, il flashback di Waldo si avvicina a quello di Joe Gillis in Viale del tramonto (1950) di Billy Wilder, di sei anni successivo a Vertigine, piuttosto che a quello di Walter Neff in Fiamma del peccato, sempre di Wilder e contemporaneo a Vertigine. La trasgressione e la peculiarità di questo film non è solo nell’idea del narratore-assassino (Waldo come Roger Ackroyd di Agatha Christie, in Dalle nove alle dieci, o L’assassinio di Roger Ackroyd), o nel flashback che ci spinge ad associare all’evidenza iconica delle immagini l’evidenza della verità ( come nel flashback menzognero di Paura in palcoscenico di Hitchcock, 1950) e quindi credere a Waldo (che non mente, ma omette), ma in una ambiguità destinata a rimanere irrisolta, non permettendoci di collocare il tempo della storia di Laura rispetto a un tempo di rimemorazione, e quindi di equilibrare la sfasatura storia/discorso, cioè fabula e narrazione, che investe la struttura e il senso del racconto. Nel film, il cambiamento di punto di vista (da Waldo a Mark, dopo la sequenza del ristorante) succede senza che Waldo abbia concluso il suo racconto retrospettivo e senza che Mark venga posto come narratore. È un indizio della messa in scena che marca il passaggio: la carrellata su Mark, fino al primo piano, all’uscita dal ristorante, prima della dissolvenza in nero che chiude la sequenza. Tutto ciò che viene raccontato da questo momento vede Mark presente, fino alla sequenza finale. Nel corso del suo primo incontro con Waldo, quest'ultimo sembra trasferire all'altro il suo sapere nei confronti di Laura (in questo senso si potrebbe dire che il lento apprendistato su cui si costruisce tradizionalmente la seconda parte del giallo-enigma, qui priva di elementi femminei, molto differente dal modello virile tipico dell'America sotto la presidenza di Roosevelt. Un'immagine divistica, secondo la terminologia corrente, pur costruita e confezionata, funziona perché poggia su un insieme di tratti e valori motivati dal contesto sociale cui si rivolge. L'immagine fisica, la definizione iconografica di un divo, è perfettamente collegata alla stratificazione dei ruoli e dei personaggi interpretati. L'idea di persona divistica si riferisce alla natura di persona complessiva, astratta, frutto di molti elementi concreti e riconducibili da un lato alla biografia ufficiale del divo, dall'altro a un insieme di personaggi artefatti che sfaccettano uno stereotipo molto preciso. Questa astrazione complessiva fa sì che determinate sue qualità possano diventare in qualche modo universali, eternizzando quell'immagine e fissandone i contorni come in un'icona che vive oltre il cinema. Casi come quello di Bogart sono: James Dean o Marilyn Monroe, che testimoniano come la forza di determinate icone divistiche permetta loro una particolare longevità e possibilità di essere ridefinite extracinematograficamente. L'immagine di Marilyn, per esempio, a partire dalla tragica fine della diva, ha conosciuto continue riprese, riscritture, remake dalla letteratura all'arte, per non parlare del mondo della pubblicità e del merchandising. Immagini mitiche che dagli stereotipi di partenza, definiti industrialmente, riescono ad acquistare un nuovo statuto di archetipi, come di incarnazioni originarie di determinati concetti, simboli, valori. Questi dei di una nuova religione, secondo il sociologo Edgar Morin, oggetti spesso di un vero e proprio culto da parte dei fan, riescono a superare i luoghi deputati alla liturgia di cui sono protagonisti, cioè le sale cinematografiche, per diventare anche post-mortem, veri e propri miti. Roland Barthes assegnava al divismo hollywoodiano un ruolo fondamentale all'interno dell'orizzonte mitologico contemporaneo. In alcune parole da lui dedicate a Greta Garbo, si nota molto bene la duplicità caratteristica dell’icona divistica: da un lato, il fatto di appartenere e rappresentare un'epoca, ma anche il fatto di emergere come archetipo eterno, come maschera ideale, concettuale e metastorica. Non tutti i divi divengono icone capaci di resistere al tempo. La combinazione dei tratti, delle caratteristiche che definiscono un'immagine divistica non corrisponde ad una scienza esatta, ma alle dinamiche mobili che la ancorano in un determinato contesto, cioè all'incidenza del fattore umano che agisce dentro le reti intertestuali che lo mettono in scena. L'immagine di Marilyn corrisponde a una vera e propria rete intertestuale, di questa fanno parte materiali eterogenei, come le fotografie per cui ha posato, le cover delle centinaia di riviste che l'hanno ritratta, i film interpretati, le locandine, i trailer, ecc. L’ontologia propria dell'immagine cinematografica, il suo carattere riproduttivo, fa sì che per quanto commercialmente strutturata, l'immagine della star sia anche la traccia documentaria di un attore o di un'attrice che ha interpretato in un determinato hic et nunc un personaggio. Come diceva Bazin, la fotografia alla base del cinema beneficia di un transfert di realtà dalla cosa alla riproduzione, e il transfert di vita che la riproduzione del corpo vivente dell'attore della sua performance recitativa comporta è una reminiscenza che troviamo anche nella più serializzata delle immagini. Il soffio vitale di Marilyn è un ricordo che ogni spettatore osservatore immette nelle serigrafie del volto proposte da Andy Warhol. 2. La dimensione semiotica delle star. Attore, divo, personaggio Divi, personaggi, immagini divengono luogo di incrocio di forze e pulsioni differenti che vedono produzione e consumo ben contestualizzati dal punto di vista storico sociale. La natura sociologica del fenomeno si confonde con quella più propriamente semiotica, allargando l'orizzonte testuale a una più ampia dimensione intertestuale, comprendente l'insieme degli altri testi paracinematografici ed extracinematografici che sostengono la formazione e la sopravvivenza di un'immagine divistica. L'analisi complessiva dei film deve riguardare il rapporto che lega attore, divo e personaggio, in quanto è proprio questo rapporto a costruire uno dei nodi essenziali della realtà del personaggio filmico. Secondo Dario Tomasi, l'attore contribuisce alla caratterizzazione del personaggio, fino ad esserne co-autore, non soltanto per la realtà fisica che egli offre, ma anche per ciò che si porta dietro a livello di immagine divistica, per i modi della sua interpretazione, del discorso recitativo, che possono costruire un apporto autoriale fondamentale. Il divo è un'immagine semiotica, preesistente che entra inevitabilmente in dialettica. La peculiarità di ogni testo filmico sarà quella di regolare, dosare gli equilibri tra ciò che porta con sé l'immagine divistica e ciò che è definito a livello di sceneggiatura per il costrutto narrativo- personaggio. L'analisi di tali rapporti può mostrare come l'attore possa avere o meno autonomia rispetto a quanto già definito e come la sua performance possa avere una dimensione critica o un certo distacco ironico rispetto al ruolo, oppure come un certo personaggio si stacchi dalla serie di variazioni sul tema e come il divo sia impiegato in contraddizione con il solito ruolo. L'analisi del personaggio cinematografico deve articolarsi su tre piani distinti che riguardano il piano della storia, cioè l'insieme di azioni ed eventi di cui protagonista, e il modo in cui l'attore interpreta il suo ruolo in tali situazioni, per coglierne le modalità filmiche e registiche che aggiungono ulteriori elementi stilistici e simbolici che vanno a connotare il personaggio. Nel caso in cui l'attore sia un divo, si tratta anche di verificare come la storia e l'intreccio che lo riguardano si pongano nel macro-testo delle sue diverse precedenti interpretazioni, e come la regia e tutte le altre scelte filmiche e profilmiche contribuiscano a confermare o meno l'iconografia e il découpage tipico della sua immagine. 3. Il caso Marilyn Un luogo comune definisce Marilyn Monroe come “l'ultima stella” e la sua tragica fine va a segnare simbolicamente la fine dello star system classico; la sua carriera, la sua straordinaria e varia presenza mediatica, la sua fama e il suo duraturo mito ne fanno la star per eccellenza, espressione completa delle dinamiche del divismo. Il mito contemporaneo di Marilyn, nutrito da immagini e testi diversi, è legato a un'immagine biografica che la morte improvvisa e misteriosa rende simbolica di una bellezza e di una dannazione tipiche del mondo moderno e della civiltà dei consumi. La persona divistica di Marilyn è stata scientemente costruita da Hollywood negli anni Cinquanta, in una stupefacente integrazione di diverse risorse mediatiche nel medium cinematografico, secondo strategie di marketing capaci di soddisfare i bisogni e i desideri di un determinato contesto sociale e ideologico e di incarnarne l'immaginario. Il suo è un esempio di creazione industriale di un'immagine divistica. Thomas Harris mette a confronto Grace Kelly e Marilyn Monroe, due persone divistiche quasi antitetiche ed emblematiche, sottolineando il ruolo delle strategie di marketing nella costruzione della loro popolarità. Indica nella rete intertestuale che i dirigenti della Fox mettono in gioco per costruire l'immagine di Marilyn, gli elementi biografici per giungere a un sex symbol che stempera la propria virulenza con una psicologia di bambina fragile che resterà sempre legata all'idea dell'attrice. La peculiarità delle immagini di Marilyn è legata a questo abbinamento di sensualità dirompente e fragilità, che costruisce gli ingredienti fondamentali del suo personaggio nelle sceneggiature delle commedie da lei interpretate, che costituiscono il genere prevalente e caratterizzante della sua carriera. Film come Gli uomini preferiscono le bionde di Howard Hawks, Come sposare un milionario di Jean Negulesco, entrambi del 1953, Quando la moglie è in vacanza (1955) o A qualcuno piace caldo (1959) di Billy Wilder, costituiscono alcune tra le migliori commedie classiche di Hollywood, ma anche perfette espressioni del suo personaggio. Anche i ruoli che variano rispetto al modello originario, come quelli drammatici in Niagara (1953) di Henry Hathaway o in Spostati (1961) di John Huston, mettono in evidenza un lato drammatico latente nella sua persona, ma funzionano perché lo spettatore vi immette un pregiudizio, rendendoli più intensi e profondamente umani. In casi come questi, il rapporto attore/divo/personaggio risulta di particolare complessità, perché il divo agisce in tensione con il personaggio. Tuttavia, la performance dell'attore tende a collegare i due termini, utilizzando tecniche e modalità tipiche, nell'uso della voce, del corpo, della postura, della camminata che sono di Marilyn che recita il personaggio e non del costrutto narrativo di sceneggiatura. A ciò si aggiunge poi la regia, che al di là delle differenze e delle cifre autoriali presenti nei singoli film, risulta propensa a utilizzare un découpage e un'iconografia che lavorano sul corpo dell'attrice in modo da metterne in evidenza gli elementi fondamentali: la bocca dischiusa, gli occhi socchiusi o viceversa sgranati, la camminata ecc., secondo modalità ricorrenti. Proprio l'accostamento di questa varietà di genere, mette in evidenza l'estrema padronanza del mezzo recitativo da parte di Marilyn, la cui consapevolezza e rigore motiveranno la frequentazione dell'Actors Studio, a metà degli anni Cinquanta, la più impegnata a scuola di recitazione del periodo, senza aggiungere qualcosa a uno stile e a una tecnica personale estremamente calibrata. Nelle commedie, l'uso del corpo, della bocca, del volto, dello sguardo, della voce viene condotto con un sottilissimo scarto ironico o umoristico, che costituiscono ciò che è stato definito come una sorta di indirection, di impercettibile distanziamento dal personaggio, che definisce uno stile d'attore molto preciso. Questo elemento è anche legato e favorito dal fatto che molte commedie da lei interpretate presentano uno schema e una struttura narrativa che possono essere definiti “metacinematografici”, cioè riferiti a situazioni che parlano di cinema mettendo in scena spettacoli, numeri musicali. Marilyn ha spesso interpretato il ruolo della ballerina cantante di musical o di saloon (La magnifica preda di Otto Preminger, 1953, Fermata d'autobus di Joshua Logan, 1956 e Facciamo l'amore di George Cukor, 1960), dove veniva messa in scena una ragazza proprio come l'attrice. Ha dato espressione a questi personaggi decisamente cinematografici e metabiografici con una sensibilità e un'intelligenza recitativa personale, emergendo e consentendo alla diva di superare i confini di un'epoca. 4. <<Quando la moglie è in vacanza>>, ovvero Marilyn e <<gli stimoli repressi del maschio maturo. Sue origini e conseguenze>> Lo studio di Harris sottolinea come, a differenza di Grace Kelly, che incarna l’immagine della compagna ideale per il maschio americano medio, Marilyn è più quella che viene definita la compagna di giochi ideale, venendo a concretizzare desideri maschili dell'epoca. Richard Dyer ha precisato che il sex-symbol Marilyn corrisponde all' immaginario sessuale rilevato dal rapporto Kinsey, cioè l’indagine statistica sul comportamento sessuale degli americani in quello stesso 1953 in cui l'attrice aveva posato nuda per la rivista maschile <<Playboy>>. Quando la moglie è in vacanza sembra una sorta di manifesto dell'espressione del binomio sesso/innocenza, come se in qualche modo la Fox avesse programmato e studiato la cosa mettendo sotto contratto Marilyn. Il film di Wilder adatta per lo schermo una fortunata pièce teatrale di George Axelrod, che collabora alla sceneggiatura del film (sceneggiatore di Colazione da Tiffany). Dalla commedia teatrale viene anche l'interprete maschile del film, Tom Ewell, nei panni di Richard Sherman. I personaggi sono estremamente tipizzati, tanto da funzionare come simboli, data la sottigliezza e l'humour straordinario della sceneggiatura e della regia di Billy Wilder. È esplicitamente un film sul cinema, non solo per i diversi riferimenti o citazioni cinematografiche (l'immaginazione di Sherman che si vede, in un sogno a occhi aperti, come grande seduttore, lo porta a rivivere la sequenza di amore sulla spiaggia di Da qui all'eternità, diretto due anni prima da Fred Zinnemann; oppure Sherman e Marilyn, si recano al cinema a vedere Il mostro della laguna nera di Jack Arnold, uscito quello stesso anno), ma anche perché tutto il film allude, attraverso la storia della ragazza che non ha nome, “The Girl”, alla storia e alla carriera di Marilyn. La ragazza, che appare come un'ombra sullo schermo della porta di ingrasso, illuminata in modo tale da risultare una pura immagine onirica e/o cinematografica, nel suo primo ingresso in scena e che viene a turbare la vita dell'impiegato di una casa editrice, è un aspirante diva che per il momento si accontenta di fare la pubblicità di un dentifricio, dopo aver posato in una di quelle foto d'arte per una rivista americana, come Marilyn aveva fatto decine di volte. Sherman, maschio americano normale con una famiglia regolare, tiene in libreria quelle immagini, così come nel suo inconscio ha il desiderio di liberazione sessuale che sembra concretizzarsi al momento dell'apparizione di Marilyn. Dopo aver obbedito alle indicazioni lasciate dalla moglie in vacanza, e dopo aver persino mangiato in un ristorante vegetariano, non gli resta che rifugiarsi nell'immaginazione prima di dedicarsi alla lettura del manoscritto sugli istinti repressi del maschio maturo. Ma poi arriva lei, incarnazione del desiderio e della desiderabilità sessuale, che va ad abitare al piano di sopra, separato da una semplice botola, primo inchiodata e poi aperta. La “donnissima”, come la definisce lo scrittore Giuseppe Marotta, è provocante quanto innocente: tiene gli intimi in frigorifero, è pronta a mangiare le patatine e a suonare “le tagliatelle” al pianoforte con il nostro pseudo seduttore. È in grado di interpretare altri ruoli, altre immagini femminili, in una sequenza immaginaria di Sherman (esattamente come Marilyn fece in una serie di fotografie), ma in realtà è la compagna di giochi ideale, che ti diverte con estrema naturalezza, ma non ti corrompe e non ti danna (infatti Sherman, alla fine, raggiunge la moglie in vacanza). Il film lavora meta-narrativamente sull'immagine di Marilyn, attraverso il personaggio di finzione che riprende il suo stereotipo narrativo, che parla di lei come diva e che viene da lei stessa interpretato attraverso una recitazione vigile e consapevole. Wilder non Un’analisi del suo stile radiofonico permette di rilevare una ricchezza nella colonna sonora di Quarto Potere, non meno trasgressiva e sorprendente rispetto alle regole classiche della colonna visiva. Il film distrugge il découpage classico e la profondità di campo, capace di diventare profondità narrativa e di senso, profondità di una scena audiovisiva del tutto nuova ed eccessiva per uno spettatore di quel periodo. La RKO accetta di scommettere su Welles perché voleva lanciare una nuova immagine della casa di produzione, debole rispetto alle Majors come MGM, Warner Brothers e Paramount. Poteva solo contare su un notevole reparto per gli effetti speciali, con tecnici, artisti e scenografi di talento. Welles si appropria della qualità immaginaria tipica della RKO, collaborando con la direzione artistica di Van Nest Polglase e Perry Ferguson, o gli effetti di Vernon L. Walker. Ma il progetto di rilancio attraverso il regista non si può dire riuscito. Dopo vari progetti rifiutati, con Quarto Potere e la battaglia di Hearst contro Welles fin dalle prime indiscrezioni sulla sceneggiatura, si corre il rischio che ne venga impedita l’uscita, innescando un clima di polemica. Alla sua uscita il film risulterà un successo per la critica e per gli addetti ai lavori, ma un clamoroso insuccesso di pubblico. Con il successivo L’orgoglio degli Amberson (1942) la disfatta sarà completa, e lo stesso Schaefer, che aveva fino ad allora sostenuto Welles, è costretto a dimettersi. Con Quarto Potere, aveva inaugurato un modo di narrare che eccedeva sotto tutti i punti di vista, da quello tematico, morale, psicologico a quello drammaturgico, reinventando il linguaggio classico nella rappresentazione della realtà che è stilisticamente prospettica e contraddittoria come i personaggi, a partire dal Kane interpretato da Welles stesso. Un modo di narrare eccessivo che si riscontra anche in tutte le opere successive. L’orgoglio degli Amberson, non solo gli costò il posto alla RKO, ma il film venne distribuito in una versione manipolata in sede di montaggio dalla casa produttrice. Incentrato sulla decadenza di una famiglia agli inizi del secolo, alle soglie della moderna industrializzazione, il film presenta una serie di tematiche e caratteristiche stilistiche che proseguono la direzione intrapresa con Quarto Potere. Da un lato è possibile trovare una contestualizzazione storica precisa che rimanda alle origini del capitalismo moderno (affrontato con il primo film attraverso la vita di Kane che raccoglie settant’anni della storia americana), dall’altro mostra gli aspetti essenziali legati alla rappresentazione dell’individuo in contrasto con la società e l’universo cui appartiene. Contrasto legato a una volontà narcisistica di potere, a dispetto dell’intima fragilità connesse alla perdita dell’infanzia (in entrambi i film). Soprattutto il tentativo di trasmettere attraverso lo stile, il senso del film, dilatando drammaturgicamente lo spazio e il tempo dell’inquadratura, della sequenza, con il ricorso frequente a piani-sequenza, riprese in profondità di campo, a profondità e montaggi peculiari anche a livello sonoro, all’interno di realtà scenografiche complesse, spesso sovrabbondanti e iconograficamente forti. Tutte queste caratteristiche rendono compatta la produzione wellesiana, se pur coniugate in direzioni diverse di volta in volta, ma sostanzialmente analoghe: dai grandi noir (La signora di Shangai, 1947; Rapporto confidenziale, 1955; L’infernale Quinlan, 1958) ai film in cui la tematica si esprime su base letteraria (Il processo, 1962) o ai film tratti da Shakespeare (Macbeth, 1948; Otello, 1952; Falstaff, 1966). Opera che vede nell’artificio, nella falsità materiale della rappresentazione, nel gusto per una sorta di illusionismo, la sola dimensione estetica capace di arrivare a una verità sul piano drammatico. E un omaggio all’estetica del falso, sarà infine F come Falso\ Verità e menzogne (1975). 3. Il film. Un labirinto senza centro Quarto potere continua ad essere oggetto di studio non solo per la sua originalità sul piano stilistico- narrativo (in rapporto ai modi di racconto, alle tecniche utilizzate e alla sua ricchezza formale), ma anche per la sua stratificazione e complessità semantica che rendono qualsiasi interpretazione, un percorso possibile tra altri, in relazione tra loro secondo una gerarchia. Assomiglia all’attraversamento di un labirinto in cui tutte le strade, e nessuna al contempo, sembrano condurre al centro. Fu Borges, in una recensione contemporanea all’uscita del film, ad individuare una chiave nichilista, cogliendo soprattutto la tematica essenziale del film, la dimensione profonda e simbolica della storia, la sua strutturazione a frammenti, restituiti dalle diverse testimonianze e dai diversi resoconti della vita di Kane. Il riferimento kafkiano, così come quello biblico, seguono un percorso di senso che vede nel <<caos delle apparenze>> non solo il tema della relatività della verità o dell’impossibilità di giudicare un uomo, ma quello più pessimista della vanitas e della corruttibilità, dissolubilità di gesti, azioni, comportamenti, pensieri. È chiaro che se la ricerca del significato di <<Rosebud>> e lo svelamento dell’enigma, giungono al culmine nel momento stesso in cui se ne vanifica l’importanza; allora la parola e la nostalgia per l’infanzia perduta, non spiegano molto; anzi il loro senso si perde. 4. Realismo storico e senso morale Il Quarto potere di Borges risulta un’opera allegorica e l’analisi proposta rimuove totalmente la dimensione di realismo storico-sociale del film. Attraverso la storia di Kane vengono inquadrati cinquant’anni di storia americana, il cui approccio wellesiano mette a nudo una contraddizione che mira all’ideologia del New Deal (per esempio l’ambivalenza del Kane pubblico, da un lato riformista autoritario e paternalistico, dall’altro capitalista aggressivo). È evidente nella stessa costruzione narrativa, l’esigenza di dilatare i termini storici e cronologici di una vicenda personale e di un protagonista della vita sociale, in modo da coinvolgere nel giudizio di un uomo anche quello verso una società. Chiara è anche l’analisi spietata della stampa e dei media, a cui si collega attraverso la descrizione dei metodi giornalistici moderni. Il titolo dell’edizione italiana richiama propriamente questo percorso di lettura. Anche riguardo questa tematica è possibile percepire una dilatazione dei contorni realistici. La prima versione della sceneggiatura, scritta da Herman Mankiewicz e poi ampiamente rivista in altre sei differenti versioni, si intitolava <<American>>, il cui passaggio dalla storia alla Storia avviene attraverso una connotazione simbolica dei personaggi e degli accadimenti. La perdita dell’infanzia, l’allontanamento da casa del bambino corrispondono al passaggio dell’America dall’età ‘pura’ e incontaminata dei pionieri all’America di Wall Street. La madre di Kane rappresenta perfettamente l’etica puritana del sacrificio. Lo stesso sacrificio dell’America, incarnato dall’affidamento del figlio a un tutore-banchiere, insieme a una fortuna ereditata. Qualcuno ha anche notato che lo stesso nome << Mary Kane>> suoni quasi uguale alla pronuncia americana di <<American>>. Questo sta a significare che l’America del capitale finanziario perde la sua innocenza/infanzia. L’ossessione di potere politico e finanziario di Kane appare un’ossessione di tipo nevrotico, legata a una perdita che finisce con il risolversi nell’ossessione dell’infanzia. Bazin giunge ad affermare che l’ossessione di Kane sia la stessa di Welles (lui stesso ha perduto l’infanzia molto presto). Welles è stato un enfant prodige, comportando un “invecchiamento” precoce, un allontanamento dalla propria infanzia. Nel film, inoltre, si può cogliere anche l’ossessione per la vecchiaia. Basti pensare a Welles, interprete e attore venticinquenne, che con disinvoltura riveste i panni di un uomo anziano o comunque più vecchio, per buona parte del film. L’invecchiamento di Kane risulta tragico quanto la perdita dell’infanzia, in quanto entrambi conducono alla morte. Il tema della morte è un altro dei temi esistenziali del film. Il film inizia con la morte e la sua stessa disposizione a flashback, concretizzando sul piano strutturale la percezione della morte che caratterizza tutto il film. Il tema del potere, molto forte all’interno del film, è legato all’idea della corruzione morale e fisica, alla perdita dell’innocenza e all’avvicinamento alla morte. È interessare notare che il leitmotiv del potere, nel commento musicale di Bernard Herrmann, è un tema fortemente mortuario, in cui si rielaborano riferimenti al Dies Irae e alla Messa gregoriana dei morti. È significativo che, al momento della boccia di vetro, del richiamo alla neve, il tema di Rosebud sorge musicalmente dal motivo mortuario del potere, per poi distinguersi successivamente. I due temi musicali, ripetuti più volte e con diversi arrangiamenti, si contengono l’un l’altro. 5. Da Conrad a Coleridge, da Pollicino a Kubla Khan La duplicità è uno dei temi essenziali del film, riscontrabile in ogni livello. A partire dalla stessa personalità di Kane, doppio nel suo intimo sia sul piano sociopolitico che su quello morale; fino al sistema dei personaggi (Kane-Leland, l’uno il doppio dell’altro) e degli oggetti (le slitte sono due Rosebud e The Crusader, la slitta che Thatcher regala a Kane al suo primo Natale fuori casa). La stessa duplicità è riscontrabile anche nella struttura narrativa del film (il prologo e l’epilogo; il racconto della vita di Kane nel cinegiornale e attraverso le testimonianze), ma anche nello stile di scrittura (la ripresa in continuità, il piano-sequenza e la profondità di campo, ma anche tutti gli effetti di montaggio possibili). Il motivo del doppio può essere anche un motivo-guida attraverso i riferimenti culturali e letterali presenti nel film: a partire da quello conradiano, per cui Quarto potere è il Cuore di tenebra che Welles non è riuscito a realizzare, con il viaggio che dallo stato di cultura (potere politico, economico, finanziario, vecchiaia come conoscenza) si compie verso uno stato di natura (infanzia, ignoranza, innocenza). Evidenti, inoltre, riferimenti al romanzo americano, come al Grande Gatsby di Fitzgerald (aspetti di Kane rimandano a Gatsby, sdoppiamento Kane/Leland rimanda a Gatsby/Carraway). Nessuno dei riferimenti risulta centrale, anzi vanifica il significato non appena si concretizzano altre piste. Il film risulta simulacro culturale, caos di apparenze che rimandano ad altri archetipi (stereotipi). In stretto legame con il tema dell’infanzia, è possibile riconoscere una dimensione fiabesca, a partire dal trattamento fantastico-onirico della scena e dell’immagine (artefici insieme a Welles e al direttore della fotografia Gregg Toland, i tecnici del reparto effetti speciali della RKO: basti pensare alle somiglianza tra Xanadu e il castello della regina cattiva di Biancaneve, realizzata appena tre anni prima negli stessi studi, dove si è anche realizzato King Kong, altra reminiscenza che definisce l’immaginario di Kane, ma anche la presenza di archetipi ricorrenti della fiaba tradizionale. In questo senso, l’allontanamento da casa di Kane si costruisce su uno schema di una funzione tipica della fiaba, come per esempio in Pollicino o Hansel e Gretel. Kane è una sorta di Pollicino che cerca, senza trovarla se non alla fine, la strada di casa. La dimensione fantastica e onirica del film, sostenuta sul piano stilistico (descrizione notturna e confusa della residenza di Xanadu, l’avanzare della macchina da presa che ricorda l’incipit onirico di Rebecca, la prima moglie di Alfred Hitchcock, 1939), rimanda alla memoria il riferimento lirico-poetico del Kubla Khan di Coleridge e la descrizione onirica della sua Xanadu. Importante notare come non solo il film riprende il nome della residenza (anche il nome di Kane è una minima variazione rispetto a Khan), ma anche il fatto che Coleridge sostenne di aver avuto in sogno la visione di Xanadu, e che la sua trascrizione non fosse altro che la trascrizione di questa apparizione onirica. Questo riferimento appare determinante, non solo per la stratificazione dei motivi culturali del film, quanto piuttosto sul piano della qualità e della logica stilistica e discorsiva del film. La scrittura di Quarto potere è una scrittura che trova la sua coerenza in una soggettività prettamente onirica o allucinatoria. Un’analisi tematica del film sembra quindi condurre a una compresenza di molti riferimenti possibili (secondo la chiave di lettura nichilista di Borges: tutto è uguale a tutto, ma alla fine di tutto non resta nulla, se non la vanitas). 6. La struttura narrativa e lo stile Un primo livello di complessità riguarda l’organizzazione dell’intreccio rispetto alla linearità cronologica, impostata per accostare alla frammentazione del tempo (flashback e i cinegiornali che li precede), una molteplicità di punti di vista diegetici, cioè interni al mondo della finzione, in una sorta di struttura a puzzle (metafora esplicitamente chiamata in causa dal film stesso). Questa costruzione prevede un funzionamento testuale complesso, a partire dalla struttura eterogenea su cui si basa: - Un prologo senza narratore o narratori diegetizzati o diegetici; - Un cinegiornale diegetizzato che funzione come ‘film nel film’, in cui alla immagine che mostrano ritagli di giornale, fotografie, episodi della vita di Kane, si aggiunge l’intervento di una voce narrante diegetica (quella del commentatore del servizio giornalistico); - L’avvio dell’inchiesta dopo il cinegiornale; - I diversi racconti visualizzati in flashback dopo brevi introduzioni (scambi di battute tra giornalista e intervistato) che li giustificano come narrazioni diegetiche; - La fine dell’inchiesta, con il ritorno al sistema del prologo (dopo aver mostrato la slitta che brucia, la macchina da presa esce da Xanadu, con percorso inverso rispetto al prologo, per tornare all’esterno), senza narratori diegetici. inquadrature della residenza di Xanadu a partire dal cartello <<No Trespassing>>, ma soprattutto i due momenti estremi al racconto rilevano, nella scrittura e nella organizzazione interna, l’esistenza di un presunto narratore sovrano che sembra porre l’enigma con il prologo, con la morte di Kane e lo lascia sussistere con il ritorno, a conclusione dell’epilogo, del <<No Trespassing>> che va ad acquistare e compiere un senso letterale. Ropars ha sottolineato come nel montaggio della scena iniziale, rapido e frammentato (una ventina di inquadrature, dalla prima che ci mostra il cartello a quella del profilo del corpo senza vita di Kane, sullo sfondo della finestra illuminata), sembrano rilevabili due andamenti narrativi: uno propriamente descrittivo (l’evocazione esterna di Xanadu, accompagnata dal tema musicale lento e sordo che si ritrova nell’epilogo) e un secondo di carattere lirico-onirico, che genera l’enigma, cioè il motore di un racconto che si chiuderà su se stesso. Lo stesso montaggio delle inquadrature del primo movimento non vuole descrivere la coerenza di uno spazio reale, ma a partire dai frammenti, ne ricompone uno immaginario, evocativo nei confronti della messa in scena e della messa in inquadratura del personaggio di cui prepara l’attesa. Descrizione della scena: dal piano ravvicinato del cartello, la macchina si muove con un carrello verticale verso l’alto, lungo la recinzione sulla quale è appoggiato. Attraverso una dissolvenza incrociata si passa a un fregio architettonico che ha una certa analogia con la griglia stessa. Altre dissolvenze ci portano all’inferriata del cancello di Xanadu con il monogramma <<K>> (l’angolazione è obliqua e in alto si vedono le nuvole e il castello); in seguito, sempre attraverso dissolvenze incrociate, si susseguono diverse vedute della residenza (gabbie di animali, un laghetto con alcune gondole, l’architettura del castello), dove le dissolvenze e il montaggio delle diverse inquadrature giungono a una coerenza di ‘scrittura’, di organizzazione della narrazione, quindi di uno sguardo all’enigma del soggetto e del racconto. L’illuminazione (scarsa e contrastata) contribuisce a dare una connotazione misteriosa alla scenografia ibrida e inquietante di Xanadu, come quando si giunge all’inquadratura dell’esterno notturno di una finestra gotica illuminata. Qui si interrompe improvvisamente il tema musicale ‘del potere’, mentre si spegne la luce della stanza al di là della finestra. Uno stacco di montaggio trasporta lo spettatore all’interno della stanza, in cui contro lo sfondo illuminato della finestra, si vede il profilo di un corpo disteso su un letto; da qui sembra avviarsi il secondo movimento, cioè il percorso narrativo. Una nevicata copre l’inquadratura, finché uno zoom in avanti mostra una boccia di vetro contenente una casetta con la neve. Poi, con il dettaglio ravvicinato delle labbra di un uomo, si può sentire sussurrare la parola che queste pronunciano (<<Rosebud>>), prima che le inquadrature successive (un braccio riverso con la boccia che cade e si frantuma; un’infermiera che accorre, vista in modo distorno attraverso il riflesso di un frammento di vetro; l’infermiera che ricompone e congiunge le braccia sul petto dell’uomo ecc.) raccontino la morte dell’uomo stesso. L’ultima inquadratura torna al campo medio della stanza, con il corpo disteso, in penombra sul letto, sullo sfondo della finestra illuminata. Il piano ravvicinato delle labbra, la neve sull’inquadratura, lo zoom sulla bocca suggeriscono una soggettività del personaggio che si pone come misteriosa, enigmatica. Del personaggio, presente quasi dall’inizio della sequenza, viene negata una vera ‘immagine propria’: cioè quella che suggerisce elementi sufficienti per distinguerne l’identità e permetterne un futuro riconoscimento. Se nel racconto classico la presentazione di un personaggio si può costruire in diverse tappe come l’evocazione, la nominazione, la sua messa in scena, la messa in inquadratura, l’enunciazione di un’immagine propria, ecc., queste possono essere separate tra loro e inoltre l’enunciazione dell’immagine propria può venire ritardata. Qui, invece, il personaggio viene messo in inquadratura, ma abbiamo solo immagini parziali che, invece di informarci, creano interrogativi e contribuiscono a costruire l’enigma. A volte, nella rappresentazione di un personaggio, può essere difficoltoso stabilirne gli esatti confini, in Quarto potere questa difficoltà si estende a tutto il racconto, senza arrivare a concludersi, ma rimanendo un’evocazione. Epilogo del film. Una serie di inquadrature, in movimento e dall’alto, con frequenti dissolvenze incrociate, ci mostra il gruppo di giornalisti che si prepara ad abbandonare i depositi di Xanadu, mentre la colonna sonora ritorna sul tema musicale del prologo. La presenza di un narratore sovrano persiste nell’insistenza su punti di vista al di sopra dei personaggi, sia in senso spaziale che narrativo: un movimento della macchina da presa (intervento marcato di uno sguardo) si fa largo tra la miriade di feticci collezionati da Kane, per poi mostrare la slitta, che da lì a poco verrà gettata nel fuoco. Un’inquadratura in movimento restringe progressivamente il campo visivo, fino al dettaglio della scritta <<Rosebud>> che si intravede tra le fiamme, mentre si sente nuovamente la voce del prologo pronunciare la parola. Il narratore, in questo caso, ha concesso il suo ‘sapere’ allo spettatore, ma non ai personaggi della storia, per i quali l’enigma rimarrà irrisolto. Il film non finisce con lo svelamento del segreto: il discorso prosegue, riprendendo a ritroso il cammino dell’inizio del prologo, dall’interno all’esterno di Xanadu, fino a ritornare al cartello che vieta all’accesso. L’ultima inquadratura ripete quella del prologo: si vede sullo sfondo Xanadu, obliquamente e dal basso verso l’alto, mentre in primo piano a sinistra, sulla cancellata, il monogramma <<K>>. Nelle strategie narrative è possibile vedere un progetto di messa in evidenza delle ragioni della scrittura in quanto tali e di un racconto che mostra l’avventura della propria narrazione. Fin dal prologo, il film sceglie la modalità lirico-romanzesca del racconto moderno, in cui la ricerca del personaggio coincide con la ricerca della forma, in una tendenza alla narrazione riflessiva, al monologo, in una temporalità soggettiva. Se si analizza il découpage della sequenza del prologo, si potrà notare l’affermarsi di un’istanza sovrana che coincide con l’affermarsi di una soggettività e di uno sguardo che si notano attraverso tracce molteplici, soprattutto attraverso la diretta rappresentazione di una temporalità che ha uno statuto riflessivo, fino all’allucinazione. Dopo i due cartelli iniziali (<<A Mercury Production by Orson Welles>> e <<Citizen Kane>>), i cui caratteri si rapportano e si contrappongono ai titoli del cinegiornale che irromperà subito dopo il prologo, a partire dalla dissolvenza in nero con cui si chiude il titolo del film, il nero perdura come inquadratura per diversi secondi, prima della comparsa del <<No Trespassing>>. È questo nero che dà origine alle immagini del film. La visione infernale che si comporrà sullo schermo ha origine dall’inferno, dalla morte. È la morte, il nero, che origina il racconto, il quale racconta la morte del personaggio, cercando di ricostruirne la vita. La prima morte messa in scena nel film, prima di quella del personaggio, è proprio questo nero che inaugura e genera tutto. Fin da subito, la morte e la vita si confondono senza soluzione di continuità, come nella rappresentazione sonora che prevede quel commento musicale che fa partire il motivo dell’infanzia da quello mortuario iniziale. Dal nero ha anche inizio il carrello dal basso che inaugura la serie di dissolvenze incrociate, a partire dal <<No Trespassing>>, per far oltrepassare, dal basso, una serie di soglie. Il nero e il movimento che parte da sottoterra, annunciano l’origine/non origine che motiverà le angolazioni rilevate da Bazin per le immagini in profondità di campo che si trovano nello sviluppo del film. Le successive visioni o allucinazioni in profondità, distorte dall’angolazione e dal grandangolo, hanno come punto di partenza questa provenienza dagli inferi. Altra figura stilistica va individuata nella dissolvenza incrociata che funziona come rappresentazione diretta dello scorrere di un tempo non cronologico, a favore di una scrittura fantastica, immateriale e instabile. Il succedersi delle diverse immagini di soglie dà luogo all’apparizione fiabesca di un castello che è reminiscenza di una fiaba cinematografica e/o visione della Xanadu di un poema romantico sognato come quello di Coleridge che verrà citato successivamente nel cinegiornale, che allucina in un’altra modalità espositiva la stessa storia. Castello, luogo, dimora, mondo che si qualifica come tutto il mondo possibile: anch’esso enciclopedia, in una apparizione, che si dà come davanti e oltre lo specchio (la nona inquadratura della sequenza che, dopo la visione onirica della dimora di scorcio, al di là del cancello con il monogramma K, la ripresenta capovolta, riflessa nello specchio del laghetto antistante). Il castello è immagine del tutto mentale, come anche la luce della finestra che romane punto fisso invariato e invariabile nel dissolversi delle immagini di cui è sezione aurea nel montaggio, prima di spegnersi e riaccendersi, dall’altro lato, per segnalare una nuova nascita (il bianco della nevicata, il sorgere di una rappresentazione, la casetta della boccia, infinitamente piccolo rispetto alla grandezza di Xanadu), prima di una nuova morte, quella del personaggio che è solo profilo, ombra, fantasma di un corpo che riesce solo a mostrarsi come frammento (la bocca o la mano). È la forte presenza del montaggio, più di venti inquadrature in poco tempo, a rompere con l’organicità classica, con l’unione di senso e del sensibile tipica dell’estetica classica, lontana dalle convenzioni hollywoodiane. IL CINEMA D’ANIMAZIONE WALT DISNEY E <<BIANCANEVE E I SETTE NANI>> 1. Che cos’è il cinema d’animazione? Con ‘cinema d’animazione’ si indica ogni film che utilizza la tecnica del ‘passo uno’: la macchina da presa impressiona la pellicola un fotogramma alla volta, e tra uno scatto e l’altro gli elementi inquadrati vengono modificati, così che in fase di proiezione si ha l’illusione del movimento. Più le modifiche sono piccole, più il movimento è fluido, ma è anche più lungo il lavoro dell’animatore. La forma maggiormente diffusa di cinema di animazione è costituita dai disegni animati, che negli Stati Uniti si chiamano animated cartoons o semplicemente cartoons. Letteralmente significa ‘vignetta animata’ (il corrispettivo italiano ‘cartone animato’ è un calco fonetico che non traduce correttamente la formula originale). Le prime esperienze di disegno animato americano sono fortemente legate al mondo dei comics e delle illustrazioni umoristiche dei quotidiani. Colui che è considerato il padre del cinema di animazione americano, Winsor McCay, al quale si deve il primo cartoon realizzato negli Stati Uniti, Little Nemo (1911), è anche uno degli ‘inventori’ del fumetto (Little Nemo era l’eroe di una sua striscia del 1905). L’animazione non è un genere, ma una tecnica che può essere impiegata nei modi più diversi. La forma più diffusa di cinema a ‘passo uno’ è il disegno animato, che nella Hollywood classica era rappresentato dal cartoon della durata di sette minuti, proiettato prima del lungometraggio, insieme ad altri cortometraggi che componevano il ‘pacchetto’ offerto allo spettatore. Vi sono altre tipologie di film d’animazione, relativamente rare a Hollywood, come i film con le silhouette articolate (cutout animation) e quelli con i pupazzi. Esiste anche una lunga tradizione di cinema d’animazione sperimentale, che inizia in Europa negli anni Venti con le avanguardie storiche e che successivamente si diffonde in Nord America, grazie anche all’arrivo di alcuni artisti, come Oskar Fischinger, esponente del cinema astratto, o Norman McLaren, autore di film realizzati dipingendo direttamente sulla pellicola. Ma l’animazione è presente in vari modi anche all’interno dei lungometraggi dal vero: negli effetti speciali, nei titoli di testa, nelle sequenze ‘ibride’ in cui gli attori interagiscono con personaggi animati. L’espressione ‘effetti speciali’ venne utilizzata la prima volta nei credits di Gloria (1926), un film sulla Grande Guerra diretto da Raoul Walsh. Si vanno così ad indicare tutti i ‘trucchi’ a cui si ricorre durante le riprese (effetti meccanici), con l’utilizzo di cascatori e particolari attrezzature, e in fase di post-produzione (effetti fotografici), quando l’immagine viene rielaborata in vari modi, al fine di ottenere soluzioni visibili altrimenti impossibili da realizzare per motivi tecnici, economici e di sicurezza. Nel cinema classico, che preferiva il lavoro in studio rispetto a quello in ambienti reali, buona parte dei trucchi era utilizzata per la simulazione di eventi del tutto quotidiani: una nevicata (con l’ausilio di una speciale macchina collocata sul set), oppure il traffico di una grande arteria cittadina (grazie alla retro-proiezione). Uno dei film chiave degli anni Trenta, King Kong (1933) di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, deve il suo enorme successo ai modellini animati con cui il responsabile degli effetti speciali, Willis O’Brien, ha dato vita al gigantesco gorilla e agli altri animali preistorici che popolano la misteriosa Isola del Teschio. Negli anni Cinquanta e Sessanta, l’opera di O’Brien sarà proseguita da Ray Harryhausen, le cui creazioni più famose sono gli scheletri guerrieri e le creature mitologiche degli Argonauti (1963), diretto da Don Chaffey, cult movie del cinema fantastico di serie B. Un’altra modalità di impiego dell’animazione nel cinema dal vero è rappresentata dai titoli di testa. Il nome più illustre è quello di Saul Bass, autore di titoli di testa dalla raffinata grafica stilizzata, alcuni esempi si trovano nell’Uomo dal braccio d’oro (1955) e in Autonomia di un omicidio (1959) di Preminger, e in Vertigo (1958) e in Intrigo internazionale (1959) di Hitchcock. Un caso unico è rappresentato dai titoli di testa della Pantera rosa (1963) di Blake Edwards, per i quali Friz Freleng, veterano dei cartoons della materiale fornito dalla ditta ACME. Tutto succede senza che nessuno dei due personaggi pronunci mai una sola battuta, ad eccezione del famoso verso <<beep beep>>. Si tratta di una struttura narrativa minimale: sono fatti da singole gag, del tutto indipendenti l’una dall’altra, tant’è che l’ordine delle scene potrebbe essere tranquillamente invertito e l’economia complessiva del testo non ne risentirebbe. Il cartoon americano rappresenta un paradosso vivente: si tratta di film realizzati a Hollywood, prodotti e/o distribuiti dalle case che hanno ‘inventato’ lo stile classico, ma che rifiutano sistematicamente il modello narrativo-rappresentativo. Alla ricerca del verosimile e allo psicologismo del racconto classico, i cartoons contrappongono il nonsense, la distruzione dell’illusione di realtà, con un andamento del racconto rapsodico e caotico. I cartoons manifestano una esplicita ‘immoralità’: nel loro mondo non ci sono buoni e malvagi, ma soltanto forti e deboli, furbi e ottusi, e le azioni non sono mai valutate sul piano etico. I cartoons sono affini alle espressioni più radicali del cinema comico, come i film dei fratelli Marx e la screwball comedy. L’animazione fa luce sul fatto che non esiste un vero e proprio stile classico, con norme inflessibili; è una realtà composita, che comprendeva generi e forme differenti, dove c’era sicuramente un pattern dominante ma rispetto al quale era possibile operare degli scarti. Per quanto l’animazione potesse essere in conflitto con le regole delle ‘Majors’, fu una delle prime vittime dello smantellamento dello studio system. Nel momento in cui il sistema hollywoodiano entra in crisi, la produzione degli animated cartoons viene ridotta, sino a cessare durante gli anni Sessanta. I cartoons, pur godendo di ampia popolarità, in una fase di calo delle vendite, divennero troppo costosi: gli spettatori amavano gli eroi, ma andavano al cinema a vedere il film a soggetto, anche se prima non fosse stato proiettato il cartoon. I fratelli Fleischer abbandonarono il campo già durante la seconda guerra mondiale, essendosi indebitati per produrre due lungometraggi, I viaggi di Gulliver (1939) e Mr. Bug Goes to Town (1941), nel vano tentativo di contrastare la Disney, alla fine cedettero la loro compagnia alla Paramount. Nel corso degli anni Sessanta, tutti gli studios di animazione con la sola eccezione della Disney, cessano la produzione per le sale e il cartoon si trasferisce in televisione, dove sopravvive come intrattenimento pomeridiano per i bambini. Sul grande schermo rimarranno solo i film della Disney, che aveva conquistato una posizione di superiorità nel mercato dell’animazione già a partire dalla seconda metà degli anni Trenta. 3. Walt Disney: dentro- e oltre- il cinema classico La produzione Disney, dal 1933/34 in avanti, porta avanti l’assimilazione delle regole del cinema classico nel cartoon. Lo stile del disegno diventa sempre meno stilizzato, i fondali sono più complessi e giocati sulla profondità, i movimenti risultano più fluidi e realistici. Sul piano narrativo, le storie sono organizzate in maniere più coerente, spesso dotate anche di un insegnamento etico. Per questo gli autori Disney iniziano a rifarsi ai classici della letteratura favolistica. Se Willie del vaporetto e La danza degli scheletri sono un insieme di gag messe in scena da personaggi gioiosamente perfidi, I tre porcellini (1933), La cavalletta e le formiche (1934), La lepre e la tartaruga (1935), per quanto comici, possiedono una morale e dei personaggi divisi in ‘buoni’ e ‘cattivi’/ virtuosi e non, dove i primi trionfano sempre sui secondi. Con il passare del tempo Topolino diviene un ‘bravo ragazzo’, introducendo poi Paperino (che fa la sua apparizione nel 1934), che svolge la funzione ‘anarchica’ che prima apparteneva al topo (il quale, pur rimanendo simbolo della casa di produzione, negli anni Quaranta è ormai scalzato dal papero nei favori del pubblico). Nel 1932, con Fiori e alberi, Disney è il primo ad utilizzare il Technicolor. L’utilizzo del sonoro, nel 1928/29, era stato inventivo e antirealistico, mentre l’impiego del colore risultava mimetico. Osservando le diverse Silly Symphonies, distribuite dal 1932/33 al 1937 (anno in cui viene prodotto Il vecchio mulino, sintesi della svolta ‘realistica’ della Disney), ci si rende conto come l’innalzamento del livello tecnico dei cartoons vada di pari passo con il rifiuto del modello ‘eversivo’ di Felix the Cat, di Betty Boop e del primo Topolino. La scelta di creare un lungometraggio, in quest’ottica, appare congruente: soltanto oltrepassando i confini della forma ‘breve’, la Disney può finalmente confrontarsi con il cinema ‘maggiore’. Nella prima metà degli anni Trenta, la Disney si impone come la figura di spicco per quanto riguarda l’animazione americana e le sue creazioni ottengono un enorme successo internazionale, ma i suoi film rimangono comunque nella dimensione del cortometraggio, appendice dello spettacolo ‘maggiore’. Proprio per superare questo limite e diventare una casa di produzione capace di porsi sullo stesso piano delle Majors, che la Disney, nel 1934/35, avvia il progetto di Biancaneve e i sette nani, passato alla storia come il primo lungometraggio d’animazione (in realtà nel 1926, in Germania, Lotte Reininger aveva realizzato un film di silhouette animate della durata di un’ora, Le avventure del principe Achmed). Biancaneve e i sette nani conquista un premio al Festival di Venezia del 1938, ma anche un vasto successo di pubblico: costato un milione e mezzo di dollari, ne incasserà più di otto, tra mercato americano e straniero. Prima e durante la lavorazione del film, le Silly Simphonies vengono usate come banco di prova per nuove tecniche e nuove soluzioni narrative e figurative. Permettono di studiare i problemi relativi all’uso del colore e alla creazione della dimensione di tridimensionalità, ma presentano anche alcuni personaggi che ‘fungono’ da bozzetto per le figure del lungometraggio. In Bimbi nel bosco (1932), ispirato alla favola di Hansel e Gretel, i due bambini sono soccorsi da un gruppo di gnomi barbuti che mettono in fuga una strega, simile a quella di Biancaneve e i sette nani. Allo stesso modo, la tartaruga che compare tra gli animali della foresta che aiutano Biancaneve, è anticipata da quella della Lepre e la tartaruga. Quest’ultimo annuncia il tipo di adattamento che Disney farà del testo dei fratelli Grimm in Biancaneve e i sette nani. Nella Lepre e la tartaruga, la fiaba seicentesca di Jean de La Fontaine viene adeguata ai gusti del pubblico americano con l’inserimento di elementi ‘moderni’, come nel caso della scena della lepre che gioca a baseball. Accanto al décor del castello e allo stile oratorio della regina, che rimandano a un Medioevo (fantastico), troviamo elementi anacronistici. Come, per esempio, la scena della miniera, i nani lavorano nel sottosuolo per estrarre le gemme, come vuole la tradizione della mitologia nordica, ma un orologio batte le cinque e i sette tornano a casa, come farebbero gli operai del XX secolo che hanno finito il turno. Altro esempio è Biancaneve che prepara una torta di frutta e obbliga i nani a lavarsi le mani prima di sederi a tavola per la cena, come farebbe una massaia americana con i suoi bambini. Il confronto con The Kids in the Shoe: nel film dei Fleischer la madre inganna i bambini e poi si beve il sidro, mentre Biancaneve è una donna di casa perfetta che recita le preghiere prima di addormentarsi. Pur essendoci molti elementi in comune tra le Silly Symphonies e Biancaneve e i sette nani, la distanza tra i cartoons di sette minuti e il lungometraggio è enorme, così come i problemi che Disney dovette affrontare in quanto stava per addentrarsi in un territorio completamente nuovo. Egli, infatti, provò per la prima volta a usare l’animazione per raccontare una storia così come la concepisce il cinema. Era necessario creare dei personaggi con cui il pubblico potesse identificarsi o che potesse detestare (nel caso della regina), per questo diede tratti quanto più realistici a uomini e donne. Gli ‘eroi’ umani del cartoon degli anni Trenta avevano fattezze grottesche, basti pensare ai corpi assurdi di Braccio di Ferro e di Olivia. Anche Betty Boop, nel suo cartoon d’esordio Dizzy Dishes (1930), era un ibrido tra una ragazza e un cane. In Biancaneve e i sette nani, invece, tutti hanno delle fattezze normali, tanto che Disney fu accusato di aver usato il rotoscopio, strumento dei fratelli Fleischer che permette di ricalcare l’immagine di un fotogramma di un film dal vero, in modo che l’animatore possa riprodurre i tratti e i movimenti umani in modo fedele. Solo i nani mantengono un aspetto ‘strano’ tipico dei cartoon, infatti hanno il compito di dar vita alle scene di tipo comico. Si tratta di una dicotomia che si troverà in buona parte della produzione Disney: da Cenerentola (1950) alla Bella e la bestia (1991), troviamo spesso protagonisti ‘seri’, disegnati in maniera realistica, e figure secondarie comiche, dalle fattezze grottesche. Ma pur essendo legati alla tradizione dei cartoon, i nani sono comunque personaggi complessi e non semplici maschere comiche; ognuno di loro è dotato di un nome e una specifica psicologia. Nella fiaba dei fratelli Grimm, invece, questo elemento era del tutto assente. Al di là del tratto realistico del disegno e della fluidità dei movimenti, della ricchezza degli sfondi e della ricerca dell’illusione di profondità, è l’uso dei movimenti di macchina e del montaggio a indicare una volontà di impiegare a pieno le risorse espressive dello stile classico. Il montaggio dei cartoons degli anni Venti e Trenta era semplice: serviva solo a unire tra loro le varie gag. Qui, invece, il montaggio assolve a funzioni narrative; basti pensare alla sequenza di montaggio alternato del finale, quando Biancaneve viene avvelenata dalla strega, mentre i nani corrono al salvataggio. Oppure la sequenza successiva alla morte apparente di Biancaneve, in cui vi è il montaggio di alcune brevi inquadrature, che mostrano il bosco in condizioni climatiche diverse, esprimendo il passaggio delle stagioni. Disney divide lo spazio in base ai principi del montaggio analitico, per guidare l’attenzione dello spettatore e/o creare effetti di suspence. A esempio, la scena dei nani che trovano Biancaneve addormentata sui loro letti. Il passaggio del campo totale della stanza al primo piano dell’eroina è segno di un’assimilazione delle regole del découpage classico: il mistero di una creatura addormentata sotto la coperta è svelato attraverso il campo totale, che permette al pubblico di vedere l’azione nel suo insieme, ma una volta che il viso della ragazza è stato scoperto, c’è subito un piano più stretto che focalizza l’attenzione sul viso della protagonista. Nell’operazione di Disney di trasformare il cartoon in una forma pienamente narrativa, egli opta comunque per un genere narrativo abbastanza debole come il musical. Il musical, pur raccontando una storia, ha un andamento sincopato, in cui in alcuni momenti la vicenda ‘si ferma’ per lasciare spazio a un momento di canto e ballo. Disney, quindi, opera una mediazione: vi è una discontinuità rispetto al modello linguistico- espressivo del cartoon degli anni Trenta, ma è una rottura non completa. Totale è invece quella sul piano ideologico: buona parte del cartoon americano contiene un’ironia graffiante, pensata più per gli adulti che per i bambini. Disney sceglie lo spettacolo per famiglie, in quanto vede nell’animazione una forma di intrattenimento infantile. Da qui la centralità delle fiabe, che però non costituiscono una novità all’interno del cinema d’animazione: la differenza sta nell’utilizzo del materiale letterario. Nel 1933, i Fleischer avevano già realizzato una versione (Biancaneve) a disegni animati della favola dei fratelli Grimm, con Betty Boop in ruolo della protagonista, in cui l testo di partenza veniva completamente stravolto per creare una vicenda basata sul nonsense e l’erotismo, con l’accompagnamento musicale del cantante jazz Cab Calloway. Nella Hollywood classica, Disney è stato uno degli autori-produttori più lungimiranti e con ampiezza di vedute. È stato uno sperimentatore coraggioso, investendo per primo su progetti cui nessuno aveva ancora pensato o che sembravano destinati al fallimento, dal cartoon sonoro al lungometraggio, passando al Technicolor. È stato anche uno dei primi a vedere una necessità, per Hollywood, di espandersi oltre i confini dell’industria puramente cinematografica. Già negli anni Trenta, investe sul merchandising, dagli orologi di Topolino al disco con la canzoncina di Three Little Pigs. Dopo la seconda guerra mondiale, si muove verso la differenziazione dell’offerta e la necessità del passaggio ad altri media e altre forme di intrattenimento. Nel 1950, Disney distribuisce il primo lungometraggio dal vero, L’isola del tesoro diretto da Byron Haskin, e mette in onda il primo show televisivo. Cinque anni dopo viene inaugurata Disneyland. Topolino e Biancaneve sono sicuramente tra le star che meglio hanno saputo continuare a parlare alle generazioni successive. Dopo il successo della stagione 1937-38, Biancaneve e i sette nani è stato distribuito nelle sale nove volte, dal 1944 al 1993, ottenendo sempre ottimi risultati. Quando, nel 1994, è stato pubblicato in videocassetta, le sue vendite hanno battuto quelle del blockbuster del momento: Jurassic Park (1993). IL NON FICTION I cinegiornali erano cortometraggi di informazione, contenenti servizi di argomenti diversi (politica, sport, cronaca ecc.), la cui cadenza variava a seconda del periodo e della compagnia produttrice. I cinegiornali vengono introdotti già durante il muto e scompaiono con l’arrivo della televisione, soppiantati dai telegiornali. Il cinegiornale più famoso della storia del cinema americano è The March of Time, prodotto da Louis de Rochemont per il gruppo Time-Life tra il 1935 e il 1951. Si può vedere un esempio di – finto – cinegiornale all’inizio di Quarto potere (1941) di Orson Welles. I cinegiornali fanno parte della più vasta famiglia del cinema di non-fiction, al cui interno rientrano tutti quei film che non mettono in scena un mondo fittizio, bensì registrano avvenimenti della vita reale. Il documentarismo americano ha una lunga tradizione, che corre parallela alla storia del cinema hollywoodiano. Si tratta di una vicenda che inizia con gli anni Venti e con l’opera pionieristica di Robert Flaherty, passa attraverso i documentari militanti, legati al New Deal, realizzati negli anni Trenta da Pare Lorentz, e arriva fino al cinema diretto degli anni Sessanta, con un film come Primary (t.l.: Elezioni primarie, 1960) di Richard Leacock, dedicato al processo di selezione del candidato democratico per le elezioni presidenziali del 1960. primo luogo per il pubblico femminile, laddove la commedia si rivolge agli spettatori di ambo i sessi. Dopo la seconda guerra mondiale, l’autore per eccellenza del melodramma hollywoodiano sarà Douglas Sirk, con film quali Magnifica ossessione (1953) e Come le foglie al vento (1956). Gli ibridi tra commedia e melodramma abbondano, basti citare Un amore splendido (1957) di Leo McCarey, love story hollywoodiana per antonomasia, con Cary Grant e Deborah Kerr, che inizia come una romantic comedy per poi trasformarsi in un weepie. L’ACTORS STUDIO Fondato nel 1947 a New York da Elia Kazan, Cheryl Crawford e Robert Lewis, lo Studio è tuttora la più importante scuola di arte drammatica degli Stati Uniti. Naturale prolungamento delle ricerche e delle sperimentazioni del Group Theatre, il metodo di recitazione insegnato all’Actors Studio risale alla lezione del regista russo Stanislavskij, diffusa in America da alcuni suoi allievi del Teatro d’arte di Mosca che, emigrati negli anni Venti negli Stati Uniti, vi fondano l’American Laboratory Theatre. Il metodo dell’Actors Studio, sviluppato principalmente da Lee Strasberg, evolve in una direzione caratteristica, che riguarda la teoria dell’identificazione della personalità profonda dell’attore con quella del personaggio. Un’identificazione che deve comprendere la totale disponibilità psicologica dell’attore, deve scavare nel proprio inconscio e farne affiorare i conflitti. In questo senso, il metodo non solo si allontana dalle teorie brechtiane della ‘distanziazione’ del personaggio, mantenute da Stanislavskij, ma anche dal classicismo hollywoodiano del periodo precedente. Le interpretazioni degli attori dello Studio vanno al di là della trasparenza classica, con forti connotazioni nevrotiche e accentuazioni drammatiche che modificano profondamente la drammaturgia dell’attore dal dopoguerra in poi. I più significativi interpreti del metodo sono attori come Marlon Brando e James Dean, insieme a Paul Newman, Marilyn Monroe, fino a Ben Gazzara e Robert De Niro, fondando in buona misura caratteristiche e fisionomia del divismo americano moderno. LA NOZIONE DI <<AUTORE>> AL CINEMA Nel caso del cinema, l’accezione più intuitiva di «autore» appare problematica, prestandosi a possibili equivoci e fraintendimenti. Posto, infatti, che la realizzazione di un film si basa, in generale, su un processo di produzione molteplice, in cui contributi concorrono al risultato finale (dal soggetto alla sceneggiatura; dall’allestimento del set, della scena, alle riprese; dal montaggio al missaggio ecc.), è legittimo considerare il solo regista come l’«autore» del film? Oppure, piuttosto, il titolo spetta allo sceneggiatore? Senza contare il ruolo degli interpreti o, in determinati contesti storici e produttivi, quello del produttore. Inoltre, le stesse maestranze tecniche forniscono un contributo spesso decisivo alla qualità del film. Tuttavia, se il titolo di autore si riferisce a un progetto espressivo riconoscibile, a una comunicazione di idee e alla proposta di una peculiare visione del mondo attraverso un film, la pratica corrente lo assegna al regista. Si può distinguere un «cinema d’autore», in cui autore e regista tendono a coincidere, in momenti della storia del cinema in cui si impone una strategia produttiva che fa del regista l’esecutore personale e inventivo di un progetto. In questa prospettiva, il problema dell’autore coinvolge innanzitutto il lato istituzionale, per riflettersi immediatamente su quello realizzativo e sulla pratica del consumo. In linea generale, si può affermare che fino agli anni Cinquanta realizzazione e consumo si appoggiano principalmente sullo star-system e sulla strategia dei generi, mentre solo a partire dagli anni Sessanta si produce e si consuma un cinema propriamente «d’autore». Dal punto di vista critico-teorico, la nozione di autore, insieme a quella complementare di «opera», si è imposta nella storiografia del cinema tradizionale e percorre fino ai giorni nostri il discorso sul cinema. L’idea che il cineasta sia un autore emerge sin dal primo decennio del secolo, nell’ambito di una riflessione tesa a legittimare lo stesso statuto artistico del cinema, percorrendo questa linea guida fino agli anni Venti. È, in particolare, con l’avanguardia francese che la nozione si rivela anche come precisa ideologia, a partire da una serie di autori che, oltre a essere registi, sono anche teorici, scrittori di cinema (Jean Epstein, per esempio), così come autore appare a tutti gli effetti Sergej M. Ejzenstejn. Ma il presupposto diretto dell’idea di centralità della nozione di autore, proclamata e praticata negli anni Cinquanta dalla Nouvelle Vague, va cercato nel manifesto di Alexandre Astruc sulla caméra-stylo, datato 1948, in cui si proclamava il diritto per il cineasta di avere uno stile. La politique des auteurs condotta sulle pagine dei «Cahiers du cinéma» da chi, come Truffaut, Rivette e Godard, costituirà il gruppo dei registi della Nouvelle Vague, si fonda proprio sull’idea che il cinema sia un linguaggio e il film un’operazione di scrittura in grado di dar corpo alla soggettività del suo autore. E lo statuto di autore viene attribuito non solo a registi come Bresson, Welles, Renoir e Rossellini, ma anche a chi, come Hawks, Ray, il Lang americano, Hitchcock, si era dimostrato in grado di raggiungere una propria coerenza espressiva e stilistica. La nozione di autore, in questa prospettiva, riguarda un campo di coerenza concettuale e morale, una visione del mondo che il film trasforma concretamente in un campo di coerenza tecnico-stilistica. In questo modo il cineasta non rivendica più solamente la possibilità di essere riconosciuto come autore, ma si pone come autore «cinematografico». IL CINEMA SPERIMENTALE Il cinema sperimentale (o cinema d’avanguardia) si contrappone a quello industriale, sia sul piano produttivo che su quello estetico. Si tratta di film realizzati e distribuiti al di fuori delle normali strutture commerciali, rifiutano la dimensione del racconto, optando per l’associazione a-logica delle immagini, flusso di forme astratte, la visualizzazione di esperienze oniriche. Il cinema sperimentale nasce negli anni Venti con le avanguardie storiche (definite tali per distinguerle dalla neo-avanguardia degli anni Sessanta e Settanta). Sul piano cinematografico, quella delle avanguardie storiche è un’esperienza soprattutto europea. Infatti, benché in America, tra le due guerre mondiali, siano reperibili non pochi film sperimentali, da Manhatta (1921) di Paul Strand e Charles Sheeler a Lot in Sodom (1932) di James Sibley Watson e Melville Folsom Webber, il solo artista statunitense che abbia giocato un ruolo realmente significativo nell’ambito del cinema delle avanguardie storiche è Man Ray, autore di Le retour à la raison (1923) ed Emak Bakia (1926), il quale però viveva e operava a Parigi, come altri intellettuali americani espatriati. La presenza del cinema d’avanguardia negli Stati Uniti inizia a divenire più rilevante a partire dagli anni Quaranta, con l’attività di Maya Deren, che nel 1943 realizza la sua prima opera, Meshes of the Afternoon, insieme ad Alexander Hammid. Durante gli anni Sessanta, gli Stati Uniti diverranno l’epicentro del cinema sperimentale internazionale, con figure quali Andy Warhol, Stan Brakhage, Kenneth Anger, Jonas Mekas.
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