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Cinema italiano : gli anni 60 e oltre. Di Lino Micciché., Sintesi del corso di Storia Del Cinema

Analisi completa della cultura popolare italiana del decennio '60-'70. Cinema italiano tramite anche politica, religione, costumi e società.

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016
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Scarica Cinema italiano : gli anni 60 e oltre. Di Lino Micciché. e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! GLI ANNI ’60 E OLTRE L’EREDITÀ DEGLI ANNI ‘50 1.Dopo la fine del neorealismo, pressappoco nel ‘51/’52, (ultime opere: Miracolo a Milano e Umberto D di De Sica – Bellissima di Visconti – Due soldi di speranza di Castellani), il cinema italiano non ha avuto movimenti di comune poetiche. Intanto in Gran Bretagna c’era il “free cinema”, in Francia la “nouvelle vague”, in Cecoslovacchia la “nova vlnà”, negli Stati Uniti la “generazione della televisione” e poi “New American Cinema”, in Brasile il “cinema novo”, in Polonia la “vague” cinematografica legata all’ottobre del ’56, in Italia abbiamo avuto nascite di filoni, generi e macrogeneri, ma nessuna nuova ondata. 2.L’ereditarietà cinematografica che gli anni ’50 ci lasciavano era complessa, sfuggente e tutto sommato negativa; erano venute alla luce personalità di rilievo internazionale, come Federico Fellini e Michelangelo Antonioni, con opere di grande maturità. Il mercato cinematografico italiano presentava, dal ’56, una diminuzione della domanda, proprio come era successo a Hollywood. Dal punto di vista culturale, la presenza di alcune grandi personalità del cinema, continuano ad attirare l’attenzione su Cinecittà, ma ciò non è abbastanza, perché lo scarto tra loro e i piccoli registi e le produzioni che ne derivano, creano un enorme abisso. Gli umori e fermenti del nostro cinema, erano per la maggioranza collocabili a sinistra e, fondati sulla possibilità di cambiare il mondo; se infatti l’estetica del neorealismo sembra rifarsi a modelli culturali geograficamente o storicamente lontani, l’etica di quell’estetica era in gran parte intrisa di quegli umori e fermenti, che avevano portato all’antifascismo e alla Resistenza. Il cinema neorealistico espresse appunto nella gamma di toni e di aspirazioni, i valori morali che determinavano e caratterizzavano quella speranza e quel mito di ricostruire la società, ma l’impossibilità di attuare tutto ciò, buona parte della generazione neorealistica restò psicologicamente e culturalmente legata al negativo. Questo movimento assunse connotazioni mitiche, visto il tentativo dei suoi autori di prolungarlo senza comprendere che era morta, la stagione che lo aveva prodotto. Rossellini già con Germania anno zero (‘48), preannunciò una svolta, confermata da Viaggio in Italia e, mentre lui andava in Asia per indagare su Uomo, Natura e Storia, i tre maggiori registi, in tre opere indicavano un analogo stato di crisi: Le notti bianche di Visconti, Il Grido di Antonioni e Le notti di Cabiria di Fellini. Era comune a tutti la percezione del mondo come inafferrabile alterità e la visione dell’individuo come tragica monade. La società, la cultura e il cinema italiano erano in un clima di smarrimento, di volontà, di frustrazione, di rassegnazione e rivincita. LE PORTE DEGLI ‘60 1.L’inizio ufficiale della cinematografia italiana degli iniziali anni ’60 è fissata nel settembre ’59, con la conquista di Monicelli e Rossellini del Leone d’Oro veneziano e, si apre con il trio: Antonioni, Fellini e Visconti. Nel caso di Rossellini, il leone è un finale filmografico, fino al suo ritorno nel ’67, quando girerà La presa del potere di Luigi XIV, (film per la tv), con il quale conosce il nuovo mezzo, a cui si dedica negli anni successivi. Un altro che perde è De Sica, che nel ’60 realizza La Ciociara, apprezzabile solo sul piano della correttezza spettacolare; Zavattini, invece resterà per tutto il decennio, uno dei punti di riferimento del cinema italiano, specie dove c’è un dibattito da fare o una battaglia da condurre. Influenza molto i giovani documentaristi italiani, che nel ’61 e ’63, realizzano Le italiane e l’amore e I Misteri di Roma. 2.I tre film principali citati in precedenza, rappresentano l’estremizzazione estetica della coscienza di una società che sta subendo mutamenti. Lo prova il triennale silenzio successivo dei 3 autori. Ma nel 1960 ciò che prima sembrava indistinto, assume forma e L’avventura, Rocco e i suoi fratelli, La dolce Vita, rappresentano con 3 punti di vista e 3 focalizzazioni, la consapevolezza del passaggio tra il vecchio e il nuovo rispecchiandone il trauma della problematicità futura. La loro attualità è proprio la capacità di esprimere nel modo esatto questa transizione della giovane civiltà italiana; ciò non significa però che lo esprimono nello stesso modo, anzi sono uguali nella loro diversità, denunciando: il comune sfaldarsi della coscienza etica – Fellini, esistenziale – Antonioni, socio- politica – Visconti. Visconti, Rocco e i suoi fratelli: è l’ultima storia proletaria di cui parla, immessa nella grande città, già divenuta cuore del neocapitalismo. (Finire) 3.La Dolce Vita segna la crisi dello spiritualismo felliniano ed è la più impetuosa radiografia della moralità. La forza d’impatto ed il livello poetico nascono dalla fusione che l’artista opera tra autobiografia e biografia del mondo, tra soggettività e oggettività, tra esistenza e storia. È un’isolata ed eccezionale, tappa intermedia. Tra i polivalenti significati è importante sottolineare Eros e Thanatos che, regnano insieme, si identificano e nel quale il più acceso spasmo vitale è anche il primo scomposto sussulto morale; l’identificazione dolce vita=dolce morte spiega il mistero di ripulsa e di attrazione, di partecipazione e di rifiuto, con ui Fellini ha composto il film del vivere come sopravvivere. Si intende una morte spirituale. Il protagonista, ha due alternative: o l’estremismo razionale dell’autodistruzione o l’estremismo irrazionale della mitica attesa di una palingenesi purificatrice. Qui, Roma, è il sintomo/simbolo, di una società sfatta nei propri equilibri, consumata nelle proprie idealizzazioni, cinica nelle proprie esperienze. 4.Michelangelo Antonioni, con L’avventura, allarga la sua filmografia, che fa assieme ad altri successi, un lucido discorso sul presente. Il suo mondo è borghese, non per scelta politica, ma poetica. Egli presume che se i valori della borghesia potranno non riguardare tutti, tutti invece saranno preda dei suoi disvalori; analizza il vincitore perché ritiene che il suo male oscuro attaccherà anche il vinto, doppiamente sconfiggendolo e facendo di quel male lo status generale della società. Il regista sembra precario ideologicamente, ma è compensato nei risultati filmici, da un’intensità di ispirazione che per la maturità espressiva e spessore poetico. MEMORIE, RIMOZIONI, RISATE E CELEBRAZIONI 1.Proprio alla fine degli’anni ’50, due critici del cinema, Massimo Mida e Giovanni Vento, sottolineano l’urgenza che il cinema italiano, ritorni a quella tematica che contraddistingueva le prime stagioni post-belliche. L’exploit rosselliniano de Il generale della Rovere ne sembra segnare un nuovo inizio. I quaranta film sulla guerra, fascismo, antifascismo e Resistenza, fatti tra il ’60 e il ’63, hanno dei limiti, tra i quali spicca quello ideologico. La rappresentazione ha connotazioni da commedia, oscillando tra la satira e la farsa, con un’esplicita rinuncia a ogni saldo approfondimento analitico. Gianni Puccini realizza nel ’60 Il carro armato dell’8 settembre, attraverso gl’occhi e la coscienza di origine contadina, il caos in cui si trovò il paese dopo l’armistizio, senza però riuscire ad arricchire i motivi drammatici e le tonalità grottesche. Luigi Comencini realizza Tutti a casa, dove lo schema antieroico si disperde nelle variazioni macchiettistiche, mentre la graduale presa di coscienza del protagonista si risolve in un gesto sentimentale, descritto con commozione, ma poco illuminante. Dino Risi firma nel ’62, La marcia su Roma, un’occasione mancata per un discorso sulla degradazione della storia. Luigi Zampa nel ’62, con Anni Ruggenti, originale e ricco di implicazioni, ma portato avanti con sciatteria e un linguaggio patetico sentimentale. Luciano Salce nel ’61 dirige Il Federale, il quale si conclude con la fraternizzazione tra gl’italiani in camicia nera e quelli in cravatta borghese. 2.Nel filone serio, lo spettatore era chiamato a contemplare una indubbia condanna del fascismo, dove però l’antitesi era sempre più vaga e generica e si identificava, con generiche speranze di riscatto. Il cinema sul fascismo degli anni ’60, cerca di imporre una visione dell’antifascismo sempre più larga. Rossellini con Roma città aperta, mostrava a tratti di avere di nuovo la vena artistica di un tempo, soprattutto nei momenti corali e nelle aperture documentaristiche. Alcuni giudicarono il film un riallacciarsi a una tradizione interrotta, valutando il secondo episodio Era notte a Roma, come una storia tipica della Resistenza. L’ambiguità ideologica di questo periodo, appariva composta da un’ambiguità cinematografica, identificabile in una concezione consumistica. Ne La ciociara di Vittorio De Sica, è difficile distinguere quanto sia attribuibile all’approssimazione dell’ideologia antifascista e quanto all’accettazione dell’ideologia consumistica. Carlo Lizzani con L’oro su Roma, dava l’avvio al filone storico a lui congeniale, oltre a film di montaggio fascista. Alcuni di questa tipologia di film, nascevano più da una volontà con Campanile, che realizzò una serie di commedie erotiche, dagli spunti intelligenti ma sviluppi narrativi antichi. Nel ’63 Brunello Rondi, saggista e noto collaboratore felliniano, realizza Una vita violenta e Il Demonio, storia di una fanciulla lucana posseduta dal maligno. Secondo alcuni critici, Il disordine di Brusati, potrebbe essere il primo film apparso in Italia, a cui si addice la definizione di “brechtiano”; qui c’è una volontaria rinuncia e assume la scelta di un contrasto che vorrebbe non più essere soltanto di sentimenti, ma di condizioni sociali, di educazioni, di appartenenze, ecc.. Offre un susseguirsi di squilibri narrativi, psicologie pretestuose, eccessi simbolici, freddi artifici stilistici, sovrapposizioni colte ma raggelanti. Abbiamo anche I tulipani di Harlem un tenue discorso sulla dolce e crudele distruttività dell’amore, visualizzato tra le smorte luminescenze fiamminghe di Bruges. I Basilischi di Lina Wertmuller, è la sua prima opera e porta sullo schermo, il volto rassegnato, il sorriso scettico e beffardo, i discorsi provincialmente cinici di un paesino tra Bari e Foggia, dove ai giovani “basilischi” locali non resta che sfogare pateticamente, in un erotismo verbale o nel mito della fuga verso la favolosa metropoli, l’antica frustrazione e le nuove repressioni. Nel ’62 Ugo Gregoretti esordisce con I nuovi angeli un film-inchiesta con momenti superficiali e ricco di una curiosità verso le nuove generazioni, tutto in otto episodi. L’anno dopo con Omicron tenta la strada del fantascientifico grottesco e della satira sociale con risultati apprezzabili. ARTI E MESTIERI 1.L’operazione Nouevelle Vague italiana, modificò tuttavia la scena cinematografica nazionale a un duplice livello: sia il film medio, sia il cinema di qualità. Damiano Damiani esordisce nel ’60 con un film dall’impianto psicologico, Il Rossetto, confermando con il successivo Il Sicario, le solide capacità narrative e la vena realistica. Il coetaneo Mario Bolognini, attorno la svolta fra i due decenni e dopo l’incontro con Pasolini, compie un salto di qualità, con Notte Brava e Senilità tratto da Svevo. Così mostra le sue doti di raffinato metteur en scene, filologo e ricostruttore ambientale. Cineasta collegato al film medio è Vittorio Caprioli che nel ’61 firma Leoni al sole, con cui rievoca un disincanto, con una punta di malinconia, tra Capri, Positano e Ischia, dove le famiglie consumano le loro brevi stagioni di cinica spensieratezza. 2. Un autore la cui filmografia ha oscillazioni tra film medio e film d’autore è Alberto Lattuada, intellettuale di cultura vasta e raffinata, sempre partecipe dei movimenti e sommovimenti del cinema italiano. Negli anni ’50 aveva lavorato con Fellini, per poi dedicarsi a film come Il Cappotto un’opera con equilibri realistico-fantastici, indubbiamente tra i migliori titoli di quel periodo; con Dolci Inganni, apre la filmografia degli anni ’60 e Lettere di una notizia, un film sul piano del linguaggio molto importante, con il quale riesce a esprimere le inquietudini e i torpori della vicenda. È da ricordare anche La Mandragola, una lucida e acre visione del mondo di Macchiavelli. 3.Luigi Comencini, apre la sua stagione con Proibito rubare, e continua con la doppietta Pane, amore e fantasia – Pane, amore e gelosia. Negli anni ’60 conferma il proprio eclettismo con una commedia antifascista Tutti a casa, una commedia populista A cavallo della tigre, e La ragazza di Bube, ispirato al romanzo di Cassola. In quest’ultimo film, si tratta l’infanzia, l’adolescenza e il primo impatto tra le utopie esistenziali di chi si affaccia alla vita e la durezza con cui essa si piega ai compromessi. Temi ricorrenti nei suoi film, come nel documentario Bambini in città del ’46, con cui vince il Nastro d’Argento e, Pinocchio, nella sua versione televisiva. 4. Tra gli autori del soggetto e tra quelli della sceneggiatura, ricordiamo Marcello Fondato, Age e Scarpelli; nell’ambito del film medio, il ruolo dello sceneggiatore è molto rilevante, insieme a quello dell’attore protagonista, che ha funzioni non minori di quelle del regista. Importante è Ennio De Concini, dal ’59 al ’65 ha scritto più di 52 sceneggiature, mentre come attori: Ugo Tognazzi, Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni. A livello femminile, sono poche le attrici di grande ruolo: Sylva Koscina, Sandra Milo, Virna Lisi e Catherine Spaak. Sarà però un altro gruppo di sceneggiatori a firmare copioni nella maggior parte del decennio: Suso Cecchi D’amico e Tonino Guerra, Salvatore Giuliano, Elio Bartolini, alcuni dei quali, scrivono per film d’autore principali come quelli di Pasolini. 5.La cinematografia italiana tenta di passare dalla fase artigianale-avventurosa a quella capitalistico-industriale. Dal punto di vista del mercato interno, gli incassi passano dal 41,2% (1960) al 58,8% (1969), contando sia i film puramente italiani, sia quelli di coproduzione. 6.Il prezzo di questa industrializzazione è stato pagato con la serializzazione dei prodotti e il livellamento delle loro caratteristiche ideologiche, spettacolari e culturali. Quindi: lo sceneggiatore di grido garantiva la story ed i suoi equilibri, il divo garantiva la sua vendibilità e gradevolezza, il regista la realizzazione del disegno. Questa formula ebbe poco meno che la forza di legge, che il cinema industriale hollywoodiano applicava da tempo con rari scarti e rare ribellioni. Le due conseguenze che ne derivano sono: la mancanza di formula nel caso in cui si decidesse di innovare o fare qualcosa di autentico e, la formulazione di un’ideologia cinematografica media fatta di equilibri, spettacolarmente dosati, tra critica di costume e folklore sociologico, liberazione dell’eros e un’offerta di valore erotico espressivo. Quindi dall’ideologia populista e parrocchiale degli anni ’50, si passa a quella monolitica e trionfale piccolo-borghese, con protagonisti come: Sordi, Gassman, Tognazzi e Manfredi. 7.Molti autori, sceneggiatori e registi, della commedia italiana (macrogenere), fornirono i migliori “film medi” dell’intera storia del cinema italiano. Fu un genere che si dilagò a macchia d’olio su tutti i generi e sottogeneri, filoni e sottofiloni. ALTRE ARTI E ALTRI MAESTRI 1.L’attività di Mario Monicelli cominciò nel ’35, quando presentò alla Mostra di Venezia, I ragazzi della via Paal, girato a 16mm, con Alberto Mondadori. Presente a Cinecittà, creò otto coregie con Steno, e successivamente sei film più esplicitamente sociologici e con nette ambizioni critiche. Nel ’58 realizzò I soliti ignoti, con cui ricevette due Nastri D’argento per la sceneggiatura e l’interpretazione di V.Gassman. È un film di rilievo, perché decreta la fortuna dell’unione lavorativa tra Monicelli, Age e Scarpelli. I due titoli più importanti della sua filmografia sono: 1 La grande guerra: offre un conflitto non retorico sulla prima guerra, dove l’antieroismo dei due protagonisti non mostra nulla di brechtiano, ma una goffaggine piccolo-borghese; spezza il conformismo. 2 I compagni: ambientato a fine secolo, tra operai piemontesi, durante uno sciopero in cui insorge una coscienza di classe e un espandersi a livello di massa dell’idea socialista. La tensione etico-politica, la notevole limpidezza della condotta registica e la pregevole costruzione delle scene di massa, si presentano come il primo tentativo di film storico sulla classe operaia. Visto il grande successo del film, l’opera si trasformò in una comoda ricetta per creare film medi. 3.La difficoltà presente agli inizi degli anni ’60, si evidenzia e sottolinea tra i giovani e nelle loro opere ricche di risentimento morale, rigore ideologico e bisogno di chiarezza. ET CIRCENSES Nasce il cinema popolare tipico delle aree del sottosviluppo come ad esempio il film-fumetto. Il film-fumetto è il primo genere popolare del cinema italiano postbellico. Si afferma tra la fine degli anni '40 e l'inizio degli anni '50. Passano di moda solo dopo il 1957. Nel 1952 sui 134 film realizzati la maggior parte erano di genere lacrimoso-sentimentale. Il realismo del fumetto è favolistico. Il contrasto fra bene e male si risolve sempre in modo positivo senza rovesciare mai la morale tradizionale. Contemporaneamente si affermano il filone comico-farsesco (Totò), il genere storico e di film in costume, il genere poliziesco spionistico (007), il film operistico (film ispirati ad opere liriche), il genere canzonettistico (ispirato a canzoni), la commedia (inizio anni '50), ma nessuno di questi raggiunse la dimensione merceologica e culturale del film-fumetto. Il film romano-mitologico sostituisce il film-fumetto tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60. Rispetto al realismo del film-fumetto rappresentano una sorta di fuga dalla realtà. Con essi lo spettatore recuperava dopo tanto realismo il diritto alla fantasia dando una dimensione mitica al conflitto male-bene. Esso rappresenta nella storia dei generi popolari del cinema italiano il momento più positivo. Poi la produzione di questo genere passò nelle mani dei big hollywoodiani e il pretesto spettacolare venne mascherato da pretesto storiografico o culturale. Il film sexy sostituisce quello romano-mitologico nel 1963-64 e qualche anno dopo arrivano anche i makaroni "spaghetti" western. Sono entrambi dei generi anonimi in cui gli autori non si firmavano, mentre la commedia italiana era sempre firmata. Alessandro Blasetti è il progenitore inconsapevole del film sexy. Il filone sessonotturno rappresenta il peggiore momento del cinema italiano postbellico. Esso fonda la propria attrattiva spettacolare sulla situazione di repressione istintuale della società occidentale, in particolare quella italiana. Il film sexy ha segnato la fine di una serie di tabù sul sesso tanto che subito dopo l'esaurimento di questo tipo di film in Italia inizia la pubblicazione di riviste for men only. I film western si affermano grazie al film "Per un pugno di dollari" di Sergio Leone che incassa un botto nel 1964. Da quel momento in poi chiunque faceva film western come ad esempio Tinto Brass, Damiano Damiani. In tutti i western italiani i nomi di produttori, registi, tecnici e attori vengono americanizzati. I film sono caratterizzati dalla violenza parossistica e l'assoluta amoralità. Nel western italiano i morti muoiono di dolore e sono tanti. Nel western classico si costruisce un'immagine epica del passato tale da eroicizzare il presente e rendere glorioso il ruolo di sentinella armata degli USA. Nel western italiano si parte dalla realtà di violenza della civiltà americana e se ne applicano le regole alla mitologia del passato vista in modo diseroicizzato, antieroico. Nel western classico il protagonista lotta dalla parte del bene o del male mentre nel western italiano il protagonista non si schiera ma cerca solo di sopravvivere tatticamente all'una o all'altra, badando che si distruggano tra loro. Per l'eroe del western italiano il metro valutativo è il denaro, il metro operativo è l'efficienza, il metro esistenziale è un grande amore per sé stesso. IL FILM A EPISODI (E ALTRI EPISODI) Il mitologico, il sexy, il western e lo spionistico riguardavano un pubblico popolare. La produzione però cercava anche un pubblico medio e lo trovò con il film a episodi. Il film a episodi trionfa nel 1963, 1964 e 1965, cioè negli anni della crisi cinematografica. In questi film si cercava di usare attori famosi e sceneggiatori di successo capaci di ricucire plausibili storie addosso a loro. La formula del film a episodi nacque negli anni '60 da un calcolo imprenditoriale speculativo: se un attore, uno sceneggiatore e un regista avevano realizzato un prodotto di successo, mettere assieme più attori, più sceneggiatori e più registi di successo avrebbe potuto moltiplicare l'esito commerciale del prodotto. In verità ciò accadde raramente, ma la formula rivelò altri aspetti di comodo: era un accettabile surrogato a molte ispirazioni in crisi, richiedeva minori tempi di elaborazione, poteva essere usata per onorare contratti, valeva a coprire qualche mezza tacca con nomi altisonanti. Nel 1961 ci fu una sola impresa pluriepisodica, nel 1962 ce ne furono quattro tra cui RoGoPaG dove c'è il film di Pasolini "La ricotta". Nel 1963 ce ne sono otto, nel 1964 sono 14, nel 1965 sono 12, nel 1966 sono 4 e infine nel 1967 solo 2. Il filone del film a episodi servì soltanto a coprire il vuoto produttivo e ispirativo dei tre anni più critici del decennio. Tra i tanti, quelli che ebbero più successo sono "Il lavoro" di Visconti, "Il Professore" di Ferreri, quelli di Pasolini, "Toby Dammitt" di Fellini, "L'agonia" di Bertolucci, "I mostri" di Dino Risi e "Vedo nudo" di Dino Risi. Il primo film ad episodi fu "Boccaccio '70" del 1961 e l'ultimo fu "Vangelo '70" (chiamato poi Amore e rabbia) del 1969. Il peggior incasso di questo genere di film fu "Amore e Rabbia" di Lizzani, Bertolucci, Pasolini, Godard e Bellocchio. L'IMPEGNO DI FRANCESCO ROSI La personalità più notevole tra i cineasti degli anni '60 è Francesco Rosi che arriva alla regia dopo una serie di tappe partendo da aiuto-regista, direttore di doppiaggio, collaboratore ala sceneggiatura, autore di soggetti. Il produttore Franco Cristaldi trova un suo soggetto e gli produce il film del 1958 "La sfida" e l'anno dopo gira "I magliari". Con i suoi film Rosi si impegna sempre in un ambito etico-politico piuttosto che in quello estetico-formale. Egli è alla continua ricerca di un impegno che non sia disgiunto dallo spettacolo. Il suo capolavoro è il terzo suo film "Salvatore Giuliano" del 1962. Nel 1963 esce "Le mani sulla città" che vince il Leone d'Oro a Venezia. Questo discutiamo" di Amore e rabbia, che nasce sull'onda della contestazione studentesca al cui movimento il cineasta ha aderito fin dall'inizio. Qui l'obiettivo polemico sono i comunisti del PCI, mentre in La Cina è violenta erano i socialisti del PSU. Nonostante sia di sinistra, Bellocchio non inserisce mai la figura dell'operaio nei suoi film perché cerca di evitare accuratamente ogni mito operaistico, ogni rituale progressista, ogni illusione palingenetica. La dimensione più autentica del cinema di Bellocchio è la dimensione del negativo. E' un cinema che non propone taumaturgie, non offre appigli, non prevede soluzioni perché tutto quello che vuole fare è negare il tetro passato che ancora ingrigisce il mostruoso presente. LE SOLITUDINI DI VITTORIO DE SETA Vittorio De Seta esordisce nel 1961 con il film "Banditi a Orgosolo" che tratta le problematiche della questione meridionale. Il secondo film è "Un uomo a metà" del 1966 che rappresenta per il regista un atto di liberazione senza tuttavia riflettere tale liberazione che è oltre e dopo il film. I CUORI SEMPLICI DI ERMANNO OLMI Ermanno Olmi realizza molti documentari e nel 1961 gira "Il posto" che si distacca molto dal suo precedente stile documentaristico. Realizza poi "I fidanzati" che è secondo l'autore un film sulla comunicabilità. Il fiasco di "E venne un uomo" mise in crisi Olmi. Nel 1968 realizza "Un certo giorno" che è il film più persuasivo del regista. GLI UTOPISTI E GLI ESAGERATI DEI TAVIANI E DI ORSINI Paolo e Vittorio Taviani e Valentino Orsini esordiscono nel 1962 con il film "Un uomo da bruciare". Prima di ciò i tre a Pisa fondano cineclub e promuovono attività culturali, a Roma realizzano documentari di impegno politico tra i quali "San Miniato, luglio '44". Sono ispirati alla figura di Salvatore Carnevale, il sindacalista socialista ucciso dalla mafia, per la realizzazione del film "Un uomo da bruciare", che è il ritratto realistico di un protagonista popolare delineato però come un antieroe. Il secondo film di Orsini e Taviani è composto da sei novelle corrispondenti agli altrettanti casi di scioglimento del matrimonio previsti dalla legge Sansone e si intitola "I fuorilegge del matrimonio". Il loro è un cinema di ricerca espressiva e rifiutano di ridurre il tema civile ad una enunciazione. Questo secondo film evidenzia di episodio in episodio continue rotture di tono narrativo e di cifra stilistica oltre che un dislivello di risultati estetici. La loro filmografia è caratterizzata da lunghi silenzi e da larghe pause. I Taviani poi fanno da soli "Sovversivi" nel 1967 e Orsini fa da solo "I dannati della terra" nel 1967-68. "Sovversivi" è il polittico di quattro storie parallele, cioè di altrettante vite aperte e in cerca di se stesse e del proprio ruolo, in un particolare momento della verità: il funerale di Togliatti nell'estate del 1964. In questo film coesistono positivamente forme di consapevolezza, estetica e politica come la coscienza del superamento definitivo del mito/illusione neorealistici e di ogni sua possibile ripresa, la coscienza che l'unico modo per essere degli artisti politici non è quello di fare dell'arte politica ma di fare politicamente l'arte, la coscienza che dalla sclerosi delle vecchie certezze ideologistiche non si esce creandone delle nuove destinate a loro volta a sclerotizzarsi ma scegliendo il sistematico confronto con la realtà in una feconda dialettica tra l'accettazione e la messa in discussione continue di se stessi, la coscienza che la politica del possibile ha finito per emarginare l'impossibile dal voluto, occorre ridare uno spazio politico all'utopia. Queste forme di consapevolezza fanno di Sovversivi un film ricco di presentimenti sessantotteschi. Il successivo film è "Sotto il segno dello Scorpione" ed è una rappresentazione critica di come servirsi del linguaggio ideologico d'una società senza obbligatoriamente sottoscrivere le sue rappresentazioni dominanti. E' un film comunicazionale. "I dannati della terra" di Orsini si differenzia notevolmente rispetto ai Taviani. C'è la coscienza che il presente ha un cuore antico che continua a battere al di là di ogni volontarismo esorcistico che il passato ha determinato nel presente lo scacco storico in cui si trova il movimento rivoluzionario in tutto il mondo, mentre in "Sovversivi" dei Taviani c'è la coscienza della fine dei un'epoca e del maturarsi di una svolta che quella fine rende possibile e necessaria. I dannati della terra si sottrae al modello cinematografico dominante (la story, i personaggi, ecc) con una serie di volontarie e rischiose infrazioni. L'INAFFERRABILE PRESENTE DI LUCHINO VISCONTI Luchino Visconti partecipa a "Boccaccio '70" con il mediometraggio "IL lavoro". Gira il film "Il Gattopardo" nel 1963 in cui si verifica una identificazione senza residui tra l'autore e il proprio personaggio, proprio sul tema del disprezzo nei confronti del nuovo: limiti e qualità del film partono tutti da tale identificazione. C'è una natura fondamentalmente contraddittoria della poetica e dell'ideologia viscontiane nel film, oscillanti tra il culto commosso del passato e il disprezzo profondo del presente. Il ballo nel finale occupa circa un terzo del film e ogni personaggio riappare dicendo la sua come in un quarto atto di melodramma ottocentesco. Poi gira "Vaghe stelle dell'Orsa" nel 1965 con cui vince al festival di Venezia. Appare in questo film il tema della decadenza e della morte come tragiche costanti, forme di vita, addirittura, dell'essere borghese. Nel 1967 gira il film ad episodi "Le streghe" con Pasolini, Bolognini, Rossi e De Sica. Nel 1969 gira "La caduta degli dei". GLI SPIRITI DI FEDERICO FELLINI Federico Fellini partecipa al polittico "Boccaccio '70" con il mediometraggio "Le tentazioni del dottor Antonio" che risulta mediocre. Gira "Otto e mezzo" e "La dolce vita". Otto e mezzo è la storia di una realtà interiore, lo stato d'animo di un regista che vorrebbe creare un film chiarificatore a se stesso e agli altri, e dei suoi dubbi, delle sue incertezze, delle sue contraddizioni. Nel 1965 gira "Giulietta degli spiriti" in cui la problematica felliniana viene ripresentata sotto specie femminili. E' la storia di una liberazione che si chiude con i fantasmi scacciati mediante un colpo di scopa. L'identificazione dell'autore con il personaggio centrale è questa volta assai più limitata rispetto ad Otto e mezzo e sembra semmai avviare un processo che è contemporaneamente di semplificazione e di dilatazione del soggettivismo felliniano. Nel 1969 gira "Fellini-Satyricon", mentre nel 1968 il mediometraggio "Toby Dammit" in cui c'è una delirante tragedia della solitudine. I SENTIMENTI DI MICHELANGELO ANTONIONI Michelangelo Antonioni gira la tetralogia composta da "L'avventura", "La notte", "L'eclisse" e "Il deserto rosso". L'avventura connota un discorso sull'incapacità dei sentimenti in una chiave soggettiva, La notte connota un discorso sulla impossibilità dei sentimenti in una chiave definita tramite il contrasto, L'eclisse assume rilievo un discorso sull'inesistenza dei sentimenti, Il deserto rosso evidenzia forti aspetti ripetitivi ed una certa inerzia accentuata dalla ricorrente fragilità dei dialoghi. Gira poi "Blow up" (ingrandimento) nel 1966 in cui gli avvenimenti coinvolgono i personaggi solo esternamente: non li mutano, né sembrano poterli mutare. A differenza di tutta la tetralogia, Thomas (protagonista di Blow up) si lascia scivolare addosso la realtà, la vive con una partecipazione del tutto distaccata, non ne soffre in alcun modo. L'ambiguità, cioè la indefinibilità, delle cose è il tema principale di questo film. SPERIMENTALI, SOTTERRANEI E INDIVIDUALISTI 1. Nel decennio ’60 prende forma il “Cinema Indipendente Italiano”, detto anche “Underground” fatto da filmakers esclusi dal mercato e ignorati dalla critica. Più che alle “nouvelles vagues” si riferiscono al “New American Cinema” di cui Jonas Mekas aveva scritto un manifesto nel ’60 (<<...non vogliamo film falsi, li preferiamo rozzi, ma vivi...>>). Ma in Italia c’è più radicalismo, tanto che il CII (Cooperativa del Cinema Indipendente) nasce nel ’67 e muore in quattro anni. I primi approcci sperimentali tra il ’60 e il ‘67 infatti vengono da pittori avanguardisti (Silvio Loffredo, Bruno Munari, Ugo Nespolo, Luca Patella, Mario Schifano). “La verifica incerta” (’64-’65) di Gianfranco Baruchello (pittore) e Alberto Grifi (film-maker) è un citofilm sul cinema americano ed è considerato il capostipite del cinema di ricerca italiano. Prima del (fatidico) ’67 tra i film-makers più attivi troviamo: Cioni Carpi, Massimo Bacigalupo, Gianfranco Brebbia, Antonio Vergine. Di maggiore rilievo nella fiorescenza di cinema sperimentale italiano troviamo: Alberto Grifi (esordi con filmetti privati, poi operazioni teatrali e sperimentazioni) non integrabile con il cinema Overground; Romano Scavolini (cortometraggi e lungometraggi di sperimentazione); Alfredo Leonardi (dal teatro, poi corti professionali, film sperimentali e anche autore di elaborazioni teoriche) tra i primi a segnare la fine della sotteraneità, fi cui film più importante è “Amore, amore” (’67, riprese a mano e alternanza b/n e colore, assenza di struttura dato dall’indipendenza dell’autore, eliminazione convezione storica, abolizione protagonista, sviluppo narrativo visuale invece che logico). Con approdo autonomo (dove sperimentazione non è solo rifiuto, ma anche fondazione) troviamo Mario Schifano (<cinema di contestazione di sinistra> per Moravia) che, assorbita la pop art americana, la rielabora nel nuovo pop italiano con una trilogia che riflette sulla realtà e la sua rappresentazione : “Satellite” (’68, esigenza di rifondare una nuova soggettività identificando l’oggetto rappresentato, separazione tra significati e significanti, rifiuto della ragione) è un atto di sfiducia verso il cinema <come è> e atto di fiducia verso ciò che <dovrebbe essere>; “Umano non umano” (dialettica soggettività/oggettività, realtà sparita, contrasto del “non umano” occidentale borghese verso “umano” della resistenza vietnamita e della rivoluzione cinese: questa antitesi arriva a noi satelliti tramite il medium televisivo) è il film sperimentale più bello dei ’60 e uno dei documenti più ricchi del cinema di contestazione; “Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani” (’69, protagonista mediatore e catalizzatore del mondo, futuro definito come lontana utopia). Tra il ’67 e il ’68 il cinema sperimentale italiano si trasforma da insieme di personalità casuali e diverse a vero movimento underground, di cui la CCI ne è lo strumento organizzativo. Dopo la crisi ’64-’66, il cinema è la forma di coscienza più direttamente legata alla struttura sociale e politica il cinema sperimentale raggiunge l’apice tra il ’67-’68, stagione della contestazione. Molti film-makers proseguono l’attività sotterranea, altri la iniziano, pochi la cessano e nel ’69 dodici film-makers del CCI firmano il film collettivo “Tutto, tutto nello stesso istante”, prova di sintonia e partecipazione all’interno del gruppo, ma invece che un punto di partenza ne segna la morte definitiva. 2. Carmelo Bene è un autore non sotterraneo ma lontano dal cinema overground, paragonabile a Schifano perché chiedono complicità allo spettatore ed entrambi fanno cinema di autoaffermazione e autocontestazione (caratteristiche dell’underground italiano). Bene, attivo in teatro dal ‘59 come attore e dal ’61 come autore, compone due cortometraggi e cinque lungometraggi, portandosi dietro la sua contestazione al barocchismo e al surrealismo dei modelli del teatro overground, temi evidenti nel suo primo e più importante film “Nostra Signora dei Turchi” del ’68, che risulta originale in lingua e stile, con richiami colti, citazioni, e una vena anarchica malinconica. Schifano e Bene hanno il merito di un radicalismo (cinematografico) dagli estremi lodevoli rispetto al troppo e arrendevole professionismo che dominava l’overground italiano. ATTORNO AL ’68 1. Con la nuova legge sul cinema (’66-‘67) esordirono molti giovanissimi registi che diedero la sensazione di fare un cinema “sessantottesco”. Anche se le strutture del cinema italiano sono in crisi, la censura ostacola, ma si producono più di 250 film, gli industriali sono soddisfatti ma gli autori no a causa della spersonalizzazione delle opere : corri dunque creare un cinema diverso che abbia coscienza civile. Molti cambiamenti rimasero intenzionali e alcuni autori cercarono di distruggere il cinema facendo anti-cinema, senza trovare però una strada feconda e percorribile. Questa tensione portò alle contestazioni prima a Cannes e poi a Pesaro, questa fatta dal Movimento Studentesco che elaborò alcuni documenti su una nuova politica culturale del cinema. Il clima influenzò anche la XXIX Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e il processo di democratizzazione della Biennale, arrivando a un vero e proprio scontro durato due giorni. Poi la mostra riprese e la contestazione inizialmente sembrò una sconfitta, me realtà aveva vinto e portò alla ristrutturazione della Biennale nell’edizione successiva. Nel clima del ’68 però era più semplice compiere un’azione che progettare un film (a causa dei tempi lunghi), così finito il movimento era rimasto solo un gran vuoto e bisogno di futuro e il cinema restava in crisi. OLTRE GI ANNI ‘60 1.UN SOGNO INTERROTTO Negli anni ’70 e ’80 la domanda di cinema in Italia manifesto un andamento recessivo E la domanda precipita nel ’76 (fino a meno di 1/5 del periodo ’70-75) con la sentenza della Corte Costituzionale che dà via libera alle tv private: vero cataclisma che muta radicalmente l’aspetto industriale e l’andamento culturale del cinema italiano. 2.DOPO IL ‘68 Dopo le contestazioni si è però fare riforme, ma la legge sul cinema rimasta invariata fino al ’76 in cui la classe politica, per controllare meglio la tv, programmò le emittenti private con vecchi e nuovi film, tagliando le gambe al cinema italiano. L’offerta dei primi anni del ’70 preannunciava tale catastrofe in quanto anche i migliori cineasti (tra cui Pasolini e Visconti) fuggono dalla Storia e abbandonano i moduli “all’italiana”, portando alla sparizione del macrogenere della commedia generica frammentandola in sottogeneri, soprattutto il comico-farsesco e il comico-erotico. 3.ANCORA LA <<VECCHIA GUARDIA>> Si avvia una sempre più ampia divaricazione fra “Cinema d’autore” e “pratiche basse” dettate dal mercato consumistico, mentre la “vecchia guardia” cerca di resistere aggiornando i vecchi moduli con nuovi contenuti socio-politici. A portare la “svolta della continuità” sono i grandi sceneggiatori dei ’60 (Age, Scarpelli, Benvenuti, De Bernardi, Cecchi D’Amico, Maccari, Pirro, Zapponi) che aggiornano lo humor nero del modulo “all’italiana” con invenzioni narrative. Anche i grandi registi cercano un arco ispirativo più variato e dilaettico. Dino Risi continua con gli attori di spessore a volte in duo Sophia Loren e Marcello Mastroianni (dubbia unione), Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi (scoppiettante duo), a volte in singolo Monica Vitti (che la porta all’exploit facendole interpretare dodici personaggi diversi in “Noi donne siamo fatte così”. Anche Mario Monicelli è molto attivo e tra i tanti film firma “L’armata Brancaleone alle crociate” (’70, seguito del precedente) e “Amici Miei” (’75, con la coppia Tognazzi-Placido), che ricorda “I Vitelloni” di Fellini. Luigi Comencini nel ’71 propone il film per tv “Le avventure di Pinocchio”, poi si sposta su tematiche di classe (ricchezza-povertà) e in un terzo momento riapproda nella tardiva ripresa della “commedia all’italiana”. Il primato dell’eclettismo sistematico va a Pasquale Festa Campanile con ben undici lungometraggi che variano tra: genere quasi fantascientifico, fantasia cavernicola, rievocazione feudale, illustrazione del romanzo, musical d’epoca (“Rugantino”, ’62, con Celentano), parodia del film storico. A passare invece da un artigianato dalla “commedia all’italiana” a un percorso più amatoriale è Ettore Scola, che molto attivo in questo decennio, segna il definitivo abbandono del modulo “all’italiana” con “Brutti, sporchi e cattivi” (’76). E’ evidente dunque che gli autori mescolano felicemente divi e motivi della “commedia all’italiana” con spunti e toni della “commedia realistica e era stata, tra il ’53 e il ’64, il lascito della stagione neorealistica. Tra i registi che si erano mossi tra commedia e farsa, Luciano Salce realizza otto film, scoprendo e valorizzando Paolo Villaggio in “Fantozzi” e “Il secondo tragico Fantozzi) (’75 e ’76 a cui ne seguono altri sei non di Salce, ritrovando l’attore in un’altra macchietta che è “Fracchia” (’81) per la regia di Neri Parenti che dirige una ventina di film con Villaggio). Nel ’70 Luigi Zampa si fa beffa della contestazione sessantottina con “La contestazione generale”, per poi dedicarsi al mediometraggio. Con la sue commedie agrodolci, esplode Lina Wertmuller che nel ’72 con “Mimì metallurgico ferito nell’onore” lancia la coppia Giancarlo Giannini e Mariangela Melato e vince anche il mercato USA. Di meno successo, ma pur sempre estrose, risultano le commedie di Luigi Magni, che sono rivisitazioni storiche romane portando sullo schermo la capitale pontificia. Anche le commedie di Franco Giraldi rispondono più a un estro personale che a una forma codificata, tanto da risultare più intense evocazioni d’epoca. Nel periodo tornano alla regia attori riconducibili alla commedia come Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Vittorio Caprioli, Ugo Tognazzi e Alberto Sordi che si autodirige in una decina di film (tra i quali “In viaggio con papà”,’82, consacra Carlo Verdone). Altrettanto sporadici sono gli approdi al cinema di uomini di teatro come: Carmelo Bene che racconta l’interiorità del vivere e l’esteriorità del recitare; Giuseppe Patroni Griffi; Gianfranco De Bosio; Franco Brusati; Franco Zeffirelli (“Fratello Sole, sorella Luna”, ’71, insopportabile serafica rievocazione francescana, più otto film di produzione non italiana). Il genere neofumettistico di turgidi amori, patetici incontri e lancinanti addii, avrà occasionali mentori in cineasti provenienti dalla tv, come: Piero Schivazappa, Raimondo Del Balzo, Aldo Lado, Bruno Gaburro, Carlo Infascelli. In quest’ambito dove cercano di convivere orridi sentimenti, commedia e satira sociale, si colloca Vittorio Sindoni. Nell’ambito del “giallo” (inusuale nel cinema italiano) esplode a inizio decennio Dario Argento (che esordisce nel ’70 con “L’uccello dalle piume di cristallo”) di cui undici film su dodici si collocano in un ambito “thriller” (oscillante fra il poliziesco e l’horror), dai plot sempre largamente incomprensibili e improbabili, dove i crimini sono mossi da moventi psicopatologici, con colpi di scena e un linguaggio convulso, risultando unico nel suo genere in Italia e perciò rilevante e in qualche modo autoriale. 4.IL “CINEMA CIVILE” DEI PRIMI ANNI ‘70 Sia nella “commedia” che nel “genere drammatico”, si vede un rinnovamento contenutistico con problematiche civili, sociali, politiche, storiche : è il cosiddetto “cinema civile”. Abbiamo già trovato delle tracce in Risi, Monicelli, Argento, Visconti e Steno (pseudonimo di Stefano Vanzina); si hanno poi esordi come Giuseppe Ferrara, Manlio Scarpelli, Marco Leto e ritorni quali Rossellini e Augusto Tretti. Ma il maggiore rinnovamento dei contenuti è rigoglioso nella generazione tra il ’22 e il ’26 che ha conosciuto il fascismo, la Resistenza, il dopoguerra e il neorealismo, tra i quali: Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, Damiano Damiani, Nanni Loy, Carlo Lizzani. Bellocchio spicca tra i non pochi registi che firmano film documentari e film d’intervento per il movimento, per i sindacati e per i partiti. Il cinema militante dell’epoca si rivolge a un pubblico già pienamente convinto per ribadirne il convincimento senza sottoporlo a una vera analisi critica. “Nessuno o tutti” del ’75, è un chiaro esempio della politicizzazione che investe il cinema italiano: realizzato a otto mani (tra cui Bellocchio), racconta la realtà psichiatrica del manicomio come luogo dove il “sistema” confina tutti i “diversi”. Questa tendenza fortemente politicizzata, coincide con il periodo delle grandi stragi a matrice “nera” fra il 1969 (12 dicembre: Piazza Fontana) e il 1974 (4 agosto: attentato al treno Italicus), costituendo una positiva reazione democratica (di fronte alle trame di destra) del cinema italiano. Il fenomeno succederà coordinatrice del mercato cinematografico e con le prime gesta del “partito armato” (Brigate Rosse). L’ondata del “cinema civile” influisce anche su un cineasta lontano da questi interessi come Mauro Bolognini, nei quali film aggiunge un nuovo interesse storico sociale: si tratta di opere che risentono indirettamente del clima. Francesco Rosi era stato negli anni ’60 autore di opere molto impegnate (vedi “Mani sulla città”) e ovviamente continua ad esserlo. Il regista che maggiormente divide la critica è Elio Petri con “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” (del ’69, vince nel ’70 l’ Oscar per il miglior film straniero): primo di una tetralogia sulla meditazione sull’ordine, sull’autorità e su chi li gestisce. Il regista, anche nei film seguenti, risulta grottesco, sopra le righe e al confine tra realismo ed espressionismo, tratta il tema comune del Potere, utilizza un montaggio scattante, è pieno di cromatismi ed è quasi espressivamente volgare. Svolge un lavoro simile Francesco Maselli con “Lettera aperta a un giornale della sera” (’70), uno dei più significativi documenti intellettuali del periodo: stilizzazione del malessere, è un film sulla contraddizione politica, racconta il rapporto fra etica e politica, esistenza e storia, sentimenti e ragione, individuo e collettività. 5.IL CINEMA DEI <<PADRI>> Anche un autore appartato come Michelangelo Antonioni non è insensibile alla politica del momento e firma nel ’70 “Zabriskie Point”, doloroso poema sull’America in cui l’ambientazione americana altro non è che lo sfondo di una sociologia dell’anima e dell’utopia sognante di un’innocenza oppressa e nel ’72, con “Chung Kuo. Cina”, si ripete raccontando la realtà complessa e indecifrabile della Cina della “rivoluzione culturale” (sia nel caso americano che in quello cinese, viene criticato di fare film “anti-america” e poi “anti-cina”). Nel ’75 firma il capolavoro “Professione: reporter”, pessimistica radiografia dell’impossibilità di mutare il proprio destino individuale e offre la critica sull’incapacità del cinema di rappresentare esaurientemente l mistero della vita. Federico Fellini invece si è chiuso da tempo in se stesso e continua a proporre geniali fantasmi della propria interiorità e si percepisce già dal ’69 con “Fellini: A Director’s Notebook”, autoritratto dalla visione chiusa e pessimistica di un mondo in perenne umiliazione, impotente di fronte all’amore; visione che pochi mesi dopo sfocia nel “Fellini-Satyricom” in cui si vede una società che ha perduto senza rimpianti i propri valori, riflettendo sul continuo rapporto Eros- Thanatos, piacere-morte, il tutto tra gigantismi femminei e osceni sculettamenti. Sullo stesso filone arriva “Amarcord” nel ’73, dove con occhio ai ricordi provinciali riminesi, l’autore propone un esplicito irrealismo scenografico e dei personaggi e trasforma in spettacolo la propria impasse, dandogli un senso liberatorio. Luchino Visconti aggiunge quattro capitoli alla sua filmografia, accomunati dal rifiuto del “principio di realtà” e dall’irrecuperabilità del passato e l’ invivibilità del presente, dettati dal mutismo della storia. Attorno la metà del ’70, il cinema italiano accusa grandi perdite: Germi, Visconti, De Sica che dal ’32 vanta ben 150 film interpretati e 31 diretti (negli anni ’70, 15 interpretati e 6 diretti, tutti molto deboli), Rossellini (’77). Nel novembre ’75 viene invece assassinato Pier Paolo Pasolini che aveva appena finito l’edizione di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, poema di morte e di distruzione della vita, ironica e Nei primi ’70 vediamo quindi la rarefazione di un vero prodotto medio, ma il cinema italiano e la domanda stessa di cinema in Italia, crolleranno con la sentenza della Corte Costituzionale del luglio 1976. 8.FINE ANNI ‘70 Il processo recessivo vede una triplice dinamica costruttiva : a) tale processo incide sulla domanda di cinema nei confronti di tutti gli elementi dell’offerta; b) riduce la forza del cinema italiano e rafforza quella del cinema straniero; c) determina una differenziazione gravissima fra “cinema di profondità” (dove convergono tutti i generi precedenti formandone uno unico degradato dettato dalla necessità di recupero economico) e cinema medio-alto (che richiede maggiori investimenti e margini di rischio). Tutto ciò porta inevitabilmente a una netta rarefazione del cinema d’autore e a una maggiore offerta audiovisiva della tv. A queste complicazioni, si aggiungono quelle sociopolitiche in quanto tra il ’76 e il ’78 si acutizza la lotta armata e il terrorismo omicida, fino all’assassinio di Aldo Moro (maggio ’78). Tra le pellicole più significative troviamo “L’albero degli zoccoli” (’78, Palma d’oro a cannes) di Ermanno Olmi, in cui adotta un modello “realistico” simile a quella del capolavoro viscontiniano “la terra trema” (trent’anni prima), descrivendo un quadro di vita proletaria e usando attori non protagonisti, dialetto e forte descrittivismo. Nel film si percepisce una commossa solidarietà verso gli umili e una ferma condanna dei potenti, una visione contadina che implica una religione di sofferenza e della rassegnazione, il tutto raccontato con un forte rigore metodologistico e stilistico che sfocia nell’estremismo estetico. L’altro grande film del biennio ’77-’78 è “Prova d’orchestra” di Federico , narrazione sul potere e sui fantasmi dell’ideologia, sulla Storia oscillante fra autorità e libertà, “anarchia” dell’Es e “ordine” del SuperIo, nonché sull’arte esiste ancora in conflittuale imposizione di una forma armonica e infine, autoironicamente, sul cinema stesso di Fellini. A distinguersi e riconfermarsi troviamo anche: Sergio Citti, Lino del Fra, Mario Monicelli, Dino risi,Comencini, Bellocchio, Ferreri, Ettore Scola (che con “Una giornata particolare” racconta il 6 maggio 1938: la visita di Hitler a Mussolini); Monicelli-Risi-Scola assieme ne “I nuovi mostri”. Tra i giovani esordienti (la maggioranza destinata a “pratiche basse”) si segnalano due opere del ’77: “Berlinguer ti voglio bene” di Giuseppe Bertolucci e “Io sono un autarchico” di Nanni Moretti. Giuseppe Bertolucci, evidenziando uno stile assai diverso dal fratello Bernardo, in un film di memorabile follia porta dal teatro allo schermo Roberto Benigni, con cui realizzerà anche “Tutto Benigni” (’86). Bertolucci dimostra sapienza cinefila senza nutrire culto citazionale, ama le sfumature, i toni smorzati e vanta una filmografia molto coerente e di ottimo livello, tra cui spicca “Amori in corso” (’89, capolavoro di cinema della leggerezza). Particolare è l’interesse dell’autore nel lavoro con gli attori, avendo il merito di mettere in luce una grande Sabina Guzzanti (che interpreta ben tredici ruoli in un film). Nanni Moretti risulta l’interprete più fresco e sottile del nuovo disagio generazionale, il più pensoso del nuovo cinema italiano, lontano dai luoghi comuni della commedia italica. Attore, soggettista sceneggiatore unico, delinea in cinque capitoli un personaggio unitario che assume su di sé, con surreale ironia, il disincanto doloroso di un mondo dove chi sogna è un mostro, chi ama è un reietto e dove l’enorme bisogno di tenerezza e di nuova moralità deve scontrarsi con lo scandalo dell’esistente. L’autore incarna l’illusione generazionale del ’68, il furore dei tardi anni ’70 e la sconfitta storica di chi voleva cambiare il mondo. 9.COMMEDIA E DINTORNI Dal ’79 a oggi la situazione merceologica del cinema italiano peggiora sempre più: le progettazioni non sono più soltanto breve termine e la classe politica regolamenta l’emittenza televisiva, inserendo il cinema e tv in un’unica “Legge Quadro” sugli “audiovisivi”. Nel “cinema di profondità” nulla accade e si arriva a un piano bassissimo con il successo della saga di “Pierino” interpretato da Alvaro Vitali; un piano meno basso con i film di e con Adriano Celentano da solo, in coppia (Montesano e poi Pozzetto) o in quartetto (con Montesano, Verdone e Abatantuono). Digeribili, seppur non raffinati, risultano i lavori artigianali Giorgio Capitani, Sergio Corbucci, Aldo De Benedetti. Si affermano nuovi attori come Diego Abatantuono (con i film dei Vanzina), Jerry Calà (specializzato nella “nuova commedia giovanile”), Renato Pozzetto, Chistian De Sica; nuovi sceneggiatori quali Franco Ferrini, Enrico Oldoini, Enrico Vanzina; nuovi registi che portano sullo schermo la trasparenza anonima della tv famigliare come Giacomo Battiato, Lamberto Bava, Claudio e Marco Risi e Carlo Vanzina. Caso esemplare è quello di Carlo Vanzina (fratello di Enrico, figli di Stefano in arte Steno) che, già assistente di Monicelli, con percepisce la crisi del cinema italiano. I suoi film sono confezioni rapide, “usa e getta” da dimenticare appena visti in cui racconta con superficialità le mode del momento, costituendo la “nuova commedia”, eredi inintelligente e spenta della parte bassa di quella “all’italiana”. Un caso a parte nelle stagioni della crisi, è quello dei nuovi attori/autori “comici” esordienti tra fine ’70 e inizio ’80, da collocare nella parte medio-alta della comicità italiana che cui rinnovano il reparto e provenienti da esperienze di “cabaret”, cioè non formatesi alla scuola del cinema comico italiano: Renzo Arbore, Roberto Benigni, Francesco Nuti, Maurizio Nichetti, Massimo Troisi, Alessandreo Benvenuti, Carlo Verdone e altre spalle minori quali Athina Cenci, Lello Arena, Ricky Tognazzi. Carlo Verdone risulta autore completo (interprete e regista) e vanta di una cospicua serie di film diseguali ma sempre dignitosi: bravo recitare, originale personaggi, comico non volgare ed efficace di derivazione sordiana. Più particolari Renzo Arbore dall’umorismo anglo-pugliese e Maurizio Nicchetti legato alle diversità culturali milanesi. La nuova comicità trova i suoi più originali e continuativi esponenti nei “malincomici” : Francesco Nuti che dopo aver partecipato ai tre migliori film di Maurizio Ponzi, dimostrerà nel proprio autonomo esordio registico di voler ricalcare le orme del sodalizio precedente senza riuscirci con pari equilibrio registico che si basava sull’equilibrio tra vena malinconica e vena comica del personaggio; Massimo Troisi che dopo uno splendido scoppiettante primo film “Ricomincio da tre” ‘(81), risulterà un po’ ripetitivo ma sempre molto intelligente; Roberto Benigni che esordisce come attore in “Berlinguer ti voglio bene” e come regista (di se stesso) a fine ’83 con “Tu mi turbi”, film frammentario dalla geniale forza comica e poi nell’ ’84 Benigni e Troisi dirigono e interpretano assieme “Non ci resta che piangere” (’84), dove non sono sempre ben affiatati, ma quando lo sono diventano irresistibili. La nuova comicità, basata su una verve mimica e dialogica, che rinuncia alla semplice battuta ad effetto e sottopone i personaggi ad uno straniamento surrealistico e a un ridente stupore malinconico che mette in luce il disagio dell’individuo, è l’unica “vague” apprezzabile del cinema italiano della crisi. 10.NUOVI DEBUTTI Accanto ai nuovi comici, è importante il capitolo dei debuttanti, che nonostante le difficoltà, ne sono una trentina all’anno, anche se solo un quinto rifiuta la strada più sicura della confezione di basso consumo, offrendo esperienze diversamente significative. Salvatore Piscicelli, proveniente dalla critica, sceglie la strada del “melodramma freddo”, ovvero del melodramma a cui smorza però ogni retorica e sentimentalismo. Timidamente si fa strada anche il cinema delle donne, tra le quali spiccano Giovanna Gagliardo e Francesca Archibugi, quella con più vocazione autoriale. Da ricordare anche lo sceneggiatore Vincenzo Cerami e il regista Peter Del Monte: il primo, scrittore acuto e raffinato, prende lavorare per il cinema, rivivendo copioni e collaborando con sceneggiatori di lusso, diventando in seguito lo sceneggiatore fisso di Roberto Benigni; il secondo tra varie pellicole firma “Giulia e Giulia” (’87), esperimento di film interamente girato con mezzi elettronici ad alta definizione. A cavallo fra i due decenni si situano due esperienze particolari e diverse tra loro: Carlo Mazzacurati che ha l’onore di consacrare l’attore Silvio Orlano e Gabriele Salvatores, che dopo anni di eccellente teatro a Milano, debutta al cinema con la grande scioltezza linguistica, dialoghi intelligenti, lontananza da ogni forma “all’italiana”, ottima direzione degli attori e tematica del disagio generazionale e del vuoto ideologico raccontata con il sorriso. Nel ’91 firma “Mediterraneo”, insieme di simpatiche “gags” e allo stesso tempo un “discorso leggero”, chi vincerà un anno dopo l’Oscar per il miglior film straniero. Lo stesso Oscar lo vince due anni prima Giuseppe Tornatore con “Nuovo Cinema Paradiso”, nostalgico e commosso omaggio al “cinema che fu”. Altro esordio è quello di Marco Risi, che abbandona il modulo “all’italiana” per la scelta di uno sguardo sociologicamente più denso, una sorta di ritorno all’ “impegno” del cinema nel neorealistico. Paolo Benvenuti, invece, è uno dei pochi a praticare un cinema a bassissimo costo e “decentrato”, lontano sia da Cinecittà che dagli apparati industriali-distributivi, praticando una scrittura filmica di intensa forza espressiva e narrata con un ritmo da oratorio sacro secentesco con tanto di implicazioni morali e politiche. All’art. 28 della L. 1213 sul cinema, si debbono molti esordi nelle stagioni della crisi sia nel bene che nel male: nel bene, perché sarebbe stato il più delle volte impossibile un giovane regista reperire un finanziamento, se non appunto grazie ai finanziamenti pubblici della BNL sull’art.28; nel male, perché tali finanziamenti oscillanti tra minimi irrisori e massimi che raramente superava di 400 milioni, finivano per essere l’unica fonte finanziaria. Il meccanismo dell’art. 28 (nei casi migliori accompagnato da rapporti RAI o Italnoleggio Luce) È stato seguito soprattutto dagli esordienti nelle loro opere prime e spesso nelle seconde, determinando una sorta di “estetica dell’art. 28” e generando una sorta di limbo merceologico: spesso i film, una volta realizzati, facevano capolino e sparivano nel nulla. Questo spiega molto sui limiti del cosiddetto “giovane cinema italiano”, ma ovviamente i limiti sono innanzitutto culturali. Tra la settantina di esordi minori troviamo: Sergio Rubini (regista e attore teatrale, debutta al cinema con “La stazione”, interpretato da lui stesso e da Margherita Buy, una tra le migliori attrici italiane); Ricky Tognazzi (bravo attore, si butta sulla regia comica e poi parasociale); Paolo Virzì (prima sceneggiatore e poi debutta come regista con “La bella vita”); Maurizio Zaccardo; Vito Zagarrio (critico e ricercatore universitario). Difficile individuare fra loro una tematica comune, se non il disagio generazionale e saranno gli anni ’90 a mostrare quali e quanti esordi di questa “generazione senza padri” o di “eredi del nulla” furono precari. 11.CINEMA D’AUTORE Con il film medio praticamente sparito, con l’incremento delle programmazioni televisive, con il diffondersi dei videoregistratori e del consumo di film video registrati, il cinema italiano si è trasformato in pochi anni in una palude, ma alcuni tra i maggiori registi del cinema italiano hanno continuato a firmare prodotti di sicura qualità anche nel primo decennio di crisi. Michelangelo Antonioni dimostra ancora una volta la sua modernissima sensibilità per il malessere contemporaneo. Marco Bellocchio risulta meno libero di un tempo ma rimane comunque ricco di sfumature psicologiche. Federico Fellini sembra nuovamente imprigionato nel lusso fantasmagorico del proprio privato, ma nella sua estrema maturità continua ad avere fiducia nell’uomo, a volere dare voce suoi silenzi, a chiedere silenzio per sentire la sua voce. Alla scomparsa del Maestro (ottobre 1993) ci si renderà conto di come tutti i suoi film migliori abbiano mostrato come la “vera soggettività" fosse moralmente migliore e poeticamente più autentica della “falsa oggettività”. Tra gli altri troviamo Francesco Rosi, Franco Zeffirelli, Paolo e Vittorio Taviani ed Ettore Scola che risulterà l’unico autore del cinema italiano che firma con ininterrotta costanza film di qualità in grado di aspirare al grande pubblico, mescolando virtù intellettuali E accortezza merceologica.
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