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Cinquecento italiano - Gigliola Fragnito, Dispense di Storia Moderna

Il tormentato passaggio dal Rinascimento alla Controriforma avrebbe condizionato, oltre alla vita degli individui, anche gli assetti politici, la società e la cultura della penisola, contribuendo nel lungo periodo a costruire, nel bene e nel male, la nostra fisionomia identitaria. Le trasformazioni epocali del Cinquecento italiano sono il filo conduttore delle indagini storiche di Gigliola Fragnito, che il volume ricapitola mettendone in risalto al tempo stesso la ricchezza e la lunga coerenza.

Tipologia: Dispense

2015/2016

Caricato il 24/01/2016

lucia8729
lucia8729 🇮🇹

4.7

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Scarica Cinquecento italiano - Gigliola Fragnito e più Dispense in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Premessa I quattordici saggi che compongono questo volume non vengono pubblicati per la prima volta. Sono già apparsi in sedi diverse in Italia e all’estero lungo un arco cronologico di trentacinque anni, dal 1972 al 2007, e alcuni tra loro non sono di agevole reperibilità. Ma ciò che più conta è il fatto che, riuniti insieme, formano un libro coerente e compatto che rispecchia nello stesso tempo il profilo originale di una studiosa e i molteplici fronti di ricerca su cui ha lavorato. Abbiamo raggruppato i saggi in cinque capitoli, centrati su altrettanti nuclei tematici specifici: le istituzioni ecclesiastiche, le corti cardinalizie, il dissenso religioso, i letterati e la Chiesa, la censura. Su alcuni di questi lavori abbiamo maturato anni fa il nostro interesse per il Cinquecento; abbiamo poi continuato a utilizzarli come punti di riferimento nelle nostre ricerche; ripresi in mano in vista della ripubblicazione e valutati con diversa profondità prospettica, ci hanno colpito per il loro carattere innovatore all’epoca in cui furono scritti e per la loro perdurante vitalità storiografica. Il saggio di apertura, Istituzioni ecclesiastiche e costruzione dello Stato, è tratto dalla relazione tenuta a un convegno che ebbe luogo a Chicago nel 1993. È una critica serrata al concetto di «disciplinamento» che allora dominava gli studi di carattere politico-religioso sulla prima età moderna. L’autrice vi metteva in discussione la tesi della collaborazione tra Chiesa e Stato che, secondo i sostenitori del «disciplinamento», avrebbe accompagnato nel mondo cattolico e in quello riformato l’imposizione del conformismo religioso, la strutturazione di una società obbediente, i processi di costruzione dello Stato moderno; e non mancava di dimostrare, con tutta una serie di incalzanti osservazioni ed esempi, come in realtà tale categoria non riuscisse a cogliere né le conflittuali relazioni esistenti nella penisola italiana tra autorità civili ed ecclesiastiche, né il ruolo dirompente assunto dall’Inquisizione nel moltiplicare quei conflitti sin dentro la società. In quel saggio l’analisi si allargava ad anticipare questioni e problemi che sarebbero stati sviluppati e approfonditi negli anni successivi in diversi lavori, tra cui Vescovi e ordini religiosi e Vescovi “censori”, che completano il primo capitolo. Assistiamo qui al prolungarsi di linee di ricerca che evidenziano e precisano le diverse facce e le contraddizioni della Chiesa post-tridentina, un aspetto tra i più significativi del contributo scientifico fornito da Gigliola Fragnito agli studi sulla vita religiosa in età moderna. Contro il tenace permanere, sul piano storiografico, del mito del tridentinismo, vengono infatti messi in luce lo svuotamento progressivo delle norme e delle riforme conciliari operato dal papato e dai dicasteri romani; il mantenimento della centralità delle strutture regolari nella cura d’anime contro il rilancio delle funzioni episcopali stabilito dal concilio; il peso e la preminenza assunti dal Sant’Ufficio nella definizione dei rapporti di potere entro la Chiesa a scapito dell’autorità dei vescovi, di altri dicasteri romani, e persino del pontefice. Quando a metà degli anni Ottanta Fragnito comincia a occuparsi di corti cardinalizie [1], oggetto del secondo capitolo, la storiografia italiana ha già recepito l’importanza del tema della corte. Ciononostante, le corti cardinalizie sono all’epoca un tema scarsamente visitato dall’indagine storica, mentre la corte di Roma come luogo di decisione politica e di esercizio della sovranità papale non è ancora il frequentato terreno di ricerche che sarebbe diventato negli anni successivi. Pianeti orbitanti intorno alla stella centrale della corte pontificia, le corti cardinalizie analizzate in queste pagine non appartengono a un universo autoreferenziale di cui limitarsi a descrivere cerimonie e rituali. La loro evoluzione rinvia a processi più larghi e profondi: la loro storia, tra istanze riformatrici e impedimenti strutturali, è la storia della Chiesa romana; le loro trasformazioni rimandano ai cambiamenti subiti dalla sovranità e dall’assolutismo papali; la loro diversa organizzazione nel tempo riflette mutamenti che riguardano la società e i ceti dirigenti italiani. Persino la fiorente e ripetitiva trattatistica su trincianti, scalchi e maestri di casa può riuscire a raccontare – come dimostra il saggio intitolato Buone maniere e professionalità – processi e percorsi lungo i quali a mutare sono, oltre al microcosmo della corte del cardinale, anche i ruoli nella società e la natura delle istituzioni all’interno di un contesto storico di dimensione e di respiro europei. Il lungo saggio sulla fuga di Bernardino Ochino è del 1972. Se per acribia e rigore esso costituisce un modello di indagine storica finalizzata alla ricostruzione di un micro-evento denso di significato nella storia del dissenso religioso cinquecentesco, gli altri due contributi del terzo capitolo si misurano con la difficile interpretazione del pontificato farnesiano, su cui gli studi di Fragnito hanno svolto un ruolo di notevole rinnovamento interpretativo. In particolare, Il nepotismo farnesiano tra ragioni di Stato e ragioni di Chiesa analizza le differenti reazioni del collegio cardinalizio a seguito dell’investitura nel 1545 di Pier Luigi Farnese, figlio di Paolo III, a duca di Parma e Piacenza. Attraverso una lettura attenta oltre che agli aspetti spirituali e dottrinali, anche a quelli ecclesiologici e istituzionali, l’autrice mostra come le motivazioni religiose del dissenso di alcuni membri del sacro collegio, ossia dei cardinali «spirituali», si saldassero in quell’occasione con atteggiamenti critici verso il rilievo assunto dallo Stato temporale nella politica dei papi del primo Cinquecento. Si tratta di aspetti sui quali ci pare varrebbe la pena ancora oggi di ritornare per raccordare queste posizioni a ostilità e resistenze verso la monarchia pontificia che negli anni Trenta e Quaranta erano ancora larghe e diffuse tra le élite italiane. Cinquecento italiano: così abbiamo voluto intitolare questo libro. Cinquecento italiano perché, in fin dei conti, il suo filo conduttore sono le trasformazioni epocali verificatesi nel tormentato passaggio dal Rinascimento alla Controriforma: una svolta che avrebbe condizionato, oltre alla vita degli individui, anche gli assetti politici, la società e la cultura della penisola, contribuendo nel lungo periodo a costruire, nel bene e nel male, la nostra fisionomia identitaria. Tra questi mutamenti c’è anche quello che investì la condizione di intellettuali come Ludovico I. Istituzioni ecclesiastiche tra Riforma e Controriforma Viene messa in discussione la tesi della collaborazione tra Chiesa e Stato che, secondo i sostenitori del “disciplinamento”, avrebbe accompagnato l'imposizione del conformismo religioso, la strutturazione di una società obbediente, i processi di costruzione dello Stato moderno. Con una serie di esempi viene dimostrato come tale categoria non cogliesse né le conflittuali relazioni esistenti nella penisola tra autorità civili ed ecclesiastiche, né il ruolo dirompente assunto dall'Inquisizione. L'analisi si allarga a evidenziare le diverse contraddizioni della Chiesa post-tridentina. Vengono messi in luce lo svuotamento progressivo delle norme e delle riforme conciliari operato dal papato e dai dicasteri romani; il mantenimento della centralità delle strutture regolari nella cura d'anime contro il rilancio delle funzioni episcopali stabilito dal concilio; il peso e la preminenza assunta dal Sant'Ufficio nella definizione dei rapporti di potere entro la Chiesa. 1. Istituzioni ecclesiastiche e costruzione dello Stato. Riflessioni e spunti L’ampia e articolata rassegna degli studi compiuti negli ultimi vent’anni sulle istituzioni della Chiesa analizzate nell’ambito della formazione dello Stato presentata da Roberto Bizzocchi evidenzia con forza e chiarezza i rilevanti risultati conseguiti in questo settore grazie al superamento di un’antica e resistente tradizione di studi che vedeva nella Chiesa e nello Stato due entità separate e distinte, rigidamente e schematicamente contrapposte nella difesa delle proprie competenze giurisdizionali[1]. La capillare presenza della Chiesa nella società civile, la profonda compenetrazione tra società civile e società religiosa, la larga identificazione di persone e di interessi fra il mondo del potere politico e quello della gerarchia ecclesiastica che emergono anche dagli studi non direttamente dedicati al processo di costruzione dello Stato, segnalati da Bizzocchi, costituiscono oramai un dato acquisito e che difficilmente può essere messo in discussione. Perplessità sorgono semmai di fronte al rigido riassorbimento di questa vasta produzione all’interno di un’impostazione storiografica legata alla categoria di «disciplinamento sociale» e alla revisione del tradizionale spartiacque cronologico di «Riforma e Controriforma» per inglobare quella categoria nella periodizzazione di più vasta portata dell’«età confessionale». Ne derivano alcune forzature interpretative che inducono Bizzocchi a proiettare sull’età tridentina e post- tridentina la tesi – certamente valida per il Quattrocento e il primissimo Cinquecento e fortemente collegata al territorio toscano – di una gestione «negoziale» e «condominiale» della sfera del sacro, fatta di una sostanziale intesa tra poteri civili e autorità religiosa, scalfita solo in superficie da conflitti frequenti, ma facilmente ricomponibili e prontamente ricomposti. Chi proviene dagli studi sulla storia del dissenso religioso, nelle sue variegate forme ed espressioni, chi ha avuto una pluriennale familiarità con figure ed esperienze culturali e religiose che uscirono sconfitte dall’irrigidimento istituzionale e dottrinale della Chiesa tridentina, non può non accogliere con cautela l’uso di nuove categorie e nuove periodizzazioni – quali, disciplinamento sociale ed età della confessionalizzazione – che tendono a sostituirsi a quelle definite unitariamente con il concetto di Riforma cattolica, il cui logoramento si deve anche, se non soprattutto, alle acquisizioni degli studi sul dissenso religioso. Nella propensione di vecchi e nuovi schemi e modelli interpretativi e di vecchie e nuove partizioni cronologiche a sottolineare i dati della continuità e ad attenuare – se non ad annullare – l’impatto della Riforma protestante e degli apparati coercitivi con cui a essa si rispose sulla vita religiosa e sulle istituzioni ecclesiastiche, ora riassorbite nel lungo e cronologicamente meno scandito processo di costruzione dello Stato e di disciplinamento sociale; nell’accentuazione del «compromesso», del «negoziato», del «condominio», a scapito degli elementi di conflittualità e delle profonde lacerazioni che segnano i due secoli che intercorrono dalla fine del Grande Scisma alla pace di Westfalia, c’è il rischio non soltanto di un impoverimento e di un appiattimento del discorso storico [2] – rischio che, del resto, Bizzocchi non si nasconde –, ma anche di omologare l’istituzione ecclesiastica all’istituzione civile, privandola della sua specificità. Oltre a quello, da non sottovalutare, di un allargamento della già ampia distanza che separa i due filoni di ricerche, l’uno volto alla ricostruzione intellettuale della contestazione della dottrina e delle istituzioni della Chiesa, l’altro che quelle stesse istituzioni analizza nell’ambito della formazione dello Stato. Ugualmente rischiosa – ed è l’altro aspetto sul quale sembra opportuno soffermarsi – appare un’analisi delle istituzioni ecclesiastiche strettamente collegata al processo di edificazione di uno specifico Stato, che non tenga conto dei risultati degli studi di quelle stesse istituzioni viste da un’angolazione centrale romana. L’enfasi posta sugli accomodamenti e sugli adattamenti alle situazioni locali, sui «compromessi» e sui «negoziati» tra singoli Stati e Santa Sede, non consente di cogliere il significato e la portata delle linee di fondo dell’azione di Roma nei confronti delle chiese periferiche, percepibili solo da una prospettiva romana. Sotto il primo profilo, non si può non osservare come le problematiche relative alla formazione dello Stato e all’evoluzione della società italiana siano state scarsamente recepite da parte di chi si è dedicato alla storia intellettuale del dissenso religioso. Sarebbe, infatti, auspicabile che a studi volti all’individuazione e alla valutazione delle componenti teologiche che confluirono in questo complesso fenomeno, seguissero indagini tese a collocare molte delle forme in cui si espresse la contestazione dell’istituzione all’interno del processo di riorganizzazione dello Stato della Chiesa e dei mutati rapporti da esso intrattenuti con gli Stati regionali in via di formazione. Mi limito a un solo esempio, su cui peraltro si sono concentrate le ricerche degli storici negli ultimi vent’anni. Il drammatico scontro che si verificò all’interno del collegio cardinalizio a metà Cinquecento e che vide sfilare di fronte agli inquisitori autorevoli porporati e prelati è stato compiutamente e brillantemente analizzato in studi che hanno privilegiato la documentazione inquisitoriale, e che, quindi, di quello scontro hanno messo in luce gli slittamenti dottrinali, spesso indiscutibili, degli imputati e la strumentalizzazione che di quelle vere o presunte deviazioni fu fatta ai fini della riorganizzazione del potere ai massimi vertici della Chiesa. Occorrerebbe, tuttavia, esaminare quel conflitto anche sotto il profilo – certo assai meno appariscente negli atti processuali, ma documentabile attraverso altre fonti – della profonda avversione alla crescita dello Stato territoriale della Chiesa da parte di alcuni cardinali «spirituali». Se alcuni di loro avrebbero, infatti, interrotto volentieri quell’intenso e indecoroso commercio beneficiario che si era venuto instaurando tra Stati regionali e Curia romana in funzione, nel migliore dei casi, del consolidamento del controllo romano sulle terre della Chiesa, nel peggiore, dello smembramento dello Stato pontificio stesso a favore del nepotismo papale, altri, come il cardinale Contarini, non esitavano a vedere nello Stato «adgiunto alla Chiesia» la causa della corruzione e della decadenza delle strutture ecclesiastiche[3]. D’altra parte, sembra anche opportuno collegare lo studio dell’attività della congregazione dell’Inquisizione alle ricerche intorno alla formazione dello Stato, in cui quell’istituzione appare emarginata o al più presentata come organo di disciplinamento dei comportamenti sociali e, in quanto tale, ispirata a moderazione. Collegamento che potrebbe rivelarsi utile sotto molteplici aspetti. Non si tratta soltanto di ridimensionare il quadro di una sostanziale concordanza di interessi tra Stato e Chiesa nell’imposizione del conformismo religioso e nell’opera di disciplinamento attuata attraverso lo strumento inquisitoriale. Non vi è dubbio, infatti, che gli Stati, non diversamente dalla Chiesa, erano decisi a combattere l’eresia nella cui diffusione vedevano una seria minaccia alla stabilità politico-sociale, e che, anzi, spesso precedettero le autorità ecclesiastiche o le affiancarono nella lotta per sopprimerla. Rimane, tuttavia, da dimostrare che sia stata pacificamente accolta – lì dove venne accolta – la presenza di tribunali inquisitoriali che, dopo la riorganizzazione del 1542 e la creazione della congregazione romana del Sant’Ufficio da cui vennero diretti e coordinati, si configuravano come un nuovo, minaccioso strumento di ingerenza della Santa Sede nella vita degli Stati regionali[4]. La eccezionale documentazione utilizzata da Sergio Pagano nel recente lavoro sui processi mantovani della seconda metà del Cinquecento[5] – che non sembra aver ricevuto l’attenzione che merita – consente, infatti, per la prima volta di seguire quasi giorno per giorno i retroscena e l’impatto dell’azione inquisitoriale a Mantova nella seconda metà del Cinquecento. Ne emerge in tutta la sua aspra violenza lo scontro giurisdizionale tra Roma e Guglielmo Gonzaga – ostile all’attività dell’inquisitore Camillo Campeggi nella città ducale – per ricomporre il quale si dovette addirittura ricorrere all’intervento del cardinale Carlo Borromeo. Ricostruito su fonti del Sant’Ufficio, ma anche grazie a una straordinaria messe di documenti reperiti dal Pagano in biblioteche e archivi pubblici, il caso mantovano fa nascere non poche perplessità circa lo spirito di collaborazione tra autorità civili e religiose nella conduzione dei processi contro gli indiziati (o quanto meno circa i mezzi e metodi con i quali tale spirito veniva pesantemente imposto dalla Chiesa) e getta luce su una gestione tutt’altro che «negoziale» degli organi deputati all’estirpazione dell’eresia. E non sembra, d’altro canto, che l’asprezza del confronto fosse contenuta entro i confini del debole ducato mantovano. A Venezia, nel 1559, in occasione del dibattito intorno all’applicazione dell’indice di Paolo IV, erano gli stessi magistrati a strapazzare l’inquisitore, il quale presentatosi «in collegio, fu licenziato con parole ingiuriose, anzi li fu da uno di casa Donata sputato nella faccia»[6]. Evidentemente anche lì dove il potere civile era riuscito a esercitare un controllo sull’attività dell’inquisitore affiancandogli tre magistrati non mancavano manifestazioni di evidente insofferenza. E frequenti sono i casi di inquisitori locali che venivano trasferiti in altra sede dalla congregazione romana del Sant’Ufficio per porre fine alle situazioni di estrema tensione con le autorità civili che erano riusciti a creare. In realtà, nonostante il comune interesse della Chiesa e dello Stato a sopprimere ogni forma di dissenso religioso [7], la lotta all’eresia, diretta da Roma con logica e coerenza inflessibili e condotta spesso, per zelo o per incompetenza, con inusitata aggressività dagli inquisitori locali – oggetto di frequenti richiami alla moderazione da parte dei cardinali della congregazione romana[8] e di inviti a procedere «maturius [...] ne tumultus fiant»[9] – veniva a turbare consolidati equilibri sociali e politici. Inoltre il progressivo ampliamento della sfera di intervento dei tribunali inquisitoriali finiva col sottrarre alle autorità civili competenze che erano da sempre state di loro pertinenza o di cui si erano fatte carico nel periodo di maggiore debolezza delle istituzioni della Chiesa e di pressoché totale assenteismo delle gerarchie ecclesiastiche. Senza considerare che il tramonto del «grande nepotismo», sancito dal processo e dalla condanna dei Carafa durante il pontificato di Pio IV, conferiva al papato una maggiore autonomia rispetto agli Stati regionali, svincolandolo dalla politica di alleanze o di cedimenti in funzione della formazione di signorie autonome per i propri congiunti, condotta fin dal pontificato di Sisto IV. Dal problema della spartizione tra organi civili e organi ecclesiastici dei beni confiscati ai condannati [10], al problema – su cui la congregazione romana mantenne un atteggiamento relativamente rigido – del trattamento da riservare nei processi e nelle sentenze a chi era di estrazione nobiliare (o comunque gravitava nella cerchia del principe) [11], le occasioni di frizioni e di tensioni si moltiplicarono, risolvendosi, inevitabilmente, data la debolezza degli Stati, quasi sempre nell’acquiescenza e nella sottomissione a Roma. Un’acquiescenza e una sottomissione in cui è più facile scorgere cedimento alla coazione, che spirito di collaborazione. Anche per quanto riguarda la questione della lotta intrapresa a fine Cinquecento contro la bestemmia ereticale, sarebbe difficile interpretare, con Bizzocchi, l’episodio del contadino modenese processato nel 1599 per bestemmia, ma denunciato dalla moglie per le sue violenze familiari[12], come testimonianza di un consapevole spostamento a fine Cinquecento dell’azione inquisitoriale dalla lotta alle dottrine ereticali al controllo capillare dei comportamenti sociali. Quell’episodio si colloca, infatti, all’indomani della pubblicazione (giugno 1598) di una grida del duca Cesare d’Este «sopra la Bestemmia, osservar le Feste, Giuoco et Concubine»[13], cui facevano immediatamente seguito gli editti pubblicati il 20 ottobre 1598 dall’inquisitore di Reggio Emilia, Pietro Visconti di Tabia. Uno di questi editti riguardava, non a caso, i «biastematori» e faceva esplicito riferimento ai provvedimenti ducali[14]. Appare, quindi, evidente, proprio alla luce del caso modenese, che la lotta alla bestemmia «ereticale» – che si voleva distinguere da quella che ereticale non era e che spettava quindi al principe condannare – più che essere una strategia tesa al controllo dei costumi e dei comportamenti, faceva parte, come già sottolineato da Prosperi, di quel progetto di progressiva appropriazione da parte dell’Inquisizione di reati che rientravano sotto la nozione di eresia. Reati che, come la bestemmia, fin dal tardo Medioevo erano stati oggetto di bandi da parte delle autorità civili e venivano, quindi, ritenuti reati di pertinenza dei tribunali laici[15]. Che da provvedimenti emanati dall’Inquisizione per contrastare gli interventi del potere civile nella sfera spirituale derivassero benefiche conseguenze sul piano del disciplinamento sociale può anche essere, sebbene rimane da dimostrare: creazione dei seminari o il loro funzionamento. Inoltre, l’entità del flusso di rendite ecclesiastiche verso Roma che, pur se difficilmente quantificabile, s’intuisce di notevoli dimensioni, sembra svuotare di parte del suo concreto contenuto il controllo che gli Stati esercitavano sui titolari delle diocesi. 2. Anche per quanto riguarda il reclutamento dei vescovi, che le autorità di governo sceglievano di preferenza tra sudditi, se è certamente indiscutibile la tendenza a una «statalizzazione» degli episcopati, meno convincente è dedurne che essa garantisca in ogni caso al potere civile un sicuro controllo sugli ordinari diocesani. Il recente intervento di Gaetano Greco sui vescovi della Toscana in età medicea (1530-1737), pur confermando che dei 231 vescovi da lui presi in considerazione solo 1’8,65% non è toscano, mostra come il 30,30% proviene dalle file della diplomazia e della burocrazia pontificia o dei familiari del pontefice, mentre il 18,61% appartiene a congregazioni e ordini religiosi[31]. Percentuale quest’ultima, relativa ai regolari, che è in sintonia con il forte incremento della presenza regolare sulle cattedre episcopali evidenziato, a livello peninsulare, sia da Donati che da Paolo Simoncelli[32]. Certo non si può affermare sulla base di questi dati che circa il 50% dell’episcopato della Toscana in età medicea sfuggisse al controllo del principe, ma occorrerà, comunque, chiedersi fino a che punto quei regolari e quegli antichi (o ancora) funzionari della Curia si sentissero integrati e partecipi degli interessi dello Stato in cui era collocata la loro diocesi e se la doppia lealtà che veniva loro richiesta non inclinasse spesso verso Roma. 3. Ho accennato all’incremento della presenza regolare sulle cattedre vescovili in epoca post-tridentina. È un fenomeno che attende di essere meglio analizzato e quantificato, ma che certamente non si spiega solo come indizio di una «mobilità» sociale «regolamentata»[33] o come occupazione delle sedi episcopali da parte di ex-funzionari dei tribunali dell’Inquisizione[34]. Deve essere interpretato nell’ambito più vasto di una precisa volontà di Roma di controllare direttamente e sicuramente la vita religiosa e le istituzioni ecclesiastiche periferiche, che si esplica anche attraverso la riconferma e l’ampliamento dei privilegi e delle esenzioni dei regolari all’indomani del Tridentino. In tal senso, l’ampio spazio dedicato agli ordini religiosi, alla loro incontrastata espansione e al loro indiscusso peso nella silloge laterziana curata da Mario Rosa[35] può costituire un avvio per una riconsiderazione maggiormente sfumata dei rapporti tra Roma e Stati regionali. L’attenzione predominante per le istituzioni della Chiesa secolare ha, infatti, spesso portato a escludere dall’analisi delle strutture ecclesiastiche in sede diocesana gli ordini religiosi, o perché caparbiamente decisi a sottrarsi alla giurisdizione dell’ordinario o perché ritenuti «marginali ed eccentrici rispetto all’evolversi e al dispiegarsi» del processo di disciplinamento post-tridentino[36]. Non è certo il caso di ribadire la centralità delle strutture regolari nell’azione pastorale della Chiesa post-tridentina, nonostante i decreti emanati a Trento prevedessero il rilancio delle istituzioni secolari e il contenimento dell’invadenza dei religiosi nella cura d’anime. Ma è opportuno richiamare le ricerche di Carlo Fantappiè sui problemi della formazione del clero in età moderna[37]. Esse evidenziano il ritardo con cui si afferma il sistema centralizzato dell’istruzione sacerdotale e, quindi, la funzione tutt’altro che preponderante esercitata dai seminari prima della Restaurazione nella formazione culturale, disciplinare e spirituale degli aspiranti alle ordinazioni sacre. In conseguenza del lento e stentato decollo dei seminari, per tutto il Seicento, per lo meno in Toscana, la formazione clericale mantiene un carattere policentrico ed è prevalentemente affidata ai conventi degli ordini religiosi vecchi e nuovi (nelle aree periferiche soprattutto ai francescani e agli agostiniani; nelle aree urbane ai gesuiti e agli scolopi). Ne risulta, quindi, non soltanto un ampliamento della sfera di azione dei regolari – e in un settore di primaria importanza – ma anche la necessità di rivedere la tesi secondo cui i seminari avrebbero contribuito al processo di disciplinamento attraverso la formazione di un corpo di professionisti del sacro, finalizzata a valorizzare i segni distintivi e a isolare la figura del prete dalla società mediante 1’attribuzione di qualificazioni speciali che lo distinguessero dai laici e mediante la sua separatezza fisica dal «secolo». Stando alle cifre fornite da Fantappiè, risulta infatti che ancora all’inizio dell’Ottocento il 61% dei 1759 aspiranti chierici toscani dimorava e studiava fuori dei seminari. 4. Infine, per dare una dimensione più precisa al controllo statuale sull’episcopato, occorrerà valutare quali fossero gli effettivi poteri del vescovo nel periodo post-conciliare, quando si assiste a un progressivo svuotamento da parte delle congregazioni romane della normativa tridentina che ne rivalutava la funzione, conferendogli una serie di prerogative e rafforzandone l’autorità. Sembra, infatti, necessario svolgere indagini che illuminino anche i rapporti tra ordinari e inquisitori locali, i quali, in conseguenza della progressiva estensione della nozione di eresia, sottraggono al vescovo e al suo tribunale materie che in precedenza erano state di loro competenza. Le altercationes appaiono tanto frequenti, quanto gli inviti dei cardinali della congregazione del Sant’Ufficio ad «amicabiliter componere omnes differentias» [38]. All’erosione dei suoi poteri – attuata, tra l’altro, anche attraverso la revoca della facoltà concessagli dall’indice tridentino di accordare licenze per la lettura di determinati libri e, quindi, l’obbligo, alquanto degradante, di ritirare tutte le licenze precedentemente rilasciate[39], o testimoniata dalle facoltà che venivano talvolta concesse dal pontefice agli inquisitori di poter «in occurrentiis dare auctoritatem Confessariis absolvendi Carceratorum Sancti Officii a casibus ordinario reservatis» [40] – si accompagna anche un’evidente perdita di immagine, se l’inquisitore di Firenze si sentì addirittura autorizzato a rivedere e a correggere gli atti sinodali del vescovo di San Miniato[41]. Ma, oltre alla riduzione dei poteri vescovili ad opera dei tribunali inquisitoriali, dovrà essere anche precisato, nel processo di esautorazione dei vescovi, il ruolo assunto dai tribunali delle nunziature. In tal senso sarebbe opportuno non soltanto valutare l’estensione a molti nunzi della potestas legati de latere, ma anche studiare l’evoluzione delle facoltà concesse ai rappresentanti della diplomazia pontificia, nonché il loro variare da Stato a Stato e da momento a momento. Queste facoltà, che potevano comprendere poteri inquisitoriali, di visita canonica, di concessione ai sacerdoti con cura d’anime di assolvere dai crimini e peccati riservati all’ordinario, di intervento in campo beneficiale e fiscale, non potevano infatti non recare serio pregiudizio alla giurisdizione ordinaria dei vescovi[42]. Al termine di queste riflessioni, vorrei ricordare alcune considerazioni di Giorgio Chittolini, il quale qualche anno fa osservava come gli ampi spazi che avevano consentito agli Stati italiani nel Quattrocento di estendere la loro presenza nella sfera ecclesiastica si fossero notevolmente ridotti già agli inizi del Cinquecento limitando le loro possibilità di intervento [43]. Sono osservazioni che è utile riproporre di fronte al rischio di proiettare sull’età della Controriforma o della confessionalizzazione – comunque si scelga di chiamarla – la tesi di un «sostanziale condominio fra Roma e i governi nella gestione della Chiesa» che, certamente valida per il Quattrocento – come appare, tra l’altro, dall’importante lavoro di Roberto Bizzocchi su Chiesa e potere nella Toscana del Quattrocento [44] – sembra debba essere accolta con molte cautele e riserve per l’epoca successiva durante la quale vengono a moltiplicarsi i segni di una fortissima inversione di tendenza. 2. Vescovi e ordini religiosi in Italia all’indomani del Concilio All’indomani della canonizzazione di Carlo Borromeo la congregazione dei Riti dispose – come è noto – che le raffigurazioni del santo dovessero rappresentarlo in abito cardinalizio e non episcopale. L’esaltazione delle sue virtù personali, private, a scapito dell’impegno pastorale attraverso il quale l’arcivescovo di Milano aveva cercato la propria santificazione contraddistinguerà a lungo l’atteggiamento di Roma nei confronti di un pastore ingombrante e scomodo, la cui combattiva rivendicazione della piena autorità dell’ordinario nei confronti delle realtà ecclesiastiche locali e del popolo affidato alle sue cure non aveva raccolto, in ambienti curiali e papali unanimi consensi[45]. Sebbene le sue virtù eroiche verranno innalzate a mito per tutta la Chiesa, l’azione del Borromeo, caratterizzata «dalla profonda unità tra perfezionamento interiore e impegno pastorale»[46], era destinata – come è stato più volte sottolineato – a essere soffocata e irrigidita dall’opera di «trasformazione funzionariale della figura del vescovo», su cui la Controriforma insisterà particolarmente [47], e dai timori di Roma che l’affermazione della pienezza episcopale – «la conservatione dell’ecclesiastica autorità», come dirà il Grattarola, uno dei suoi biografi[48] -, che aveva contrassegnato il governo e il magistero del Borromeo, potesse ingenerare tendenze episcopaliste e gallicane[49]. Timori infondati, nel caso del Borromeo, come in quello di un altro presule di grande statura, Gabriele Paleotti, ma legittimati dalla normativa tridentina. Se le decisioni conciliari, tendenti a correggere gli abusi più che a delineare una definita figura di pastore, non erano riuscite a disegnare «un modello positivo e rinnovato di vescovo» [50], avevano, però, posto il vescovo al centro dell’intera opera di rinnovamento delle strutture ecclesiastiche riaffermandone la dignità e rafforzandone l’autorità. Ed era stato appunto nel pieno rispetto della normativa tridentina – sia pure applicata con «zeli indiscreti, et che non accompagnano le imaginazioni con la pratica», come lamentava il vescovo di Brescia, Domenico Bollani [51] – oltre che nella fedeltà al primato romano, che Borromeo aveva condotto la sua durissima battaglia per l’affermazione dell’autorità episcopale, attirando a Milano con la sua azione e il suo magistero vescovi da tutta la cattolicità, «quivi a posta venuti come a scuola ad imparare il modo di governare anime»[52]. Le preoccupazioni con cui da Roma si guardava all’attivismo del Borromeo e di quei vescovi che si richiamavano al suo magistero e alla sua opera, se non rallentarono il generale processo di rafforzamento delle strutture diocesane, per lo meno nei decenni immediatamente successivi alla chiusura del concilio, certamente contribuirono ad accelerare e ad accentuare l’accentramento nelle varie congregazioni romane del controllo e della guida degli ordinari nell’attuazione dei decreti conciliari. Le linee di fondo di questo progressivo svuotamento della legislazione tridentina sono solo in parte note. Sono stati infatti evidenziati: le difficoltà e le dilazioni che incontrò l’approvazione dei concili provinciali e dei sinodi diocesani, con il conseguente diradarsi delle loro convocazioni[53]; l’esautorazione del metropolita nel controllo dell’osservanza della residenza da parte dei vescovi suffraganei; l’affidamento ai nunzi apostolici del compito di istruire i processi informativi relativi ai candidati per le sedi episcopali vacanti, che il concilio aveva demandato a commissioni deputate dai concili provinciali; l’invio di visitatori apostolici con il compito di controllare l’operato dei vescovi riguardo all’applicazione del Tridentino. Ma non si trattò delle sole ingerenze da parte di Roma. I poteri del vescovo sembrano essere stati notevolmente intaccati anche da altri organi. Un aspetto che rimane ancora da esplorare è quello dell’attività dei tribunali delle nunziature. L’estensione a molti nunzi della potestas legati de latere e la concessione ai rappresentanti della diplomazia pontificia di facoltà che potevano comprendere vasti poteri (inquisitoriali, di visita canonica, di intervento in campo beneficiale e fiscale, di conferimento ai sacerdoti con cura d’anime della potestà di assolvere dai peccati riservati all’ordinario, ecc.) non potevano, infatti, non recare serio pregiudizio all’esercizio della giurisdizione ordinaria da parte dei vescovi[54]. Restano, inoltre, da indagare i rapporti dell’ordinario diocesano con i tribunali inquisitoriali locali e con la congregazione romana del Sant’Ufficio[55]. Se occorrono estese verifiche prima di poter accogliere la tesi recentemente avanzata secondo cui «il modello di controllo sociale [...] legato alla vigilanza dei vescovi e del clero secolare, alla loro opera di severa e paterna amministrazione», disegnato dal Borromeo[56] e caduto in desuetudine con la sua morte, sarebbe stato attuato e reso efficace dalla capillare presenza territoriale dell’Inquisizione[57], sembra, comunque, potersi intravedere una strategia tesa all’erosione dei poteri riconosciuti dal Tridentino agli ordinari sulle credenze religiose e sulla cultura del loro gregge. Per fare un esempio: i vescovi che, avvalendosi del potere di assolvere «in foro conscientiae» gli eretici occulti, avevano riconciliato con la Chiesa gli eretici delle loro diocesi, videro gli elenchi degli assolti usati dagli inquisitori per istruire altrettanti processi[58]. Ma l’indebolimento dei poteri episcopali assunse forme meno appariscenti, e perciò stesso sfuggite all’attenzione degli storici, anche se destinate a incidere in maniera duratura e indelebile sulla cultura e sulla religiosità degli italiani. Mi riferisco alla complessa, ma fondamentale, questione del divieto dei volgarizzamenti biblici. Non è mai stato rilevato, che a me risulti, che la preparazione dell’indice tridentino fu sottratta da Pio IV – per ridimensionare i poteri esorbitanti assunti dalla congregazione romana del Sant’Ufficio durante il pontificato del suo predecessore – ai cardinali inquisitori, che avevano redatto il primo indice universale, quello di Paolo IV, e affidata a una commissione di vescovi, nominata dal concilio. Se non si è mancato di insistere sulla moderazione della commissione, che aveva cassato molte delle condanne del precedente indice e aveva formalizzato il criterio dell’espurgazione, non sono state evidenziate due fondamentali modifiche, strettamente collegate fra loro. La commissione tridentina aboliva il divieto di stampa di versioni della Sacra Scrittura nelle lingue vernacole, decretato nell’indice del 1558, e attribuiva agli ordinari diocesani una funzione di primo piano nella vigilanza sulla cultura e la formazione religiosa del proprio gregge, concedendo loro file. Sebbene manchino indagini che ne precisino l’effettiva incidenza sulla vita religiosa, essi sembrano riflettere una strategia volta a riequilibrare a favore dei regolari i poteri che il concilio aveva conferito ai vescovi, non soltanto ai fini di contrastare i paventati orientamenti episcopalisti, ma anche per affiancare ai vescovi nell’opera di riforma uomini più svincolati dallo stretto intreccio di interessi e di rapporti con i ceti dominanti. Come osservava Paolo Paruta, nella relazione al Senato del 1594: «Ciò che veramente fa grande l’autorità del pontefice, è che egli comanda a grandissima quantità d’uomini negli stati d’ogni principe, cioè di religiosi che sono immediatamente a lui suggetti»[70]. In questa sede, ci si limiterà a richiamare alcuni aspetti della presenza della Chiesa regolare nella compagine diocesana, quali vengono emergendo da studi recenti. L’attenzione predominante per le istituzioni della Chiesa secolare ha, infatti, spesso portato a escludere i regolari dall’analisi delle strutture ecclesiastiche in sede diocesana, o perché caparbiamente decisi a sottrarsi alla giurisdizione dell’ordinario o perché ritenuti «marginali ed eccentrici rispetto all’evolversi e al dispiegarsi» del processo di disciplinamento post-tridentino[71]. Recenti indagini invitano, però, a una revisione di questa immagine di marginalità. Innanzitutto, è opportuno segnalare l’incremento della presenza regolare sulle cattedre vescovili in epoca post-tridentina [72]. Si tratta di un fenomeno che attende di essere meglio analizzato e quantificato, ma che denota la volontà di Roma di porre al governo delle Chiese uomini dai legami meno stretti con i ceti dominanti locali e più subordinati alle direttive curiali. Inoltre, privilegiando e premiando, tra i regolari, inquisitori periferici, consultori delle congregazioni romane del Sant’Ufficio e dell’Indice, la Santa Sede sembra mostrare una predilezione per un «modello inquisitoriale»[73] di pastoralità, più incline a individuare e reprimere le deviazioni dottrinali e morali dei fedeli, che a indirizzare costruttivamente la loro pietà, Né vanno trascurate le necessità economiche che sottendevano tali scelte: il voto di povertà pronunciato da regolari-vescovi legittimava l’imposizione di pensioni sulle rendite delle loro mense. Altri aspetti che meriterebbero maggiore attenzione sono la diffusa penetrazione dei regolari nelle istituzioni secolari della Chiesa e la loro funzione di supplenza lì dove l’assetto parrocchiale era inadeguato. Basterà ricordare, sotto il primo profilo, il caso di Bologna, che negli anni in cui fu arcivescovo Gabriele Paleotti (1566-1597) era suddivisa in 64 parrocchie, 21 delle quali (pari al 33%) erano gestite da ordini religiosi maschili e femminili. Mentre sotto il secondo profilo è significativa la situazione di Napoli, dove, prima dell’intervento del cardinale Gesualdo, una popolazione di circa 212.000 abitanti era ripartita tra 19 parrocchie, tra le quali quella di San Giovanni Maggiore da sola annoverava 80.000 anime. È facile ipotizzare che, di fronte al tardivo adeguamento delle circoscrizioni parrocchiali allo sviluppo demografico fossero i 68 conventi maschili a supplire alle inevitabili carenze della cura d’anime. Non diversa doveva essere la situazione a Lecce dove solo nel 1606 vennero erette, accanto a quella della cattedrale, tre nuove parrocchie, mentre qualche anno dopo venivano registrati entro la cinta muraria ben 17 conventi maschili[74]. Al di là delle deficienze strutturali della Chiesa che finivano col consegnare vaste porzioni di fedeli alla cura dei regolari, il generalizzato fallimento della formazione di un clero secolare sufficientemente preparato continuò a garantire fino alla seconda metà del Settecento agli ordini religiosi il monopolio della predicazione [75]. È superfluo insistere sul ruolo incisivo svolto dai religiosi, attraverso il ministero della parola, nell’indirizzare la sensibilità religiosa dei fedeli verso pratiche di culto e forme devozionali, nel convogliare i fedeli e i loro defunti verso le loro chiese e le confraternite cresciute all’ombra dei loro conventi e delle loro case, nel frantumare la partecipazione alle funzioni religiose e alle attività caritative e assistenziali tra varie istituzioni, distogliendola dalla parrocchia. D’altro canto, indagini recentissime evidenziano il loro determinante contributo anche alla formazione del clero secolare. Carlo Fantappiè[76] non soltanto ha documentato il notevole ritardo con cui avvenne, in area toscana, la fondazione dei seminari, ma ha messo in discussione la tesi collaudata della loro centralità nella formazione culturale, disciplinare e spirituale degli aspiranti alle ordinazioni (una centralità che assumono solo con la Restaurazione) e del loro esclusivo carattere clericale. Da questa revisione di uno dei più diffusi capisaldi della storiografia tradizionale emergono, da un canto, la sopravvivenza e la vitalità di istituzioni educative di origine medievale (scuole cattedrali, scuole collegiate, scuole canonicali e parrocchiali), in cui i candidati alle ordinazioni ricevevano una formazione circoscritta alle discipline umanistiche, dall’altro l’importante ruolo dei conventi e delle case degli ordini religiosi vecchi e nuovi (nelle aree periferiche prevalentemente francescani e agostiniani, nelle aree urbane prevalentemente gesuiti e scolopi), dove i candidati agli ordini sacri completavano la loro preparazione in filosofia, morale e teologia dogmatica. Anche alla formazione spirituale, che rimase per secoli decentrata e delegata ad appositi centri, contribuirono in maniera cospicua gli ordini religiosi; in Toscana essa venne impartita soprattutto dalle case di esercizi spirituali erette dai gesuiti, dagli scolopi, dai lazzaristi e dai filippini. Sebbene non si possano generalizzare i risultati di indagini circoscritte alla sola Toscana, queste sembrano legittimare l’ipotesi che il clero regolare abbia esercitato una funzione rilevante anche in un settore, come quello della formazione del clero secolare, che il più innovativo tra i decreti tridentini aveva posto sotto il diretto controllo degli ordinari. Alla luce delle indicazioni che ci giungono da vari settori della ricerca e che certamente necessitano di essere ulteriormente approfondite ed estese, sembra si debba riesaminare la stessa tesi della centralità della funzione episcopale nei decenni che seguirono la chiusura del Tridentino. Occorrerà valutare più attentamente, infatti, se ai consistenti risultati conseguiti dai vescovi nella riorganizzazione amministrativa delle loro chiese, nell’irrobustimento delle strutture diocesane, nel ripristino delle proprie competenze giurisdizionali nei confronti di altre potestà laiche ed ecclesiastiche, possono essere equiparati i successi riportati nella formazione religiosa e morale del clero curato e dei fedeli affidati alle loro cure, nel fare, in ultima analisi, della parrocchia il centro propulsivo della vita religiosa. È certo significativo che dopo diciassette anni di instancabile impegno pastorale del Paleotti nella diocesi di Bologna i suoi collaboratori si rammaricassero che «le parochie [...] erano poco frequentate»[77]. Le chiese conventuali e le iniziative che intorno a esse gravitavano sembrano non aver cessato di esercitare un’influenza aggregatrice su larghe fasce della popolazione, da secoli abituate a farne il punto di riferimento delle loro pratiche cultuali e delle loro consuetudini devozionali. I vescovi, d’altro canto – reclutati prevalentemente tra uomini di formazione giuridica e dotati di esperienza professionale acquisita nell’apparato burocratico degli stati della penisola o della Chiesa -, per la loro stessa formazione sembrano essere stati più idonei al rafforzamento dell’amministrazione diocesana, più simili a «magistrati»[78] che a «pastori» che vedevano, sulla scia di Carlo Borromeo, una possibilità di santificazione personale attraverso la dedizione al proprio gregge. 3. Vescovi “censori”: il Tridentino alla prova Nel suo importante e tuttora attuale lavoro sul cardinale Paleotti [79], Paolo Prodi, affrontando in un denso capitolo il tema dei rapporti del vescovo con lo Studio di Bologna e, più in generale, con la cultura e gli uomini che la rappresentavano durante gli anni in cui resse la diocesi, s’imbatteva inevitabilmente negli organismi che erano stati predisposti a Roma al fine di esercitare un sempre più vigile controllo su ogni ramo del sapere [80]. In pagine ricche di stimolanti osservazioni, Prodi illustrava come la formazione umanistica «permeata di un’esperienza viva della cultura come valore autentico» [81] avesse orientato l’opera pastorale del Paleotti, il quale, nell’attuazione dei decreti tridentini, scelse di dare vita a un progetto teso a infondere nella cultura nuovi contenuti religiosi e a rinnovare la vita spirituale piuttosto che a perseguire un programma incentrato sulla repressione e sulla coercizione. Con l’attenzione e la preoccupazione rivolte prevalentemente ai docenti e agli scolari dello Studio, il vescovo mirava, infatti, a coniugare pietà cristiana e scienza attraverso un rinnovamento degli studi teologici, fondato sull’insegnamento della Sacra Scrittura, affiancato dallo studio dell’ebraico e del greco. Pur se in linea con le indicazioni fornite dal Concilio di Trento, la realizzazione di questa aspirazione, come evidenziato da Prodi, era destinata a fallire in conseguenza dell’azione di contrasto svolta dal Legato pontificio [82]. Ma il Legato non fu l’unico oppositore degli sforzi dell’arcivescovo di tradurre la normativa tridentina in una prassi pastorale funzionale a una rigenerazione spirituale e culturale non soltanto dei docenti e degli scolari, ma di tutti i fedeli affidati alle sue cure. Prodi ha illustrato, con ampiezza di orizzonti, come il crescente centralismo romano rallentò, ostacolò, impedì più o meno in ogni campo l’azione del cardinale-vescovo e non meriterebbe tornare sui suoi passi, se non per apportare qualche elemento nuovo a un quadro delineato trent’anni prima dell’apertura dell’Archivio della congregazione per la Dottrina della Fede. In questa sede mi propongo di soffermarmi su un aspetto del governo di Paleotti: quello del controllo della stampa. E non soltanto per la particolare rilevanza del problema in una città di studio, ma anche perché a fare le spese dell’ostruzionismo romano non fu un qualsiasi ordinario diocesano, digiuno dei meccanismi che regolavano la macchina censoria, ma chi, come Gabriele Paleotti, aveva attivamente partecipato alla stesura dell’indice tridentino promulgato nel 1564 e che venne nominato nel 1572 da Gregorio XIII membro dell’appena istituita congregazione dell’Indice [83]. Sebbene puntualmente e lucidamente individuati e delineati da Prodi, gli insormontabili ostacoli incontrati dal vescovo nell’affermazione delle sue competenze di ‘censore’ meritano, quindi, di essere riletti alla luce dei risultati delle ricerche rese possibili dopo l’apertura dell’Archivio della congregazione per la Dottrina della Fede e di essere inseriti nella più ampia prospettiva della sfida di Roma alla legislazione tridentina. Non si tratta di illustrare l’ormai noto, difficilissimo cammino delle riforme tridentine, pur avviate con impegno e convinzione dalla generazione di vescovi che aveva partecipato al concilio – quanto meno dalla sua parte più attiva[84]. Si tratta piuttosto di collocare quelle che agli occhi dei contemporanei apparvero, ed erano, confuse e contraddittorie direttive romane, tese a intralciare la loro azione, in quello che fu un coerente progetto di depotenziamento dei decreti conciliari perseguito con tenacia dagli organi centrali fin dall’elezione di Pio V (1566). Un progetto che non mirava a vanificare le riforme, ma che si proponeva di ridimensionare la forte valorizzazione e l’ampliamento delle funzioni episcopali, nonché il potenziamento del ruolo del clero secolare e il rilancio delle istituzioni diocesane voluti dal concilio. E tale ridimensionamento – specchio della radicata, congenita diffidenza del papato nei confronti di episcopati forti e autonomi – non poteva avvenire se non attraverso una progressiva entrata in scena di vecchi e nuovi protagonisti, di una pluralità di agenti – inquisitori, regolari, nunzi e visitatori apostolici – il cui compito non era tanto quello di affiancare gli ordinari diocesani nell’immane opera di ricostruzione, quanto di sorvegliarli a vista e di sostituirsi a essi, erodendo progressivamente i loro poteri. In questa prospettiva il tema del controllo della stampa offre, meglio di altri, la possibilità di dare contenuti più concreti e articolati e contorni più precisi al centralismo romano e di individuare nel Sant’Ufficio un attore di primaria importanza nella politica di crescente emarginazione dei vescovi da importanti settori della cura d’anime. Nominato vescovo di Bologna nel 1566, Paleotti non dovette occuparsi dell’applicazione del primo indice romano, redatto dalla congregazione del Sant’Ufficio e promulgato con un suo decreto del 30 dicembre 1558 [85]. Ma gli echi degli enormi problemi che esso aveva sollevato dovevano essere ancora vivi in una città universitaria come Bologna [86]. La rozza approssimazione e l’estrema severità dei divieti e l’inclusione indiscriminata dell’intera produzione di 61 stampatori non furono le sole cause delle resistenze incontrate, anche se sono quelle sulle quali si insiste maggiormente. Vi si aggiunsero la totale estromissione degli ordinari diocesani dall’esecuzione e da tutte le procedure legate alla censura; l’estensione, contro lo jus comune, ai lettori e detentori di qualsiasi libro proibito delle censure previste dalla In coena Domini solo per coloro che avessero letto o conservato ‘scientemente’ libri di eretici[87] (il che implicava che solo il pontefice o suoi delegati potessero assolvere dalla scomunica i rei); l’obbligo, contenuto nel breve di revoca delle licenze di lettura (emanato da Paolo IV il 21 dicembre 1558 e pubblicato l’8 gennaio 1559), per chi fosse incorso nelle pene spirituali e temporali per aver letto libri proibiti di essere assolto dal pontefice o dagli inquisitori generali del tribunale centrale e per chi fosse a conoscenza di lettori, detentori, stampatori o mercanti di tali opere di denunciarli al Sant’Ufficio. Era, quindi, non soltanto contro il rigore dell’indice, ma anche contro questi dispositivi normativi, che nelle abili mani dell’Inquisizione sarebbero potuti diventare uno strumento politico formidabile, che Pio IV decise di scendere in campo. Approfittando delle durissime reazioni provocate dal primo catalogo e determinato a contrastare l’esorbitante potere acquistato dal Sant’Ufficio durante il pontificato di Paolo IV[88], il papa impose al cardinal Ghislieri una Moderatio indicis (14 giugno 1561), che costituì un primo passo verso lo scardinamento di un sistema di controlli che, emarginando i vescovi, rischiava non solo di esacerbare gli animi delle popolazioni, poco propense a presentarsi dinanzi agli inquisitori, ma anche di innescare conflitti giurisdizionali con gli Stati della penisola e di modificare i rapporti di potere tra papato e Inquisizione, già fortemente squilibrati in favore di quest’ultima dalla politica del Carafa. Ma la Moderatio non fu l’unico provvedimento volto a riconoscere i diritti episcopali in materia di delitti contro la fede: il pontefice aveva affidato il 14 gennaio 1562 ai padri riuniti a Trento il compito di rivedere l’indice del 1558 e poi di redigerne uno nuovo e aveva dato il suo assenso al canone del 3 dicembre 1563 che attribuiva agli ordinari la facoltà di assolvere in foro conscientiae dall’eresia occulta. aggravava la posizione di molti docenti, egli si vide costretto nel 1574 a rivolgersi al Sant’Ufficio perché gli venisse restituita tale facoltà, sia pure limitatamente al reato di lettura e detenzione di libri proibiti, ciò che effettivamente avvenne[107]. Ma furono soprattutto le istruzioni che giungevano dal Sant’Ufficio e dal maestro del Sacro Palazzo agli inquisitori locali e le interminabili e confusissime liste che, a partire dal 1574, inondarono la periferia, portando scompiglio tra lettori e librai [108] con nuove condanne e vecchie condanne dell’indice inquisitoriale ripristinate, che indussero il cardinale a reagire. Queste liste – cui si aggiungerà nel 1586 la bolla Coeli et terrae creator di Sisto V che associava gli inquisitori ai vescovi nel controllo delle opere di astrologia giudiziaria, affidate dal concilio ai soli vescovi – prendevano, tra l’altro, di mira gran parte delle opere letterarie – reputate senza discriminazione lascive e oscene – che erano state lasciate alle competenze dei soli ordinari, tant’è che Carlo Borromeo si accingeva a pubblicarne un catalogo [109]. Questa invasione del campo della moralità individuale e delle pratiche superstiziose e magiche corrispondeva a una strategia precisa dell’Inquisizione che, dopo i successi riportati nella lotta contro l’eresia teologica, tendeva sempre più a estendere la categoria di eresia a delitti che afferivano alla giurisdizione ordinaria o alla giurisdizione civile e a sostituirsi ai vescovi[110]. Ma se le liste potevano – quanto al contenuto, non certo quanto a chi dovesse fare osservare i divieti – incontrare per molti aspetti il consenso del cardinale, non mancarono di metterlo in seria difficoltà sul piano più strettamente religioso. Per chi, come Paleotti, affidava la rinascita del cristiano – fosse chierico o laico – alla conversione interiore generata anche dalla familiarità con la Scrittura, la revoca da parte dell’Inquisizione della regola IV dell’indice tridentino che, previa licenza del vescovo o dell’inquisitore, ne autorizzava la lettura nelle traduzioni in volgare, costituiva un duro colpo al progetto di rinnovamento spirituale della società cristiana[111]. Di fronte allo stillicidio e alla poca chiarezza dei divieti emanati da Roma tra il 1574 e il 1583, Paleotti si decise a stendere un memoriale con 22 quesiti[112] e a presentarlo personalmente – come risulta dai Diaria[113] – nella riunione del 26 gennaio 1583 della congregazione dell’Indice, di cui era rientrato a fare parte il 28 ottobre 1582[114]. Era una vera e propria requisitoria contro l’inerzia e il pressappochismo degli organi romani, in cui si sottolineavano soprattutto le inadempienze concernenti la correzione dei libri sospesi e si ponevano quesiti specifici come quello relativo alla revoca ‘surrettizia’ della regola IV relativa alla lettura della traduzioni bibliche. Se su questo punto ottenne una risposta chiara e incisiva – «Le bibbie volgari, non ostante la regola [IV] dell’Indice non si permettino» – che, come ha osservato Prodi, comprometteva definitivamente «l’indirizzo del Concilio, tendente a contemperare le esigenze della lotta al protestantesimo con la conservazione del patrimonio più vivo della spiritualità cristiana»[115]; su altri punti le risposte furono estremamente evasive, se non surreali: «Non so perché si ritengano, perché non si sa che vi siano errori» [116]. L’intervento del Paleotti, alla presenza dei cardinali Sirleto e de Pellevé, dovette essere durissimo se sortì due effetti importanti sia sul piano dell’immagine che su quello del funzionamento della macchina censoria. Il maestro del Sacro Palazzo, Sisto Fabri da Siena, fu costretto non soltanto a riconoscere l’inconsulto procedere del suo ufficio, consegnando al Paleotti una «Lista de’ libri […] che dice non essere prohibiti, se bene altre volte per errore o in altro modo senza autorità furono questi libri prohibiti» [117], ma anche a sottoporre in futuro alla congregazione dell’Indice, prima di trasmetterle agli inquisitori periferici, le liste almeno di quei libri che la stessa congregazione aveva proibito. Dopo quella data non sono state rinvenute liste integrative dell’indice tridentino diramate dall’ufficio del Maestro[118], segno della efficacia delle proteste del cardinale. Purtroppo ignoriamo il contributo, se vi fu, del Paleotti alla contrastatissima stesura del terzo indice romano. Ma, date queste premesse, è più che verosimile che egli condividesse l’orientamento adottato nell’ultima fase dei lavori, durante il pontificato di Clemente VIII, dai cardinali membri della congregazione – allora composta prevalentemente da vescovi di grandi diocesi, da Federico Borromeo a Agostino Valier, da Marcantonio Colonna a Girolamo Della Rovere – e da alcuni autorevoli consultori come Roberto Bellarmino, con il quale Paleotti si era trovato spesso in sintonia [119]. Facendo cadere una specie di damnatio memoriae sull’indice inquisitoriale, che per anni il Sant’Ufficio aveva cercato di imporre, la congregazione, anche su pressione del papa, ripropose nella sua integrità l’indice tridentino (le dieci regole e gli elenchi di autori e scritti proibiti), limitandosi ad aggiungere sotto ciascuna lettera alfabetica le nuove condanne. Ma aveva anche, secondo le prescrizioni tridentine, affidato «Episcopis praesertim munus executionis Indicis» e ancorato il sistema di controllo del libro alle strutture diocesane[120]. Non è sorprendente che di fronte a quello che dovette apparirgli un intollerabile affronto, il Sant’Ufficio, con un gesto che non aveva precedenti, bloccasse l’indice dopo la promulgazione papale per imporre correzioni e integrazioni che salvaguardassero la propria autorità – a cominciare dal ribadito divieto delle traduzioni bibliche. Non pervenne, tuttavia, a introdurre una clausola che stabiliva che «Libri prohibiti sive in futurum prohibendi a sancta romana universali inquisitione, in tota ecclesia censeantur prohibiti iuxta formam et modum quo congregatio illos prohibuerit, non obstantibus quibuscumque in contrarium» [121]. Questa clausola, che decretava l’irrevocabilità delle determinazioni passate e future del tribunale, gli avrebbe permesso non soltanto di ridare vigore al ‘suo’ indice, ma anche di essere formalmente riconosciuto come l’unica istanza abilitata a definire e a tutelare la dottrina e la moralità. Era un attacco insidioso alla monarchia pontificia e alla sua plenitudo potestatis: la clausola fu respinta. In quell’occasione fallì l’obiettivo perseguito dagli anni di Paolo IV di attribuire al Sant’Ufficio la funzione di giudice supremo delle controversie concernenti la fede e di garantirgli un ruolo e un potere autonomi rispetto ai papi i quali, non provenendo sempre dalle sue file – com’era il caso di Clemente VIII –, potevano rimettere e di fatto rimettevano in discussione le sue decisioni[122]. Ma si pose anche termine, quantomeno formalmente, alla contrapposizione tra indice tridentino e indice inquisitoriale, che si iscriveva nel più ampio orizzonte dei contrasti tra Concilio di Trento e Inquisizione. Contrasti di lunga data – meritevoli di essere oggetto di approfondimenti – che risalivano agli esordi dell’assemblea quando, per sottrarre ai dibattiti conciliari le questioni più delicate e controverse l’Inquisizione si era precocemente attribuita una funzione determinante nell’elaborazione di progetti di riforma ecclesiastica. Se ne trova testimonianza nel ruolo rilevante di uno dei suoi membri, il cardinale Marcello Cervini, nella commissione di riforma nominata da Giulio III nel 1553 e nell’esplicita volontà della commissione stessa di sottoporre al controllo del Sant’Ufficio l’applicazione delle misure progettate. La bolla non promulgata Varietas temporum, frutto del lavoro della commissione, dopo aver constatato l’inutilità di emanare leggi senza l’impegno ad applicarle, dichiara che solo i cardinali che hanno competenza sulla repressione dell’eresia sono in grado di garantire la sorveglianza sulla loro esecuzione[123]. Questi contrasti tra concilio e Inquisizione si accentuarono, come si è visto sia pure dalla prospettiva settoriale della censura, nel periodo postconciliare e si espressero in ordini tassativi del Sant’Ufficio secondo cui i vescovi non dovevano intromettersi «in caso o modo alcuno nelle cose della fede»[124]. A Bologna essi trovarono nell’inquisitore Eliseo Capys un fedele esecutore, costringendo Paleotti, per salvaguardare le proprie prerogative, a sottoscrivere un accordo con lui che – giustamente – Prodi ritiene essere rimasto lettera morta[125]. Ma, oltre ai danni alla sua autorità, c’era anche la beffa di dover pagare sulle rendite della mensa episcopale una pensione al tribunale bolognese[126]. Tutto ciò evidenzia come, sfruttando la profonda diffidenza del papato nei confronti di episcopati forti – diffidenza che non risparmiava neppure i vescovi dello Stato della Chiesa, come ha mostrato Prodi –, l’Inquisizione aveva contribuito alla loro emarginazione. All’alba del Seicento questa era un fatto compiuto, come segnalava il cardinale Bellarmino in lucidi memoriali indirizzati a Clemente VIII. Dopo aver constatato con sconforto «Video enim in ecclesiis Italiae desolationem tantam, quanta ante multos annos fortasse non fuit, ut jam neque divini juris neque humani residentia esse videatur» [127], il gesuita denunciava l’esautorazione dei vescovi e il fallimento delle riforme in Italia e raccomandava: «Servetur concilium Tridentinum in omnibus», «Episcopis reddatur quod eis concedit concilium Tridentinum»[128]. Certo non tutte le responsabilità possono essere addossate all’Inquisizione, che trovò nei regolari, cui Pio V si era affrettato a restituire i privilegi sottratti loro a Trento[129], nei nunzi e nei visitatori apostolici, compagni di squadra altrettanto determinati a erodere le prerogative degli ordinari[130]. Ma dopo l’apertura dell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede possono essere meglio valutati i condizionamenti che quell’istituzione ha esercitato sul corpo episcopale e sullo stesso papato e le loro conseguenze sia sulle riforme tridentine sia sulla progressiva revisione del modello di vescovo disegnato a Trento, quello del pastore responsabile della vita spirituale, morale e culturale del proprio gregge, che, in diverso modo, Carlo Borromeo e Gabriele Paleotti intesero incarnare. Il modello che lo sostituì fu quello del vescovo-amministratore, ma questa modifica non derivava soltanto dal fatto che l’Inquisizione si era appropriata di una grande parte delle funzioni degli ordinari sorvegliando le credenze e le letture dei fedeli e disciplinando i loro comportamenti morali e sociali e che gli ordini religiosi mantennero saldamente il monopolio della predicazione e della confessione. Fu anche il risultato dell’assenza in Italia, a partire dagli anni Settanta del Cinquecento, di un nemico confessionale contro il quale mobilitare truppe agguerrite. La coesistenza tra diverse confessioni nell’Europa del Nord creò, infatti, da una parte, una maggiore attenzione per la formazione del clero [131], dall’altra, l’imposizione ai fedeli di una più consapevole identità confessionale. A riprova la sorte riservata alle traduzioni bibliche e ai libri di controversia nelle lingue vernacolari: mentre nei paesi multiconfessionali essi furono autorizzati affinché i cattolici potessero motivare e difendere la loro appartenenza confessionale dinanzi ai protestanti, essi furono vietati – dall’Inquisizione – agli italiani[132]. Se questo divieto segnò e segna ancora pesantemente la cultura religiosa degli italiani, le condizioni che lo giustificarono – ossia l’assenza di una confessione rivale – sembrano avere avuto delle ricadute anche sull’impegno pastorale dei vescovi, allontanandoli sempre più dal modello tridentino. Una testimonianza significativa in tal senso è offerta dal Discorso sopra il modo da tenersi nell’esame de’ Vescovi redatto nel 1680 per Innocenzo XI, in cui Giovanni Battista De Luca proponeva una revisione delle prove cui erano sottoposti i candidati-vescovi delle diocesi della penisola. De Luca riteneva infatti inadeguato il sistema vigente che prevedeva la scelta da parte del candidato di essere interrogato «nella teologia scolastica, o nella morale, overo ne’ canoni»[133]. A suo avviso la conoscenza della teologia, utile nel caso di una diocesi che «habbia la mistura, overo una molta confinanza d’eretici, ò scismatici overo infedeli, sì che il principale istituto del vescovo all’uso della Chiesa primitiva consista nel predicare, e disputare sopra le cose appartenenti alla fede»[134], era assolutamente superflua in Italia dove «i vescovi non hanno da disputare con infedeli, overo con eretici, e scismatici, né hanno da predicare a i medesimi per convertirli alla fede» [135] poiché non c’era «niuna mistura, overo infezzione, ò sospetto sia d’eresia, ò di scisma, overo di giudaismo» [136] e dove c’era l’Inquisizione a tutelare la fede «con la notoria diligenza e cura»[137]. Quanto all’insegnamento della dottrina «ogni semplice Chierico, o secolare, anche idiota, è habile ad insegnarla»[138]. Al vescovo era, invece, indispensabile la conoscenza del diritto canonico, ma non una conoscenza astratta e teorica: doveva essere accompagnata da un’esperienza pratica dei problemi del governo politico e amministrativo della diocesi: ossia la giustizia, il controllo dei costumi di clero e laici, la difesa della giurisdizione ecclesiastica e delle immunità, la collazione dei benefici, le esenzioni dei regolari, la vigilanza sui monasteri femminili, la scelta dei curati, il conferimento degli ordini sacri, l’amministrazione delle rendite [139]. Nel Discorso De Luca si limita a prendere atto della trasformazione del vescovo-pastore in vescovo-amministratore. Ma si colgono in questo scritto e in un memoriale dello stesso anno sui patentati del Sant’Ufficio due motivi fortemente polemici. Da un canto, egli vede negli esami riservati ai soli candidati alle diocesi della penisola un’«ingiuria agli italiani» [140], denunciando implicitamente la dipendenza ‘suburbana’[141] da Roma cui i papi della Controriforma avevano costretto gli episcopati italiani – una dipendenza che già un secolo prima Bellarmino avrebbe voluto spezzare suggerendo il ritorno all’elezione dei vescovi italiani da parte dei capitoli della cattedrale[142]. Dall’altro, egli si scaglia con violenza contro l’Inquisizione, istituzione che giudica assolutamente superflua, non esitando ad affermare che la tutela della fede appartiene ai vescovi e che sarebbe oltraggioso nei confronti dei vescovi e di molti paesi cattolici negarlo; che la Chiesa ha potuto vivere per più di dodici secoli senza Inquisizione e che in molti paesi non è mai penetrata [143]. Inutile osservare che le sue tesi furono ritenute dal Sant’Ufficio «erronee, temerarie, irriverenti, convenienti con le asserzioni degli eretici, fautrici di novatori politici in favore della podestà laica»[144]. Gabriele Paleotti le avrebbe certamente condivise. [1] Nel corso del Convegno storico internazionale organizzato dall’University of Chicago dal 26 al 29 aprile 1993 sono stata discussant della relazione di Roberto Bizzocchi, pubblicata in Chiesa, religione, Stato agli inizi dell’età moderna, in Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Ancona, e di nuovo in Gubbio per Francesco Maria Ciotti 1632». È significativo, inoltre, che negli editti del Sant’Ufficio di Reggio, emanati da Pietro Visconti di Tabia il 20 ottobre 1598 al momento del suo insediamento come inquisitore generale nella diocesi di Reggio Emilia (in quei giorni il vicariato dipendente dall’inquisitore generale di Ferrara veniva trasformato in Inquisizione generale), molto spazio venisse dedicato a «Gl’impedienti, et offensori del Sant’Officio» e a «I fautori, et complici delli sudetti delinquenti» (ivi, b. 270, fasc. 4). [19] Lettera di Giulio Antonio Santoro, cardinale di Santa Severina, all’inquisitore Angelo Brissio da Cesena, Roma, 2 settembre 1600, con il rifiuto della richiesta, MAS, Inquisizione, b. 251, fasc. 1. Sul Brissio si veda Biondi, La «nuova inquisizione» a Modena, cit., pp. 66-68. [20] Cfr. sub voce redazionale in DBI, vol. XXX, 1984, pp. 261-262. [21] Cfr. A. Prosperi, Il «budget» di un inquisitore: Ferrara 1567-1572, «Schifanoia», 2, 1986, pp. 31-40. [22] Cfr. S. Peyronel Rambaldi, Podestà e inquisitori nella montagna modenese. Riorganizzazione inquisitoriale e resistenze locali (1570-1590), in L’Inquisizione romana, cit., pp. 203-231. [23] I. Polverini Fosi, Signori e tribunali. Criminalità nobiliare e giustizia pontificia nella Roma del Cinquecento, in Signori, patrizi, cavalieri nell’età moderna, a cura di M.A. Visceglia, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 214-230. Sull’utilizzazione dell’Inquisizione per ampliare i feudi romagnoli di Antonio Carafa, sono significativi l’intervento nel 1558 del cardinale Carlo Carafa, il quale fa imprigionare «per conto dell’Inquisitore» il conte Baldassare Rangoni ad Ancona, e la sua richiesta al duca d’Urbino che venga incarcerato e tradotto a Roma Lorenzo Carandini, modenese, commissario dei conti Rangoni a Longiano nella diocesi di Rimini. In proposito cfr. G. Fragnito, Memoria individuale e costruzione biografica. Beccadellli, Della Casa, Vettori alle origini di un mito, Urbino, Argalia, 1978, p. 152; A. Turchini, Clero e fedeli a Rimini in età post-tridentina, Roma, Herder, 1978, p. 134, e lettera di Carlo Carafa al duca di Urbino, Roma, 8 giugno 1558, in ASF, Urbino, Cl. I, Div. G., filza CXVIII, f. 1293r. [24] Onorio Savelli, che la giustizia criminale non sembra strapazzare nel 1566 (Polverini Fosi, Signori e tribunali, cit., pp. 220-221), viene incarcerato dall’Inquisizione nel 1567 (ASF, Med. 529A, f. 503r, lettere di Ottavio Clodio a Francesco I de’ Medici, Roma 5 e 26 luglio 1567 e Med. 534/1 e II, f. 547r e f. 551rv, lettere di Onorio Savelli a Francesco I de’ Medici, del 23 febbraio 1568 «di prigione»). In questo torno di tempo viene processato dall’Inquisizione anche Nicola Orsini di Pitigliano (ivi, ff. 855rv), il quale il 3 gennaio dopo l’abiura esce dal carcere e viene relegato nella casa dei gesuiti a Roma (ivi, Med. 533, ff. 264r-267r). [25] Cfr. G. Fragnito, Un pratese alla corte di Cosimo I. Riflessioni e materiali per un profilo di Pierfrancesco Riccio, «Archivio storico pratese», 62, 1986, pp. 17-23 e A. Panella, L’introduzione a Firenze dell’indice di Paolo IV, «Rivista degli archivi toscani», 1, 1929, pp. 11-25. [26] C. Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime e riforme settecentesche (1675-1760), in La Chiesa e il potere politico dal medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli, Torino, Einaudi, 1986, pp. 721-766 (Storia d’Italia, Annali, 9), e Vescovi e diocesi d’Italia dall’età post-tridentina alla caduta dell’antico regime, in Clero e società, cit., pp. 321-389. [27] Su cui si veda M. Rosa, Curia romana e pensioni ecclesiastiche. Fiscalità pontificia nel Mezzogiorno (secolo XVI-XVIII), «Quaderni storici», 42, 1979, pp. 1014-1055. [28] Nel 1623 vengono rilasciate a vescovi italiani ben 69 dispense dall’obbligo della residenza. Cfr. Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime, cit., p. 723, e Id., Vescovi e diocesi, cit., p. 352. [29] Ivi, pp. 334-339. [30] A titolo d’esempio si veda BAV, Borg. lat. 558, f. 24r (il tribunale di Bologna riceve grazie a una pensione che grava sui frutti della mensa arcivescovile 200 scudi d’oro, di cui 50 sono assegnati al tribunale di Modena), f. 34r (Firenze: 100 ducati di Camera), f. 43r (Mantova: 100 scudi annui), f. 49r (Milano: 200 scudi annui), f. 365r (Venezia: 200 scudi sulla mensa episcopale di Verona), f. 419r (Brescia: 200 ducati di Camera), f. 419r (Padova: 200 scudi annui), f. 420r (Udine: 100 scudi). [31] G. Greco, I vescovi del Granducato di Toscana nell’età medicea, in Istituzioni e società in Toscana nell’età moderna, a cura di C. Lamioni, Roma, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1994, pp. 655-80. [32] Cfr. P. Simoncelli, Inquisizione romana e Riforma in Italia, «Rivista storica italiana», 100, 1988, pp. 74 ss. [33] Cfr. Greco, I vescovi del Granducato di Toscana, cit. [34] Cfr. Simoncelli, Inquisizione romana, cit., pp. 74 ss. ha segnalato, utilizzando la Tavola degli inquisitori del domenicano Cipriano Uberti, la funzione di promozione svolta dall’ufficio inquisitoriale nelle carriere del Cinquecento. Si veda anche Prosperi, L’Inquisizione in Italia, cit., pp. 300-301. [35] Cfr. G. Fragnito, Gli Ordini religiosi tra Riforma e Controriforma e R. Rusconi, Gli Ordini religiosi maschili dalla Controriforma alle soppressioni settecentesche. Cultura, predicazione, missioni, in Clero e società, cit., pp. 115-205 e pp. 207-274. Si veda anche di R. Rusconi, Predicatori e predicazione (secoli IX-XVIII), in Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1981, pp. 951-1035 (Storia d’Italia, Annali, 4). [36] Cfr. D. Montanari, Disciplinamento in terra veneta. La diocesi di Brescia nella seconda metà del XVI secolo, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 8. [37] C. Fantappiè, Problemi della formazione del clero in età moderna, in Istituzioni e società in Toscana nell’età moderna, cit., pp. 729-747. [38] BAV, Borg. lat. 558, passim. [39] Cfr. C. Di Filippo Bareggi, Libri e letture nella Milano di san Carlo Borromeo, in Stampa, libri e letture a Milano nell’età di Carlo Borromeo, a cura di N. Raponi e A. Turchini, Milano, Vita e Pensiero, 1992, pp. 45-46. [40] BAV, Borg. lat. 558, f. 53v. Facoltà concessa all’inquisitore di Milano il 24 novembre 1605. [41] Lettera del cardinale Barberini all’inquisitore di Firenze, Roma 19 febbraio 1639, nella quale pur ribadendo che «non è dovere che da gli Inquisitori si trapassi il termine della loro giurisditione», si precisa che l’inquisitore può intervenire in materia di fede. Cfr. ACAF, Misc. Sant’Uffizio, filza 7, doc. 97, f. 198r. [42] Cfr. L. Baldisseri, La Nunziatura di Toscana: le origini, l’organizzazione e l’attività dei primi due nunzi Giovanni Campeggi e Giorgio Cornaro, Città del Vaticano-Guatemala, Archivio Segreto Vaticano-Tipografia Nacional, 1977 e B. Barbiche e S. de Dainville Barbiche, Les légats «a latere» en France et leurs facultés au XVIe et XVIIe siècles, «Archivum Historiae Pontificiae», 23, 1985, p. 93-165. Ma vedi anche l’intervento della Repubblica di Venezia contro la concessione di poteri di legato a latere al nunzio Giovanni Della Casa in A. Del Col, L’Inquisizione romana e il potere politico nella Repubblica di Venezia (1540-1560), «Critica storica», 28, 1991, p. 198. [43] G. Chittolini, Note sulla politica ecclesiastica degli stati italiani nel sec. XV (Milano, Firenze, Venezia), in État et Église dans la genèse de l’État moderne. Actes du colloque organisé par le Centre National de la Recherche Scientifique et la Casa de Velázquez, Madrid, 30 novembre et 1er décembre 1984, a cura di J.-P. Genet e B. Vincent, Madrid, Casa de Velázquez, 1986, pp. 195-208. Si vedano, inoltre, nel volume curato da G. Chittolini, Gli Sforza, la Chiesa lombarda, la corte di Roma. Strutture e pratiche beneficiarie nel ducato di Milano (1450-1535), Napoli, Liguori, 1989, l’Introduzione dello stesso Chittolini, pp. XI-XXI, e P. Oldrini, Debolezza politica e ingerenze curiali al tramonto della dinastia sforzesca: il carteggio con Roma al tempo di Francesco II Sforza (1530-1535), pp. 291-340. [44] Bologna, Il Mulino, 1987 nella collana «Monografie» dell’Istituto storico italo-germanico in Trento. [45] Cfr. in proposito P. Prodi, Charles Borromée, archevêque de Milan et la papauté, «Revue d’histoire ecclésiastique», 62, 1957, pp. 379-411, e A. Borromeo, San Carlo Borromeo arcivescovo di Milano e la curia romana, in San Carlo e il Suo tempo, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1986, pp. 237-301. [46] G. Alberigo, Da Carlo Borromeo all’episcopato post-tridentino, in H. Jedin e G. Alberigo, Il tipo ideale di vescovo secondo la Riforma cattolica, Brescia, Morcelliana, 1985, pp. 99-138, cit. a p. 100. [47] M. Rosa, Tra Cristianesimo e Lumi. L’immagine del vescovo nel ’700 italiano, «Rivista di storia e letteratura religiosa», 23, 1987, p. 242. [48] M.A. Grattarola, Successi maravigliosi della veneratione di S. Carlo, Milano, Per l’Her. Di Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche nel secolo XVII. I vescovi veneti tra Roma e Venezia, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 81-83. [67] In una lettera a Carlo Borromeo, Milano 15 ottobre 1583, Giovanni Botero osservava che le condizioni economiche dell’inquisitore di Genova erano tali che, discutendo con il Panigarola, questi «disse ingenuamente ch’egli medesimo vorrebbe esser più presto inquisitore, che vescovo, quanto alla comodità», citata da P. M. Sevesi, S. Carlo Borromeo ed il P. Francesco Panigarola O.F.M., «Archivum franciscanum historicum», 40, 1947, p. 192. [68] BAV, Borg. lat. 558, ff. 24r, 34r, 43r, 49r, 365r, 419r, 420r. Un accenno, sia pure velato, alle resistenze del cardinale Paleotti, vescovo di Bologna, si ricava da una lettera di Antonio da Forlì all’inquisitore di Bologna, Roma 26 settembre 1572: «Mons.or Paleotti ha impetrato da questi SS.ri Ill.mi se gli dia denari di quelli del nostro officio et penso resterà spogliato» (BCAB, ms. B 1860, n. LXXXIV). Quanto alla pensione di 50 scudi annui per sovvenire il tribunale modenese dell’Inquisizione sembra sia stata costituita nel 1601 (si vedano le lettere del cardinale Giulio Antonio Santoro, Roma 8 dicembre 1601, ivi, ms. B 1862, n. 185, e del cardinale Camillo Borghese, Roma 10 settembre 1602, ivi. n. 79). [69] Vale la pena riportare quanto Girolamo Seripando scriveva al cardinale Marcello Cervini, allora legato a Trento, da Padova il 15 aprile 1546: «Et parme che questo gregie de predicatori debba esser in mano della Sede Apostolica, et non d’altri, per che da quella sede sono istituiti et ogni volta che li ordinarii hanno a giudicarli dubbito che doventeranno tali, quali voranno essi ordinarii. Meglio è certo che siano tali quali vuole il papa, il quale essendo uno li terrà più uniti in una dottrina» (BNN, ms. XII. AA. 62. f. 3v). [70] Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Albèri, serie II, vol. IV, Firenze, Società editrice fiorentina, 1857, p. 361. [71] D. Montanari, Disciplinamento in terra veneta. La diocesi di Brescia nella seconda metà del XVI secolo, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 8. [72] P. Simoncelli, Inquisizione romana e Riforma in Italia, «Rivista storica italiana», 100, 1988, pp. 74 ss. e A. Prosperi, L’Inquisizione in Italia, in Clero e società, cit., pp. 300-301. [73] L’espressione è di A. Prosperi, ivi, p. 301. [74] Su questi problemi cfr. G. Fragnito, Gli ordini religiosi tra Riforma e Controriforma, ivi, pp. 125-127. [75] In proposito si vedano E. Brambilla, Società ecclesiastica e società civile: aspetti della formazione del clero dal Cinquecento alla Restaurazione, «Società e storia», 4, 1981, pp. 299-366; X. Toscani, Il reclutamento del clero (secoli XVI-XIX), in G. Chittolini e G. Miccoli, La Chiesa e il potere, cit., pp. 575-615; M. Guasco, La formazione del clero: i seminari, ivi, pp. 631-68 e R. Rusconi, Predicatori e predicazione (secoli IX-XVIII), in Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981, pp. 1006-1018 (Storia d’Italia, Annali, 4). [76] Problemi della formazione del clero nell’età moderna: il caso toscano, «Il diritto ecclesiastico», 1, gennaio-marzo 1994, pp. 64-79, e con aggiunta di tabelle in Istituzioni e società in Toscana, cit. pp. 729-747. Sulla tardiva erezione dei seminari cfr. anche Rosa, Tra cristianesimo e lumi, cit. pp. 240-278. [77] P. Prodi, Lineamenti dell’organizzazione diocesana in Bologna durante l’episcopato del card. Gabriele Paleotti (1566-1597), in Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento, Padova, Antenore, 1960, p. 353, relazione sul governo archiepiscopale di Bologna risalente al 1584. [78] Si vedano A. Prosperi, La figura del vescovo fra Quattro e Cinquecento: persistenze, disagi e novità, in La Chiesa e il potere, cit., pp. 217-262; G. Fragnito, Vescovi e cardinali fra Chiesa e potere politico, «Società e storia», 11, 1988, pp. 641-653 e Greco, I vescovi del Granducato di Toscana, cit. [79] P. Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), voll. I-II, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1959-1967. [80] Ivi, vol. II, pp. 215-268. [81] Ivi, p. 214. [82] Sulle continue interferenze dei rappresentanti del governo pontificio, ivi, pp. 328-388. [83] Cfr. G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 116, sulla sicura appartenenza del Paleotti alla congregazione fin dai suoi esordi. [84] Sull’estensione e limiti dell’azione vescovile nell’applicazione dei decreti tridentini cfr. A. Borromeo, I vescovi italiani e l’applicazione del Concilio di Trento, in I tempi del Concilio. Religione, cultura e società nell’Europa tridentina, a cura di C. Mozzarelli e D. Zardin, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 27-105. [85] Per quanto segue si rinvia a Fragnito, La Bibbia al rogo, cit., pp. 75-171, ed Ead., Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 27-80. [86] Per avere un’idea della quantità di libri che circolavano a Bologna vale la pena riportare alcuni dati relativi all’applicazione dell’indice del 1596. Il vice-inquisitore Paolo Castrucci osservava che i 1500 esemplari dell’indice già stampati «forse non bastaranno a Bologna non che ad altre città et si faranno ristampar di nuovo quanto prima» (lettera a Paolo Pico, segretario dell’Indice, Bologna 25 maggio 1596 in ACDF, Index, III/1, f. 439r). Qualche mese dopo, l’inquisitore Stefano Guaraldi scriveva al cardinale Marcantonio Colonna, Bologna 28 marzo 1597: «Quanto poi alla mia persona, saprà V.S. Ill.ma et R.ma che in virtù delli Editti publicati che ciascuno porti la lista de libri contenuti nel Indice, quasi tutti (per non saper aplicare le Regule del Indice o per altra occasione) hano portato la lista de tutti i libri che tengono in Casa. Onde io ho adunato intorno a quatromilia liste de libri et col mezo de Predicatori si è fatto intendere a tutti che venghino che se li esplicarà quali libri si devano portare alla S.ta Inquisitione et quali no. Et dal principio di Quaresima in qua io con altri homini intendenti stiamo dalla matina alla sera in audienza per questo, né ancho havemo compito Mille liste» (ivi, III/3, f. 49r-50r). [87] ILI, vol. VIII, p. 753. [88] Per la ricostruzione dei rapporti conflittuali tra il papa e Ghislieri cfr. E. Bonora, Giudicare i vescovi. La definizione dei poteri nella Chiesa postridentina, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 150- 164. [89] Cfr. ILI, vol. VIII, pp. 51-207. [90] Prodi, Il cardinale, cit., vol. I, pp. 125-126. Non registra il suo nome J. M. De Bujanda, ILI, vol. VIII, pp. 74-78. Sull’indice tridentino si vedano, comunque, pp. 51-99. [91] Ivi, pp. 70-71. [92] Prodi, Il cardinale, cit., II, pp. 171-178. [93] D. De Pablomaroto, El índice de libros prohibitos en el Concilio de Trento, «Revista española de teología», 36, 1973, p. 52. [94] Prodi, Il cardinale, cit., vol. I, pp. 125-126. [95] Cfr. ASV, Conc. Trid. 103, f. 30v, e Fragnito, La Bibbia al rogo, cit., p. 140. [96] BAV, Vat. lat. 6191/I, f. 242r: lettera del 29 marzo 1572, e f. 246r-247r: «Libri nonnulli qui videntur indigere emendatione aut aliqua animadversione, nec sunt comprehensi in Indice Romano». Non meno intransigenti sono le posizioni di Paleotti nei confronti delle commedie (cfr. Prodi, Il cardinale, cit., pp. 207-212). [97] In proposito cfr. S. Pastore, Il vangelo e la spada. L’Inquisizione di Castiglia e i suoi critici (1460-1598), Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2003, pp. 349-368. [98] Cfr. G. Fragnito, Vescovi e ordini religiosi in Italia all’indomani del Concilio, in I tempi del Concilio, cit., pp. 13-25 (ora in questo volume, pp. 34-48) e A. Prosperi, Il Concilio di Trento: una introduzione storica, Torino, Einaudi, 2001, pp. 143-152. [99] ASF, Med. 5096, f. 673r-674v: lettera di Ludovico Ceresola al cardinale Ferdinando de’ Medici, Roma 19 luglio 1566. Già gli Avvisi del 25 maggio 1566 davano notizia che il papa aveva espresso la volontà «che di novo si dia una vista all’Indice de’ libri prohibiti per proibirne forsi alcuni altri» (BAV, Urb. lat. 1040, f. 241v). Per la politica censoria di Pio V cfr. G. Fragnito, Pio V e la censura, in Pio V nella società e nella politica del suo tempo, a cura di M. Guasco e A. Torre, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 141-146. [100] ACDF, Index, I/1, f. 5r. [101] Lettera al cardinale Guglielmo Sirleto, Bologna 23 settembre 1573, BAV, Vat. lat. 6191/II, f. 582r, citato da Prodi, Il cardinale, cit., vol. II, p. 239. all’inquisitore di Bologna, Roma 26 settembre 1572, in cui gli raccomanda di mettere in salvo i denari poiché «Mons.or Paleotti ha impetrato da questi SS.ri Ill.mi se gli dia denari di quelli del nostro officio et penso resterà spogliato» (BCAB, ms. B 1860, n. LXXXIV). [127] X.-M. Le Bachelet, Auctarium Bellarminianum. Supplément aux oeuvres du Cardinal Bellarmin, Paris, G. Beauchesne, 1913, p. 515. Sul De officio primario Summi Pontificis ad Clementem VIII. Pontificem Maximum (1600-1601) cfr. K. Jaitner, “De officio primario Summi Pontificis”. Ein Denkschrift Kardinal Bellarmins für Papst Clemens VIII, in Römische Kurie, Kirchliche Finanzen, Vatikanisches Archiv. Studien zu Ehren von Hermann Hoberg, a cura di E. Gatz, Roma, Università Gregoriana editrice, 1979, vol. II, pp. 377-403; P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 212-213; Motta, Bellarmino, cit., pp. 578-581. [128] Le Bachelet, Auctarium Bellarminianum, cit., p. 518 (De reformatione). [129] Fragnito, Pio V, cit., pp. 156-157. [130] G. Romeo, La Congregazione dei vescovi e regolari e i visitatori apostolici nell’Italia post- tridentina: un primo bilancio, in Per il Cinquecento religioso italiano. Clero cultura società, a cura di M. Sangalli, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2003, pp. 607-614. [131] Cfr. M. Rosa, Clero cattolico e società europea nell’età moderna, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 66-70. [132] Cfr. G. Fragnito, Per una geografia delle traduzioni bibliche nell’Europa cattolica (sedicesimo e diciassettesimo secolo), in Papes, princes et savants dans l’Europe moderne. Mélanges à la mémoire de Bruno Neveu, réunis par J.-L. Quantin, J.-C. Waquet, Genève, Droz, 2007, pp. 51-77 (ora in questo volume, pp. 388-417). [133] BAV, Ottob. lat. 1945, f. 228r-241v, a f. 229v. In proposito cfr. A. Menniti Ippolito, Il governo dei papi nell’età moderna. Carriere, gerarchie, organizzazione curiale, Roma, Viella, 2007, pp. 90- 99. [134] BAV, Ottob. lat. 1945, f. 238rv. [135] Ivi, f. 234v-235r. In un memoriale per il Paleotti, Bellarmino fin dal 1580 aveva osservato: «Nuoce universalmente alla theologia in Italia, nella quale pochissimi a tale studio si applicano, come in Padova, Bologna, Pisa et altri studii si vede; et di qui nasce che non ci è paese che habbia vescovi e parrocchiani più ignoranti che Italia. Altro non si vede se non iuristi, et canonisti, medici et philosophi» (G. Pelliccia, La preparazione ed ammissione dei chierici ai santi ordini nella Roma del secolo XVI, Roma, Pia società San Paolo, 1946, pp. 296-298 citato da Prodi, Il cardinale, cit., vol. II, p. 280). [136] BAV, Ottob. lat. 1945, f. 235r. [137] Ivi, f. 232r. [138] Ivi, f. 232v. [139] Ivi, f. 239r-241v. [140] Ivi, f. 231rv. Sulla subordinazione dei vescovi italiani al papato anche attraverso il processo concistoriale cfr. C. Donati, Vescovi e diocesi d’Italia dall’età post-tridentina alla caduta dell’antico regime, in Clero e società nell’Italia moderna, a cura di M. Rosa, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 332 e 339-340. [141] Secondo la definizione di Prodi, Il sovrano, cit., pp. 323-324. Cfr. anche C. Donati, Chiesa italiana e vescovi d’Italia dal XVI al XVIII secolo. Tra interpretazioni storiografiche e prospettive di ricerca, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 30, 2004, pp. 385-386. [142] Le Bachelet, Auctarium Bellarminianum, cit., p. 518: «Episcopi non eligantur a Papa in Italia, sed a proprio clero, ut hoc modo discant reges Galliae et Hispaniae et Poloniae permittere electionem propriis canonicis vel proprio clero. Haec enim est antiquissima et optima forma electionis. Certe sanctus Gregorius nunquam se admiscere voluit electionibus episcoporum; sed sollicite admonebat cleros et populos, ut eligerent optimos quosque. Et nisi Papa incipiat in Italia hoc facere, nunquam persuadebit regibus aliarum nationum ut dimittant electiones episcoporum et liberentur a re periculosissima». [143] Sull’avversione all’Inquisizione espressa in Dell’uso de’ Patentati e Ministri del S. Offizio nello Stato Ecclesiastico cfr. A. Lauro, Il cardinale Giovan Battista De Luca. Diritto e riforme nello Stato della Chiesa (1676-1683), Napoli, Jovene, 1991, pp. 521-582, e I. Fosi, La giustizia del papa. Sudditi e tribunali nello Stato pontificio in età moderna, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 105-106. [144] Lauro, Il cardinale, cit., p. 579. II. Le corti romane Pianeti orbitanti intorno alla stella centrale della corte pontificia, le corti cardinalizie, oggetto dell'analisi di questo saggio, non appartengono a un universo autoreferenziale di cui limitarsi a descrivere cerimonie e rituali. La loro evoluzione rinvia a processi più larghi e profondi: la loro storia è la storia della Chiesa romana; le loro trasformazioni rimandano ai cambiamenti subiti dalla sovranità e dall'assolutismo papali; la loro diversa organizzazione nel tempo riflette mutamenti che riguardano la società e i ceti dirigenti italiani. Persino la trattatistica su maestri di casa può raccontare processi e percorsi lungo i quali a mutare sono, oltre al microcosmo della corte del cardinale, anche i ruoli nella società e la natura delle istituzioni all'interno di un contesto storico di dimensione e respiro europei. 1. Le corti cardinalizie nella Roma del Cinquecento Il tema delle corti cardinalizie in età moderna è stato a lungo trascurato dalla ricerca storica. Eppure la corte cardinalizia si configura come una aggregazione sociale di notevole rilevanza, anche stando al solo profilo delle sue dimensioni. Basti pensare che nel censimento del 1526/27, che registra la presenza di sole 21 corti, i loro membri, sommati a quelli della corte papale, rappresentano il 7% della popolazione adulta di Roma e che il loro numero complessivo rimane alto per gran parte del Cinquecento[1]. Solo nel secolo successivo si verificherà una forte tendenza alla contrazione degli organici che è possibile misurare sulla base dei dati relativi alle familiae dei cardinali nipoti. Se ancora sotto il pontificato di Sisto V, Alessandro Farnese, nipote di Paolo III, aveva una corte composta da 284 persone[2], nel 1621 la familia di Scipione Borghese, nipote di Paolo V, annoverava 224 membri, nel 1637 quella di Francesco Barberini, nipote di Urbano VIII, era già scesa a 134 bocche, che nel 1666 si ridurranno a 94 nella corte di Fabio Chigi, nipote di Alessandro VII[3]. Sulla corte papale e sulle corti cardinalizie sembra aver pesato più a lungo che su quelle civili la condanna, pronunciata dalla tradizione storiografica di ispirazione risorgimentale, della civiltà di corte. Espressione di una «cultura cattolico- imperiale, intrisa di assolutismo e di dogmi», la civiltà di corte rappresentava, per chi, come il De Sanctis, fu tra i maggiori esponenti di quella tradizione, «tutto quello che ripugnava allo spirito laico, libertario, anticlericale, della cultura risorgimentale»[4]. Culla di quella civiltà e modello per le altre corti della penisola, la Roma papale, sentina di tutti i germi della corruzione, era responsabile di aver condotto l’Italia al disfacimento morale e politico. Questa prospettiva etico-storica sottende la forte tendenza, sottolineata di recente da Christoph Weber [5], a separare il papato dalla corte corrotta, con l’intento implicito di evitare ogni contaminazione, o a riesumarla solo in funzione del mecenatismo artistico e letterario dei papi. Una tendenza che è ben evidenziata da uno dei rari studi dedicati alla corte papale: quello sul ruolo della corte di Leone X. Nel ripubblicarlo, nel 1984, Vincenzo De Caprio ha mostrato come la giustapposizione delle note bio-bibliografiche dei 27 prelati domestici redatte da Alessandro Ferrajoli, senz’alcuna attenzione alla loro natura cortigiana, «disgrega qualsiasi ipotesi di discorso complessivo sulla Corte pontificia, come se questa fosse un non-problema» e fa della corte leonina «la grande assente» di questo studio «soprattutto nel suoi aspetti istituzionali, oltre che come sede di elaborazione delle forme del potere pontificio»[6]. Di questa impostazione della ricerca, sostanzialmente reticente ad assumere la corte papale come tema centrale e a farne oggetto di specifica indagine e analisi, hanno, inevitabilmente risentito anche le corti cardinalizie, che di quella costituiscono un corollario (o un prolungamento). Solo in anni recenti, sulla scia di un iniziale interesse per i problemi economici dei cardinali, testimoniato dai lavori di J. Delumeau e di D.S. Chambers, si registra un’attenzione nuova per le corti cardinalizie, non più considerate come fonti inesauribili di aneddotica o come centri di produzione artistica e letteraria [7]. L’aver messo in evidenza – contro una consolidata tradizione tendente a vedere nel cardinale la personificazione del lusso e dello sfarzo rinascimentali – l’esistenza di un numero non esiguo di cardinali che si dibattevano tra serie difficoltà economiche per poter mantenere un tenore di vita consono alla loro dignità, è stato un incentivo a una serie di studi sulle condizioni materiali dell’esistenza quotidiana del dei privilegi fiscali e cercavano di sradicare una serie di abusi a essi connessi [22], l’unica disposizione formalizzata durante il V Concilio Lateranense riguardante le familiae cardinalizie non ne riducesse le dimensioni. Sembra, anzi, che i padri conciliari si siano ispirati alla concezione aristotelica della magnificentia quale giusto mezzo tra sordidezza e prodigalità che in quegli anni veniva diffusa dal De magnificentia e dal De splendore di Giovanni Pontano (1494) e dal De cardinalatu di Paolo Cortesi (1510)[23]. La bolla Supernae dispositionis arbitrio (1514), nel capitolo De vita et moribus cardinalium, raccomandava, infatti, ai porporati di offrire ai loro familiari un trattamento generoso e decoroso, di assumerli in numero proporzionato alle loro entrate e di non adoperare vescovi e prelati da loro ospitati in «vilia ministeria». Veniva, inoltre, loro ricordato che la domus cardinalium patens hospitium, portusque ac refugium proborum et doctorum maxime virorum et pauperum nobilium, honestarumque personarum esse debeat[24]. L’invito a spalancare le porte delle loro dimore a folle sempre più numerose di dipendenti non poteva essere più esplicito. Né Roma mutò atteggiamento di fronte alle denunce sferzanti dei protestanti che dello sfarzo delle corti romane avevano fatto uno dei loro bersagli prediletti. Nonostante le gravissime ripercussioni sul piano pastorale dell’espansione delle familiae cardinalizie e della parallela invasione da parte dei cortigiani dei benefici ecclesiastici, il problema del sostentamento e del disciplinamento delle corti romane, cui le commissioni riformatrici quattrocentesche avevano prestato ogni attenzione, sembra non aver destato più gravi preoccupazioni. Nel progetto di riforma noto come Consilium de emendanda ecclesia, elaborato nel 1537 da una commissione nominata da Paolo III e presieduta dal cardinale Gasparo Contarini, nel quinto capitolo che passava in rassegna i motivi di scandalo offerti dalla città di Roma, del fasto e dell’affollamento delle dimore cardinalizie non si faceva parola e ci si limitava a deprecare che le meretrices ut matronae incedunt per Urbem seu mulo vehuntur, quas assectantur de media die nobiles familiares cardinalium clericique[25]. Se nei lavori preparatori relativi alla riforma del collegio cardinalizio, successivamente depennata dall’ordine del giorno delle ultime sessioni del Concilio di Trento, si tornò a discutere degli organici delle corti – il cui numero i padri tridentini avrebbero voluto fosse rigidamente fissato, mentre la commissione cardinalizia riunita a Roma chiedeva non fosse inferiore a quaranta familiari senza peraltro imporre un tetto –, il decreto di riforma generale che equiparava, quanto ai requisiti morali, vescovi e cardinali si accontentava di invitarli insieme con i loro familiari ad attenersi a uno stile modesto e frugale di vita[26]. Anche la costituzione Postquam verus di Sisto V, che riorganizzava il collegio cardinalizio e stabiliva che il numero dei suoi membri non dovesse essere superiore a settanta, non si spingeva oltre generici inviti a un tenore di vita sobrio e dignitoso e non prescriveva le dimensioni della familia cardinalizia[27]. Al termine di questo sintetico riferimento alla normativa sulle corti cardinalizie, ci si deve interrogare sulle ragioni dell’atteggiamento incoraggiante del V Concilio Lateranense e dell’assenza di successive disposizioni papali o conciliari che lo correggessero. I deliberati conciliari relativi al collegio cardinalizio non possono non essere collegati alla definitiva sconfitta delle aspirazioni oligarchiche del sacro collegio segnata dal fallimento del Conciliabulum Pisanum. Non è un caso che nella bolla Supernae dispositionis arbitrio non venga recepita una delle richieste avanzate con determinazione e in maniera estremamente circostanziata da tutte le commissioni di riforma del Quattrocento, nonché da Paolo Cortesi nel De cardinalatu e da Paolo Giustiniani e Pietro Querini nel Libellus ad Leonem X: vale a dire che fossero perequate le rendite cardinalizie[28]. Esigenze di riforma e motivazioni politiche suggerivano tale misura, che avrebbe, da un canto, consentito di stroncare lo scandaloso cumulo di benefici e di uffici da parte dei cardinali e avrebbe, dall’altro, restituito ai porporati, non più costretti a dipendere economicamente dalla benevolenza del pontefice e dei principi, quell’autonomia e quell’influenza politica che stavano progressivamente perdendo. Altrettanto significativo è, inoltre, il silenzio della bolla sulla partecipazione del collegio cardinalizio al governo dello Stato pontificio e della Chiesa come pars corporis papae. Le rivendicazioni dei poteri del sacro collegio sulle res arduae, che avevano trovato nei progetti di riforma quattrocenteschi e nelle capitolazioni elettorali, sottoscritte dai cardinali al momento del loro ingresso in conclave, chiare ed esplicite formulazioni[29], sono completamente scomparse. Dando via libera al più sfrenato cumulo di benefici, incoraggiando il nepotismo e l’incremento delle familiae, giungendo a sottrarre i familiari dei cardinali alla giurisdizione dell’ordinario della diocesi in cui erano situati i loro benefici [30], il V Concilio Lateranense spingeva, quindi, i cardinali a compensare con lo splendore esterno e con un fitto intreccio di rapporti clientelari l’erosione dei loro poteri politici. È sullo sfondo di questo lungo processo di trasformazione del papato in monarchia assoluta e di esautorazione del concistoro come organo collegiale di governo che deve essere collocata la mondanizzazione del collegio cardinalizio, i cui riflessi non mancano di manifestarsi anche nel ‘tono’ delle corti. Si tratta di un processo tutt’altro che lineare, le cui tappe sono ancora tutte da precisare, ma che iniziato durante il pontificato di Pio II – come con lucidità indicava l’ambasciatore veneziano Paolo Paruta nel 1595 nella relazione al Senato al rientro dalla sua missione alla corte pontificia [31] –, tra battute d’arresto e fasi di accelerazione, poteva dirsi compiuto ai tempi di Pio V. Due episodi verificatisi durante il suo pontificato illustrano la degradazione dell’organo attraverso il quale si esprimeva il potere collegiale dei cardinali con maggiore efficacia del De sacri consistorii consultationibus in cui qualche anno dopo il cardinale Gabriele Paleotti avrebbe elevato la sua isolata protesta contro la perdita di ogni effettivo potere politico autonomo del collegio dei cardinali [32]. Di fronte alla volontà del Ghislieri che il concistoro fosse investito di «materie et considerationi tanto basse» come la raccolta dei rifiuti nella città di Roma ed emanasse de consensu fratrum (formula presente in tutti i provvedimenti adottati in seno al concistoro), un provvedimento che vietava di gettare le immondizie nel Tevere, i cardinali, seppure allibiti, non osarono protestare [33]. Questo ‘avvilimento’ del concistoro era del resto così palese da non sfuggire al popolino romano: con un gesto pieno di sarcasmo popolare, un certo maestro Pasquino volle «avvertire che Roma va declinando col mostrare che i Consistori non bisognano, non si veggendo in essi più deliberationi, ma solo audientie simplici et nulla o poco importanti». E lo aveva fatto rubando «quella tavoletta con la quale i cursori sogliono annuntiare il Concistoro». Questo gesto non venne, peraltro, giudicato «un commettere furto, ma sì bene un levare ingieniosamente il superfluo perché non essendo i Concistori necessarii, l’intimarli et l’annuntiarli è superfluo»[34]. Da consesso in cui i pontefici erano soliti trattare con i cardinali «i negozi più grandi» e prendere decisioni de consensu fratrum, il concistoro si era trasformato nel giro di un secolo in organo di distribuzione dei benefici maggiori [35], grazie ai quali i papi erano riusciti a tener sotto controllo l’opposizione alla loro politica di accentramento dei poteri e i sovrani a garantirsi alleati ai vertici della Chiesa. Senza «alcuna parte al mondo nei negozi e affari di momento», sullo scorcio del Cinquecento i cardinali erano diventati «idoli in apparenza»[36]. Ma pur sempre «idoli». In progresso di tempo i poteri del collegio cardinalizio erano stati trasferiti alla Segreteria, al cardinale-nepote e ai capi delle congregazioni che rispondevano direttamente al pontefice e non più al concistoro. Non vi è dubbio che la permanenza a capo di dicasteri-chiave, come la Camera Apostolica, la Cancelleria e la Penitenzieria, di cardinali nominati a vita, spesso da predecessori, e la presenza di singoli cardinali o di gruppi di cardinali influenti, legati alla Spagna o alla Francia, contribuissero, data anche la natura elettiva del papato, a frenarne le tendenze assolutistiche. Inoltre, dopo la morte di Paolo III, la congregazione del Sant’Ufficio, specialmente sotto i pontefici membri di ordini religiosi che provenivano dalla sua dirigenza, avrebbe assunto un potere enorme, sino a costituire in determinati momenti il vero e proprio organo di governo della Chiesa[37]. Ma il concistoro, in quanto organo di cogoverno nella Chiesa e dello Stato pontificio, aveva perso rilevanza politica e le sue sedute erano sempre più dedicate a consultazioni puramente formali e a cerimonie[38]. 1.2. «Familiae» cardinalizie e sovranità temporale Se aveva privato il concistoro dei suoi poteri, la monarchia papale aveva però chiesto ai cardinali di fare da cornice al suo crescente splendore, di essere «idoli in apparenza». La familia cardinalizia era diventata uno degli elementi indispensabili di questa «apparenza». La magnificenza che viene imposta ai cardinali s’iscrive, infatti, in un programma coerente e lungimirante di adeguamento dell’immagine di Roma alla sua nuova funzione di capitale dello Stato pontificio, oltre che della cristianità. Nell’ambito di quella che Prodi ha definito «l’incentivazione esasperata del ruolo di capitale» [39], i pontefici avevano promosso a Roma un’intensa attività edilizia con l’intento di conferirle quella solenne maestà che avrebbe testimoniato il suo rinnovato peso all’interno dello Stato della Chiesa. A partire da Sisto IV vennero presi provvedimenti che, sottraendo i beni immobili dei chierici morti senza licenza di testare agli spolia su cui la Camera Apostolica avanzava pretese, consentivano la loro alienazione e la loro trasmissione agli eredi. Queste disposizioni – che, non a caso, vennero temporaneamente sospese da Adriano VI, intento a rilanciare l’autorità spirituale della Chiesa ai danni della quale i suoi predecessori avevano potenziato e innalzato il ruolo dello Stato – avevano incoraggiato cardinali, prelati e ufficiali di curia a investire capitali provenienti prevalentemente dai benefici ecclesiastici e dagli uffici curiali in costruzioni di palazzi, case e ville suburbane. In tal modo essi avrebbero contribuito a quella renovatio Urbis che doveva servire al prestigio politico della Santa Sede. Lo stesso trasferimento della residenza papale dal Palazzo Lateranense, contiguo alla cattedrale di Roma, al Palazzo Vaticano, contiguo alla tomba di Pietro, traduceva in maniera visibile la nuova ideologia della sovranità e, con la riduzione delle funzioni pastorali, il prevalere degli interessi temporali su quelli spirituali[40]. Nella stessa ottica di proiezione di un’immagine della corte di Roma che, nella sua scenografica magnificenza e nel suo fasto, riflettesse la sovranità pontificia, celandone l’intima debolezza, è da collocare il chiaro invito del V Concilio Lateranense ai cardinali a spalancare le porte dei loro palazzi. La creazione intorno alla corte papale – le cui dimensioni reali e simboliche nel corso del Rinascimento vennero notevolmente incrementate[41] – di una costellazione di corti satelliti avrebbe, infatti, contribuito a dilatarne lo splendore. Questo intento è del resto ben evidenziato da Francesco Priscianese, il quale nell’elogiare Roma osservava: «Dove veggiamo noi aver il seggio suo una Corte di tanta magnificenza e grandezza, e piena di tanti nobilissimi Signori?» e aggiungeva che quello splendore «si conserva e perpetua» grazie «alli Signori [cardinali] che in te dimorano, ed alle Corti che dimorano con loro»[42]. Ciò non significa, peraltro, che tutti i cardinali fossero in grado di mantenere vere e proprie corti. I dati forniti dal censimento romano del 1526/1527, adoperato come costante punto di riferimento per delineare le dimensioni delle corti cardinalizie nel Rinascimento, oscillano tra le 306 bocche della casa di Alessandro Farnese e le 45 di quella del domenicano Tommaso De Vio. Ma al di là della cautela con cui devono essere utilizzati quei dati[43], è opportuno sottolineare che non vi è nulla di più elastico delle dimensioni della corte cardinalizia. Il numero dei suoi componenti è, infatti, soggetto a costanti modifiche ed è condizionato da vari fattori. Tra i principali: la residenza o meno del cardinale a Roma, l’oscillazione delle sue rendite, le difficoltà logistiche. Sul potenziamento delle familiae durante i soggiorni alla curia romana torneremo tra breve. La fluttuazione delle entrate cardinalizie condizionate dalla grazia o meno del pontefice o degli Stati, dalla regolarità o meno con cui in occasione di conflitti bellici e giurisdizionali venivano versate le rendite dei benefici o le pensioni ecclesiastiche, si ripercuoteva inevitabilmente sull’organico della corte, il cui sostentamento incideva in misura rilevante sul bilancio cardinalizio. Infine, contrariamente a quanto si è soliti pensare, la Roma del Cinquecento offriva ancora scarse possibilità di sistemazione logistica confortevole, oltre che decorosa, e non era in grado di rispondere adeguatamente ai bisogni crescenti dovuti all’espansione del collegio cardinalizio. Se i cardinali romani o appartenenti ad alcune case regnanti italiane possedevano palazzi di famiglia, gli altri dovevano prendere in affitto case o palazzi non sempre idonei a ospitare grandi numeri di familiari e servitori. L’elenco di 82 palazzi romani, redatto nel 1601 da un anonimo compilatore, anche a uso di cardinali in cerca di abitazione, evidenzia chiaramente la limitata disponibilità di edifici in grado di contenere ampi seguiti[44]. La situazione muterà sensibilmente nel corso del secolo successivo [45], quando sorgeranno molti suntuosi e spaziosi palazzi, rispondenti a una concezione sempre più radicata e diffusa che il prestigio di un casato fosse fortemente determinato dalla presenza di una dimora stabile nel cuore di Roma, come ricordava Antonio Querenghi al cardinale Alessandro d’Este nel 1615: Per vivere un Cardinal Principe, ancorché lontano mille miglia, nella memoria di questa corte honoratamente, uno de’ principali instrumenti che possa adoprare è il tenervi aperta una casa per ampiezza e per magnificenza convenevole al suo nascimento[46]. Queste contingenze provocavano dilatazioni o contrazioni della familia rilevabili solo attraverso l’analisi di serie complete di ruoli per gli approvvigionamenti alimentari, ossia gli ‘ordinari’ o ‘compendi’ del pane e del vino. Compilati il primo di ogni mese dal maestro di casa per il dispensiere e per gli addetti alla cantina, per la loro stessa natura provvisoria e mutevole, riforma del collegio cardinalizio[74]. Se attuato avrebbe posto termine all’accumulo di benefici e di ricchezza da parte di pochi, influenti porporati ed eliminato l’ampio divario tra cardinali «ricchi» e cardinali «poveri», che l’ampliamento del collegio aveva profondamente accentuato. Se nel 1500 le rendite cardinalizie andavano da un massimo di 30.000 ducati d’oro a un minimo di 2.000, nel 1521 erano passate da 50.000 a 2.000 ducati d’oro e nel 1571 da 130.000 a 510 scudi [75]. Non vi è dubbio che alla base del rifiuto dei successivi pontefici di accogliere la richiesta delle commissioni di riforma vi fosse la volontà di condizionare la politica del sacro collegio e di indebolire l’opposizione di alcuni dei suoi membri attraverso l’arbitraria distribuzione dei beni della Chiesa. Ma questa non era certo la sola motivazione del loro rifiuto. Se avessero accettato di perequare le rendite (attingendo a cespiti alternativi ai benefici ecclesiastici curati e non curati, che integrassero le entrate insufficienti della cassa comune della Camera del Collegio e che difficilmente avrebbero potuto essere reperiti al di fuori dello Stato della Chiesa[76]), le entrate dei cardinali sarebbero state assai inferiori a quelle che essi traevano, nel flessibile sistema vigente, da benefici situati prevalentemente – è bene sottolinearlo – fuori dallo Stato pontificio. Sebbene le commissioni di riforma avessero indicato somme sostanziose che andavano da un minimo di 4.000 a un massimo di 6.000 ducati d’oro[77], la totalità delle rendite del collegio non avrebbe mai potuto raggiungere, come accadde nel 1571, la somma di un milione di scudi d’oro. Questa cifra, che rappresentava le rendite da benefici ecclesiastici di settanta cardinali, secondo Jean Delumeau uguagliava, anzi superava le entrate papali[78]. L’applicazione dei decreti del Concilio di Trento non modificò questa situazione, poiché si ovviò alle perdite economiche derivate dal divieto del cumulo di benefici incompatibili attraverso un sistema a dire poco selvaggio di pensioni gravanti sulle mense episcopali e su molti benefici curati, che rendevano l’esercizio della cura d’anime – oltre che la stessa residenza del clero curato, alto e basso nelle sedi di titolarità – irto di ostacoli e di difficoltà [79]. Occorrerà attendere la seconda metà del Seicento perché Innocenzo XI, al momento della sua assunzione al soglio pontificio nel 1676, individuasse nel problema insoluto delle rendite del collegio cardinalizio la causa principale della mancata attuazione dei decreti tridentini e progettasse un ridimensionamento del sacro collegio dai settanta membri stabiliti da Sisto V a cinquanta. Ove fosse stato attuato questo ridimensionamento avrebbe consentito di ridurre le sperequazioni tra cardinali «ricchi» e cardinali «poveri» e di alleggerire i benefici ecclesiastici delle pensioni che su di essi gravavano[80]. Ovviamente, non tutte le rendite dei benefici ecclesiastici percepite dai cardinali raggiungevano Roma, poiché non tutti i membri del collegio vi risiedevano. Inoltre, parte delle rendite di benefici situati nei luoghi di origine del cardinale possono aver contribuito al sostentamento di parenti e clienti in loco. È, tuttavia, presumibile che gran parte dei redditi di un cardinale residente fossero spesi a Roma. Egli era, comunque, caldamente sollecitato a farlo. Non è, quindi, sorprendente che i pontefici richiamassero costantemente, anche se spesso inutilmente, i cardinali al dovere di residenza in curia. L’economia della città di Roma dipendeva largamente dal loro sfarzoso tenore di vita e dalla loro attività edilizia, che si trattasse della costruzione di palazzi e ville suburbane, della manutenzione e dell’abbellimento di edifici religiosi o della erezione di nuove chiese, collegi e oratori. La concentrazione del commercio alimentare e tessile, ossia dei gruppi predominanti nella vita economica romana, nei rioni di Ponte, Borgo e Parione, in cui risiedevano la maggior parte dei curiali, riflette questa intima dipendenza. Essa è ulteriormente confermata dalle costituzioni emanate dai papi a tutela di commercianti e artigiani dall’insolvenza dei cardinali[81]. Inoltre, l’attività assistenziale e caritativa nella quale investirono una parte non trascurabile dei loro redditi, costituì un elemento rilevante nel contenimento delle tensioni sociali. La perequazione delle rendite, accompagnata da una lotta efficace allo sfarzo e al lusso (come richiesto nei progetti di riforma quattrocenteschi) e dall’imposizione di un ridimensionamento delle familiae avrebbe, quindi, potuto aver conseguenze irreparabili che, del resto, venivano paventate in occasione di nomine cardinalizie in cui non fossero inclusi esponenti di case regnanti, dell’antica aristocrazia o delle famiglie dei grandi banchieri. All’indomani della creazione del giugno del 1542 – che vedeva cooptati nel collegio uomini dalla fama di riformatori come Morone, Cortese e Badia, i due ultimi, per giunta, membri di ordini religiosi – il fiorentino Francesco Babbi informava Cosimo I del disappunto dei romani: Credo che Vostra Eccellenza sappi quando si fanno Cardinali et maxime Italiani quanta allegrezza, quanto fasto, et pompa suole essere in questa città. Et hoggi si è fatto il contrario, che vedete ogni uomo da bene stupefatto attonito et disperato. Li plebei allegri, parendo che sia il tempo loro. I mercanti et altri disperati, che non venderanno pure una berretta nuova et ci è una malenconia et una disperatione, che pare questa città habbi la peste o vadi a saccho et sia l’obsidione a torno, et ogni galante huomo ha smarrito et perso la tramontana[82]. Necessità economiche si univano, quindi, all’esigenza di rendere visibile la trasformazione del papa in sovrano. L’intrinseca debolezza e precarietà dello Stato pontificio, minacciato in questi anni di dissoluzione da nemici esterni, non meno che interni, ritenuto addirittura da alcuni cardinali riformatori un’appendice superflua e dannosa all’espletamento della missione spirituale della Chiesa[83], accentuava questo bisogno di proiezione esteriore del consolidamento del dominio temporale, visto come unica garanzia di indipendenza della Santa Sede dalle potenze europee. Sarebbe, tuttavia, riduttivo vedere all’origine della profusione di segni tangibili di un più esteso esercizio del potere temporale solo lo spettro di Avignone e del Grande Scisma e le tendenze assolutistiche della monarchia papale. La Riforma protestante ebbe profonde ripercussioni non soltanto nell’accentuare gli aspetti esteriori ed emotivi della religiosità, nel moltiplicare culti e devozioni, nel creare rituali dagli straordinari effetti scenografici (basti pensare ai teatri delle quarant’ore dei gesuiti), ma anche nel rafforzare la convinzione che i proventi dei possedimenti territoriali dello Stato della Chiesa, insieme con quelli dei benefici ecclesiastici, fossero indispensabile supporto della pompa e dello splendore di quelle cerimonie e di quei riti sacri. Questo concetto fu espresso con grande chiarezza nel Contra Laurentium Vallam, de falsa donatione Constantini scritto nel 1546 dal bibliotecario pontificio Agostino Steuco, il quale, convinto che la sobrietà delle cerimonie religiose meritasse solo disprezzo, riteneva indispensabile la disponibilità di mezzi adeguati per il sostentamento del clero e per l’arredo sfarzoso delle chiese e dei luoghi sacri, senza i quali, a suo parere, non vi sarebbero più stati sacerdoti e gli edifici di culto sarebbero stati deserti [84]. Il potere temporale e le ricchezze del papato – insisteva Steuco contro gli avversari della monarchia papale – non erano solo indispensabili all’esaltazione della sovranità, ma erano anche essenziali alla proiezione della dignità spirituale del pontefice: per ispirare timore e venerazione nei confronti della religione e di Dio, il pontefice doveva presentarsi tra gli uomini soffuso di quella maestà e di quella pompa, che solo le entrate dello Stato pontificio potevano sostenere. Queste convinzioni non erano destinate a rimanere confinate nei libri. Persino l’ascetico Paolo IV non si sottrasse a questa logica ed ebbe chiara la consapevolezza della necessità di potenziare i simboli del potere. A Roma si osservò con sollievo che «circa il splendore de la corte» egli, lungi dal seguire l’austero esempio del predecessore, Marcello II, si ispirava al modello farnesiano, «perché piglia assai famiglia, dimostra magnificentia, compiace al popolo, et simili altre cose assai» e perché, al maggiordomo che gli aveva chiesto come doveva regolarsi per il banchetto offerto il giorno dell’incoronazione, aveva risposto lapidariamente: «Da Principe»[85]. Alla Riforma protestante Roma replicò chiamando a far parte del sacro collegio uomini dotati di qualità morali e intellettuali, ma rifiutando coerentemente con la visione polemica e religiosa di Chiesa triumphans, il modello evangelico di una Chiesa nuda e spoglia. Splendore e magnificenza delle corti romane erano, quindi, connesse sia a tale visione che a necessità economiche. Il progressivo assottigliamento dei loro organici, rilevabile dai censimenti del Seicento [86], non derivò da direttive papali, bensì dall’aumento dei prezzi del 200% tra il 1500 e il 1609, cui non corrispose quello delle rendite medie cardinalizie, e da una diversa destinazione delle spese, che sembrano aver privilegiato l’acquisto di carrozze, livree, argenteria e gioielli, l’organizzazione di banchetti, la dotazione di nipoti, le opere edilizie e caritative, rispetto al mantenimento di un numero elevato di familiari e servitori[87]. 1.4. «Familiae» cardinalizie e ceti dirigenti Le corti cardinalizie non possono, tuttavia, essere considerate soltanto nella loro proiezione esterna, quali elementi essenziali di una dorata scenografia, ma devono essere integrate nel sistema dei rapporti che la Chiesa d’ancien régime intrattenne con gli Stati regionali italiani. È noto che il progressivo inserimento, a partire da Niccolò V, dello Stato pontificio nella politica di equilibrio tra gli Stati italiani incise sulla composizione del sacro collegio. Il suo allargamento e la sua italianizzazione – che aveva favorito i membri dei patriziati cittadini[88] – mirava a creare una saldatura d’intenti tra la curia e i ceti dirigenti della penisola e a favorire la politica nepotistica dei papi. Ma si prefiggeva anche il ridurre la potenza delle famiglie baronali e patrizie romane, tenute sempre più lontane dal centro del potere. Questa emarginazione veniva, del resto, percepita con lucidità agli inizi del Cinquecento da Marco Antonio Altieri, il quale ne Li nuptiali esortava i casati romani a formare, attraverso alleanze matrimoniali, un fronte compatto contro gli usurpatori per recuperare uffici di curia, cappelli cardinalizi e finanche la tiara[89]. Nell’ambito di questa politica volta a stabilire, attraverso la distribuzione di benefici ecclesiastici e di uffici cariche e dignità, un fitto intreccio di legami tra Roma e gli Stati della penisola e a creare fedeli clientele locali, le corti cardinalizie, insieme con la corte papale e agli uffici di curia, costituivano contenitori preziosi di uomini che si erano venuti aggregando intorno al «padrone» nel corso della sua carriera. Essi provenivano, prevalentemente, dalla sua stessa regione, da quelle in cui erano situati i suoi benefici maggiori, dai luoghi in cui aveva svolto missioni diplomatiche o ricoperto cariche di governo[90]. Con i luoghi di origine questi cortigiani – impropriamente chiamati «romani» – avrebbero continuato a mantenere stretti contatti, ottenendovi spesso quale compenso per il loro servizio benefici ecclesiastici, che contribuivano al mantenimento dei loro parenti. Essi, inoltre, usufruendo dell’influenza del «padrone» e della fitta rete di relazioni che riuscivano a intrattenere con gli ufficiali di curia e con i membri di altre familiae cardinalizie e della corte papale, tutelavano e promuovevano i propri interessi e quelli dei loro clienti e compatrioti a Roma[91]. D’altro canto, in un periodo di forte spinta demografica e in cui giungeva a maturazione il processo di aristocratizzazione del patriziati cittadini, le corti romane, insieme con i capitoli cattedrali, divennero un prezioso serbatoio per i cadetti dei ceti dirigenti italiani. La crescente tendenza all’assunzione di modelli di vita nobiliare, alla ripugnanza per l’esercizio delle arti meccaniche e alla gelosa conservazione dei patrimoni indivisi all’interno del casato, vincolati con fedecommessi e primogeniture, indusse molti cadetti a cercare fortuna all’ombra della Chiesa. Nello stesso tempo la maggiore permeabilità sociale delle istituzioni ecclesiastiche rispetto alle istituzioni civili[92] attirava verso Roma coloro cui era precluso l’accesso alle magistrature cittadine, in conseguenza della progressiva chiusura oligarchica degli organi di governo. Frequentissime sono, quindi, le richieste ai cardinali di accogliere nella loro familia giovinetti perché vi potessero ricevere un’educazione ed essere addestrati a una carriera al servizio del papato. Poche sono esplicite come quella di Fiammetta Bellarmino, madre di Girolamo e Corrado, al cardinale Marcello Cervini, suo parente: Credo seria bene, essendo dui, che uno di loro attendesse allo studio et l’altro alla Corte. Et quello che segue la Corte, si fusse spirato da Dio et che piacesse a Vostra Signoria Reverendissima, fusse Prete. Perché, pigliando tutti e dui moglie, si verria subbito alle divisioni et ogniuno ne fariano male. Ma seguendo uno la Cherica, et l’altro lo studio, si manterebbe la Casa in augumento et unione et uno aiuterebbe l’altro [...]. Ho voluto fare questo discorso con Vostra Signoria Reverendissima acciò sappi l’animo mio et quale saria il bene et l’honore di Casa[93]. Se i cadetti dei ceti dirigenti ritrovavano nelle corti romane modelli consoni alla loro ideologia nobiliare, coloro che si vedevano negati l’accesso alle magistrature cittadine le consideravano una tappa obbligata per la loro promozione sociale dal momento che poter contare nella famiglia vescovi e cardinali era diventato elemento fondante della condizione di nobile[94]. Per gli uni come per gli altri, sia che aspirassero a sistemarsi economicamente mediante il conferimento di qualche beneficio o l’acquisto di qualche ufficio, sia che puntassero, oltre gli agi materiali, agli onori di una brillante carriera al servizio della Chiesa, le corti romane costituivano un ideale trampolino di lancio. La «familiarità» di un cardinale consentiva, infatti, di sfruttare meglio il vasto potere clientelare di cui godeva all’interno della curia e di usufruire per se stessi, per i propri parenti e per i propri amici della sua influente protezione, che poteva estendersi ben al di là della sfera ecclesiastica. Inoltre i membri della corte avevano un più facile accesso al sistema beneficiale grazie alla «riserva» cardinalizia, ossia alla facoltà dei porporati di assegnare i benefici vacati per rinuncia o per morte dei loro familiari. Anche se si assiste, parallelamente alla perdita d’autorità, all’erosione dei privilegi dei cardinali, che subì un’accelerazione sotto Pio V[95], la protezione cardinalizia dovette favorire enormemente non soltanto l’ottenimento di uffici curiali, ma anche il conferimento di benefici ecclesiastici, che costituivano l’attrattiva maggiore del servizio a corte, data la precarietà dell’esistenza dei cortigiani e l’irregolarità con cui venivano retribuiti[96]. Mancano indagini che ci permettano di precisare l’incidenza delle corti cardinalizie nella formazione dei quadri della burocrazia pontificia (non parlo volutamente di gerarchia ecclesiastica e di funzione pastorale in quanto le nomine episcopali in questo periodo sono quasi sempre connesse al conferimento di uffici amministrativi: nunziature, governatorati, vice- corpo sostanzioso di piccoli prontuari a stampa a uso delle corti romane[111]. All’origine di questa produzione – che, come si vedrà, ha una notevole compattezza e coerenza – vi sono vari fattori, che è opportuno richiamare, sia pure brevemente. Da un canto, si assiste in questo periodo a una progressiva, generale trasformazione della funzione del cortigiano da istitutore, consigliere e compagno del principe ad addetto a funzioni subalterne, rigidamente definite, che conduce alla «atomizzazione»[112] del Libro del Cortegiano. Il complessivo progetto del Castiglione si frantuma, infatti, a partire dalla metà del Cinquecento, in una miriade di testi tecnici intenti a descrivere abilità e competenze specifiche, ma anche a fornire strumenti idonei per un più esteso e capillare controllo sociale. Dall’altro, l’apparizione e lo sviluppo di questa letteratura minore sono intimamente legati all’evoluzione della funzione del cardinalato tra il rientro dei pontefici a Roma dopo il Grande Scisma e la riorganizzazione e la ristrutturazione del sacro collegio e delle congregazioni romane durante il pontificato di Sisto V (1585-1590)[113]. La lenta trasformazione del papato in monarchia assoluta e la conseguente esautorazione del concistoro come organo collegiale di governo della Chiesa e dello Stato pontificio si intrecciano in questo lungo arco di tempo con la costruzione dello Stato territoriale della Chiesa e con il progetto di renovatio Urbis, teso a rendere manifesto e tangibile, attraverso la scenografica magnificenza di Roma, il nuovo peso della sovranità temporale [114]. Sotto questo profilo non appare superfluo sottolineare come, precedendo di molti decenni i sovrani «itineranti» delle grandi monarchie europee[115], i pontefici, a partire da Eugenio IV (1421-1447), non soltanto fissino stabilmente la loro dimora a Roma ed elaborino una politica edilizia e progetti urbanistici finalizzati alla costruzione di una grande capitale europea, ma – evidenziando il prevalere degli interessi temporali su quelli spirituali e pastorali – trasferiscano la loro residenza dal Palazzo Lateranense, contiguo alla cattedrale di Roma, al Palazzo Vaticano, incrementando notevolmente le dimensioni della corte[116]. In questo contesto i cardinali trovarono una compensazione all’erosione dei loro poteri politici nell’incoraggiamento a un tenore di vita splendido, di cui la familia divenne uno degli elementi indispensabili, insieme con il palazzo e con la scuderia, e vennero sollecitati a moltiplicare, attraverso lo sfarzo delle loro corti, lo splendore della corte papale. Questo processo di ‘svilimento’ del cardinalato, affiancandosi al progressivo inserimento dello Stato pontificio nella politica di equilibrio tra gli Stati regionali italiani, incise profondamente, oltre che sulla composizione sociale e geografica, sull’ampliamento del sacro collegio – passato dai diciotto membri del pontificato di Eugenio IV (1437) ai settantasei della fine di quello di Pio IV (1565). Parallelamente aumentò il numero delle corti cardinalizie, la consistenza dei cui organici si attestò in media intorno ai 120/150 membri, con punte di oltre 350. Da questa incontrastata espansione derivarono sia l’esigenza di norme comportamentali che garantissero una pacifica e civile convivenza tra uomini di diversa estrazione sociale e provenienza geografica, sia la necessità di una maggiore specializzazione e diversificazione dei compiti assegnati ai singoli membri della corte. Inoltre, il graduale spostamento del centro dell’attività del cardinale dal concistoro alle congregazioni e la sua trasformazione in altissimo esponente della burocrazia curiale portarono a una strutturazione e articolazione della corte funzionali al mutamento del suo ruolo e della sua immagine[117]. Di questi successivi adeguamenti offrono una puntuale testimonianza una serie di prontuari relativi all’organizzazione e al funzionamento della corte nel suo insieme. Una prima indagine – che peraltro non pretende di essere esaustiva – ha consentito di riunire sei piccoli prontuari apparsi nell’arco di poco più di cento anni, dalla metà del Cinquecento alla metà del Seicento, più precisamente tra il 1543 e il 1658. In questi scritti, oltre alla tradizione degli «ordini e uffitii» redatti a uso interno della corte e dalla circolazione prevalentemente manoscritta, confluisce quella componente della letteratura comportamentale che si richiamava alla «oeconomica», ossia alla trattatistica sul «governo della casa» privata, che aveva le sue radici negli scritti di Senofonte, Plutarco e Aristotele[118], e che – per quanto riguarda la casa del cardinale – aveva il suo archetipo nel capitolo De familia cardinalis nel Liber oeconomicus del trattato De cardinalatu di Paolo Cortesi[119]. Al primo di questi manualetti, il Del governo della corte d’un Signore in Roma di Francesco Priscianese, membro della familia del cardinale Niccolò Ridolfi, pubblicato a Roma nel 1543[120], fanno seguito II mastro di Casa di Reale Fusoritto, trinciante del cardinale Alessandro Peretti da Montalto, nipote di Sisto V, pubblicato a Roma nel 1593 [121]; il Dialogo del maestro di casa di Cesare Evitascandalo, maestro di casa del cardinale Iñigo d’Avalos d’Aragona, pubblicato a Roma nel 1598[122]; La Prattica cortigiana morale et economica di Sigismondo Sigismondi, familiare del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, pubblicato a Ferrara nel 1604[123]; Il novitiato del maestro di casa di Antonio Adami, maestro di casa del cardinale Marcello Lante Della Rovere (1605-1652), pubblicato a Roma nel 1636 e dedicato al cardinale Antonio Barberini[124]; e infine Il Perfetto mastro di Casa di Francesco Liberati, maestro di casa di vari principi e cardinali romani, pubblicato a Roma nel 1658[125]. Accomuna questi trattatelli, innanzitutto, l’essere stati composti da membri delle stesse corti cardinalizie, i quali riflettevano in essi esperienze e conoscenze dirette e concrete, maturate in lunghi anni di servizio. Il modello di corte delineato – che doveva essere in tutto simile a un «soavissimo concerto musicale, esprimendo l’harmonia di varii, et diversi officii, tutti accordati, e regolati da perito, e provido Maestro di Casa alla conoscenza del servitio di un Prencipe» [126] – era il risultato di una razionalizzazione della propria attività empirica, dalla quale avevano ricavato principi e regole utili a guidare e orientare l’operato e i comportamenti di chi si accingeva a servire in corte. In secondo luogo, questi scritti presentano una struttura sostanzialmente simile, col dedicare a ciascun «ufficio» della corte un capitolo in cui vengono elencate le mansioni che competono a coloro che lo ricoprono; le qualità morali e il savoir faire sociale di cui devono essere dotati; e, infine, i rapporti di subordinazione ad altri ‘ufficiali’ della corte. Sotto il profilo della professionalizzazione del personale va sottolineata la crescente specializzazione che emerge dal confronto con la corte delineata dal Cortesi all’inizio del Cinquecento, connotata da una strutturazione e un’organizzazione ancora assai rudimentali – che del resto sono confermate nelle fonti coeve [127]. Infatti, pur se è prevista una familia di 60 ‘ufficiali’ maggiori e di 80 servitori, non vengono indicate le mansioni, né diversificate le retribuzioni: ai sessanta ‘ufficiali’ maggiori il cardinale avrebbe dovuto corrispondere indistintamente 50 ducati annui. All’assenza della dimensione tecnico- pratica, al silenzio sui requisiti necessari all’esercizio dei singoli ‘uffici’, si contrappone il rilievo conferito alla virtus. Il cardinale dovrà scegliere i suoi familiares tra uomini dotti e virtuosi, soli meritevoli della sua ospitalità e della sua protezione. Convinto che la virtù non sia necessariamente appannaggio di coloro la cui nobiltà è fondata sull’antichità del casato e della ricchezza, Cortesi preferisce che il suo cardinale si circondi di nobili la cui nobiltà discenda dalla virtù, umanisticamente intesa come dottrina e qualità morali. Poiché queste doti sono possedute soprattutto dai letterati, ne consegue che fra di loro il cardinale dovrà reclutare i suoi familiari. Nella visione del Cortesi la corte si presenta, quindi, non come una dimora popolata da uomini addetti a funzioni subalterne diversificate, bensì come un’accademia di dotti e virtuosi al servizio di un cardinale patrono delle lettere e delle arti che hanno il compito di far progredire sulla via della virtù e della sapienza, facendo del suo palazzo un luogo dedito ai «magnarum artium studia»[128]. Qualche anno dopo, nel Del governo della corte d’un Signore del Priscianese, essa si è trasformata in un organismo compiutamente architettato e strutturato in tutte le sue componenti: le mansioni dei singoli ufficiali sono chiaramente definite, i loro stipendi sono diversificati, la loro gerarchia è già chiaramente abbozzata. La suddivisione dei compiti verrà ulteriormente precisandosi nel corso del secolo: il numero degli ‘uffici’ passerà dai 23 previsti da Priscianese nel 1543 ai 51 descritti da Evitascandalo nel 1598 (che diventeranno 53 nell’edizione del 1606) [129]. Parallelamente si assiste a una maggiore articolazione delle funzioni di ciascuno «ufficiale» e all’elaborazione di tecniche operative sempre più raffinate e complicate. Tuttavia, pur se l’intento principale degli autori consiste nel fornire minute prescrizioni di carattere ‘professionale’, nell’assegnare e definire rigidamente il ruolo e le competenze di ciascun componente della familia, e nel porre, quindi, l’accento sulla «sofficienza», la «maestria», la «perfettione», l’«eccellenza», l’«esperienza», l’«industria», l’«inventione», e sulla necessità che il cortigiano sia «huomo molto grave, pratico e invechiato nelle Corti, antico nella servitù del Padrone»[130], non mancano in questi manuali consigli morali. Essi si polarizzano intorno alle virtù della lealtà, della fedeltà, e soprattutto dell’onestà, richiamata con maggior insistenza in un mondo, quello delle corti, che appare fortemente caratterizzato dal furto e dalla frode, dalle «male pratiche» e dalle «trappolarie» [131], e dove l’arte dell’arrotondare i magri e irregolari salari è elevata a vero e proprio sistema[132]. Maggiore spazio viene dedicato alle doti sociali e ai requisiti fisici di cui deve essere ornato il familiare del cardinale. È Il Libro dei Cortegiano a fornire implicitamente o esplicitamente – come nel trattato di Domenico Romoli su La singolare dottrina dell’ufficio dello Scalco, dove dell’ufficio del coppiere viene osservato che è «officio così nobile, e per descriverlo non so come farlo più brevemente, che formarlo tale qual il conte Baldassarro pone per formare il suo cortigiano» [133] – l’involucro che avvolge i membri della corte. D’«ogni maniera bella, quanto più si può, adorno», di «qualità e maniere gentile e belle», «pulito e delicato»[134], «amabile, cortese, e piacevole»[135], d’aspetto «bello», «grato e riverente», di «onesta e grata presenza», il familiare del cardinale dovrà possedere e manifestare in ogni suo atto e gesto grazia, leggiadria, politezza, piacevolezza, giocondità, affidabilità[136]. Ma i punti di contatto con il Cortegiano si fermano necessariamente qui: sulla corte delineata in questi prontuari è calato, infatti, il silenzio, dettato dalla circospezione e dalla segretezza imposte ai familiari, mentre lentamente è andato scomparendo il luogo deputato alla convivialità, ossia il tinello, dove Il Libro del Cortegiano avrebbe potuto svolgere ancora la funzione di modello di una pratica della conversazione. Il suo posto è stato preso dal Galateo, che, non a caso, raccoglieva e sistemava i frutti dell’esperienza vissuta all’interno di corti ecclesiastiche e non laiche – cosa che è opportuno ribadire – da Giovanni Della Casa e dal destinatario del trattato, Galeazzo Florimonte. Lettura fortemente raccomandata ai membri della corte[137], il Galateo forniva a questa trattatistica norme del savoir vivre, «del comunicare insieme»[138], indispensabili a una civile convivenza. Inoltre, delineando un modello comportamentale unico per il ricco e per il povero, per chi era di sangue nobile e per chi era di umili natali, per chi era dotato di ingegno e chi ne era sprovvisto [139], favoriva l’osmosi tra persone, quali quelle che popolavano le corti cardinalizie, di diversissima estrazione sociale e provenienza geografica [140]. In un mondo come quello romano caratterizzato da una forte mobilità sociale, l’opera di monsignor Della Casa metteva a disposizione dei cortigiani quegli adeguati strumenti ‘mondani’, che, oltre a facilitare la convivenza sotto il tetto della dimora cardinalizia, avrebbero loro consentito di avvalersi più proficuamente delle possibilità e delle opportunità di ascesa e di carriera offerte dalla familiaritas con un porporato[141]. Da questa trattatistica vengono, infatti, riprovati tutti i «modi che noiano i sensi» [142]. Se Cesare Evitascandalo richiede che il credenziere sia di «età matura, e polito [...], che sia sano, & vadi honestamente in ordine, acciò non venghi a nausea maneggiando le vivande del suo Signore»[143], e allo scalco che, oltre ad avere «buon procedere», a essere «amabile, cortese, e piacevole», «sia netto nelle mani senza alcuna bruttura, ne stroppiato nelle dita», Sigismondo Sigismondi, nel delineare la figura dello scalco nella Prattica cortigiana, oltre alla bella presenza, raccomanda che abbia «giocondità del volto», «perché essendo il mangiare per se stessa attione molto allegra, è ancor necessario che si mostri allegro lo Scalco, che porta le vivande, per dimostrare a i convitati, che il suo Prencipe fa allegramente, e volontieri quella magnificenza; poiché il vederlo malinconico, oltre che farebbe nausea a tutti, darebbe anco inditio che’l padrone mal volentieri facesse il convito» [144]. Quanto al trinciante disegnato da Francesco Liberati nel Perfetto mastro di casa, dovrà astenersi dal farsi «sentire con sternuti, o tossa» o dal fare «altro atto schifo senza deporre le vivande, e ritirarsi dalla tavola»[145]. L’esigenza di regolare modi di vita diversificati, di mettere ordine in una pluralità di comportamenti si traduce, quindi, in un disegno complessivo, teso a creare un modello «universale» di cortigiano in cui sono strettamente coniugati virtù sociali e valori estetici. L’insistenza sui motivi dellacasiani trova, d’altro canto, una giustificazione nella crescita, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, delle funzioni di rappresentanza della corte del cardinale, che i trattati di Priscianese e di Evitascandalo mettono in chiara evidenza. Da un canto, la magnificenza che viene richiesta al cardinale si esprime soprattutto attraverso l’impeccabilità, la spettacolarità e la rigida etichetta del cerimoniale della tavola, dove la moderazione, il «giusto mezzo», la distanza dagli eccessi, la «grazia» del trattato del Castiglione cedono il passo all’esibizione di abilità e di artifici, e dove riscuote maggior successo chi è più «copioso di inventioni»[146]. Gli «uffici della bocca» si moltiplicano, si diversificano e si complicano. Aumenta il prestigio degli addetti alla mensa del porporato in linea con l’importanza assunta dai banchetti: quelli dello scalco, del trinciante e del coppiere sono tra gli uffici di maggior «reputatione» e tra i meglio remunerati. continuare ad aspirare a promozioni sociali e ad avanzamenti di carriera. Evitascandalo, Sigismondi, Liberati concordano, infatti, nel ritenere «la Segreteria [...] la più calcata via per giungere alle dignità, et alli gradi di stima»[165]. Larga di riconoscimenti verso i cultori delle humanae litterae, che, ai tempi di Paolo III Farnese e del trattato del Priscianese, ascesero, con l’emblematica creazione cardinalizia di Pietro Bembo, ai vertici della Chiesa [166], Roma non avrebbe tardato a premiare coloro che aveva indotto, volenti o nolenti,· a trasformarsi in funzionari di segreteria. Alle lettere piacevoli o facete di nobilissimi huomini, di chiari ingegni, di bei spiriti, che a partire dagli anni Quaranta del Cinquecento avevano rappresentato un modello di epistolografia volgare e alle quali avevano contribuito in maniera determinante i discepoli del Bembo, preferirà le lettere «di negozi» che Lanfranco Margotti aveva scritto «a nome» del cardinale Scipione Borghese, di cui era stato segretario. Chiamato nel 1608 da Paolo V a fare parte del sacro collegio, Margotti può essere considerato il simbolo di quella «categoria» di tecnici della scrittura, i quali «in premio del loro onesto servire» trovarono «la Porpora ne gli inchiostri»[167]. Parallelamente alla segreteria si sviluppano la «camera» e l’«anticamera» del palazzo cardinalizio, ambienti adibiti alle riunioni delle congregazioni, alle udienze e alle visite di ambasciatori, porporati, prelati, principi e gentildonne [168]. Gentiluomini della camera, aiutanti di camera e paggi si avvicendano nell’esecuzione del complesso cerimoniale che regola gli «accompagnamenti» e che è divenuto una vera e propria «scienza occulta»[169]. Cresce la presenza nobiliare all’interno della corte, essendo il «buon sangue»[170] divenuto requisito indispensabile per coloro che servono alla «camera», e s’irrigidisce la struttura gerarchica della familia al punto che gli autori di questi trattatelli presentano gli uffici in ordine alfabetico per evitare – come esplicitamente dichiarano – di entrare nell’intricata materia delle precedenze[171]. La rilevanza acquisita nel corso della seconda metà del Cinquecento da alcuni settori della corte, evidenziata dai manuali sul Maestro di Casa, non comporta solo mutamenti strutturali, ma dà luogo alla produzione di una trattatistica specifica relativa a particolari uffici, come gia si è accennato a proposito dello sviluppo della trattatistica sul segretario. A partire dagli anni Sessanta, in concomitanza con l’importanza assunta dai conviti, appaiono una serie di trattati che riguardano gli uffici della tavola. Aggregati alla produzione dei libri di cucina, in quanto presentano ricette e menu, e utilizzati come fonti privilegiate per lo studio delle pratiche e dei discorsi alimentari durante il Rinascimento, i trattati sul trinciante – che illustrano la morfologia degli strumenti necessari al taglio dei vari tipi vivande; la correlazione tra utensile e operatore e il processo di autoeducazione del trinciante attraverso il quale giunge a un perfetto automatismo dei gesti – e quelli sullo scalco – cui è affidata la sovrintendenza della mensa del signore e l’organizzazione e concertazione del convito, del cui ordinato e disciplinato svolgimento è garante – sono stati oggetto di maggiore attenzione che non i trattati sul Maestro di Casa. Tuttavia, l’interesse prevalente degli studiosi per gli usi alimentari e per il rituale della mensa con i suoi significati simbolici ha relegato nell’ombra il problema dell’identificazione degli autori e dei dedicatari di questi trattati [172]. Anche in questo caso, con rare, ma significative eccezioni ferraresi[173], si tratta di una produzione che emana dalle corti cardinalizie romane. Capostipite dei trattati sullo scalco è La singolare dottrina dell’ufficio dello Scalco, del fiorentino Domenico Romoli, scalco del cardinale Niccolò Ridolfi[174], cui seguiranno il Libro dello Scalco del già ricordato Cesare Evitascandalo, dedicato al cardinale Scipione Borghese[175]; Lo scalco prattico di Vittorio Lancellotti, scalco dei cardinali Pietro e Ippolito Aldobrandini[176]; la Pratica e Scalcaria di Antonio Frugoli, dedicata al cardinale Luigi Capponi[177]; la Brevità di Scalcaria di Giacomo Colorsi, dedicata al cardinale Francesco degli Albizzi[178]; e infine il Teatro nobilissimo di Scalcheria di Venanzio Mattei, dedicato al cardinale Giacomo Rospigliosi[179]. Anche all’arte del trinciare, i familiari dei cardinali recano il loro importante contributo con Il trinciante di Vincenzo Cervio che quell’ufficio aveva esercitato per il cardinale Alessandro Farnese, cui è dedicato da Reale Fusoritto da Narni il quale, in seguito alla morte dell’autore, ne curò la pubblicazione, rivedendolo e ampliandolo[180]; con il Dialogo del trenciante del già ricordato Cesare Evitascandalo, dedicato, come il trattato sullo scalco, al cardinale Scipione Borghese [181]; e con il Discorso sopra l’officio del trinciante di Antonio Frugoli, dedicato al cardinale Ernesto Adalberto von Harrach, arcivescovo di Praga[182]. Tuttavia, come si è accennato, accanto alla rilevanza che hanno assunto la segreteria e il servizio della tavola, si vanno delineando, nella seconda metà del Cinquecento, la centralità della «camera» nella vita del palazzo cardinalizio e un maggior coinvolgimento dei porporati sia nelle cerimonie profane che nelle celebrazioni religiose e liturgiche. Nasce una nuova figura, quella del maestro di camera che, assente nel trattatello del Priscianese, riveste un ruolo primario già nelle pagine dedicategli nel Maestro di Casa da Cesare Evitascandalo[183]. La crescente complessità del cerimoniale legato alle apparizioni pubbliche e private, sacre e profane, del cardinale dà origine a un’ulteriore diramazione dal corpus principale di trattati destinati al governo della corte nella sua globalità. Le istruzioni offerte da Cesare Evitascandalo, troppo sintetiche e sommarie, verranno, infatti, ampliate e precisate con ossessiva minuziosità da Francesco Sestini da Bibbiena nel Maestro di camera. Apparso nel 1621 a Firenze[184], il trattatello del Sestini sviluppava in un’opera autonoma la parte del cerimoniale romano relativa ai cardinali già delineata da Girolamo Lunadoro nella Relatione della Corte di Roma, che a quella data circolava manoscritta. Composta su richiesta di Cristina di Lorena per il figlio Carlo de’ Medici, creato cardinale nel dicembre del 1615, «acciò che potesse servire per instruttione [...] quando [...] anderà la prima volta alla detta Corte, a ricevere il Sacro Cappello Cardinalizio», la Relatione, dopo il «plagio» del Sestini, verrà data alle stampe a Roma nel 1635[185]. Nei due scritti viene codificato un complesso di procedure e cerimoniali relativi non soltanto alla partecipazione del cardinale alle funzioni religiose, ma anche alle riunioni delle congregazioni, alle «visite» da farsi o da ricevere, con la loro rigidissima etichetta e il loro rigoroso ordine delle precedenze. L’ufficio del maestro di camera, chiamato a regolare l’avvicendarsi di gentiluomini, camerieri, paggi, scudieri e palafrenieri, a controllarne l’abbigliamento e il linguaggio, le buone maniere e la perfetta esecuzione delle mansioni loro assegnate, e a sorvegliare l’esatta osservanza dell’etichetta è divenuto nel corso degli anni uno dei più delicati e importanti della corte, poiché l’autorità e il prestigio del cardinale erano fortemente accentuati dal rituale che accompagnava ogni suo atto pubblico e privato[186]. Nel corso di poco più di un secolo la corte cardinalizia è stata, quindi, sottoposta a una profonda trasformazione: da un insieme appena abbozzato è venuta articolandosi in settori ben definiti, all’interno dei quali la ripartizione dei compiti e dei ruoli è precisata fin nei minimi particolari e si è imposto un sempre più elevato grado di specializzazione. La trattatistica, nelle sue varie diramazioni, ha registrato, sia pure con ritardo, queste trasformazioni, le ha codificate e ha proposto e divulgato un modello di corte e di cortigiano in cui «civiltà» e «esperienza» si compenetrano e s’intrecciano. E che si tratti di una proposta unitaria, di un progetto coerente di incivilimento e di professionalizzazione che coinvolge ogni settore e ogni aspetto della vita di corte lo dimostrano non soltanto i frequenti richiami interni da un trattato all’altro[187], ma anche la scelta di alcuni autori, come Evitascandalo, di trattare separatamente più di un ufficio (maestro di casa, scalco e trinciante) o di alcune corti, come quella del cardinale Niccolò Ridolfi, di fornire, attraverso Francesco Priscianese e Domenico Romoli, un ideale di corte e di scalco, o quelle dei cardinali di casa Aldobrandini, i quali a opera del Sigismondi, del Lancellotti e del Lunadoro, contribuiscono alla regolamentazione della conduzione della casa del porporato e del ruolo dello scalco, nonché a un aggiornamento del cerimoniale romano. Ma accanto alla compattezza e alla coerenza di questa produzione – caratteristiche che l’utilizzazione fin qui frammentaria che ne è stata fatta non ha potuto evidenziare – deve essere sottolineato il suo carattere per così dire «cosmopolita». Nelle regole e norme che avrebbero plasmato il cortigiano «romano» e nel contempo il cortigiano del «Signore supremo» erano confluite esperienze, consuetudini, tradizioni di tutta Europa. Frequenti sono, infatti, i riferimenti a usi e costumi stranieri – da imitare o da rifiutare – che gli autori di questi manualetti avevano potuto osservare direttamente durante i soggiorni presso le corti europee al seguito del loro cardinale[188]. Domenico Romoli, ad esempio, dichiara esplicitamente le sue preferenze per gli usi francesi e introduce nel trattato dedicato allo scalco conviti nobili «alla francese»[189], pur ammettendo il predominio «in questo servitio di tavola di questi Reverendissimi Cardinali» delle «cerimonie spagnuole»[190], ma non manca di suggerire per i banchetti nuziali di attenersi all’uso fiorentino che, diversamente da quello romano, prevede che donne e uomini siano seduti alla stessa tavola [191]. Cesare Evitascandalo – che era stato negli anni Settanta del Cinquecento maestro di casa dell’ambasciatore imperiale a Venezia e che si vantava di aver «veduto del mondo assai» – tratta, nell’opera sullo scalco, «del servire alla tedesca»[192]. Dal canto suo, Antonio Frugoli scrive la Pratica e scalcaria su suggerimento di amici spagnoli e descrive vari banchetti da lui organizzati a Madrid[193], mentre nel Discorso sopra l’Officio del trinciante non esita a proporre fin dal titolo della sua opera menu «all’Alemanna, & [...] alla Polacca»[194]. Attraverso questo processo di osmosi e assimilazione di consuetudini e tradizioni «romane» e papali, di usi e costumi che i cardinali di famiglie dinastiche importavano dalle corti di provenienza, di rituali e etichette di corti con le quali gli autori erano venuti a contatto nei frequenti spostamenti dei loro padroni attraverso l’Europa, veniva, quindi, proposto un modello di organizzazione della vita cortigiana facilmente esportabile fuori di Roma. Né è questa l’unica caratteristica che spiega il numero particolarmente elevato di edizioni e ristampe in piccolo formato di questi manuali e i riferimenti degli stampatori al loro straordinario successo[195], nonché la loro diffusissima presenza nelle biblioteche italiane e straniere. Già all’inizio del Seicento, questi prontuari, nati all’interno della corte del cardinale, alla quale erano originariamente, esplicitamente e prevalentemente rivolti, tendono a dilatare i confini della loro diffusione presentandosi fin dal titolo come idonei strumenti per la «Casa di qual si voglia Principe», per «ogni gran casa», per «qualsivoglia Corte, e casa privata», come manualetti utili ai «padri di famiglia», «ad ogni altra qualità di persone private», a «persone ordinarie»[196]. La rivendicazione della duplice valenza del modello e della sua esportabilità al di fuori del palazzo cardinalizio [197] non è suggerita soltanto da ragioni commerciali, ma dalle caratteristiche stesse del modello. Oltre al carattere «cosmopolita», la trattatistica ha il pregio di contenere le dimensioni della corte entro limiti largamente superati dalla realtà [198] e di offrire, mediante la possibilità di sopprimere uffici non strettamente essenziali o mediante l’accorpamento di uffici compatibili, un modello ‘medio’ e flessibile, facilmente adattabile. Altri fattori possono aver facilitato l’utilizzazione di questi manualetti al di fuori degli ambienti ecclesiastici: la dichiarata avversione nei confronti del reclutamento di chierici per il servizio della corte e, se si eccettua il Dialogo del maestro di casa di Cesare Evitascandalo, l’impalpabile spessore religioso[199]. È, quindi, ragionevole concludere che, lungi dall’essere una «regione chiusa», secondo la definizione che Sergio Bertelli ha dato delle corti italiane del Rinascimento[200], la corte cardinalizia si prefigge di svolgere una funzione civilizzatrice non diversa da quella attribuita da Norbert Elias alla corte di Versailles[201], proiettando al suo esterno, anche attraverso la stampa, un modello di vita cortigiana e proponendolo non solo al principe secolare, ma anche, con i debiti adattamenti, alla «casa privata». Nel solco di un’antica tradizione medievale, che aveva visto il clero secolare e, soprattutto, il clero regolare impegnati nel processo di civilizzazione dei ceti guerriero-cavallereschi – tradizione che è stata recentemente illustrata e rivalutata da Daniela Romagnoli e Dilwyn Knox[202] – la corte cardinalizia appare, infatti, non solo come codificatrice di norme comportamentali, igienico-sanitarie e professionali che investono ogni aspetto della sfera domestica, ma anche come divulgatrice di quelle norme. Occorrerà, ovviamente, vagliare l’incidenza di questi prontuari sia sulla conduzione della «casa privata» [203] che sull’organizzazione di corti secolari per poter valutare l’effettivo contributo di questa letteratura al processo di civilizzazione. Tuttavia, al di là della circolazione di questi testi e della loro eventuale influenza, potrebbe rivelarsi utile individuare tracce del modello ‘romano’ in quelle corti in cui regnarono sovrani provenienti dalle file del collegio cardinalizio – come quelle di Ferdinando de’ Medici[204], Ferdinando Gonzaga e Rinaldo d’Este – o in quelle in cui cardinali svolsero un ruolo di primo piano. In tal senso non sarà inutile osservare che nel Testamento politico il cardinale Richelieu con parole sferzanti ricordava a Luigi XIII che nessun sovrano aveva «laissé ravaller si bas le lustre de sa Maison» e illustrava, scendendo nei più minuti particolari, il dérèglement della Casa reale, dove «toutes choses y ont été en confusion depuis la Cuisine jusqu’au Cabinet», dove «simples et sales marmitons» servivano alla tavola del sovrano, dove infine, accanto a un’intollerabile sporcizia, regnavano solo bassesse e désordres. I principi che egli dettava per la regolata conduzione della Maison du Roi erano quelli [12] Ivi, pp. 83-126. [13] B. McClung Hallman, Italian Cardinals, Reform and the Church as Property, 1492-1563, Berkeley, University of California Press, 1985, pp. 98-110 e P. Partner, The Pope’s Men. The Papal Civil Service in the Renaissance, Oxford, Clarendon Press, 1990, pp. 154-158. [14] H. Jedin, Proposte e progetti di riforma del collegio cardinalizio, in Id., Chiesa della fede. Chiesa della storia. Saggi scelti, Brescia, Morcelliana, 1972, pp. 156-192. [15] G. Fragnito, ‘Parenti’ e ‘familiari’ nelle corti cardinazie del Rinascimento, in ‘Familia’ del principe, cit., pp. 565-587. [16] R. Haubst, Der Reformentwurf Pius des Zweiten, «Römische Quartalschrift», 49, 1954, pp. 188- 242, in particolare p. 213. [17] Fragnito, ‘Parenti’ e ‘familiari’, cit., pp. 570-571 e per la lista dei privilegi ed esenzioni p. 583, n. 42. Cfr. anche T. Frenz, Die Kanzlei der Päpste der Hochrenaissance (1471-1527), Tübingen, Max Niemeyer, 1986, p. 115. [18] Sulla venalità degli uffici cfr. P. Partner, Papal Financial Policy in the Renaissance and Counter- Reformation, «Past and Present», 88, 1980, pp. 21-25 e M. Rosa La ‘scarsella di Nostro Signore’: aspetti della fiscalità spirituale pontificia nell’età moderna, «Società e storia», 38, 1987, pp. 824- 830. Si veda, peraltro, Jedin, Proposte e progetti di riforma del collegio cardinalizio, cit., p. 170, il quale ritiene che la fissazione del numero dei ‘familiari’ fosse dettata da esigenze riformatrici. [19] Francesco Vettori a Niccolò Machiavelli, Roma 30 marzo 1513, in Niccolò Machiavelli, Lettere, a cura di F. Gaeta, vol. II, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 236. [20] Bullarium Romanum, vol. V, Augustae Taurinorum, S. Franco et H. Dalmazzo, 1860, pp. 690- 691. [21] Fragnito, ‘Parenti’ e ‘familiari’, cit., pp. 582-583. Pietro Bembo scriveva a Vittore Soranzo, Padova 22 febbraio 1532: «Perché messer Avila mi ha detto che lo essere uno lontano dalla corte scritto in rotolo nulla giova, non vorrei che senza mio pro vi toglieste il modo d’accomodar un servitor vostro. Perciocché in corte si suole trovar servitori che si contentano solo di questa mercede, dico dello essere in rotolo e poter espedir gratis» (Lettere inedite del Card. Pietro Bembo e di altri scrittori del secolo XVI, tratte da’ codici vaticani e barberiniani, a cura di G. Spezi, Roma, Tipografia delle Scienze Matematiche e Fisiche, 1862, p. 11). [22] Nel 1531 Clemente VII modificò le regole della Cancelleria escludendo dalla spedizione gratuita delle bolle papali coloro che, pur registrati nel ruolo papale, non risiedevano in curia, secondo quanto Carlo Gualteruzzi scriveva a Cosimo Gheri, vescovo di Fano, da Roma il 28 marzo 1531: «Non fa bisogno pensare all’ispedir gratis percioché, anchora che Vostra Signoria fosse nel rotolo et vi havesse la famiglia intera intera, essendo absente non potrebbe haver il gratis per nuova riforma fatta in Cancelleria, sì come ho havuto in fatto nell’espeditione di Monsignor Bembo il quale è, come si sa da tutti, nel rotolo buona pezza e né per tutto ciò li hanno havuto alcun risguardo» (PBP, Ms. Pal. 1020/1). Sembra, inoltre, che sia stato progressivamente ridotto il numero dei familiari dei cardinali aventi diritto alla spedizione gratuita delle bolle accolti nel ruolo papale destinato alla Cancelleria. Sul ruolo di Giulio III del 20 dicembre 1551 sono registrati 19 cardinali con 12 familiari ciascuno (BAV, Ruoli 11), mentre su quello dell’agosto del 1556 di Paolo IV sono registrati 7 cardinali con 8 familiari ciascuno (BAV, Vat. lat. 15046: Familiarium S.mi D.N.D. Pauli Papae IIII ad expediendum gratis in Cancelleria). La lettera con cui Paolo IV inoltrava il ruolo alla Cancelleria accordava, peraltro, ampie facoltà al maggiordomo di modificarlo. Ciò consentiva un certo avvicendamento dei familiari. [23] Giovanni Pontano, I trattati delle virtù sociali, a cura di F. Tateo, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1965 e Paolo Cortesi, De cardinalatu, Castro Cortesio, Symeon Nicholaus Nardus, 1510. [24] Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. Alberigo, G.A. Dossetti, P.P. Joannou, C. Leonardi e P. Prodi, Bologna, Istituto per le scienze religiose, 1973, pp. 618-619. [25] Concilium Tridentinum. Diariorum, Actorum, Epistularum, Tractatuum nova collectio, vol. XII, Friburgi Brisgoviae, Herder 1966, pp. 143-144. La bolla di riforma non promulgata di Giulio III si limitava a raccomandare ai cardinali «ut domum suam ac familiam suam bene disponant ac regant» (ivi, vol. 13/1, p. 292). [26] Conciliorum Oecumenicorum Decreta, cit., pp. 784-785 e J. Birkner, Das Konzil von Trient und die Reform des Kardinalkollegiums unter Pius IV, «Historisches Jahrbuch», 52, 1932, pp. 340-355. [27] Bullarium Romanum, vol. VIII, Augustae Taurinorum, S. Franco et H. Dalmazzo, 1882, pp. 808- 816. [28] Chambers, The Economic Predicament, cit., p. 294 e Paolo Giustiniani e Pietro Querini, Libellus ad Leonem X. Pontificem Maximum, in Giovan Benedetto Mittarelli e Anselmo Costadoni, Annales Camaldulenses, vol. IX, Venetiis, aere monasterii S. Michaelis de Muriano, 1773, col. 695. [29] Sulle capitolazioni elettorali si veda J.A.F. Thomson, Popes and Princes 1417-1517. Politics in the Late Medieval Church, London, George Allen & Unwin, 1980, pp. 57-77. [30] Conciliorum Oecumenicorum Decreta, cit., p. 629: Regimini universalis ecclesiae, 4 maggio 1515. Sull’atteggiamento della Chiesa nei confronti del nepotismo cardinalizio cfr. Fragnito, ‘Parenti’ e ‘familiari’, cit., pp. 574-576. Sugli aspetti antropologici e sociologici del nepotismo si veda W. Reinhard, Nepotismus. Der Funktionswandel einer papstgeschichtlichen Konstanten, «Zeitschrift für Kirchengeschichte», 86, 1975, pp. 145-185. [31] Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Albèri, serie II, vol. IV, Firenze, Società editrice fiorentina, 1857, pp. 413-414. Sulla crisi d’autorità del sacro collegio si veda P. Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), vol. II, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1967, pp. 165-207. Più in generale sui cardinali del Rinascimento e della Controriforma si vedano: A.V. Antonovics, Counter-Reformation Cardinals: 1534-1590, «European Studies Review», 2, 1972, pp. 301-327: D. Hay, The Renaissance Cardinals: Church, State, Culture, «Synthesis», 3, 1976, pp. 35-46 e Id., La Chiesa nell’Italia rinascimentale, Roma-Bari, Laterza, 1979, pp. 45-81 e 202; W. Reinhard, Struttura e significato del Sacro Collegio tra la fine del XV e la fine del XVI secolo, in Città italiane del ’500 tra Riforma e Controriforma, Lucca, Pacini Fazzi, 1988, pp. 257- 265, e M. Firpo, Il cardinale, in L’uomo del Rinascimento, a cura di E. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 73-131. [32] Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), cit., pp. 479-526. [33] Ludovico Ceresola a Bartolomeo Concini, Roma 5 luglio 1568: «Et perché i detti Maestri di strada havevano commandato non si gettassero in fiumme le immonditie, non essendo obediti, anzi havendo il Maestro di casa di san Clemente fatto al mondizzar suo un non molestetur ha voluto Sua Santità che per Concistoro passi l’interditto. La qual cosa dispiace a molti, allegando che troppo si avvilisse il Concistoro a interessarlo in materie et considerationi tanto basse» (ASF, Med. 537/2, f. 453rv). [34] Ludovico Ceresola a Bartolomeo Concini, Roma 4 giugno 1568 (ivi, Med. 537, ff. 39v-40r). La diminuita importanza del concistoro è documentata anche dalla trattatistica cinquecentesca sul cardinalato. Mentre Paolo Cortesi nel De cardinalatu consacra molto spazio alle attività concistoriali, Giovanni Girolamo Albani, Girolamo Manfredi, Fabio Albergati e Giovanni Botero vi si soffermano appena. Si veda N. Pellegrino, Nascita di una ‘burocrazia’: il cardinale nella trattatistica del XVI secolo, in «Familia» del principe, cit., pp. 631-677, in particolare p. 640. [35] G. Fragnito, Vescovi e cardinali fra Chiesa e potere politico, «Società e storia», 41, 1988, pp. 641-653. [36] Giovanni Dolfin, ambasciatore veneziano, relazione al Senato del 1598: «Questi a Roma sono adorati per idoli in apparenza, ma in essenza, mentre obbediscono per fini privati al cenno del Papa e non hanno alcuna parte al mondo nei negozi ed affari di momento che si trattano, non mi pare che lo stato loro meriti tanta estimazione né tanta invidia» (Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, cit., serie II, vol. IV, pp. 478-479). In quello stesso anno Fabio Albergati pubblicò il Del cardinale e il suo ritratto ideale coincide con l’immagine che emerge dalle relazioni degli ambasciatori veneziani: «Come al superiore conviene far grazie e negarle comunque gli piace, così l’inferiore, accettando in bene ogni risoluzione, deve reputar le negative onorate e gloriose, quando gli siano date [...] ma acquetarsi come cardinale al volere del papa come di suo signore» (citato da Pellegrino, Nascita di una ‘burocrazia’, cit., p. 655). [37] Nel 1553 Giovanni Francesco Commendone osservava a proposito dei poteri che la congregazione del Sant’Ufficio stava acquistando sotto il debole Giulio III: «Parmi ch’ora avvenga quello che avvenne già ai Censori della Repubblica Romana, che fatti per un officio particolare [56] Girolamo Soranzo, ambasciatore veneziano, notava nel 1563: «Sono i cardinali al presente 58, numero per dir il vero, assai maggiore di quello soleva essere per il passato: dal che nasce non poca diminuzione della dignità loro, essendone dei molto poveri, che mancano di gran parte di quelle cose che sono necessarie a sostentar quel grado» (Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, cit., serie II, vol. IV, p. 96). Sui problemi economici dei cardinali cfr. Chambers, The Economic Predicament, cit., pp. 289-313; M. Rosa, Curia romana e pensioni ecclesiastiche, secoli XVI-XVIII, «Quaderni storici», 14, 1979, pp. 1028-1036; W. Reinhard, Kardinalseinkünfte und Kirchenreform, «Römische Quartalschrift», 76, 1982, pp. 157-194; E. Stumpo, Il capitale finanziario a Roma fra Cinque e Seicento. Contributo alla fiscalità pontificia in età moderna (1570-1660), Milano, Giuffrè, 1985, pp. 203-212 e Reinhard, Struttura e significato, cit., pp. 260-263. Sugli aiuti degli Este e dei Gonzaga ai loro cardinali cfr. Delumeau, Vie économique et sociale de Rome, cit., vol. I, pp. 449-457. [57] Jacopo Sadoleto al cardinale Alessandro Farnese, Carpentras 19 dicembre 1544 (BAV, Chigi II.R.54, f. 292rv). Il cardinale Ferdinando Gonzaga scriveva al padre, il duca Vincenzo, Mantova 8 aprile 1611: «Non si può viver in Roma per un par mio con manco di scuti 36.000. Sono 3.000 al mese, con la famiglia che tengo, pigion di casa, stalla et straordinarii; a ciò dunque possa viver conforme si richiede alla mia nascita in cospetto del mondo, bisogna o soldarmi [...] o darmi licentia che io me stia asente dalla Corte» (Chambers, The ‘Bellissimo Ingegno’, cit., p. 133). [58] Ugolino Grifoni a Francesco de’ Medici, Roma 19 gennaio 1569, riferisce che il cardinale di Perugia «ha discorso molte cose meco, ma particularmente che i Cardinali poveri non ci possano stare, essendo care tutte le grascie, salvo che il pane, ne a questo si pensa di provedere, non bastando l’animo di parlar di cose fastidiose a Sua Santità. Et a questo proposito il cardinale de Monte, aloggiato con Montepulciano, mi disse che non sapea in che modo soccorrere a bisogni sua, ritenendolo Sua Beatitudine in Roma, perché spendeva tre volte più che in Fiorenza» (ASF, Med. 533, f. 434v). [59] Vedi rispettivamente ASF, Med. 616/20, ff. 315r-316v e f. 399r. Leopoldo de’ Medici, fratello di Ferdinando II, da principe laico intratteneva una familia di 72 membri, che salirono a 158 dopo l’elevazione al cardinalato nel 1667 (A. Manikowski, Cardinal Leopoldo de’ Medici, lezione tenuta all’Istituto Universitario Europeo, Firenze 6 febbraio 1985). [60] François Rabelais a Geoffroy d’Estissac, Roma 15 febbraio 1536 (Lettres écrites d’Italie par François Rabelais, Décembre 1535-Février 1536, nouvelle édition critique, avec une introduction, des notes et un appendice par V.-L. Bourrilly, Paris, Honoré Champion, 1910, pp. 79-80). [61] Ugolino Grifoni a Francesco de’ Medici, Roma 9 aprile 1565: il cardinale Giovanni Antonio Capizucchi gli aveva detto che «doppo la partita sua per el Vescovado [di Lodi], Sua Santità in cambio d’aiutarlo di qualche sovventione, gli levassi la istessa provisione delli scudi 100 che soleva darli il mese» (ASF, Med. 515, f. 150r). [62] Alla vigilia della morte di Pio IV furono distribuiti 12.000 scudi tra i suoi familiari e 25.000 ai cardinali «poveri» «per poter entrare in conclave». Inoltre, il cardinale Altemps rinunciò a favore dei cardinali «poveri» una pensione di 10.000 scudi sulle chiese di Ravenna e Bologna che il papa aveva assegnato a lui e al cardinale Borromeo (lettera di Francesco Babbi al cardinale Ferdinando de’ Medici, Roma 8 dicembre 1565, ASF, Med. 5096, f. 287r). Il neo-eletto Pio V si disse deciso a «ridurre i cardinali poveri in palazzo et darli le spese che dicono essere 28 [...] Alli conclavisti ha donato 10.000 scudi et alli cardinali poveri 500 per uno et a Morono mille» (lettera di Ludovico Beccadelli a Giovanni Gondola, Prato 24 gennaio 1566, PBP, Ms. Pal. 1017/1, f. 12r). Le difficoltà economiche dei cardinali erano state aggravate dalla creazione di 23 cardinali nel 1565. Sulla finanza pontificia durante il pontificato di Pio IV vedi M. Caravale e A. Caracciolo, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX, Torino, Utet, 1978, pp. 314-316. [63] Ugolino Grifoni a Francesco de’ Medici, Roma 9 aprile 1565 (ASF, Med. 515, f. 150r). [64] Delumeau, Vie économique et sociale de Rome, cit., vol. I, pp. 449-450 e Antonovics, Counter- Reformation Cardinals: 1534-1590, cit., pp. 324-326. [65] Bentivoglio, Memorie e lettere, cit., p. 57: «Il sacro collegio de’ cardinali non è un ordine monacale, che faccia la vita fra i dormitori e stia rinchiuso continuamente fra i claustri. Entra in esso per ordinario il sangue de’ re, il sangue degli altri prencipi, il sangue più illustre o la virtù più elevata d’ogni nazione». [66] Ivi, p. 68. [67] Sull’ascesa al cardinalato come conclusione di una carriera amministrativa sia della curia che dello Stato pontificio valgano le riserve di Partner, The Pope’s Men, cit., pp. 35-37, per il quale si può parlare solo di tendenza, dal momento che ancora tra il 1593-1667 solo il 59% dei cardinali avevano una carriera dietro le spalle (contro il 23% nel periodo avignonese e il 39% nel periodo 1417-1527). Peraltro, le funzioni svolte, ad esempio, da Ferdinando Gonzaga (1607-1612) come membro di varie congregazioni indicano che anche a chi entrava a fare parte del sacro collegio in virtù della sua provenienza da una famiglia regnante e non per meriti di carriera venivano affidate le stesse incombenze attribuite a quelli di estrazione ‘burocratica’. Basti leggere il resoconto delle giornate del cardinale inviato alla duchessa Eleonora dal segretario del cardinale, Spinello Benci, il 15 gennaio 1611: «Mercordì mattina Sua Signoria Ill.ma andò a Concistorio, et nell’Audienza ch’ebbe da Nostro Signore referì a Sua Beatitudine la causa delle reliquie di Messina, commessali dalla Congregatione de’ Riti [...] Giovedì mattina non uscì di casa, havendo preso per instituto ogni mattina a grand’hora attendere a studiare le cause et negotii delle Congregationi et altre materie legali [...] Venerdì mattina fu alla Congregatione de’ Vescovi che fu molto longa [...] Sabbato mattina è stato alla Congregatione del Concilio». (Cfr. Chambers, The ‘Bellissimo Ingegno’, cit., p. 127). Occorre, quindi, per cogliere le profonde modifiche del ruolo del cardinale, non fermarsi alla soglia del cardinalato. Su questi problemi cfr. M. Rosa, Nobiltà e carriera nelle «Memorie» di due cardinali della Controriforma: Scipione Gonzaga e Guido Bentivoglio, in Signori, patrizi, cavalieri nell’età moderna, a cura di M.A. Visceglia, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 231-255. [68] Bentivoglio, Memorie e lettere, cit., p. 58. [69] Ivi, p. 48. [70] Ivi, p. 98. Questa trasformazione del concetto di magnificenza dal mecenatismo artistico e letterario a pie manifestazioni di carità è evidenziata anche da Girolamo Manfredi, De perfecto cardinale S.R. Ecclesiae liber, pubblicato nel 1584 (cfr. Pellegrino, Nascita di una ‘burocrazia’, cit., p. 650). Un esempio illuminante di progressivo spostamento dal mecenatismo di opere d’arte profana a quello di opere d’arte sacra all’indomani della chiusura del Tridentino è offerto dal cardinale Alessandro Farnese. Cfr. C. Roberton, ‘Il Gran Cardinale’. Alessandro Farnese, Patron of the Arts, New Haven-London, Yale University Press, 1992. [71] Chambers, The Economic Predicament, cit., pp. 303-304 e Delumeau, Vie économique et sociale de Rome, cit., vol. I, p. 435. [72] Antonovics, Counter-Reformation Cardinals: 1534-1590, cit., pp. 323-324. [73] H. Jedin e G. Alberigo, Il tipo ideale di vescovo secondo la Riforma cattolica, Brescia, Morcelliana, 1985, p. 165. Sulla non contraddittoria scelta di vita privata ispirata a rigorismo ascetico e di pubblico splendore si vedano le osservazioni di F. Bologna, L’incredulità di Caravaggio e l’esperienza delle «cose naturali», Torino, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 116-119. [74] Per il Consilium vedi Concilium Tridentinum. Diariorum, Actorum, Epistularum, Tractatuum nova collectio, vol. XII, Friburgi Brisgoviae, Herder, 1966, p. 139, e per le proposte tridentine J. Šusta, Die Römische Curie und das Konzil von Trient unter Pius IV, vol. II, Wien, Alfred Hölder, 1909, p. 120. [75] Delumeau, Vie économique et sociale de Rome, cit., vol. II, p. 118. [76] Nell’aprile del 1562, al concilio, i padri spagnoli richiesero per i cardinali «certos et aequales redditus ex patrimonio Sancti Petri» (Concilium Tridentinum, cit., vol. I, 1938, pp. 624-625). [77] Chambers, The Economie Predicament, cit., pp. 294-295. [78] Delumeau, Vie économique et sociale de Rome, cit., vol. I, pp. 450-453. Nel 1500 quaranta cardinali totalizzavano 343.000 ducati di rendita annua, in un’epoca in cui il tesoro pontificio non arrivava forse a 300.000. Sull’entità delle entrate ecclesiastiche, derivanti da benefici situati fuori dello Stato pontificio, che venivano trasferite a Roma si veda W. Reinhard, Finanza pontificia, sistema beneficiale e finanza statale nell’età confessionale, in Fisco religione Stato nell’età confessionale, a cura di H. Kellenbenz e P. Prodi, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 475-504. [79] Rosa, Curia romana e pensioni ecclesiastiche, cit., pp. 1028-1036. È probabile che l’aumento di Cinquecento: le lettere di Ludovico Beccadelli, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 43, 1981, pp. 81-87 (ora in questo volume, pp. 231-265). L’irregolarità della corresponsione dei salari è testimoniata dalla costituzione di Paolo III del 21 aprile 1545, che stabiliva che i familiari non potevano pretendere dagli eredi del cardinale defunto più di due anni di salari arretrati. Vedi Bullarium Romanum, vol. VI, Augustae Taurinorum, S. Franco et H. Dalmazzo, 1860, pp. 377- 378. Non c’è da stupire se alla morte del cardinale i familiari mettevano a sacco la sua casa e s’impossessavano degli «instrumenta et bona per ipsos familiares respective in eorum ministeriis teneri et exerceri solita». Questo abuso, condannato da Pio V con una costituzione del 6 settembre 1566 (ivi, vol. VII, pp. 478-481), veniva ancora denunciato a metà Seicento. Si veda S. Bertelli, Il corpo del re. Sacralità del potere nell’Europa medievale e moderna, Firenze, Ponte alle Grazie, 1990, pp. 54-55. [97] Prosperi, La figura del vescovo fra Quattro e Cinquecento: persistenze, disagi e novità, in La Chiesa e il potere politico, cit., pp. 217-262, Fragnito, Vescovi e cardinali, cit., pp. 641-653, e C. Donati, Vescovi e diocesi d’Italia dall’età post-tridentina alla caduta dell’antico regime, in Clero e società nell’Italia moderna, a cura di M. Rosa, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 329-350. [98] C. Dionisotti, Chierici e laici, in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 42-73; M. Rosa, La Chiesa e gli stati regionali nell’età dell’assolutismo, in Letteratura italiana, vol. 1, Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi, 1982, pp. 257-321, in particolare pp. 295-313; D’Amico, Renaissance Humanism in Papal Rome, cit.; G. Fragnito, In museo e in villa. Saggi sul Rinascimento perduto, Venezia, Arsenale, 1988, pp. 11-108. Vale la pena notare che mentre su 82 chierici letterati, nati tra il 1475 e il 1525, 25 (pari al 32%) erano o divennero vescovi e cardinali, se ne contano solo 15, vale a dire il 13%, sui 115 nati tra il 1551 e il 1625. Vedi in proposito V. De Caprio, Aristocrazia e clero dalla crisi dell’Umanesimo alla controriforma, in Letteratura italiana, vol. II, Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, p. 355. Per l’attrazione esercitata da Roma sui letterati della penisola nel periodo 1450-1550 si veda C. Bec, Lo statuto socio-professionale degli scrittori (Trecento e Cinquecento), ivi, pp. 246-256. [99] Su questi manualetti cfr. G. Fragnito, La trattatistica cinque e seicentesca sulla corte cardinalizia. «Il vero ritratto d’una bellissima e ben governata corte», «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento» 17, 1991, pp. 135-185. [100] Cfr. Cortesi, De cardinalatu, cit., pp. LV-LVIII. [101] Priscianese, Del governo della corte d’un Signore in Roma, cit., pp. 70-71. [102] Ivi, pp. 68-69. [103] Cfr. Cesare Evitascandalo, Dialogo del maestro di casa, nel quale si contiene di quanto il maestro di casa deve essere instruito, et à ciascun’altro che voglia essercitare officio in corte, deve sapere, & operare; utile à tutti i padroni, cortegiani, officiali, & servitori della corte, Appresso Giovanni Martinelli, Roma, 1598, pp. 11-12 e 208-210. È opportuno notare che nell’edizione del 1620 (in Viterbo, Appresso Pietro & Agostino Discepoli, p. 177) la conoscenza delle «buone littere latine» si è contratta in quella della «buona lingua latina». [104] Francesco Liberati, Il perfetto mastro di casa. Distinto in tre libri. I quali contengono una esatta instruttione per l’ufficio di ciascun ministro, e cortegiano di quanto appartiene all’Economia; anche nelle cose minime, e nel conseguire le dignità di Vescovati, protonotari Apostolici, Auditorati di Rota, Chierico di Camera, In Roma, Per il Bernabò, 1668, pp. 35-37. Queste qualificazioni verranno più ampiamente descritte e codificate nella trattatistica tardocinquecentesca e seicentesca sul Segretario, cui le segreterie cardinalizie non mancheranno di dare il loro rilevante contributo, come è stato di recente illustrato da A.C. Fiorato, Grandeur et servitude du secrétaire: du savoir rhétorique à la collaboration politique, in Culture et professions en Italie (XVe- XVIIe siècles), a cura di A.C. Fiorato, Paris, Publications de la Sorbonne, 1989, pp. 133-184. [105] Dell’auditore Cesare Evitascandalo osserva che sarà «di gran sollevamento a un Cardinale, che sarà di due, o tre congregationi, haver uno nel quale possi confidare, e l’aiuti a studiare le cause che si doveranno trattare in quelle»; mentre con il teologo il cardinale discuterà «tutti i negotii d’importanza» e, servendosene «quasi per consigliero [...], tratt[erà] seco di tutte le cose concernenti alla coscienza, occorrendo spesse volte difficoltà theologali, massime in materia delle congregationi, e altre cause importanti che ricercano il giuditio, e zelo d’un buon Theologo» (Evitascandalo, Dialogo del maestro di casa, cit., pp. 235-236 e pp. 190 e 197-198). [106] Girolamo Lunadoro, Relatione della Corte di Roma, e de’ Riti da osservarsi in essa, e de’ suoi Magistrati, e Offitii, con la loro distinta giurisdittione. Dettata, e fatta dal Signor Cavalier Girolamo Lunadoro dell’ordine di Santo Stefano, nobile senese, Roma, Appresso Paulo Frambotto, 1635, pp. 17-22. [107] Si veda soprattutto Sigismondo Sigismondi, Prattica cortigiana morale, et economica. Nella quale si discorre minutamente de’ Ministri che servono in Corte d’un Cardinale, Ferrara, Vittorio Baldini, 1604. [108] Lettera al cardinale de Tencin, 19 aprile 1743, citata da P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 1982, p. 324. Vedi anche R. Ago, Carriere e clientele nella Roma barocca, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 13-44. [109] Bataillon, La chasse aux bénéfices vue de Rome par Juan Paez de Castro, cit., p. 81. [110] Sommario delle Constitutioni della Congregatione Urbana, In Roma, Nella Stamperia della Reverenda Camera Apostolica, 1629, pp. nn. Un esemplare a Parigi, Bibliothèque Mazarine, 13579/13. Sui ss. Giovanni e Paolo i quali preferirono il martirio piuttosto che ubbidire all’ordine di Giuliano l’Apostata di servirlo a corte, cfr. Jacopo da Varagine, Legenda Aurea, vulgo historia Lombardica dicta, a cura di Th. Graesse, Dresdae & Lipsiae, Impensis Libreriae Arnoldinae, 1846, pp. 364-367. [111] In proposito si vedano G. Fragnito, La trattatistica cinque e seicentesca sulla corte cardinalizia. «Il vero ritratto d’una bellissima e ben governata corte», «Annali dell’Istituto storico italo- germanico in Trento», 17, 1991, pp. 135-185 e M. Völkel, Römische Kardinalhaushalte des 17. Jahrhunderts. Borghese-Barberini-Chigi, Tübingen, Max Niemeyer, 1993, pp. 183-206, 323-344. [112] G. Patrizi, «Il libro del Cortegiano» e la trattatistica sul comportamento, in Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, vol. III, Le forme del testo, vol. 2, La prosa, Torino, Einaudi, 1984, p. 881, ma vedi anche pp. 886-890. [113] Su questa evoluzione, cfr. G. Fragnito, Cardinal’s Courts in Sixteenth-Century Rome, «The Journal of Modern History», 65, 1993, pp. 26-56 ed Ead., Le corti cardinalizie nella Roma del Cinquecento, «Rivista storica italiana», 106, 1994, pp. 5-41 (ora in questo volume, pp. 67-105). [114] Cfr. P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 1982. [115] In proposito cfr. Princes, Patronage and the Nobility. The Court at the Beginning of the Modern Age, c. 1450-1650, a cura di R.G. Asch e A.M. Birke, Oxford, University Press, 1991. [116] Della ricchissima bibliografia su queste tematiche ci si limita a segnalare P. Partner, Finanze e urbanistica a Roma. 1420-1623, in La Corte in Europa. Fedeltà, lavori, pratiche di governo, a cura di M. Cattini e M.A. Romani, «Cheiron», 1/2, 1983, pp. 59-71 e Prodi, Il sovrano pontefice, cit., pp. 81-126. [117] Cfr. M. Firpo, Il cardinale, in L’uomo dei Rinascimento, a cura di E. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 73-131. [118] Cfr. O. Brunner, Vita nobiliare e cultura europea, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 240-250 e soprattutto E. Casali, «Economica» e «creanza» cristiana, «Quaderni storici», 41, 1979, pp. 555- 583, e D. Frigo, Il padre di famiglia. Governo della casa e governo civile nella tradizione dell’«economica» tra Cinque e Seicento, Roma, Bulzoni, 1985. [119] Paolo Cortesi, De cardinalatu, in Castro Cortesio, Symeon Nicholaus Nardus, 1510, pp. LV- LVIII. Sul liber oeconomicus si veda G. Fragnito, Le corti cardinalizie nella prima metà del Cinquecento: da Paolo Cortesi a Francesco Priscianese, relazione tenuta al Convegno su Paolo Cortesi e la cultura del suo tempo (San Gimignano, 13-15 giugno 1991), ora in «Miscellanea storica della Valdelsa», 108, 2003, pp. 49-62. [120] Del governo della corte d’un Signore in Roma. Dove si ragiona di tutto quello che al Signore & a suoi Cortigiani si appartiene di fare. Opera non manco bella, che utile, & necessaria, Roma, Per Francesco Priscianese, 1543. L’opera, rarissima, è stata pubblicata a cura di L. Bartolucci, Città di Castello, 1883 (edizione da cui si cita). Nell’edizione apparsa a Roma, per i tipi di Vincenzo Lucrino, senza data, e in cui il dedicatario Cola da Benevento figura come autore, è da ravvisarsi 110-112. Si rinvia in proposito a G. Fragnito, Le loisir lettré à la cour du cardinal (XVIe-XVIIe siècles), in Le loisir lettré à l’âge classique, a cura di M. Fumaroli, P.-J. Salazar e E. Bury, Genève, Librairie Droz, 1996, pp. 131-147. [128] Cfr. Cortesi, De cardinalatu, cit., pp. XXXXIII-XLVIII e LV-LVIII. [129] Cesare Evitascandalo, Dialogo del Maestro di Casa. Nel quale si contiene di quanto il Maestro di casa deve esser’instrutto. Et quanto deve saper ciascun’altro che voglia esercitar l’officio in Corte. Di nuovo la terza volta ristampato, & corretto, con aggiontione de altri officii, & molti documenti, & recordi necessari, come appare nel fine del Libro. Utile a tutti li Padroni, Cortegiani, Officiali, & servitori della Corte; e a qual si voglia Capo, & Padre di Famiglia, In Roma, Appresso Carlo Vullietti, MDCVI, pp. 150-151. [130] Sigismondi, Prattica cortigiana, cit., p. 52. [131] Adami, Il novitiato del maestro di Casa, cit., p. 67. [132] Cfr. Sigismondi, Prattica cortigiana, cit., pp. 102-104. [133] La singolare dottrina di M. Domenico Romoli, soprannominato Panonto, dell’ufficio dello Scalco, in Venetia, per Michele Tramezzino, 1560, c. 14r. In proposito si veda C. Stefani, Cesare Ripa «trinciante»: un letterato alla corte del cardinal Salviati, in Sapere e/è potere. Discipline, dispute e professioni nell’università medievale e moderna, vol. II, Verso un nuovo sistema del sapere, a cura di A. Cristiani, Bologna, Comune di Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1990, pp. 262-263. [134] Priscianese, Del governo della corte, cit., pp. 72, 74, 75, 77. [135] Evitascandalo, Dialogo del Maestro di Casa, cit., pp. 213-214. [136] Cesare Pandini (in realtà di Reale Fusoritto da Narni), Il mastro di casa, In Venetia, Appresso Alessandro de’ Vecchi, 1622, p. 11: «Con questi Gentilhuomini procederà con molta amorevolezza e cortesia, tenendo sempre la gravità che ricerca il suo ufficio». Liberati, Il perfetto mastro di casa, cit., p. 4: il maestro di casa dovrà comandare «con destrezza, e civiltà». [137] Sigismondi, Prattica cortigiana, cit., osserva che il gentiluomo che serve alla «camera» deve «essere assistente quando il Padrone mangia, l’andare matina, e sera co’ lo Scalco alla cucina per portare in tavola la vivanda, il servire alla tavola; lo star sempre scoperto avanti al Padrone, o mangi, o passeggi, faccia qualunque attione, e massime quando egli sta in letto, o nella propria Camera; e moltissime altre creanze necessarie ad un gentil’huomo di Corte, che adesso non è bene di raccontarle tutte, rimettendomi in ciò al Galateo, che le insegna molto diffusamente, senza delle quali sarebbe molto biasimato» (p. 49, il corsivo è mio). Si veda anche Girolamo Catena, Lettere, Primo volume, In Roma, Appresso Iacopo Tomieri, 1589, p. 132. [138] Giovanni Della Casa, Galateo, a cura di G. Barbisi, Venezia, Marsilio, 1991, p. 52. [139] Ivi, p. 65: «Et sappi che in molte città pure delle migliori non si permette per le leggi che il ricco possa gran fatto andare più splendidamente vestito, che non può il povero perciò che a’ poveri pare di ricevere oltraggio quando altri, etiandio pure nel sembiante, dimostri sopra di loro maggioranza. Sì che diligentemente è da guardarsi di non cadere in queste sciocchezze. Né dee l’huomo di sua nobiltà, né de’ suoi honori, né di ricchezza, et molto meno di senno, vantarsi, né i suoi fatti o le prodezze sue o de’ suoi passati molto magnificare, né a ciascuno proposito annoverargli, come molti sogliono fare perciò che pare che egli in ciò significhi di volere o contendere co’ circostanti, se eglino similmente sono o presumono di essere gentili et agiati huomini et valorosi, o di soperchiarli, se egli sono di minor conditione, et quasi rimproverar loro la loro viltà et miseria: la quale cosa sicuramente dispiace». Altrove parlando delle cerimonie Giovanni Della Casa osserva: «Le quali credo che siano state trasportate di Spagna in Italia, ma il nostro terreno le ha male ricevute et poco ci sono allignate, conciosia che questa distintione di nobiltà così a punto a noi è noiosa, e perciò non si dee alcuno far giudice a dicidere chi di noi è più nobile o chi meno» (p. 75). [140] Il Galateo, inoltre, si adattava bene al carattere cosmopolita delle corti cardinalizie con l’insistenza sull’«haver riguardo al paese, dove l’huomo vive, perciò che ogni usanza non è buona in ogni paese» (ivi, p. 71). Sulla presenza degli stranieri cfr. P. Hurtubise, La présence des «étrangers» à la cour de Rome dans la première moitié du XVI e siècle, in Forestieri e stranieri nelle città basso-medievali, Firenze, Salimbeni, 1988, pp. 57-80 e Id., La «familia» del cardinale Giovanni Salviati (1517-1553), in «Familia» del Principe e famiglia aristocratica, a cura di C. Mozzarelli, Roma, Bulzoni, 1988, p. 597. [141] Sulla mobilità sociale a Roma si veda M.A. Visceglia, Burocrazia, mobilità sociale e «patronage» alla Corte di Roma tra Cinque e Seicento. Alcuni aspetti del recente dibattito storiografico e prospettive di ricerca, «Roma moderna e contemporanea», 3, 1995, pp. 11-55. [142] Della Casa, Galateo, p. 46. Occorre anche sottolineare l’importanza che assumono in questa trattatistica altre norme igienico-sanitarie, come la prescrizione relativa al cambio ogni quindici giorni delle lenzuola dei familiari e al frequente cambio della biancheria di tavola. Vedi ad esempio Liberati, Il perfetto mastro di casa, cit., pp. 63 e 118-19. [143] Evitascandalo, Dialogo del Maestro di Casa, cit., pp. 54-55. [144] Sigismondi, Prattica cortigiana, cit., p. 66. Cesare Evitascandalo, Libro dello scalco. Quale insegna quest’honorato servitio, Roma, Appresso Carlo Vullietti, 1609, pp. 5-6: «Con quelli che portano il piatto, o sianosi Gentilhomini, o Paggi si tratti amorevolmente, & al tempo del servitio si comandi loro talmente, che paia più tosto priego, che comandamento, accioché allegramente servino, & obediscono: & doverà con tutti esser amabile, cortese, & piacevole, retto, & sincero in tutte le sue azioni, così dentro, come fuori della corte, & non sdegnarsi praticare con ogni persona che sia da bene». Domenico Romoli, La singolare dottrina dell’officio dello scalco, Venezia, Michele Tramezzino, 1560, c. 2r: «Siate sempre obediente a vostri maggiori, modesto con gli uguali, & piacevole con gli inferiori»; c. 3r: «Conviene che voi siate la istessa politezza, con le mani sempre bianche, & delicate senza scabbia o altre spetie di rogna, dovendo, voi spesso maneggiare le vivande della bocca del vostro signore»; c. 3v, lo spenditore sarà «leccardo, pulito & non porco […], piacevole, cortese, liberale, fedele e sollecito». [145] Liberati, Il perfetto mastro di casa, cit., p. 49. Giovanni Della Casa osserva a proposito del servizio della tavola: «I nobili servitori i quali si esercitono nel servigio della tavola non si debbono per alcuna conditione grattar il capo né altrove dinanzi al loro Signore quando mangia; né porsi le mani in alcuna di quelle parti del corpo, che si cuoprono [...] e deono haverle con ogni diligenza lavate et nette, senza havervi su alcuno segnuzzo di bruttura in parte alcuna» (Della Casa, Galateo, cit., p. 51). [146] Sigismondi, Prattica cortigiana, cit., pp. 98-100 e Romoli, La singolare dottrina dell’officio dello scalco, cit., c. 6v. [147] Manca un’analisi degli interventi pontifici tesi a imporre una maggiore conformità tra funzione cardinalizia e apparenze esteriori. Cesare Evitascandalo nell’edizione del 1606 del Dialogo, p. 114, di fronte all’osservazione del suo interlocutore che per la strada gli accadeva di non riconoscere un cardinale, dichiarava: «È vero per il passato, ma da puochi mesi in qua la Sacra Congregatione de Riti ha ordinato che li Cardinali vestino l’habito di Cardinale nel ricevere, & render visite; nell’audienza che danno in casa, & anco quando escono di essa, & vanno per la Città, cioè che portino la sottana, mozzetta, & mantelletto di color Rosso, o Pavonazzo, secondo li tempi, & giornate che correno». Si tratta del decreto, emanato il 30 agosto 1602, De varietate et usu vestium s.mi D.N. Papae et RR.morum DD. S.R.E. Card.lium per totum annum et de quibusdam aliis scitu dignis, quae ad Ecclesias, Titulos, & Diaconis, eorumdem Reverendissimorum DD. Cardinalim & Cappellas ordinarias, quae per annum in Urbe fiunt pertinent […] A Clemente Papa VIII Fe: Re: & Sacra Rituum Congregatione approbatis, Romae, Ex typographia R. Camerae Apostolicae, 1605. Si veda anche la traduzione italiana di Michele Lonigo, Del uso delle vesti de gl’illustrissimi et reverendissimi signori cardinali, Venetia, Evangelista Deuchino, 1623. [148] A questo proposito Evitascandalo, nel trattare delle mansioni del medico di corte, dichiara che i membri della corte verranno curati a spese del cardinale, salvo che prendano medicinali, come le purghe, per capriccio, e purché non siano affetti da «mal Franzese, che però il Medico per occasion tale, non doverà fargli ricetta a spese del Principe, né il Maestro di casa passarla». Anche Adami, Il novitiato del maestro di Casa, cit., pp. 182-183, ribadisce: «Che quelli Servitori, che per propria uso pigliano robba, o per purgarsi, o medicarsi, per haver preso male per piaceri illeciti, non fiano obligati gli Padroni a pagare cosa alcuna, né dare aiuto di vitto». [149] Si veda in proposito il resoconto delle attività di un cardinale agli inizi del Seicento in D.S. Chambers, The «Bellissimo Ingegno» of Ferdinando Gonzaga (1587-1626), Cardinal and Duke of culturale della sua servitù: «Sia sempre lodato il glorioso nome d’Ercole Gonzaga, cardinale di Mantova, il quale voleva che i giovani suoi scudieri ogni giorno in quelle ore che avanzavano dalla servitù della sua persona, entrassero in cancellaria e pigliassero per mano de’ secretari delle fatiche, con le quali scrivendo, apprendevano non meno la bella forma de’ caratteri che la politezza dello stile e de’ concetti. Nelle quali parti esso signore così trapassava il valore d’ogni eccellente secretario, come non cedeva di dottrina, di religione e d’essemplar vita a qual altro si fosse in quel sacro Collegio» (p. 215). Gabriele Zinano, Il segretario. Diviso in Libri Sette, dove si dimostra l’arte di maneggiare tutti i negotii, sì di Stato, come di tutti gli altri affari. Co’l mezzo di lettere, scritte con decoro, varietà, e giuditio, In Venetia, Appresso Giovanni Guerigli, 1625: «In Roma si son veduti Segretarij divenir Signori de’ lor Signori» (c. 8). [164] Giovanni Francesco Commendone, Discorso sopra la corte di Roma, a cura di C. Mozzarelli, Roma, Bulzoni, 1996, p. 84. [165] Liberati, Il perfetto mastro di casa, cit., pp. 35-37. Ma vedi anche Evitascandalo, Dialogo del Maestro di Casa, cit., [1598], p. 209 (e [1603-1606], p. 129): «Carico di molto honore, e d’importanza»; «È uno delli principali officij della corte, che a mio tempo tutti li Pontefici, che son vivuti qualche tempo, hanno riconosciuto honoratamente li loro Secretarij»; e Sigismondi, Prattica cortigiana, cit., p. 44: «Il Secretario nelle corti suol essere per lo più beneficiato sopra ogni altro Cortigiano». [166] Cfr. C. Dionisotti, Chierici e laici, in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1977 (I ed. 1967), pp. 55-88 e G. Fragnito, In museo e in villa. Saggi sul Rinascimento perduto, Venezia, Arsenale, 1988, pp. 29-64. [167] Si veda la dedica al cardinale Scipione Borghese di Lelio Guidiccioni, Roma 25 luglio 1627, delle Lettere del Sig. Card. Lanfranco Margotti. Scritte per lo più nei tempi di Papa Paolo V, a nome del Sig. Cardinal Borghese, In Roma, Nella Stamperia della Reverenda Camera Apostolica, 1627. Illuminante in tal senso il giudizio del cardinale Guido Bentivoglio su Erminio Valenti e sul Margotti, segretari dei nipoti di Clemente VIII, Pietro Aldobrandini e Cinzio Passeri Aldobrandini: «L’uno e l’altro era di condizione tanto bassa e ordinaria, che l’oscurità del sangue lasciava quasi anco non meno oscuri i vocaboli della patria. Da giovani si erano applicati l’uno e l’altro alla segretaria, la quale in tutte le corti, ma specialmente in questa di Roma, suole essere una delle strade che più felicemente conduce alle più alte fortune. In essi non concorreva gran fondamento di lettere, in modo che si poteva dire che fussero amendue segretari di pratica molto più che di studio [...] sì a questo come a quello mancava ogni vantaggio dell’arte, e spesso ancora la necessaria cognizione in materia di lingua per comporre toscanamente secondo le buone regole. Con tutto ciò erano soggetti l’uno e l’altro di molta stima, e in questi due si può dire che unitamente concorressero insieme le virtù e la fortuna in portarli al cardinalato» (Guido Bentivoglio, Memorie e lettere, a cura di C. Panigada, Bari, Laterza, 1934, pp. 113-114). [168] Sulle ripercussioni che cerimoniale ed etichetta hanno avuto sulla struttura architettonica dei palazzi romani del Seicento, cfr. P. Waddy, Seventeenth-Century Roman Palaces. Use and the Art of the Plan, New York-Cambridge, The Architectural History Foundation and the Massachusetts Institute of Technology, 1990. [169] Prodi, Il sovrano pontefice, cit., p. 99. [170] Sigismondi, Prattica cortigiana, cit., p. 27. [171] Cfr. Evitascandalo, Dialogo del Maestro di Casa, cit., p. 3 e Liberati, Il perfetto mastro di casa, cit., p. 4. [172] Si vedano E. Faccioli, Arte della cucina. Libri di ricette, testi sopra lo scalco, il trinciante e i vini dal secolo XIV al XIX, Milano, Edizioni del Polifilo, 1966; Id., La cucina, in Storia d’Italia, vol. V/1, I documenti, Torino, Einaudi, 1973, pp. 983-994; L. Firpo, Gastronomia del Rinascimento, Torino, Utet, 1974; A. Girard, Du manuscrit à l’imprimé: le livre de cuisine en Europe aux 15e et 16e sieclès, in Pratiques et discours alimentaires à la Renaissance, a cura di J.-C. Margolin e R. Sauzet, Paris, Maisonneuve et Larose, 1982, pp. 107-117; C. Grottanelli, Cibo, istinto, divieti, e E. Acanfora, La tavola, in Rituale, cerimoniale, etichetta, a cura di S. Bertelli e G. Crifò, Milano, Bompiani, 1985, pp. 31-66; E. Acanfora e M. Fantoni, Vita di Cortigiano, in Le corti italiane del Rinascimento, a cura di S. Bertelli, F. Cardini e E. Garbero Zorzi, Milano, Mondadori, 1985, pp. 189-201; M. Jeanneret, Des mets et des mots. Banquets et propos de table à la Renaissance, Paris, Librairie José Corti, 1987, pp. 39-60; J.-F. Revel, Un festin en paroles. Histoire littéraire de la sensibilité gastronomique de l’Antiquité à nos jours, Paris, Plon, 1995 (il quale ignora, peraltro, il contributo italiano). [173] Francesco Colle, Refugio de povero gentilhuomo, Ferrara 1520, prima opera in cui appare un capitolo sull’arte del trinciante (una seconda edizione Refugio ovvero ammonitorio de gentilhuomo, [Ferrara] 1532); Cristoforo di Messisbugo, Banchetti, compositioni di vivande e apparecchio generale, Ferrara, per Giovanni di Buglhat et Antonio Ucher compagni, 1549, dedicato al cardinale Ippolito II d’Este dall’autore, scalco di Ercole II d’Este; Giovanni Battista Rossetti, Dello Scalco, Ferrara, Appresso Domenico Mammarello, 1583, dedicato a Lucrezia d’Este, duchessa d’Urbino, dove Rossetti esercitava l’ufficio di scalco, dopo averlo esercitato per molti anni alla corte ferrarese di Alfonso II. In proposito cfr. G. Venturi, La recita del cibo nelle corti del Rinascimento: «Dello Scalco» di Giovan Battista Rossetti, «Schifanoia», 7, 1990, pp. 167-177. [174] La singolare dottrina di M. Domenico Romoli sopranominato Panonto, dell’ufficio dello Scalco, de i condimenti di tutte le vivande, le stagioni che si convengono a tutti gli animali, uccelli, & pesci. Banchetti di ogni tempo, & mangiare da apparecchiarsi di dì in dì per tutto l’anno a Prencipi, con la dechiaratione della qualità delle carni di tutti gli animali, & pesci, & di tutte le vivande circa la sanità. Nel fine un breve trattato del reggimento della sanità. Opera sommamente utile a tutti, In Venetia, per Michele Tramezino, 1560. [175] Libro dello scalco di Cesare Evitascandalo. Quale insegna quest’honorato servitio, In Roma, Appresso Carlo Vullietti, 1609. [176] In Roma, Appresso Franceseo Corbelletti, 1627. [177] Pratica e scalcaria d’Antonio Frugoli lucchese. Intitolata Pianta di delicati frutti da servirsi a qualsivoglia mensa di Prencipi e gran Signori, & a Persone ordinarie ancora: con molti avvertimenti circa all’honorato officio di Scalco. Con le liste di tutt’i mesi dell’anno, compartite nelle quattro stagioni. Con un trattato d’inventori delle vivande, e bevande, così antiche, come moderne, nuovamente ritrovato, e tradotto di lingua armenia in italiana. Divisa in sette libri, In Roma, Appresso Francesco Cavalli, 1631. [178] Brevità di Scalcaria di Giacomo Colorsi da Palestrina. Per li giovani virtuosi, Roma, Per Angelo Bernabò dal Verme, 1658. [179] Teatro nobilissimo di scalcheria di Venantio Mattei da Camerino. Per apparecchi di Banchetti a gran Prencipi, secondo il variar delle stagioni. Col modo di far diverse vivande per il passato non usate a benefitio de Professori. Con aggiunta di fare diverse sorte di minestre, In Roma, Per Giacomo Dragoncelli, 1669. A questi trattati si deve aggiungere Antonio Latini, Lo scalco alla moderna, overo l’arte di ben disporre i conviti, Napoli, Parrino e Mutii, 1692-1694, dedicato a don Carmine Niccolò Caracciolo, principe di Santo Buono. L’autore, peraltro, dichiara di aver servito per tre anni il cardinale Francesco Del Giudice. È interessante quanto scrive sull’antichità e sulla preminenza dell’ufficio dello scalco, riferendosi alla corte pontificia. Dopo aver indicato la presenza dello scalco nelle cene di Lucullo e nei conviti di Eliogabalo, Latini osserva «comunque siasi è certo, che il nostro Signore Giesù Cristo, nelle Nozze che egli fè in Cana di Galilea, non fu privo di questo ministro» (p. 2). [180] Il trinciante di M. Vincenzo Cervio ampliato et ridotto a Perfettione dal Cavallier Reale Fusoritto da Narni, Trinciante dell’Ill.mo & Rever.mo Signor Cardinal Farnese, In Venetia, Appresso gli Heredi di Francesco Tramezini, 1581. [181] Dialogo del Trenciante di Cesare Evitascandalo Romano. Nel quale si legge quanto si deve operare, & osservare nel servitio del Trenciante, In Roma, Appresso Carlo Vullietti, 1609. [182] Discorso sopra l’officio dei trinciante, con molti avvertimenti circa a detto officio. Nel quale si tratta del vero, e facile modo di trinciare diverse robbe mangiative, tanto di grasso, quanto da magro. Con il modo, & ordine per fare un’alloggio a qualsivoglia gran Prencipe, o Signore, & ancora il modo di tirare per ordine tutte le liste che bisogneranno per detto alloggio. Con una lista all’Alemana, & una alla Polacca servite con alcune vivande secondo l’uso di detti Paesi, In Roma, Appresso Francesco Cavalli, 1638. Devono essere ricordati anche Mattia Molinari, Il trinciante, [193] Frugoli, Pratica e Scalcheria, cit., cc. nn., dedica al cardinale Capponi. [194] Non va, ovviamente, trascurato il contributo della corte romana all’arte culinaria: da Giovanni di Bockenheim, cuoco di Martino V, a maestro Martino, cuoco del patriarca di Aquileia e autore del Libro de arte coquinaria, ripreso da Giovanni Rosselli nell’Epulario, pubblicato a Venezia nel 1516, al bibliotecario di Sisto IV, Bartolomeo Platina, la cui opera, Il piacere onesto e la buona salute, ha una vastissima diffusione europea grazie alle numerose traduzioni, a Bartolomeo Scappi, cuoco segreto di Pio V, che pubblicò (Opera, Venezia, Michele Tramezzino, 1570) il trattato più completo e più ampio apparso nel Cinquecento, offrendo al Lasca l’occasione di criticare gli organi censori romani che mentre censuravano opere letterarie, lasciavano pubblicare il «libro d’assettare le vivande» del cuoco del papa, «come se quel buon padre santo e pio l’Epulon prima, o Ciacco fusse stato» (Anton Francesco Grazzini, Le rime burlesche, a cura di C. Verzone, Firenze, Sansoni, 1882, p. 435). Oltre ai lavori precedentemente segnalati, cfr. Bartolomeo Platina, Il piacere onesto e la buona salute, a cura di E. Faccioli, Torino, Einaudi, 1985; B. Laurioux, Le «registre de cuisine» de Jean de Bockenheim, cuisinier du Pape Martin V, «Mélanges de l’École française de Rome», 100, 1988, pp. 709-760 e M. Montanari, Convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola dall’antichità al medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1989. [195] Nella seconda edizione dell’Aggiunta fatta al trinciante del Cervio dal cavalier Reale Fusoritto da Narni [...], In Roma, Nella Stampa del Gabbia, 1603, nella dedica al cardinale Montalto si dice che la prima edizione «è così stata accettata nel universale che per lo spacio grande, & per il mancamento che hormai se n’ha» è stato deciso di pubblicarne una nuova edizione corretta e ampliata (pp. 85-86). Cesare Evitascandalo nel Dialogo dei Maestro di Casa, Roma, Appresso Carlo Vullietti, 1606, nella dedica al lettore dichiara: «E perché a M. Giovanni Martinelli (che la prima, & seconda volta prese l’assunto di darlo alla stampa) sono mancati li libri; per non fare stampare l’opere altrui in vita dell’Autore senza sua licenza (come porta il giusto & l’honesto) me n’ha fatto instanza, però revista, corretta in alcune parti, e fattoci una aggionta d’altri officii, & altri advertimenti, & recordi, come si vede nel fine del libro, mi sono contentato che di nuovo si ristampi per la terza volta» (cc. nn.). Nella dedica dei librai romani Giovanni Battista e Giuseppe Corvi della seconda edizione del Novitiato del maestro di Casa di Antonio Adami, Roma, Tomaso Coligni, 1675, si osserva: «La curiosità del presente libro in riguardo della buona economia, che ciascuno puote apprendere per ben governare ogni gran casa, haveva cagionato una tal rarità di esso, che quasi non si trovava più un foglio della prima impressione» (cc. nn.). Merita anche sottolineare lo sforzo degli stampatori di rendere i manualetti più facilmente consultabili attraverso l’aggiunta di «Repertori» e di «Tavole» per consentire una più rapida reperibilità della materia ricercata. [196] Basterà qui segnalare l’evoluzione dei titolo del trattato di Cesare Evitascandalo. Nella prima edizione dei 1598: Dialogo del Maestro di Casa. Nel quale si contiene di quanto il Maestro di Casa deve essere instrutto, et a ciascun’altro, che voglia essercitare officio in corte, deve sapere, & operare. Utile a tutti li padroni, cortegiani, officiali, & servitori della corte. Nella terza edizione del 1606: Dialogo del Maestro di Casa. Nel quale si contiene di quanto il Maestro di casa deve esser’instrutto. Et quanto deve saper ciascun’altro che voglia essercitar’officio in Corte. Di nuovo la terza volta restampato, & corretto, con aggiontione de altri officii, & molti documenti, & recordi necessarij, come appare nel fine del libro. Utile a tutti li Padroni, Cortegiani, officiali, & servitori della Corte: & a qual si voglia Capo, & Padre di Famiglia. Antonio Adami fin dalla prima edizione (1636) di Il novitiato del maestro di casa, dichiarava il trattato Utile sì a Prencipi, come ad ogni altra qualità di persone private, per il buon governo delle loro Case e Francesco Liberati proponeva il Perfetto maestro di casa come Opera utilissima, e necessaria al buon governo di qualsivoglia Corte, e casa privata. Antonio Frugoli, Pratica e Scalcaria. Intitolata Pianta di delicati frutti da servirsi a qualsivoglia Mensa di Prencipi e gran Signori & a Persone ordinarie ancora (1631). [197] Nell’imprimatur del maestro del Sacro Palazzo rilasciato nel 1635 Il novitiato del maestro di casa (Roma, Appresso Pietr’Antonio Facciotti, 1636) di Antonio Adami è giudicato «ripieno di grandissima eruditione, così per tutti quelli, che professano l’Offitio di Maestro di Casa, come per li medesimi Padroni, e padri di famiglia». [198] Tra ufficiali e loro addetti è previsto un totale di 107 bocche, contro le 284 del cardinale Alessandro Farnese durante il pontificato di Sisto V, le 353 del cardinale Luigi d’Este nel 1579, le 224 del cardinale Scipione Borghese nel 1621 e le 134 del cardinale Francesco Barberini nel 1637. Cfr. Fragnito, La trattatistica cinque e seicentesca, cit., pp. 137-138. [199] L’impronta religiosa è, per esempio, assai più marcata nel Règlement de la maison du Roi, emanato da Enrico III il 1° gennaio 1585 (cfr. E. Griselle, Supplément à la maison du roi Louis XIII, comprenant le règlement général fait par le roi, de tous les états de sa maison et l’état général de paiment fait en 1624, Paris, Éditions de documents d’histoire, 1912, pp. 14, 19, 32, e 45, e l’introduzione generale al Règlement in Archives curieuses de l’histoire de France, par M.L. Cimber et F. Danjou, Ière Série, t. X, Paris, Beauvais, 1836, pp. 301-303) o nei Mémoires de Monseigneur le Prince de Conty touchant les choses qu’il vouloit estre observées dans sa Famille & dans ses Terres, tant à l’égard du Christianisme, que des affaires temporelles, A Paris, Denys Thierry et Claude Barbin, 1669. [200] Cfr. Bertelli, L’universo cortigiano, in Le corti italiane del Rinascimento, cit., pp. 18-34. [201] N. Elias, La società di corte, Bologna, Il Mulino, 1980. [202] Cfr. D. Romagnoli, Cortesia nella città: un modello complesso. Note sull’etica medievale delle buone maniere, in La città e la corte. Buone e cattive maniere tra medioevo ed età moderna, a cura di D. Romagnoli, Milano, Guerini e Associati, 1991, pp. 21-70; Ead., «Disciplina est conversatio bona et honesta»: anima, corpo e società tra Ugo di San Vittore ed Erasmo da Rotterdam, in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, a cura di P. Prodi, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 507-537, e D. Knox, «Disciplina». Le origini monastiche e clericali della civiltà delle buone maniere in Europa, «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 18, 1992, pp. 335-370, in cui ripropone un saggio apparso in Renaissance Society and Culture. Essays in Honor of Eugene F. Rice, Jr., a cura di J. Monfasani e R.G. Musto, New York, Italica Press, 1991. [203] Sotto questo profilo potrebbe rivelarsi utile lo studio di inventari di biblioteche. Per esempio, nell’inventario post mortem del 1595 della biblioteca del marchese Torquato Malaspina è registrato «un libretto del governo d’una corte d’un signore», da identificarsi con il trattato del Priscianese (cfr. C. Bec, Les livres des florentins, 1413-1608, Firenze, L.S. Olschki, 1984, p. 289). [204] Il problema di una probabile influenza dei ventiquattro anni di cardinalato di Ferdinando I sulla corte di Pitti non viene affrontato da M. Fantoni, La corte del Granduca. Forma e simboli del potere mediceo fra Cinque e Seicento, Roma, Bulzoni, 1994. [205] Cfr. M. Deloche, La maison du Cardinal de Richelieu. Document inédit, Paris, Honoré Champin, 1912, pp. 27-31. Sull’autenticità del Testamento Politico di Richelieu cfr. R. Mousnier, Le «Testament politique» de Richelieu, in Id., Richelieu et le monde de l’esprit, Paris, Sorbonne, 1985, pp. 297-304 e Id., L’homme rouge ou la vie du cardinal de Richelieu (1585-1642), Paris, Robert Laffont, 1992, pp. 747-755. [206] Deloche, La maison du Cardinal de Richelieu, cit., pp. 5-6. Audiger, La maison Reglée et l’Art de diriger la Maison d’un grand Seigneur & autres, tant à la Ville qu’à la Campagne, & le devoir de tous les officiers, & autres Domestiques en général. Avec la veritable methode de faire toutes sortes d’Essences, d’Eaux & de Liqueurs, fortes et rafraîchissantes, à la mode d’Italie. Ouvrage utile et necessaire à toutes sortes de personnes de qualité, Gentils-hommes de Province, Etrangers, Bourgeois, Officiers de grandes maisons, Limonadiers & autres Marchands de Liqueurs, A Paris, Chez Nicolas Le Gras, 1692. Su di lui si veda A. Franklin, La vie privée d’autrefois. Arts et métiers, modes, moeurs, usages des parisiens du XIIe au XVIIIe siècle. La vie de Paris sous Louis XIV, Paris, Librairie Plon, 1898, pp. VII e XVI e P.M. Bondois, sub voce, Dictionnaire de biographie française, vol. IV, Paris, Letouzey, 1948, coll. 400-401. [207] Tra le varianti quella, segnalata anche dalla trattatistica italiana, dell’accorpamento della funzione dello scalco con quella del maggiordomo (Audiger, La maison Reglée, cit., pp. 51-53) e l’assenza del trinciante. Vi è poi l’aggiunta di un Secondo Libro «De la maison d’une dame de qualité» (pp. 68-92). [208] Si veda O. Ranum, Courtesy, Absolutism, and the Rise of the French State, 1630-1660, «The Journal of Modern History», 52, 1980, pp. 426-451. Sul disordine, la mancanza di ordine gerarchico informazioni. Mentre contro il Vermigli fu spiccato un mandato di cattura[8], al quale – venutone probabilmente a conoscenza – si sottrasse con una tempestiva fuga, l’Ochino ricevette nel luglio del 1542 dal cardinale Farnese una formale convocazione a comparire a Roma, che, sopraggiungendo poco tempo dopo l’energica difesa di fra Giulio Della Rovere e le complicazioni che ne erano derivate con il nunzio a Venezia[9] non poteva non avere un significato inequivocabile. Non senza molte esitazioni, l’Ochino decise di ottemperare all’ordine ricevuto e il 15 agosto lasciò Verona diretto a Roma, sostando a Bologna presso il Contarini. Ma giunto successivamente a Firenze e incontratosi con il Vermigli mutò, è noto, proposito e fuggì nei Grigioni[10]. Nell’atmosfera carica di tensione e di sospetto che si era venuta creando sin dall’epoca del colloquio di Ratisbona e di cui possono cogliersi i riflessi nelle lettere di quei personaggi minori che gravitavano intorno ai cardinali Pole, Contarini, Bembo, Badia, Cortese, Gonzaga, nelle lettere del Beccadelli, del Gualteruzzi, del Priuli, di Filippo Gheri – eloquenti per i silenzi, per l’assenza di commenti a eventi che pur ne sollecitavano, per gli inviti a usare maggiore cautela nello scrivere a Roma, per l’affidare a messi le notizie più delicate – in quell’atmosfera, dunque, la fuga di Bernardino Ochino non poteva non allarmare quei suoi amici e protettori che ricoprivano alte cariche nella Chiesa. Alcuni di loro, infatti, non soltanto giudicarono più prudente «lassare la compagnia» degli «spirituali»[11], ma, mossi dal timore di vedersi accusati di connivenza, vollero giustificarsi. Più di ogni altro si sentiva coinvolto nella questione dell’apostasia dell’Ochino il Giberti, presso il quale il cappuccino aveva ricevuto i due brevi di convocazione a Roma e che si era adoperato, sebbene inutilmente, perché gli fosse concesso di mettersi in cammino quando i calori estivi si fossero attenuati. In una lettera del 1° settembre 1542 al cardinale Farnese[12], in cui gli comunicava l’avvenuta fuga dell’Ochino, il vescovo di Verona si difendeva da ogni possibile accusa di averla favorita e allegava, quali prove della propria innocenza, le lettere che il frate gli aveva scritto nel corso del suo viaggio verso Roma; qualora tale documentazione non fosse stata sufficiente a discolparlo, pregava il cardinale di farsi mostrare da Carlo Gualteruzzi «di quanta confidentia erano piene in ogni evento o della clementia o de la constantia di Sua Santità» [13] le lettere che il Giberti gli aveva inviato dopo che l’Ochino si era messo in cammino verso Roma. Ma l’apologia del vescovo di Verona non dovette convincere il cardinale Farnese (o coloro che egli consultava nel disbrigo delle questioni attinenti alla fede)[14], se un mese dopo pregava il nunzio a Venezia, Fabio Mignanelli, di indagare sulla parte avuta dal Giberti nella fuga dell’Ochino, poiché «a molti pare strano che fra Bernardino habbi fatto un salto simile, et questo dopo che tanti mesi ha vissuto appresso di S. S.ria»[15]. Anche se il Mignanelli, replicando il 12 ottobre, assicurava che si trattava di calunnie e che a parer suo Giberti era «prelato de buona vita et molto esemplare»[16], l’atteggiamento del vescovo di Verona nei confronti di tutta la vicenda non può non suscitare alcune perplessità. Desta, infatti, meraviglia, innanzitutto, che il Giberti – il quale fin dal 28 agosto aveva comunicato al cardinale Gonzaga la fuga dell’Ochino – attendesse il 1° settembre per metterne al corrente il cardinale Farnese, asserendo, tra l’altro, di aver appreso quel giorno «da un Capucino, che da Firenze è tornato indreto che [fra Bernardino] ha preso altro cammino [...]»[17], pur sapendo almeno da quattro giorni che l’Ochino era fuggito. Ci si chiederà, inoltre, come potesse il Giberti avvisare il Gonzaga della fuga dell’Ochino il 28 agosto, se l’Ochino stesso gli comunicò il suo arrivo a Morbegno nei Grigioni soltanto il 31[18]. Da chi aveva appreso la fuga del generale dei cappuccini? Getta una qualche luce su questa intricata vicenda la lettera dello stesso Ochino al Giberti, scritta il 31 agosto da Morbegno. Riferendosi al colloquio avuto con il Contarini a Bologna, l’Ochino osservava: Mons. Rmo Contarini non mi disse che non andassi ma me ne di’ cenno. Questo dico perché è morto et queste parole non gli possono pregiudicare. Nullameno haverei esseguito il Suo consiglio, et forse sareste stato di altra opinione se fuste stato in Bologna[19]. La precisazione fatta dall’Ochino circa il contenuto della sua conversazione con il Contarini chiaramente sottintende uno scambio di lettere con il Giberti, successivo alla decisione del cappuccino di non presentarsi a Roma, e di cui, ovviamente, il Giberti si guardò bene dall’inviare copia al Farnese. Con ogni probabilità da questa, o da queste lettere non pervenuteci, il Giberti dovette venire a conoscenza della decisione dell’Ochino di fuggire e poté darne così tempestiva notizia al Gonzaga. Del fatto che egli attendesse quattro giorni prima di informarne il Farnese non può esservi altra spiegazione se non il desiderio di dare tempo all’Ochino di mettersi in salvo nei Grigioni, evitando così di tradire l’amico che aveva riposto tanta fiducia in lui e gli aveva confidato i suoi più segreti pensieri e progetti. Appare, quindi, evidente che se Giberti si adoperò effettivamente per convincere l’Ochino a ubbidire alla convocazione a Roma, quando venne a conoscenza della sua irrevocabile decisione di abbandonare l’Italia, nulla fece per ostacolarne la fuga, anzi la favorì, compromettendosi seriamente[20]. Altre perplessità sorgono nell’esaminare il comportamento di Ercole Gonzaga nei confronti dell’Ochino. In una lettera a Ercole II d’Este del 22 settembre 1542 il cardinale di Mantova descriveva con questi termini il passaggio del fuggiasco attraverso il ducato: Io con questi occhi proprii vidi fra Bernardino in habito da secolare fra le Gratie e Mantova, che andava tutto solo alla volta di Alemagna, ma allhora non seppi già questo particolare, ma poco da poi per una di lui al vescovo di Verona intesi che di già era arrivato in terra di Grisoni[21]. E in una successiva lettera a Girolamo Vida del 7 novembre 1542 scriveva che l’Ochino passò per questo Stato nostro vestito da soldato, et se n’andò in terra de’ Grisoni, et de svizzeri, donde scrisse da certo luogo una lettera a Mons.r di Verona, la quale mando a V.S. qui aligata[22]. Dal racconto del cardinale l’incontro con fra Bernardino sembra del tutto casuale: sembrerebbe quasi che, scambiatisi tutt’al più un breve cenno di saluto, ciascuno abbia seguitato per la sua strada. Neppure l’inconsueto abbigliamento del frate sembra aver suscitato qualche sospetto nel cardinale. Tanta indifferenza, già sorprendente di fronte al travestimento del generale dei cappuccini, stupisce ancor più se si considera che fino a pochi giorni prima il cardinale aveva chiesto con insistenza pel tramite del suo agente a Roma, Nino Sernini, l’Ochino come predicatore per quell’anno[23]. Evidentemente il Gonzaga non era ancora a conoscenza della convocazione dell’Ochino a Roma, tuttavia, il vedere sopraggiungere nella sua diocesi il cappuccino non più vestito da frate, ma da secolare, anzi da soldato, non poté non fargli sorgere immediatamente dei sospetti. D’altro canto non si può pensare che l’Ochino fosse così imprudente da farsi riconoscere dal cardinale, stranamente vestito com’era, se non avesse avuto buoni motivi per credere di poterlo fare senza rischio[24]. Per quanto possa essere romanzata[25], la versione che Bernardino Croli da Colpetrazzo diede di questo incontro appare più credibile, se non nei particolari, quanto meno nella sostanza. Luchino [...] se n’andò alla volta di Ginevora, sempre incognito insino a Mantova, che se n’andò a un palazzo fuor di Mantova dove stava l’Ill.mo Cardinale Consaga e il Signor Ascanio Colonna. E giunto Lucchino, mirandolo Sua Signoria Ill.ma con molta ammiratione disse queste parole: S’io non vi vedesse in quest’habito, direi che voi fosse Fra Bernardin Lucchino da Siena, tanto lo somigliate. Respose Lucchino: Io son desso; Vostra Signoria non si scandalize di questo, perché io lo fo per scampar la vita; la se contenti de non saper altro. E dette queste parole, se tirò da banda col Signor Ascanio, e alquanto ragionò con esso lui, e di puoi speditamente se tolse via. Ma quando si seppe ch’era andato in Ginevora, Monsignore di Mantua se ne mordeva le deta de non haverlo saputo, ché l’harebbe fatto pigliar, e legato mandatolo a Sua Santità[26]. Sembra, infatti, più logico che l’Ochino si recasse dal Gonzaga e non che incontrasse casualmente colui che oltre a essere cardinale di Santa Romana Chiesa e vescovo di Mantova era anche reggente del ducato per il nipote ancora in minore età. Che l’Ochino, inoltre, non rivelasse al Gonzaga la meta del suo viaggio potrebbe anche essere possibile, ma che al cardinale non sorgesse il dubbio che il generale dei cappuccini stesse fuggendo, lo si potrebbe credere solamente giudicandolo un ingenuo, per non dire uno sprovveduto. Ma forse timoroso come il Giberti che dall’esilio ginevrino l’Ochino potesse danneggiarlo parlando del suo passaggio per Mantova[27], il Gonzaga giudicò opportuno diffondere una versione di quell’incontro tanto innocente, quanto ingenua, dietro la quale, anche ove non si volesse scorgere un concreto e diretto aiuto offerto dal cardinale mantovano all’Ochino[28], certo non si può non riconoscere una sostanziale acquiescenza di fronte al suo gesto di insubordinazione alla Chiesa romana. Ancor più compromessi ed esposti dalla fuga dell’Ochino furono Vittoria Colonna e il cardinale Pole. Famosissima è la lettera dell’Ochino alla marchesa di Pescara del 22 agosto 1542 con cui le comunicava la sua intenzione di sottrarsi al giudizio del tribunale dell’Inquisizione e in cui esprimeva il rammarico di non aver potuto consigliarsi con la nobildonna e con il cardinale inglese sulla sua decisione[29]: quale consiglio gli avrebbero dato non è rilevante; importante è che l’Ochino sapesse di poter confidare loro un progetto tanto grave, di trovare in loro persone comprensive e tolleranti, di potere, infine, contare, se non sul loro appoggio, sulla loro tacita complicità. Questa lettera, presto diffusasi in tutta Italia, dovette contribuire non poco ad aggravare la posizione già precaria del Pole e della Colonna. Il timore che il controllo esercitato «minutissimamente» dagli inquisitori su «quelli di Viterbo»[30] si sarebbe inasprito in seguito al gesto imprudente dell’Ochino dovette suggerire alla Colonna una mossa che voleva mostrare la solidarietà del gruppo viterbese con l’operato dell’Inquisizione romana e che ha il sapore di una collaborazione tanto più sollecita, quanto consapevolmente inutile. Quando ricevette una seconda lettera dall’Ochino, questa volta da Ginevra, con accluso un suo scritto, inviò lettera e libretto al cardinale Cervini e, quasi ciò non fosse sufficiente a rimuovere ogni sospetto, volle aggiungere un post-scriptum: Mi duole assai che quanto più pensa scusarsi, più se accusa, et quanto più crede salvar altri da naufragii più li expone al diluvio, essendo lui fuor dell’Arca, che salva et assicura[31]. Non si sa in quale misura il gesto «distensivo» della Colonna servisse a sopire, seppure temporaneamente, la solerte attività inquisitoriale del Carafa e dei suoi colleghi. Certo è che in quelle circostanze non vi fu per alcuno dei membri del «circolo di Viterbo» l’intimazione a comparire di fronte all’Inquisizione. Il Flaminio, in particolare, poté attendere indisturbato all’Apologia del Beneficio di Cristo in risposta ad Ambrogio Catarino[32], anche se «qualche cosetta» s’era detta su di lui a Roma. Dovettero trascorrere quasi quattro anni prima che uno di coloro che erano stati membri della «chiesa Viterbiense»[33] fosse chiamato a presentarsi dinanzi al tribunale romano. Infatti, soltanto nel gennaio del 1546 Pietro Carnesecchi ebbe le prime noie con l’Inquisizione e nell’estate di quell’anno si concluse improvvisamente, quanto oscuramente, il primo processo intentato contro di lui, grazie all’intervento del cardinale Pole e del cardinale Farnese[34] – che in altra occasione si era adoperato a favore di quel gentiluomo «tutto virtuoso et da bene et loro amicissimo»[35] – e nonostante il parere contrario del Carafa[36]. La speranza, non ancora abbandonata da Paolo III, di ricomporre attraverso il concilio la scissione religiosa, la consapevolezza che all’unione si potesse pervenire soltanto grazie all’azione mediatrice di uomini come il Pole, il Morone, il Contarini – quegli stessi uomini che vedeva ora minacciati dallo zelo intransigente del teatino –, il non poter tollerare di veder diffamati quegli uomini della cui ascesa nella gerarchia ecclesiastica era stato l’artefice, e non ultimo il timore di casa haver il Cardinal Contarini confessatoli et laudatoli le sue opinioni è stato avvenenato et fatto morire[55]. A quale libro alludesse Pandolfo della Stufa è difficile stabilire, poiché nelle sopracitate prediche non vi è alcun accenno a morte per veleno[56], accenno che troviamo invece, sia pur velato, in un altro scritto dell’Ochino, che sarebbe però dell’inizio del 1543 e in cui viene usata la lingua latina[57]. Nella Responsio Bernardini Ochini Senensis ad Marcum Brixiensem si legge infatti: Perveni Bononiam usque, ubi cum cardinale Contareno colocutus, ex eo intellexi nullo modo sperandum esse, ut articulus iustificationis admitteretur. Addebat se vehementer periclitatum esse, quia in comitiis imperialibus Ratisponae non satis acriter protestantibus restitisset, seque vix evasisse mortem. Et simul submissa voce «si tamen evasi» dicebat. Ad haec ego excepi «si in viridi hoc factum est, quid in arido fiet?». Ab eo disgressus, re bene considerata, iter reflexi[58]. Queste le «calunnie» dell’Ochino contro il defunto cardinale. A difenderne la memoria per primo volle essere Girolamo Muzio, che ne Le Mentite Ochiniane, apparse a Venezia nel 1551[59], diede un ampio resoconto della sosta dell’Ochino a Bologna, dichiarando di aver avuto «questa informatione da chi lo introdusse et fu presente al tutto», da «due testimonii vivi et in dignità episcopale costituiti»[60]: ossia da Ludovico Beccadelli, vescovo di Ravello dal 1549[61], che in qualità di segretario aveva accompagnato il Contarini nella sua legazione di Bologna e gli era rimasto accanto sino alla morte; e da Giulio Contarini, nipote del cardinale e suo successore nel governo della diocesi di Belluno[62], il quale si trovava al capezzale dello zio morente e, come lo stesso Beccadelli dichiara, sarebbe stato presente al breve incontro tra l’Ochino e il legato[63]. La narrazione del Muzio, infatti, rispecchia quasi fedelmente quella di alcuni anni posteriore del Beccadelli[64]. Traduzione letterale del racconto fatto dal Beccadelli dell’incontro tra Contarini e Ochino è il resoconto dell’episodio nella Vita cardinalis Gasparis Contareni di Giovanni Della Casa[65]. Iniziata nel 1554 e lasciata incompiuta in coincidenza con il ritorno del cardinale dalla dieta di Ratisbona per la morte del Della Casa nel 1556[66], fu portata a termine nel 1562 da Pietro Vettori, che aveva potuto avvalersi del profilo biografico del veneziano scritto nel 1558 dal Beccadelli. Erano passati sedici anni dall’ultimo incontro tra il Contarini e l’Ochino, quando Beccadelli – indotto dalla lettura dell’abbozzo del Della Casa, che gli parve trascurasse molti particolari della vita del cardinale, a redigere una nuova biografia[67] – rievocò quell’episodio tanto oscuro della vita del suo cardinale «perché la verità non stia nascosa, et si confonda la bugia delli maligni»[68]. Dopo aver premesso di esser stato testimone oculare dei fatti che si accingeva a raccontare, così proseguiva: Essendo in quel tempo della sua infirmità chiamato a Roma Fra Bernardino da Siena, per le prediche, che in Vinetia fatto havea, capitò in Bologna il detto Frate con una lettera del Vescovo di Verona Giovan Mattheo a me, per la quale me lo raccomandava a fin che pregassi il Cardinale, che ardire gli desse di andare a Roma, dove pareva che mal volentieri s’accostasse. Il Frate giunse la sera al tardi ch’ogn’uno havea cenato, et il Cardinale stava risentito in camera, il quale sperando star meglio il giorno seguente, per poter ragionare più commodamente seco, ordinò che fusse accomodato di stanza, et provisto di quello che bisognava. La sorte portò che la notte il Cardinale peggiorò, et bisognò la mattina farli rimedii, et dar cassie per ordine de’ Medici, si che non se gli poté parlare né di Fra Bernardino, né d’altro. In questo mezzo il Frate, che non haveva la coscienza monda, et ombrava d’ogni cosa, cominciò a dubitare di non essere rattenuto, et credeva che’l Cardinale fingesse essere amalato per non licentiarlo, et su questo pensiero, che si scoperse poi, cominciò a sollecitarmi che li facesse dar licenza di partire, il che io andava differendo, sperando pur che’l Cardinale stesse meglio, et lo potesse godere come desiderava; ma come più s’indugiava, et più importunava il Frate, talché fui forzato su ‘l mezzo giorno, che’l Cardinale per il letto si sbatteva, entrare in Camera, et pregarlo, che desse licenza a Fra Bernardino di andarsene; di che il benigno Signore si contentò, et entrato il Frate dentro meco, il Cardinale gli disse le formali parole: Padre, voi vedete come sto, habbiatemi compassione, et pregate Iddio per me, et andate a buon viaggio; et il Frate non rispose altro, se non che inchinandosi giù disse di così fare, et andosse con Dio[69]. Il Beccadelli, quindi, attribuisce al repentino aggravarsi delle condizioni di salute del Contarini l’impossibilità di intrattenersi con l’Ochino come avrebbe desiderato. Sembra necessario, a questo punto, per verificare quali fossero le sue condizioni al momento dell’arrivo dell’Ochino a Bologna, ricostruire il decorso della malattia che fu causa della morte del cardinale. È lo stesso Contarini, in una lettera del 17 agosto, ad avvertire il cardinale Alessandro Farnese che aveva affidato al vicelegato il compito di tenerlo informato dei negozi d’importanza «poi che da hieri in qua sono stato alquanto indisposto, il che però» – aggiungeva – «penso non sera altro, et cosi a Dio piaccia»[70]. Il giorno seguente[71] Ludovico Beccadelli scriveva a Carlo Gualteruzzi a Roma per dirgli come Mons. R.mo Legato questa notte passata è stato non bene con febbre et dolor di stomaco, il che ha durato tutto hoggi con tanto affanno quanto non vi potrei scrivere. Prese questa mattina cassia la qual a 22 hore ha comincio ad operare et pare gli habbia sollevato quel dolore. E poco dopo aggiungeva: «Siamo a 24 hore: Mons. R.mo ha preso una orzata, et sta meglio» [72]. Ma nella mattinata del 19 agosto lo stesso Beccadelli volle tranquillizzare Carlo Gualteruzzi: Questa per avisarvi come questa notte Sua S.R.ma ha havuto la bona notte, et è molto ben riposata si come suole in sanità, et questa mattina si trova bene, talché speramo che sia guarito. Siamo sicuri delle due terzane, staremo a vedere hoggi et questa notte per veder della terzana simplice[73]. Le condizioni del legato cominciarono a precipitare soltanto il 19 sera: alla febbre si vennero ad aggiungere numerosi altri disturbi tra cui «alienation di mente», sicché il collegio dei medici radunato intorno al suo capezzale lo dichiarò in pericolo di vita[74]. Ma Beccadelli continuò a essere fiducioso: il 21 agosto, visto un piccolo miglioramento, scriveva all’amico Gualteruzzi: «Io spero se le cose vanno così che in ogni modo fra XV dì si potria forse montar a cavallo»[75], alludendo alla missione presso Carlo V. Ancora il 22 di agosto ogni speranza non era perduta, e lo stesso Contarini non aveva «perso l’animo di guarire», come scriveva il Beccadelli al Gualteruzzi[76], anche se aveva confidato al fedele segretario: Io conosco il grande et pericoloso male ch’ho. Voglio confessarmi et far testamento, ch’altro non ho che m’incresca se non che non posso provedere a questi poveretti che m’hanno servito. Io ho visso assai, et con molto più honore che non ho meritato, sia sempre ringratiata la bontà divina[77]. Due giorni dopo il cardinale moriva. Attraverso la corrispondenza dei familiari del legato e quella del vicelegato, presenti al capezzale del cardinale, è possibile seguire giorno per giorno le fasi alterne della malattia del Contarini e stabilire che l’arrivo dell’Ochino a Bologna venne a coincidere con l’inizio della sua indisposizione. Il 18 agosto, infatti, come si è visto, l’Ochino aveva informato il Giberti che il cardinale lo aveva visto «volentieri» e lo aveva pregato di fermarsi quel giorno a Bologna per «ragionare insieme»; gli aveva altresì comunicato che il cardinale era «alquanto indisposto». Da ciò si desume che con ogni verosimiglianza l’Ochino giunse a Bologna la sera del 17 agosto[78] e fu immediatamente ricevuto dal Contarini che lo pregò di fermarsi il giorno seguente, 18 di agosto, per poter conversare con lui[79]. Tuttavia, nella notte successiva all’arrivo dell’Ochino il cardinale si aggravò e l’indomani, a mezzo giorno, allorché l’Ochino fu introdotto dal Beccadelli nella sua stanza, non avrebbe avuto la forza – secondo il segretario – di dirgli altro che poche parole di commiato al termine delle quali il cappuccino lasciò Bologna. Se è effettivamente esatto che nella notte successiva all’arrivo dell’Ochino il Contarini si sentì male e che le sue condizioni non migliorarono fino a tarda sera del 18, non sembra, invece, rispondere a verità l’affermazione che il generale dei cappuccini lasciasse Bologna il giorno dopo il suo arrivo, poiché lo stesso Beccadelli comunicò al Gualteruzzi il 19: «Fra Bernardino questa mattina è partito di qui per venire alla obedienza di Sua S.tà, et di bona voglia et con bona ciera» [80], proprio in coincidenza con un tale miglioramento del cardinale che si sperò nella sua guarigione. È assai probabile, quindi, che l’Ochino prima di mettersi in cammino quella mattina abbia potuto congedarsi dal Contarini. Purtroppo dalle lettere del Beccadelli al Gualteruzzi della raccolta estense non si desumono altri elementi sul soggiorno dell’Ochino a Bologna[81]. Tuttavia, la totale assenza di qualsiasi riferimento alle vicende dell’Ochino anche nelle lettere del Gualteruzzi al Beccadelli[82] – il Gualteruzzi, si ricordi, veniva tenuto informato dal Giberti del viaggio del cappuccino verso Roma – e in quelle del Priuli allo stesso Beccadelli[83] non può essere casuale; il silenzio che circonda la convocazione a Roma e la fuga dell’Ochino palesa il timore degli uomini intorno al Pole e al Contarini di esporsi, di compromettersi. D’altro canto, il rimprovero fatto al Contarini durante la legazione di Ratisbona circa la poca discrezione dei suoi «familiari»[84] doveva aver dettato a costoro una maggiore cautela e riservatezza nelle lettere ai loro amici: è proprio Beccadelli a ricordare al Gualteruzzi lo spiacevole episodio: «L’anno passato a Ratisbona imparai non scrivere a Roma nuove mandate a S. S.tà»[85]. Inoltre le laconiche parole con cui il Beccadelli informa il Gualteruzzi della partenza da Bologna dell’Ochino lasciano intuire il desiderio del bolognese di non immischiarsi della faccenda: atteggiamento questo assai consono alla posizione assunta dal segretario del Contarini in seguito alla notizia della riorganizzazione dell’Inquisizione romana: Dio ve aiuti – scriveva al Gualteruzzi il 20 luglio 1542 – con quelli vostri inquisitori, a queste nove heresie! Vi dirò il vero: io mi risolvo che più sano sia il credere con le femminuccie et studiare Aristotele et Platone, che l’andarse intricando in tanti novi dogmi et così pericolosi[86]. Alcuni mesi dopo la scomparsa del cardinale Contarini, la diffusione delle prediche pubblicate dall’Ochino a Ginevra e le voci che correvano per Bologna circa il loro contenuto che comprometteva l’ortodossia del defunto cardinale, allarmarono uno dei suoi antichi familiari bolognesi, Scipione Bianchini[87], il quale il 30 dicembre 1542 si affrettava a scrivere al Beccadelli, allora a Reggio Emilia in qualità di vicario del vescovo Marcello Cervini: Qui si dice molto di alcune prediche di gia fra Bernardino [...] Queste prediche, dico, si dice che sono una lunga invettiva contra la Chiesa Romana, extollendo a comparatione di questa molto i costumi et la chiesa di Genevra. Io non l’ho per anchor possuto vedere ne leggere, che questi novi nostri christiani, appresso de quali sono, non mi hanno per suo confidente: pur da tutti si dice (il che anchor ne fu scritto da m. Filippo nostro) ch’egli apertamente pone in più luoghi Mons.or nostro nella sua schiera confirmando molte sue opinione con l’auttorità di Lui. E osservava:
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