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Cinquecento letterario italiano, Dispense di Letteratura Italiana

Un secolo caotico, nel nostro paese si caratterizza innanzitutto per la perdita d'indipendenza dei comuni italiani, ma anche per una gran quantità di letterati illustri, che sicuramente abbiamo tutti studiato alle superiori: Ludovico Ariosto (l'orlando furioso), Torquato Tasso ( La Gerusalemme Liberata), Niccolò Machiavelli ( Il Principe), Francesco Guicciardini ( Storie d'Italia), e altri minori.

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 19/07/2022

Benattha
Benattha 🇮🇹

4.3

(29)

14 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Cinquecento letterario italiano e più Dispense in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! CINQUECENTO INTRODUZIONE Il Cinquecento in Italia si caratterizzò per la perdita dell’indipendenza, a partire dalla discesa del re di Francia Carlo VIII nel 1494. Le Signorie italiane mostrarono debolezza rispetto agli eserciti stranieri che impiegavano armi da fuoco, erano instabili nella gestione del potere politico e non si unirono in un fronte comune, bensì cercarono di sfruttare le invasioni straniere per poter aumentare il proprio potere a discapito degli Stati vicini. Un momento particolarmente drammatico fu il sacco di Roma compiuto nel 1527 dai lanzichenecchi, soldati mercenari al servizio dell’imperatore Carlo V. La fase delle guerre d’Italia si chiuse nel 1559 con la pace di Cateau-Cambrésis, che sancì il predominio spagnolo nell’Italia meridionale e nel ducato di Milano, mentre la Francia dovette cedere la Savoia ad Emanuele Filiberto ed ottenne in Italia soltanto il controllo di Torino e di alcuni territori in Piemonte. Si ebbe un profondo cambiamento della situazione economica in seguito alla scoperta dell’America del 1492, per l’apertura della nuova rotta commerciale, l’arrivo di metalli preziosi e la presenza sul mercato di forti concorrenti. Il sistema politico in Italia fu dominato da Principati dal potere assoluto, con alcune eccezioni quali la repubblica oligarchica di Venezia e i periodi repubblicani del governo di Firenze. I Principi potenziano la propria opera di mecenatismo, arrivando alla creazione di una cultura cortigiana in cui il potere assoluto veniva legittimato. Il sistema della corte tendeva a inglobare tutte le manifestazioni di cultura e nel corso del secolo il maggiore centro di richiamo per gli artisti divenne la corte pontificia di Roma. Il Cinquecento vide un grande sviluppo di scienza e tecnica, a questo proposito fu esemplare l’operato di Leonardo da Vinci. Il senso critico e la consapevolezza della distanza storica tipici del Rinascimento si diffusero, anche grazie a un impiego su larga scala della stampa. Gli autori iniziarono a comporre i libri sulla base delle esigenze dell’editoria, in alcuni casi vennero divulgate opere senza il consenso dell’autore e gli editori assunsero un ruolo professionale importante, come nel caso del veneziano Aldo Manuzio. La scoperta dell’America e la Riforma religiosa misero in crisi i presupposti ideologici medievali e il Cinquecento viene considerato l’inizio dell’Età moderna. Nel Cinquecento la Riforma protestante ruppe l’unità religiosa dell’Occidente, a partire dalla redazione delle novantacinque tesi da parte di Martin Lutero nel 1517. Il papato rispose con il Concilio di Trento (1545-1563), in cui prevalse una posizione di chiusura nei confronti delle innovazioni religiose della Riforma e una violenta repressione delle idee dissidenti, portata avanti tramite il Tribunale dell’Inquisizione e la promulgazione di un Indice dei libri proibiti. La Chiesa cercò inoltre di eliminare le forme più gravi di corruzione che avevano favorito la diffusione delle dottrine protestanti e potenziò l’educazione religiosa, per il clero all’interno dei seminari e per il popolo con attività assistenziali e con la predicazione e la lotta contro le eresie compiute dal nuovo ordine dei gesuiti. 7.1 Ariosto e Tasso Nel Cinquecento due autori fondamentali della letteratura italiana, Ludovico Ariosto e Torquato Tasso, si dedicarono alla produzione di poemi legati alla tradizione cavalleresca, da sempre apprezzata e sentita particolarmente attuale a causa delle guerre che venivano combattute all’epoca. Ludovico Ariosto nacque nel 1474 a Reggio Emilia, dove il padre, appartenente alla piccola nobiltà, comandava la guarnigione militare per conto degli Estensi. Trasferitosi a Ferrara, entrò a far parte dei cortigiani stipendiati dal duca Ercole I e, nonostante la sua condizione di chierico, si sposò in segreto con Alessandra Benucci. In seguito fu al servizio del cardinale Ippolito d’Este e poi del nuovo duca Alfonso, dai quali venne costretto a impegnarsi in vari incarichi ufficiali, tra cui l’impegnativo compito di controllare per conto del duca la regione della Garfagnana. Morì a Ferrara nel 1529. Ariosto esordì con una produzione poetica in latino e poi si dedicò alla poesia in volgare, la cui raccolta fu pubblicata postuma con il nome di Rime. I modelli per queste liriche furono gli Amorum libri III Boiardo e il Canzoniere di Petrarca, affermatosi come riferimento grazie alla teorizzazione di Pietro Bembo. Quest’ultimo autore soggiornò alla corte di Ferrara ed influenzò fortemente le scelte linguistiche compiute da Ariosto: nel dialogo Prose della volgar lingua del 1525 Bembo stabilì il primato della lingua di Petrarca come modello per la lirica e di Boccaccio per la prosa, scelti per le caratteristiche di gravità e piacevolezza. La produzione letteraria di Ariosto comprese anche opere drammaturgiche e satire. Le commedie di Ariosto furono un modello per il nuovo teatro in volgare. Le prime furono intitolate Cassaria e Suppositi, modellate Torquato Tasso nacque a Sorrento da genitori nobili di origine bergamasca e toscana. Il padre Bernardo fu anch’egli un letterato e aveva composto un poema cavalleresco, l’Amadigi, si trasferì in varie città al servizio di signori come condottiero e militare. Torquato lo seguì e compì studi universitari a Padova, dove entrò in contatto con l’accademia degli Infiammati. Si stabilì poi a Ferrara, come cortigiano al servizio della famiglia d’Este. Nonostante i grandi successi ottenuti con le proprie opere letterarie, Tasso mostrò una continua insoddisfazione e ossessione per la religione, culminata nella richiesta di revisione del proprio poema epico Gerusalemme liberata da parte di consiglieri e poi nell’autodenuncia al Tribunale dell’Inquisizione. L’insicurezza e le manie di persecuzione lo portarono a continui viaggi in vari centri italiani e quando tornò a Ferrara in occasione del matrimonio di Alfonso e Margherita Gonzaga si mise ad inveire contro il duca d’Este, che lo fece rinchiudere per un periodo come pazzo in un ospedale. Il poema venne pubblicato nel 1581 senza il consenso dell’autore, che in seguito compì una integrale riscrittura dell’opera, con il nome di Gerusalemme conquistata. Ottenuta una pensione dal papa in virtù della propria opera letteraria, terminò la propria vita a Roma, dove morì nel 1595. Tasso fu autore di Rime, comprendenti poesie d’amore dedicate ad alcune figure femminili amate dal poeta e liriche encomiastiche, si caratterizzarono per la musicalità. L’autore scrisse inoltre l’Aminta, appartenente al genere della favola pastorale, dramma di ambientazione boschereccia in cui veniva rispecchiata la vita di corte. La trama tratta delle peripezie amorose vissute dal pastore Aminta e dalla ninfa Silvia, narrate attraverso i dialoghi dei personaggi. Il finale è positivo e i cori invitano a vivere i piaceri della vita. Lo stile è elegante e gli artifici retorici sono impiegati per trasmettere un senso di naturalezza. Tasso iniziò fin da giovane a comporre stanze per un poema eroico, per poi dedicarsi alla scrittura di un poema cavalleresco, il Rinaldo. Entrato al servizio nella corte degli Estensi di Ferrara iniziò a comporre la Gerusalemme liberata, della quale vennero diffuse copie pirata durante la sua prigionia nell’ospedale di Sant’Anna. L’autore decise pertanto di pubblicare un’edizione completa nel 1581, considerata tuttora l’edizione di riferimento, ma sulla quale continuò ad intervenire con operazioni di censura, fino ad una completa riscrittura dal titolo di Gerusalemme conquistata. Nella Gerusalemme liberata venne ripresa la struttura del poema epico, con un’unica trama secondo il principio aristotelico, ossia la conquista di Gerusalemme da parte dei crociati nel 1099, e con l’esaltazione di valori assoluti. Tasso inserì elementi fantasiosi, ma li scelse all’interno del patrimonio del meraviglioso cristiano, ad esempio narrando interventi di angeli e demoni. Il protagonista collettivo del poema è l’esercito crociato, in cui risaltano alcuni personaggi, dotati di grande complessità e profondità psicologica: il comandante Goffredo, l’eroe giovane e solare Rinaldo, Tancredi, eroe più malinconico, Argante e Solimano, eroi pagani dalla forza smisurata ma dal tragico destino. Grande attenzione venne riservata alle eroine femminili: Clorinda, donna guerriera pagana, uccisa inconsapevolmente in duello da Tancredi, innamorato di lei; Armida, maga che imprigiona Rinaldo, per diventare nel finale una moglie umile e devota, e Erminia, figura dolce e sensibile, innamorata di Tancredi nonostante la sua appartenenza al campo avversario. L’autore espresse nel poema uno stato d’animo malinconico e nell’opera traspare, al di là dei valori proposti, un senso di inquietudine. Il paesaggio si carica di connotazioni simboliche ed è parte integrante delle narrazioni, inoltre un ruolo importante hanno la religiosità e la magia, a cui si intreccia la presenza di figure femminili seducenti. Tasso aspirava a uno stile sublime, ricco di parole elevate, figure retoriche, effetti musicali e continui enjambements. Questo stile fa rientrare Tasso nella corrente del Manierismo, perché egli modificò il modello classicista complicandolo dall’interno, mescolando effetti di simmetria e asimmetria e producendo una lingua labirintica. L’effetto di manierismo esprime la tensione di fronte alla complessità del mondo. Esemplare della visione tragica proposta dall’autore è l’episodio in cui il re pagano Solimano osserva dall’alto della torre di Gerusalemme il campo di battaglia in cui il suo esercito si appresta ad essere sconfitto: Or mentre in guisa tal fera tenzone è tra ’l fedel essercito e ’l pagano, salse in cima a la torre ad un balcone e mirò, benché lunge, il fer Soldano; mirò, quasi in teatro od in agone, l’aspra tragedia de lo stato umano: i vari assalti e ’l fero orror di morte, e i gran giochi del caso e de la sorte. Stette attonito alquanto e stupefatto a quelle prime viste; e poi s’accese, e desiò trovarsi anch’egli in atto nel periglioso campo a l’alte imprese. Né pose indugio al suo desir, ma ratto d’elmo s’armò, ch’aveva ogn’altro arnese: «Su su,» gridò «non piú, non piú dimora: convien ch'oggi si vinca o che si mora. Tasso continuò a scrivere anche dopo la composizione del poema: nel periodo della segregazione in ospedale compose dialoghi di carattere autobiografico in cui inserì spunti filosofici e riflessioni sulla società; in seguito produsse una tragedia dal titolo Il re Torrismondo, dedicata al conflitto tra amore e amicizia e al tema dell’incesto, e opere di carattere religioso. 7.2 Machiavelli e Guicciardini Nel Cinquecento si diffusero un acuto senso critico e una messa in discussione dei valori assoluti riguardanti la storia e il comportamento dell’uomo. In ambiente fiorentino furono importanti le trattazioni che compirono Machiavelli e Guicciardini riguardo alla storia e alla politica contemporanea. Niccolò Machiavelli nacque a Firenze nel 1469, fu figlio di un notaio e compì studi umanistici. Durante il periodo della repubblica fiorentina svolse incarichi politici, missioni militari e diplomatiche, avendo così modo di osservare le istituzioni politiche e militari di varie parti d’Italia. Assistette allo sterminio dei nobili avversari compiuto dal Valentino, figlio naturale del papa Alessandro VI Borgia e promosse la creazione di un esercito permanente di fiorentini, perché la città sulla necessità di imitare il modello degli antichi per creare istituzioni che permettessero la partecipazione politica del popolo, trascurata a partire dalla diffusione della religione cristiana. La storia per Machiavelli ha un andamento ciclico e si basa sull’equilibrio dato dalla lotta tra forze contrarie. Machiavelli fu autore anche di opere poetiche e teatrali, tra cui la Mandragola, una commedia in prosa composta nel 1518. Protagonista è Callimaco, un giovane che si innamora di Lucrezia, una donna sposata con un vecchio, il quale desidera invano dei figli. Callimaco fa credere al vecchio che esiste una pozione di mandragola che darà la fertilità alla donna, ma farà morire il primo uomo che giacerà con lei. In questo modo Callimaco, travestitosi da mendicante, riesce ad ottenere una notte d’amore con Lucrezia con il consenso del marito e la donna, vista la stupidità del marito, inizia una relazione con lui. Lucrezia è, nell’ottica dell’autore, un esempio di saggezza, dal momento che è in grado di adattare il proprio comportamento di fronte all’intraprendenza del corteggiatore e alla stupidità del marito. Un’altra commedia dell’autore fu la Clizia, modellata sulla trama di una commedia latina di Plauto. Machiavelli continuò a scrivere opere politiche, tra cui il dialogo Arte della guerra, in cui sostenne il modello dell’esercito romano. Le Istorie fiorentine sono invece un’opera di impianto storico, commissionata dal governo dei Medici, in cui l’autore denunciò apertamente le motivazioni economiche e materiali dei comportamenti dei principi e la debolezza politica della città. Machiavelli ebbe grande fama, ma tutte le sue opere furono inserite nell’Indice dei libri proibiti. Francesco Guicciardini, figlio di un mercante fiorentino, nacque a Firenze nel 1483, fu figlio di un mercante e compì studi giuridici. Amico di Machiavelli, fece anch’egli carriera politica: durante il periodo della repubblica fiorentina svolse incarichi politici, fu ambasciatore in Spagna e al ritorno dei Medici mantenne la propria posizione, ricevendo la nomina a governatore di Reggio e poi di Modena. Quando a Firenze ritornò un governo repubblicano, passò al servizio del pontefice, dal quale fu nominato luogotenente generale. Con la restaurazione dello stato mediceo fece ritorno nella sua città, dove morì nel 1540. Fu autore di opere storiche in cui si concentrò sulle strutture istituzionali, le Storie fiorentine dal 1378 al 1509 e il Dialogo del reggimento di Firenze e di uno scritto polemico Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli, in cui criticò l’attitudine dell’amico a rilevare leggi politiche di validità universale. Queste opere non vennero pubblicate dall’autore, così come i Ricordi, una raccolta di brevi aforismi legati alla tradizione dei libri delle famiglie mercantili. In questi pensieri Guicciardini espresse la possibilità di cambiare punto di vista criticando ogni valore assoluto e sostenne la necessità di comportarsi con discrezione, in modo da adattarsi alle mutevoli condizioni della vita. La finalità sostenuta dall’autore è quella di accrescere la propria reputazione individuale e sostenere il proprio interesse particolare, senza alcuna fiducia nel ruolo dello Stato. Pensata per la pubblicazione fu invece la Storia d’Italia, dedicata alla storia contemporanea a partire dalla morte di Lorenzo il Magnifico. Il periodo considerato apparve all’autore come un percorso negativo a causa dei conflitti tra gli interessi individuali dei principi italiani. Lo stile è privo di figure retoriche, mentre la sintassi è complessa per riprodurre la complessità del contenuto. 7.3 Castiglione e Aretino Nel Cinquecento prevalse la corrente culturale del Classicismo, volto a ricercare un equilibrio tra i modelli antichi e la realtà contemporanea. I letterati classicisti fecero varie proposte, tra le quali di particolare interesse fu il modello globale di perfetto cortigiano descritto da Castiglione. Accanto a queste posizioni ci furono anche quelle di autori più attenti alle contraddizioni della realtà, come Ariosto e Machiavelli. Altri testi furono composti sulla base di principi contrari al Classicismo, come ad esempio le sperimentazioni linguistiche di Folengo e Ruzzante e la polemica anticlassicista di Aretino. Baldassarre Castiglione nacque nel 1478 da una famiglia nobile e fu al servizio dei Gonzaga a Mantova, di Guidubaldo da Montefeltro e del successore Francesco Maria Della Rovere a Urbino. Seguì quest’ultimo in esilio a Mantova, dove si sposò ed ebbe tre figli. Rimasto vedovo, assunse la condizione di chierico e visse alla corte di Carlo V come nunzio apostolico in Spagna. Morì a Toledo nel 1529. A partire dal 1513 circa, per gran parte della vita Castiglione si impegnò nella stesura di un dialogo in quattro libri, il Libro del Cortegiano. Gli interlocutori dell’opera sono cortigiani della corte di Urbino, tra i quali Pietro Bembo e Bernardo Dovizi da Bibbiena, autore di una famosa commedia, la Calandria. Castiglione immaginò che uno dei personaggi, Federico Fregoso, proponesse di definire a parole le caratteristiche del cortigiano perfetto e nel corso del dialogo i personaggi si confrontano su questo tema, approfondendo le qualità fisiche e morali, il comportamento e l’uso delle battute, la descrizione del modello di donna di corte, il rapporto tra cortigiano e principe. Nel finale ha la parola Bembo, che parla dell’amore come mezzo di elevazione spirituale. Castiglione espresse ideali di grazia e equilibrio tipici del classicismo, ma fu aperto a un criterio di relatività, per cui il cortigiano perfetto si deve adattare alle condizioni in cui si trova ad operare, facendo uso della sprezzatura, ossia della capacità di dissimulare l’artificiosità del proprio comportamento: Chi adunque vorrà esser bon discipulo, oltre al far le cose bene, sempre ha da metter ogni diligenzia per assimigliarsi al maestro e, se possibil fosse, transformarsi in lui. E quando già si sente aver fatto profitto, giova molto veder diversi omini di tal professione e, governandosi con quel bon giudicio che sempre gli ha da esser guida, andar scegliendo or da un or da un altro varie cose. E come la pecchia ne' verdi prati sempre tra l'erbe va carpendo i fiori, cosí il nostro cortegiano averà da rubare questa grazia da que' che a lui parerà che la tenghino e da ciascun quella parte che piú sarà laudevole; e non far come un amico nostro, che voi tutti conoscete, che si pensava esser molto simile al re Ferrando minore d'Aragona, né in altro avea posto cura d'imitarlo, che nel spesso alzare il capo, torzendo una parte della bocca, il qual costume il re avea contratto cosí da infirmità. E di questi molti si ritrovano, che pensan far assai, pur che sian simili a un grand'omo in qualche cosa; e spesso si appigliano a quella che in colui è sola viciosa. Ma avendo io già piú volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l'hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano piú che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto piú si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficoltà, onde in esse la facilità genera grandissima meraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capelli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch'ella si sia. Però si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né piú in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l'omo poco estimato. E ricordami io già aver letto esser stati alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali tra le altre loro industrie sforzavansi di far credere
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