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La costruzione delle razze e il razzismo: storia, teorie e definizioni, Appunti di Antropologia Sociale

Il concetto di razza, la sua storia e le teorie ad esso associate. Dall'etnocentrismo di erodoto all'antisemitismo, dalle teorie di linneo e blumenbach alla classificazione delle 'razze' umane, vengono discusse le idee che hanno contribuito alla costruzione del razzismo. Vengono inoltre presentate le teorie di todorov sul razzialismo e le cinque principali caratteristiche che lo contraddistinguono. Infine, si analizza il concetto di identità etnica e il suo ruolo nella società attuale.

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 30/01/2024

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biancastagni 🇮🇹

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Scarica La costruzione delle razze e il razzismo: storia, teorie e definizioni e più Appunti in PDF di Antropologia Sociale solo su Docsity! Classificare, separare, escludere. Razzismi e identità Marco Aime Europa in campo Il 15 luglio 2018, a Mosca, si disputa la finale dei Mondiali di calcio tra la nazionale francese e quella croata. Quello che preme sottolineare è la differenza antropologica sussistente tra le due nazionali: per la Croazia scesero in campo tutti giocatori di origine croata (intuibile dai cognomi), mentre nella formazione della Francia coesistono giocatori dalle provenienze più disparate (Francia, Spagna, Camerun, Algeria…). Entrambe le finaliste erano europee (fatto singolare), ma queste esprimevano due narrazioni diverse ed opposte dell’Europa: da un lato una Croazia bianca e slava, “pura”, dall’altra una formazione multietnica -> queste squadre, rappresentanti entrambe una nazione europea, raccontano l’una un legame ancestrale con il territorio, una chiusura a ogni tipo di diversità, l’altra il prodotto di migrazioni, colonialismo e scambi nel tempo. Queste due immagini riflettono bene le posizioni che dividono l’Europa di oggi: da un lato le destre sovraniste in crescita, che oppongono chiusure a ogni elemento esterno, con richiami al primato dell’autoctonia e tendenze talvolta razziste; dall’altro i gruppi liberali e di sinistra, propensi a pensare un continente multietnico, formato da diverse realtà culturali integrate tra loro. C’è una scena nel film Gran Torino in cui Clint Eastwood, che interpreta un reazionario conservatore ultrapatriottico che odia gli stranieri, finisce per familiarizzare con i vicini asiatici e arriva a sostenere di avere molto più in comune con quei “musi gialli” che con la sua famiglia. In queste parole emerge un importante concetto: anche lo scontroso protagonista del film, una volta superata la barriera del corpo e dell’apparenza scopre che ad essere diversi sono i membri della sua famiglia. Ecco, quindi, da cosa nasce il razzismo: dalla non volontà di conoscere e dall’ansia di classificare -> un apartheid preventivo, che ci allontana e ci avvicina, senza farci conoscere. La questione della finale tra Croazia e Francia comprende anche la questione del tifo della Russia -> nei quarti di finale, la nazionale croata aveva sconfitto la Russia; subito dopo il match, un giocatore croato pronunciò, all’interno di un’intervista ai giornalisti, una esclamazione a favore dell’Ucraina (Paese in tensione estrema con la Russia). Nella partita successiva, contro l’Inghilterra, i tifosi russi presenti allo stadio subissarono di fischi il giocatore croato. La Croazia riesce a vincere e va in finale contro la Francia: lo stadio è pieno di tifosi russi, che questa volta tifano sfegatatamente per la Croazia, senza fischi contro nessuno. A cosa è dovuto tale cambiamento? Il fatto è che evidentemente si trattava di una questione tra “slavi”, e quando i russi si trovano a dover scegliere tra una squadra slava e una nazionale non slava, e per di più neanche troppo bianca, il senso di appartenenza riferito alle origini comuni prevalse. Capitolo 1: L’invenzione delle razze PARAGRAFO 1: Punti di vista Già negli scritti di Erodoto si nota come egli fosse convinto che, se a tutti gli uomini si proponesse di scegliere la tradizione culturale più bella, essi sceglierebbero inevitabilmente quella del loro paese d’origine, ponendo sé stessi come punto di riferimento -> questo atteggiamento viene oggi chiamato “etnocentrismo”, definizione fornita dal sociologo americano William Graham Sumner nel 1906 -> è un atteggiamento valutativo, che si può esprimere sia in giudizi sia in azioni. L’etnocentrismo è un atteggiamento antico, basti pensare alla divisione tra greci e barbari. La maggior parte degli etnonimi, i nomi che ogni popolazione si attribuisce, esprime una superiorità intrinseca: per esempio, inuit significa “gli uomini”, così come bantu o apache. In Mesoamerica, gli huicholes chiamano sé stessi wirrarika, ovvero “persone”, che ha lo stesso significato di ndee, il vero nome di quelli che noi chiamiamo apache (sono una popolazione nativa dell'area sud-occidentale dell'America Settentrionale): come per dire che gli Altri sono meno uomini o non-uomini. Tra l’altro, proprio gli inuit vengono chiamati “eschimesi”, “mangiatori di carne cruda”, in senso spregiativo; “tuareg” è l’appellativo dato dagli arabi agli uomini del deserto e significa “miscredenti”, mentre loro si definiscono “imohag”, “uomini liberi”. Il fatto che molte popolazioni primitive si autodefiniscano con un nome che significa gli “uomini”(inteso come i buoni, i completi) sottintende che le altre tribù, gli altri gruppi siano composti di cattivi e malvagi, privandoli di un grado di realtà che li rende fantasmi -> esempio: gli abitanti dell’Uganda definiscono gli stranieri “gente capovolta”, per sottolinearne la diversità e l’anormalità. Il pregiudizio autoreferenziale di ogni gruppo sembra essere una debolezza umana universale (ognuno guarda al mondo, convinto di esserne al centro): gli stereotipi proliferano ovunque (si pensi a quelli interni alle varie nazioni europee), ogni gruppo umano fa la “caricatura” degli altri; lo stereotipo riduce un gruppo, una nazione ad un dettaglio, accomunandone tutti i membri e schiacciandoli su quel particolare. Comunque, il riconoscimento della diversità, sebbene in accezione negativa, non porta sempre e automaticamente a un atto violento -> esempio dell’Africa: tra alcuni gruppi etnici intercorre un rapporto definito “parentela scherzosa”, in cui, quando due membri dei rispettivi gruppi si incontrano, si scambiano una serie di prese in giro basate sugli stereotipi che uno ha dell’altro; dopodiché si salutano cordialmente. Questo atteggiamento sancisce la differenza ma la traduce in forma ironica, depotenziandone ogni forma violenta; come dice Arthur R. Radcliffe-Brown, “la relazione scherzosa è una mancanza di rispetto consentita”. Per Levi-Strauss, l’etnocentrismo avrebbe addirittura un valore positivo, in quanto svolge una funzione di conservazione e di differenziazione tra culture diverse; sarebbe una forma limitata di altruismo, che favorisce i comportamenti solidali all’interno del gruppo, ma allo stesso tempo la solidarietà rivolta all’interno può contribuire ad alimentare la discordia tra gruppi. L’etnocentrismo porta a guardare il mondo da un centro, che è il luogo dove siamo noi; si tratta di un sentimento condiviso, che poggia sul piano emotivo più che su quello razionale -> è una divisione tra Noi e gli Altri, accomunando questi ultimi in una sorta di “non-Noi” generale. Ci sono molti modi di declinare l’etnocentrismo: dallo scherzo alla xenofobia (sentimento di ostilità nei confronti degli stranieri, senza una condanna nei loro confronti a causa di una loro condizione originaria). Nel mondo greco e romano il pregiudizio era soprattutto legato al lignaggio e alla discendenza: gli antichi greci e romani credevano che le diverse caratteristiche dei popoli, espresse tramite il modo di parlare e di vestirsi, fossero determinate da fattori esterni come clima o territorio. Sarà con l’affermazione del cristianesimo che verrà introdotto il concetto di conversione universale: la Chiesa cristiana sviluppa sul piano teorico un atteggiamento universalistico, presentandosi come responsabile di tutti i popoli davanti a Dio, contraddicendosi però nella pratica -> con le crociate (durante le quali vengono messi di fronte i seguaci di Maometto e quelli di Cristo) si recuperano i preconcetti etnici in un contesto di guerra e, nei territori della Chiesa, la segregazione dei non cristiani continua imperterrita: gli ebrei, per il punto di vista cristiano, sono portatori di un peccato originale, da cui nascono le diverse politiche di emarginazione e di esclusione e gli stereotipi che prendono il nome di antigiudaismo. Essendo però ebrei i fondatori del cristianesimo, i seguaci di Cristo non potevano pensare che ci fosse qualche problema nel sangue degli antenati degli ebrei -> era una questione legata alla religione, non alla natura degli ebrei. La Chiesa, fino al XII secolo, prevedeva che gli ebrei potessero emanciparsi da quel peccato originale, attraverso la conversione. Poi qualcosa cambiò e iniziarono i pogrom: l’antigiudaismo come pregiudizio religioso si trasforma in una forma di discriminazione basata sulla razza che prende il nome di antisemitismo, spostando la questione dal piano della cultura a quello della natura, per cui ogni tentativo di conversione diventa impossibile e l’unica soluzione resta l’eliminazione -> l’antisemitismo si trasforma così in razzismo. Non parliamo più di etnocentrismo o di xenofobia, che comunque sono delle fondamenta per costruire l’idea di razzismo. L’intolleranza religiosa non può essere definita come espressione razzista, come dice George Fredrickson: possiamo parlare di razzismo in senso lato quando le differenze di carattere culturale vengono considerate innate, un prodotto della natura immutabile -> più studiosi individuano i primi sintomi del razzismo moderno nella celebre istituzione spagnola del XV-XVI secolo nota come limpieza de sangre. L’avanzata islamica fu accompagnata dal recupero di molti antichi testi greci e romani, grazie ai quali fu costruita una nuova visione geografica ed etnica, corrispondente ad una nuova civiltà che avesse al centro il Medio Oriente: occorreva proporre una nuova narrazione che riportasse nella penisola iberica il fulcro della civiltà: la regola della limpieza de sangre prevedeva che solo chi fosse “spagnolo” e cristiano da generazioni potesse accedere alle cariche pubbliche -> venivano esclusi gli ebrei, i musulmani convertiti al cristianesimo e gli zingari. Si stabiliva un rapporto deterministico tra la biologia e la cultura: singolare che la prima forma di razzismo in Occidente basata su un dato ascritto sia nata in un contesto cristiano, che si fonda sull’ideale di uguaglianza tra esseri umani. PARAGRAFO 2: Classificare per comprendere Noi occidentali sembriamo non riuscire a fare a meno di classificare e catalogare ogni cosa, anche i più semplici cani (agli occhi di uno straniero, le razze dei cani sono cosa singolare). Sembra difficile concepire un tutto senza suddividerlo in categorie, soprattutto il genere umano. PARAGRAFO 4: La linea del colore Sorprende quanto il colore abbia funzionato da fattore discriminante e punto di riferimento per classificare chi è cromaticamente diverso. La pelle è il confine estremo del corpo, che separa l'individuo dal mondo esterno ed è ciò che vediamo in un individuo come prima cosa. Il colore conta molto, perché spesso associamo alle diversità cromatiche dei significati culturali -> pensiamo all’uso del colore per definire alcuni nostri stati d’animo, anche se concezioni arbitrarie del tutto occidentali. Interessante il riferimento al film di Attenborough Grido di libertà, che spiega quanto i colori non esistano di per sé ma che dipendano da come noi li percepiamo, così come il riferimento al romanzo di Forster Passaggio in India, che prende in causa le metafore razziali, che hanno ben poco a che fare con il colore in sé. Glenn Ligon, artista afroamericano, ha realizzato un’opera dal titolo Untitled (I feel most coloured when I am thrown against a sharp white background), il cui senso è far comprendere come un’identità razziale si sviluppi solo in un sistema di differenze e classificazione, rivelando allo stesso tempo la costruzione culturale delle codificazioni cromatiche delle razze umane. Per oltre due secoli scienziati e filosofi continuarono a discutere sul colore e sulla razza e se il primo fosse un indicatore della seconda: Kant pensava di sì, Leibniz di no, ma resta il fatto che nella maggior parte dei casi la differenza razziale venne codificata in base al colore della pelle -> l’esempio più ovvio è la negativizzazione delle persone provenienti dall’Africa (esempio di un ragazzo di Torino, nero, che vive ripetute situazioni date solo ed esclusivamente dallo stereotipo relativo al colore della sua pelle), ma anche dei nativi americani, cinesi e giapponesi. Fin dalle prime classificazioni razziali i neri sono posti all'ultimo gradino della gerarchia degli esseri umani "normali" e formano l'anello di congiunzione tra le grandi scimmie e la razza bianca. I neri- africani sono tutti uguali, appiattiti e sovrastati nelle loro specificità dal colore della pelle. La pelle diventa così elemento ancestrale, proiezione del diverso in chiave negativa, e riduce l'individuo a corpo. Il colore diventa quindi una condanna per i neri essendo allo stesso tempo un’assoluzione per i bianchi che hanno bisogno di pensarsi tali e non possono farlo se non specchiandosi in negativo sulla gente dalla pelle scura -> esempio di Luca Traini, neofascista che a Macerata nel 2018 sparò ad 8 persone di pelle nera per vendicare una ragazza uccisa da un nigeriano. I nativi americani vengono spesso chiamati “pellerossa” secondo una colorazione attribuita loro dai primi europei arrivati nelle loro terre, dovuta al fatto che alcuni usavano talvolta dipingersi o decorarsi il volto con pigmenti rossi ricavati da terre o bacche colorate (eccezione fatta dai beothuk di Terranova, la cui pratica di dipingersi il corpo con ocra rossa portò gli europei a chiamarli Red Indians). Questa comunque era una definizione benevola, che non portava con sé nessun giudizio di inferiorità. Per un lungo periodo, gli europei hanno pensato che i nativi americani avessero il loro stesso colore della pelle, scuritosi a causa dell'uso di unguenti. È stato solo con il trascorrere del tempo che gli europei hanno gradualmente identificato gli indiani come se avessero un colore diverso -> ciò si verificò nel momento in cui i nativi americani vennero visti come una razza, vale a dire un popolo che possedeva una certa qualità immutabile. Nelle prime classificazioni scientifiche, il colore della pelle diventa parametro fondamentale e i nativi diventano prima color “oliva” secondo Bernier, “rossiccio, rubicondo” per Linneo, “rosso-rame” per Blumenbach e infine “rosso” con Lesson, nel 1847. Questi studiosi fondavano le loro convinzioni sui resoconti dei primi esploratori. L'uso dell'aggettivo inglese red in riferimento ai nativi americani come razza viene registrato per la prima volta nel 1720, mentre la combinazione redskin, che lo lega alla pelle, può essere datata con precisione al 1769: il termine compare in un documento del 1823, relativo all’incontro tra il presidente Madison e una delegazione di capi delle tribù occidentali, oltre che in un discorso del 1815 al consiglio dei trattati di Portage des Sioux; discorso che viene ripreso dallo scrittore Cooper nei suoi romanzi I pionieri e L’ultimo dei Mohicani. L'aggettivo rosso, molto utilizzato nelle prime relazioni diplomatiche tra europei e nativi, funzionava come elemento di differenziazione rispetto a quelle persone che si definivano bianche e ai loro schiavi neri. In realtà, il rosso, più che il colore della pelle, indicava delle specificità culturali -> molti studiosi pensano che l'uso del rosso nelle sue varie forme da parte dei nativi americani rifletta il loro bisogno di usare il linguaggio dei tempi per essere capiti dagli europei. Sarà tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX, in seguito alle guerre con i nativi, che il termine pellerossa comincerà ad assumere un'accezione peggiorativa e offensiva. Anche la parola indiano subisce lo stesso trattamento: non era pellerossa a essere caricato di significati peggiorativi, ma il suo referente, l’indiano -> a contribuire alla negativizzazione dell’immagine del pellerossa furono i primi film western hollywoodiani, che stravolgono ogni dato storico. Nel 1970, film come Soldato blu (film che denunciava le ipocrisie e le menzogne che avevano costituito la storia fondativa degli USA e la politica adottata nei confronti dei nativi, criticando contemporaneamente anche la guerra del Vietnam; nel film sono riversate le lotte e le tematiche tipiche del Sessantotto: il femminismo, il pacifismo e la critica della società borghese, la libertà, il razzismo…) o Il piccolo grande uomo restituirono un po' di giustizia e dignità a un popolo massacrato dai coloni. In genere gli identificatori usati per i gruppi umani, basati su caratteristiche fisiche, sono per natura dispregiativi e tendono a rimarcare la differenza tra chi parla e il suo bersaglio, il che significa nel caso del colore marchiare gli individui, per distinguerli dai gruppi altrimenti accettati. Così come “negro” ha finito per indicare un individuo considerato inferiore, anche “pellerossa” ha assunto con il tempo un significato sempre più negativo -> il concetto di redskin è quindi un prodotto dell'esperienza coloniale, un'etichetta applicata a un ampio spettro di persone per denotare un particolare modo di pensare che è nato tra gli europei. Cosa simile è accaduta agli asiatici, anche se in Cina il colore giallo ha un'importanza storica notevole (prima del XIX secolo non si trova nessun riferimento al giallo come colore della pelle) -> il giallo era un colore importante nella Cina antica, è uno dei cinque colori puri che da sempre simboleggia fama e progresso; in epoca repubblicana il giallo era usato per definire i “veri” cinesi, poiché si connetteva alla storia e alla mitologia (percepito come color oro). Comunque, l'unico elemento cromatico che da sempre gli europei hanno utilizzato come marcatore di inferiorità è il nero, colore da sempre associato al male o a qualcosa di negativo e modo sovrano di indicare chi stava al di fuori della comunità cristiana. Per quanto riguarda l'Oriente, Marco Polo descrive cinesi e giapponesi come bianchi: la definizione come bianchi era però dovuta non tanto al colore della pelle, quanto al loro potere e alla raffinatezza della loro cultura, il bianco era un dato più qualitativo che descrittivo. Il bianco significava civilizzato, caratteristica rilevante per quanto riguardava soprattutto i giapponesi, considerati particolarmente propensi a convertirsi al cristianesimo -> non a caso, diventeranno gialli nel momento in cui si constaterà che non erano poi così disposti alla conversione. A “cambiare colore” ai cinesi contribuì in particolare l’Historia del gran reyno de la China scritta nel 1582 dal monaco agostiniano Juan Gonzalez de Mendoza, in cui si legge che la vastità della Cina fa sì che i suoi abitanti coprano un ampio spettro di colori e che alcuni di loro siano addirittura simili ai tedeschi chiari (rubios) e rossi -> il termine rubio può essere tradotto con “biondo”, da cui “yellow”. Quando l'aggettivo giallo si diffuse e gli orientali non furono più pensati come bianchi, tale pregiudizio venne ripreso anche dai primi scienziati, animati dallo spirito classificatorio del discorso scientifico. Nel 1684 il fisico e viaggiatore francese Bernier pubblica un saggio sulle razze umane, di cui una sarebbe gialla: quella delle genti che abitano l'India. Linneo classifica l’uomo asiatico come luridus (giallo pallido, ma anche orribile e lurido); per Blumenbach gli asiatici, che lui classifica come mongoli, sono gialli e diversi dai bianchi caucasici. Alla fine del XVIII secolo tutti i cinesi, anche se di colore diverso, vennero accomunati nella categoria razziale dei “mongoli”. Nella stessa epoca venne offerta un'altra interessante lettura con l'interpretazione del canto XXXIV dell'Inferno, dove Dante descrive Satana con tre facce: una è rossa, una è tra il bianco e il giallo e una è necessariamente nera, dato che viene dalle sorgenti del Nilo in Africa. In queste tre facce si può vedere una sorta di rappresentazione delle tre parti del mondo che erano percepite all'epoca: Europa, Asia e Africa. Se però gli africani sono neri e gli asiatici sono gialli, perché gli europei dovrebbero essere rossi? Qui ci si può rifare a Blumenbach, quando afferma che una delle caratteristiche dei bianchi è quella di poter arrossire, cosa non presente nelle altre tipologie. Nel 1817 in Egitto viene scoperta loa tomba del faraone Seti I, risalente al XIII secolo a.C., in cui compaiono dei dipinti raffiguranti una processione di uomini diversi tra loro per colore della pelle e abiti. Gli egizi si dipingevano con pigmenti rossi, mentre gli stranieri erano alcuni più chiari e altri più scuri. I chiari vennero identificati come ebrei e persiani, mentre gli scuri erano di sicuro etiopi. Successivamente, studi approfonditi portarono a classificare quelli che erano stati chiamati ebrei come asiatici, il cui colore era tra il bianco e il giallo: a poco a poco la sfumatura scomparve e per distinguerli dai persiani, vennero chiamati gialli. Fatto sta che alla fine del XIX secolo la scienza occidentale è concorde sul fatto che gli asiatici orientali siano gialli e questa colorazione diventa una categoria razziale, che si fa minacciosa nel momento in cui alcuni di loro iniziano ad emigrare in Occidente -> ecco allora che l'estremo Oriente diventa, secondo una definizione fornita dal Kaiser Guglielmo I nel 1895, il "pericolo giallo" (idea che nasce dalle orde mongole). Agli occhi degli occidentali, i giapponesi, invece, hanno sempre goduto di un trattamento di favore, anche perché non venivano associati all'immagine terrificante delle orde mongole. Nel 1920 l'Enciclopedia Britannica riteneva i giapponesi superiori ai cinesi sia per livello di civiltà sia per il colore della pelle, meritando l'inclusione tra le grandi civiltà del mondo. In Giappone, l’essere pensati come gialli non venne presa bene, perché li accomunava con i loro odiati vicini cinesi, che ritenevano inferiori -> i giapponesi preferivano essere accomunati alla più forte razza bianca, per il loro alto grado di civilizzazione. Per i giapponesi, il vero pericolo giallo erano i russi, essendo loro i “veri mongoli”. PARAGRAFO 5: Razze, nazioni e razzismo L’idea stessa di razza contiene già di per sé i germi del razzismo -> la classificazione su base razziale è un’applicazione sistematica dell’etnocentrismo a tutta la specie umana, mentre il semplice pregiudizio si limitava in genere ai gruppi con cui si era in contatto: nel caso delle teorie razziali l’inferiorizzazione si estende a ogni popolazione del pianeta. Ogni classificazione asseriva la superiorità della razza bianca -> questo atteggiamento viene definito “razzialismo” da Todorov: una visione dell’umanità che non coincide necessariamente con il razzismo come comportamento di disprezzo o esclusione e che si fonda su 5 principi: 1) L’esistenza delle razze, come raggruppamenti umani che condividono caratteristiche fisiche comuni e il timore per gli incroci tra le razze (mixofobia); 2) La relazione causale tra le differenze fisiche e quelle culturali: alla suddivisione del mondo in razze corrisponde una netta divisione per culture; 3) Basandosi sui principi deterministici, si sostiene che il comportamento dell’individuo dipende soprattutto dal gruppo razzial-culturale di cui fa parte; 4) Esiste una gerarchia unica dei valori, sulla base della quale si può ordinare le culture come superiori o inferiori; 5) Una volta stabiliti i “fatti” se ne ricava un giudizio morale e un ideale politico. In questo modo, sostiene Todorov, l’assoggettamento delle razze inferiori può essere giustificato dal sapere accumulato in materia. Di parere simile è Anthony Appiah, che definisce racialism la convinzione che vi siano caratteristiche ereditarie, possedute dai membri della nostra specie, che ci consentono di ripartirle su una serie di razze. Questi tratti comuni di ogni razza e non condivisibili con nessun’altra costituirebbero una sorta di essenza razziale. È insito in questo pensiero che le caratteristiche ereditarie siano più importanti di quelle morfologiche visibili, sulla base delle quali noi costruiamo le nostre classificazioni informali. Appiah sostiene che il razzialismo sia falso e che non esistano gruppi che condividono un’essenza razziale -> se si riscontrano somiglianze psicologico-comportamentali sono dovute a cause di tipo storico, culturale e sociale. In conclusione, Appiah giudica il razzialismo sbagliato, ma non moralmente riprovevole. La rivelazione di una differenza non è necessariamente razzismo, rimane una constatazione neutrale. Quando questa lettura si trasforma in un progetto politico perde la sua neutralità e si trasforma, spesso, in razzismo. Il razzialismo si distingue, dunque, dal razzismo solo perché non prevede un’azione conseguenti alla classificazione razziale, mentre il secondo diventa la linea guida per una politica applicata, legittimata dal fatto che la differenza altrui presuppone l’inferiorità di questo. Il razzismo è più che una teorizzazione delle differenze umane, ma propone e promuove un ordine razziale, una gerarchia di gruppo che si pensa che rifletta le leggi della natura o il volere di Dio. Come sostiene Albert Memmi, non è tanto la differenza in sé a essere importante, ma il significato che le si attribuisce. L’azione razzista si realizza su due piani intrecciati: differenza e potere. La prima fornisce una base per usare il potere a nostro vantaggio; per discriminare qualcuno bisogna, dunque, avere il potere di sovrastarlo in termini di forza -> lo stesso principio classificatorio si basa su un rapporto di forza favorevole: chi ha il potere di definire l’altro? Chi ha questo potere ha anche il potere di controllarlo. Come sostiene Hannah Arendt, il pensiero razziale si è affacciato sulla scena politica quando i popoli dell’Europa si preparavano a realizzare i primi stati nazionali e nasce da realtà a volte diverse, a seconda del paese in questione. In Francia, ad esempio, si elaborò una teoria nel XVIII secolo secondo cui quella francese Il termine genocidio venne coniato nel 1944 da un giurista polacco, Lemkin, per indicare la volontà di sterminio su un popolo in quanto tale, come stava accadendo agli ebrei per mano nazista. Non si vogliono eliminare gli individui, ma il gruppo in sé -> l’individuo viene annullato, spersonalizzato per essere inglobato nel contenitore razziale, come ci insegna Primo Levi. Il pregiudizio antiebraico era divampato in molti paesi europei, come Ungheria, Polonia, Austria e Russia, ma aveva attecchito anche in Francia -> da ricordare il celebre caso di Dreyfus, che divise il paese tra 1894 e 1906, a seguito dell’accusa di tradimento con la Germania mossa al capitano alsaziano di origine ebraica. La propaganda nazista diede il via a una demonizzazione degli ebrei, come una minaccia per il popolo tedesco e come la causa di tutti i mali della Germania, prima fra tutti la scottante sconfitta nella Prima Guerra Mondiale. Si cercò di addossare le colpe degli ebrei alla loro natura, in quanto “gli ebrei hanno sempre suscitato l’antisemitismo”, come disse Hitler, “l’antisemitismo non potrà scomparire, perché sono gli ebrei stessi ad alimentarlo e ravvivarlo continuamente. Bisognerebbe che sparisse la causa, perché scompaia la reazione difensiva”. Sarà Jean-Paul Sartre a ribaltare questa visione, affermando, al contrario, che è stato l’antisemitismo a creare l’ebreo. Colpisce come, nella propaganda nazista, risulti evidente la paura della giudeizzazione del popolo tedesco -> in questo era presente, però, un malcelato senso di inferiorità: se ho paura che l’altro possa trasformarmi, ammetto che ha un potere maggiore del mio, a cui sono obbligato ad oppormi con brutalità. Questo è il tema che rende diverso il razzismo suprematista degli USA nei confronti dei neri, che vennero inferiorizzati per giustificarne lo sfruttamento. Gli ebrei, invece, andavano allontanati e i loro beni confiscati. Durante il Terzo Reich, a partire dalla notte dei cristalli del 1938, Hitler mette in atto una politica di esclusione ed espulsione, ipotizzando persino una deportazione di massa in Madagascar, per fare degli ebrei una riserva semita -> lo scopo era creare una Germania libera dagli ebrei, costituita da soli ariani puri. Durante la Seconda guerra mondiale, quasi tutta l’Europa cade in mano tedesca: lo scopo diventa quindi liberare tutto il continente dagli ebrei. Inizia perciò la politica dello sterminio (non si sa dove deportare in massa gli ebrei), che ha condotto alla Shoah, dove tra l’altro insieme agli ebrei troveranno la morte anche altri “impuri”, come zingari e omosessuali. Anche la retorica hitleriana cambia, diventando misticheggiante: descrive il massacro che si stava compiendo come un evento ineluttabile del destino; in realtà, Hitler concepisce, nel suo Mein Kampf, la sua lotta contro gli ebrei come quasi una guerra religiosa dai toni apocalittici, rispetto alla quale solo la soluzione finale avrebbe portato alla redenzione -> bisogna quindi disumanizzare gli ebrei per rendere accettabile la loro eliminazione. Rosenberg nega loro persino lo statuto di “razza”, parlando di “contro-razza”, essendo gli ebrei uno pseudopopolo tenuto insieme da una criminalità ereditaria. Secondo i nazisti, gli ebrei non avevano il diritto di vivere. Anche in Italia l’antisemitismo trovò terreno fertile nella cultura fascista: a differenza della Germania, non c’era tra la popolazione una particolare avversione nei confronti degli ebrei, anche perché nella Prima guerra mondiale l’apporto ebraico fu consistente; nella prima fase del regime fascista, il rapporto tra mondo ebraico e il partito di Mussolini fu buono (addirittura una buona parte della popolazione ebraica benestante sostenne la presa di potere del fascismo o comunque non vi si oppose). Nel 1925, inoltre, il Manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Giovanni Gentile venne sottoscritto con la partecipazione di 33 esponenti della cultura di religione ebraica. Nel 1932, il giornalista ebreo Emil Ludwig intervistò Mussolini, il quale affermava che l’antisemitismo non apparteneva alla cultura italiana: “Io non credo che si possa provare che biologicamente una razza sia più o meno pura […] L’orgoglio nazionale non ha bisogno di deliri di razza…”. A partire dal 1933, con la presa di potere di Hitler, iniziano ad emergere sui giornali i primi segnali di antisemitismo, sostenendo la tesi per cui gli ebrei vogliono conquistare il dominio del mondo. La posizione del governo italiano è ambigua: da un lato, si strizza l’occhio all’alleato tedesco, dall’altro si tranquillizza la popolazione, ospitando diversi profughi ebrei tedeschi che fuggono dal nazismo. Il 5 agosto 1938 esce il primo numero della “Difesa della razza”, in cui compare un articolo non firmato dove si legge che la razza italiana fosse prettamente ariana e andasse difesa da contaminazioni e che gli ebrei fossero pericolosi per il popolo italiano. Nello stesso articolo è riportato il “Manifesto della razza”, firmato da 10 scienziati italiani, che mostra il vero volto del fascismo, in linea con la visione hitleriana: - le razze umane esistono (affermazione dogmatica, non scientifica); - esistono grandi e piccole razze (in senso qualitativo o quantitativo?); - il concetto di razza è un concetto puramente biologico; - la popolazione dell’Italia attuale è di origine ariana e la sua civiltà è ariana (affermazione smentita nel punto dopo); - esiste ormai una razza pura italiana (affermazione che viene confutata successivamente); - è tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti; - è necessario fare una distinzione tra i mediterranei d’Europa occidentale da una parte e gli orientali e gli africani dall’altra; - gli ebrei non appartengono alla razza italiana; - i caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani non devono essere alterati in nessun modo. In Italia si professava un antisemitismo basato su una propaganda da poco prezzo, in cui il concetto stesso di razza non viene ben definito (ci sono varie contraddizioni interne ai punti). Poco dopo questa pubblicazione, vennero pubblicate le leggi razziali, dopo le quali il fascismo cercò di distinguersi dal nazismo -> Mussolini elaborò lo slogan “Discriminare e non perseguitare” per indicare la filosofia prevista per l’applicazione delle leggi razziali, che, insieme alla propaganda antiebraica, causò la perdita dei diritti da parte dei cittadini italiani di origine e/o religione ebraica. Gli episodi di violenza si moltiplicarono, anche senza una pianificazione finalizzata allo sterminio come in Germania, ma comunque gli ebrei erano decretati come stranieri. Due anni dopo, Mussolini decretò che venisse organizzata l’espulsione degli ebrei italiani nei successivi 10 anni. Le leggi razziali vennero abrogate dopo l’8 settembre 1943, con un decreto di Badoglio -> paradossalmente, da quel momento iniziarono le persecuzioni più violente, con la nascita della Repubblica Sociale alleata dei tedeschi: gli ebrei italiani sono sottoposti alle stesse norme naziste, iniziano le deportazioni e le uccisioni. L’antisemitismo non attecchì granché fra la popolazione italiana, in particolare tra i ceti più bassi: furono molti i casi di ebrei tenuti nascosti da famiglie non ebree; comunque furono oltre 7000 gli ebrei italiani deportati. Il razzismo, e l’antisemitismo ne è un’espressione, essenzializza gli individui e i gruppi e disindividualizza le persone, riducendole a marchio, estromettendoli dalla storia. PARAGRAFO 7: Dallo schiavo al “negro” Negli USA e nelle Americhe in generale la concezione razziale degli afroamericani è legata alla pratica della schiavitù, la domanda da porsi è: furono i principi razziali a rendere possibile la schiavitù o fu questa pratica a far nascere i pregiudizi di inferiorità nei confronti dei neri? Gli africani deportati dal loro continente natale venivano discriminati come inferiori, e perciò schiavi, senza elaborare una vera e propria teoria della razza, senza accusa di una remota azione negativa: la loro unica colpa era il colore, che dava origine alla paura della contaminazione -> la propaganda razzista dipingeva i maschi neri come bestie feroci, che si mescolavano con la razza bianca con la forza; molto spesso, però, i padroni bianchi si intrattenevano con le schiave nere -> questo evidenzia come la questione non fosse legata solo al colore, ma anche al potere e al genere. Negli USA si svilupparono diverse forme di razzismo: mentre negli stati del Nord vigeva un razzismo di avversione, negli stati del Sud prosperava quello che si definisce un razzismo suprematista di dominio. Si era, in generale, messo in atto un pensiero razzista che pretendeva di dispensare verità assoluta: - esistono le razze; - esistono razze superiori; - la superiorità di tali razze legittima dominio e privilegi. Secondo Karen e Barbara Fields una delle idee più radicate e diffuse tra gli statunitensi era che esistesse una sola razza, quella negra (ancora oggi, personaggi famosi di origine africana sono visti come membri di una razza, mentre non lo sono quelli di origine europea o asiatica). Altro pregiudizio molto diffuso è che qualunque cosa un afroamericano pensi o faccia sia un atto di natura razziale -> i neri voterebbero per forza un candidato nero (falso! Obama è stato eletto nel 2008 grazie al voto bianco): per questo, ogni situazione che vede coinvolti un afroamericano e un europeo viene letta come relazione razziale -> la schiavitù è stata pensata come un sistema di relazioni razziali, come se il suo scopo principale fosse stato la costruzione della supremazia bianca, piuttosto che la produzione di cotone, zucchero, riso e tabacco. Quello americano fu soprattutto un razzismo di sfruttamento, funzionale all’economia delle piantagioni, a differenza di quello nazista. L’ideologia della razza in America risale ai tempi dei padri fondatori, manifestandosi sin dall’inizio all’interno di una contraddizione: sebbene nella Dichiarazione d’Indipendenza fosse scritto che tutti gli uomini fossero uguali, molti di loro nella realtà possedevano schiavi neri. All’epoca della Rivoluzione (1776), tanto coloro che sostenevano la schiavitù quanto quelli che vi si opponevano finivano per confermare l’inferiorità razziale degli afroamericani. Importante sottolineare che, nel XVII secolo, negli stati del Sud c’erano molti braccianti a contratto di origine inglese che lavoravano come gli schiavi neri, ma che alla fine del contratto tornavano liberi. Qual è la differenza con gli afroamericani? Gli inglesi erano bianchi (facevano parte in qualche modo della storia americana), gli africani no. Ciò che ha contribuito maggiormente a inferiorizzare gli africani e i loro discendenti fu l’incorporazione degli africani e dei loro discendenti in una comunità politica e in una società in cui non avevano diritti che altri davano per scontato e reclamavano come diritti naturali. La razza serviva a spiegare perché ad alcune persone poteva giustamente essere negato ciò che ad altri era dato per natura: la libertà, considerata dono divino e quindi della natura -> la radice del razzismo americano va ricercata nell’idea di Dio e della natura, più che nella scienza. In particolare, furono gli euroamericani a definire gli afroamericani come una razza. Sulla scia della Rivoluzione americana, l’ideologia razziale assunse la sua massima importanza nella società libera e borghese degli stati del Nord, dove sia la schiavitù che la presenza di afroamericani erano eccezioni. La distinzione razziale era il principio fondante della nazione, descrivendo il borghese del Nord meglio dello schiavo del Sud. Alexis de Tocqueville, nel 1848, scrive della differenza di comportamenti tenuti nei confronti dei neri, rispetto e da parte dei bianchi. Il “negro”, termine che assunse nel tempo una valenza profondamente spregiativa, è uno dei frutti amari del razzismo, che trasforma un dato di fatto epidermico in una macchia di inferiorità, che ha condotto ad una sorta di sottoproletarizzazione degli africani deportati in America -> visione che non venne cancellata neanche con l’abolizione della schiavitù. L’identità razziale del negro è stata inventata e imposta agli schiavi dagli schiavisti e poi usata per escludere la loro progenie dalla cittadinanza attiva. Razzismo in America che non è solo quello visceralmente brutale del Ku-Klux-Klan, della violenza perpetrata in nome della superiorità bianca, ma che assume forme molto più subdole e tollerate dalle leggi. Questa è una tesi di un libro di Ta-Nehisi Coates, “Un conto ancora aperto”, in cui racconta come la lotta contro il razzismo vada avanti nel tempo e in cui l’autrice dichiara che la più antica democrazia del mondo si fonda proprio sulla discriminazione e sullo sfruttamento dei neri da parte dei bianchi. Coates racconta la storia di un novantunenne nato in una famiglia di contadini nel Mississippi e ricostruisce come, fin dalla nascita delle prime città, sia stata adottata una politica di segregazione sul piano abitativo: i neri dovevano abitare nei quartieri di neri, perché la loro presenza in un quartiere di bianchi avrebbe fatto calare il prezzo delle case -> se sei nero devi abitare dove ti dicono i bianchi. Coates inoltre punta il dito sull’ipocrisia dei bianchi che non vogliono riconoscere il carattere razzista di molte leggi del passato: per risolvere davvero il problema, bisognerebbe ammettere e riconoscere il fatto che gli USA nascono su e da un presupposto razzista. PARAGRAFO 8: Gli zingari Il 9 gennaio 1957, nel parlamento locale del Baden-Württemberg si discuteva un provvedimento per regolamentare il vagabondaggio. Mentre il relatore illustrava la sua proposta di limitare il movimento degli zingari, una parlamentare dell’opposizione lo interruppe per sostenere che tale proposta contravveniva alle leggi fondamentali della Repubblica Federale Tedesca. Il relatore rispose che si augurava che un vagone pieno di zingari fosse messo davanti all’abitazione della collega, per vedere se la sua umanità avrebbe prevalso sul suo essere legislatore. La Seconda Guerra mondiale era finita da poco (con essa anche lo sterminio degli zingari -> 500.000 furono gli zingari uccisi nei lager nazisti) e questo dibattito mette in luce la questione: quale dei due atteggiamenti rappresentava il sentimento della Germania rispetto a questa minoranza, quello conservatore o quello liberale? Questa minoranza sembra non sia ricordata: anche il 27 gennaio, Giornata della Memoria, (o il giorno più bello della mia vita, ti amo) nelle commemorazioni, sugli zingari cala oblio e silenzio -> questa è un’altra espressione dell’antiziganismo, parola coniata dallo storico tedesco Wippermann, per indicare tutte le forme di comportamento avverso agli zingari. Gli zingari compaiono in Europa nel XV secolo, provenienti dall’India. Dapprima svolgevano mestieri itineranti, ben presto iniziarono a diventare sospetti per il loro stile di vita, la loro origine ignota, l’ambiguità religiosa e il colore della pelle (fin dall’antichità vengono definiti come persone dalla pelle scura). La difficoltà a classificarli è rivelata anche dai diversi nomi dati a queste genti: il termine inglese gypsy, come l’italiano gitano, deriva da egyptian, in quanto molti di loro dicevano di provenire dall’Egitto, ma si dichiaravano Si tratta di una nozione piuttosto recente, che risale alla fine dell'Ottocento -> prima, i giapponesi si percepivano come una periferia della grande civilizzazione cinese, da cui avevano ereditato anche la scrittura. A partire dal periodo Meiji, qualcosa cambia: nell'avvio di un processo ispirato alle potenze industriali dell'Occidente, i giapponesi prendono le distanze dai cinesi, iniziando a denigrarne abitudini e cultura. Inizia a svilupparsi una forte coscienza nazionale e l'idea che il Giappone sia una comunità naturale, primordiale e immutabile. La naturalizzazione della tradizione culturale porta a un'idea di “giapponesità”, definita attraverso immagini di purezza e di omogeneità della nazione, della famiglia e dello stile di vita giapponese. La nazione viene concepita come una famiglia allargata, con l'imperatore come padre semidivino della comunità nazionale e capo dello Stato. Nella lingua giapponese esistono due termini per indicare le caratteristiche di un gruppo umano: il primo, jinshu, può essere tradotto con “razza” e indica il colore della pelle, la statura fisica, la consistenza dei capelli, la forma cranica e il tipo di sangue; il secondo, minzoku, è l'equivalente di “etnia” e non si fonda sulle caratteristiche fisiche. Con il trascorrere del tempo, il secondo termine finì per assumere da solo il significato di razza, etnia e nazione a partire dagli anni Venti del Novecento -> apparvero pubblicazioni che sostenevano una base biologica o genetica per affermare la superiorità del popolo giapponese. Secondo molti storici nipponici, in origine, esisteva una razza dominante detta yamato, che aveva assimilato gli altri esemplari umani preistorici. Questa cultura del sangue giapponese si sarebbe preservata pura nel tempo, grazie alla regola virtuosa della successione Imperiale; nel definire la nazione giapponese come una personalità collettiva, caratterizzata dall'uniformità, si esaltano l'omogeneità e l'immutabilità delle caratteristiche ereditarie della sua gente -> queste caratteristiche fornivano, come scrive Balibar, “una spina dorsale storica, una concentrazione di qualità che appartengono esclusivamente ai cittadini. Pertanto, è nella razza dei suoi figli che la nazione può contemplare la sua vera identità nel modo più puro; di conseguenza, è alla razza che la nazione deve aderire”. Tale sentimento porta all'idea di diversità, che viene declinata in senso culturale più che strettamente biologico e che si esprime attraverso la nozione di un possesso esclusivo di una cultura particolare. Secondo Michael Weiner, la visione dello straniero da parte dei giapponesi è stata fin dalle origini imbevuta di significati razziali, pur con delle variazioni nei diversi periodi storici -> le categorie di inclusione ed esclusione adottate dai giapponesi tra il XVII e il XIX secolo non presumevano una forma razzializzata, sebbene non manchino certo prove di xenofobia. I missionari cristiani erano considerati pericolosi, i barbari inferiori, ma si trattava di considerazioni culturali e politiche. Le immagini negative nei confronti dei neri iniziarono a diffondersi quando i giapponesi incontrarono lo schiavismo degli europei. Il termine kuronbo, applicato alle persone di colore, era dispregiativo al pari di quelli usati per riferirsi agli occidentali bianchi; anche i nativi americani, i dojin, caddero vittime del pregiudizio. La rapida industrializzazione del Giappone contribuì a diffondere l'idea di una superiorità nipponica e il successo nazionale era percepito come una manifestazione di lotta per la sopravvivenza e sopravvivenza del più adatto. Questo senso di orgoglio nazionale veniva riferito solo ai “veri” giapponesi, mentre le popolazioni indigene di Hokkaido, Taiwan e Corea venivano classificate come degenerate. Fu così che gli ideologi giapponesi iniziarono a concepire la popolazione mondiale come composta da tre razze, secondo i criteri stabiliti da Gobineau. La produzione di tali teorie dell'esclusione non si limitò ai vicini del Giappone: il principio darwiniano della sopravvivenza del più adatto poneva il Giappone in una posizione superiore -> si radica una sorta di avversione per ogni straniero, che avrebbe potuto contaminare l'ancestrale purezza nipponica. Inoltre, l'alleanza con il fascismo e il nazismo portò all'individuazione di un altro nemico: gli ebrei -> si diffuse l'idea del complotto ebraico per distruggere il Giappone, senza contare che, dato che i giapponesi pensavano a loro stessi come popolo prediletto da Dio, gli ebrei erano visti come concorrenziali. Sintomatico è che il “Manuale della paura” della setta religiosa Aum Shinrikyo, che nel 1995 compì un attentato nella metropolitana di Tokyo, causando la morte di 13 persone e oltre 5.500 feriti, contenesse una esplicita dichiarazione di guerra agli ebrei, visti come un pericolo per il Giappone a causa del loro controllo delle maggiori banche. Secondo lo storico Toynbee, gli arabi primitivi che costituivano la classe dominante nel califfato omayyade si autodefinivano “il popolo bruno”, implicando una superiorità razziale e definendo i loro sudditi persiani e turchi come “il popolo rosso”, che sottendeva una inferiorità razziale. Gli arabi, secondo Toynbee, ignoravano ogni differenza basata sulle diversità fisiche e dividevano l'umanità in fedeli e infedeli (considerati potenzialmente fedeli). Avevano frequenti contatti con i neri dell'Africa e dell'India e con loro convivevano sotto il vessillo dell'islam, al punto di fare sposare le loro figlie con loro. Malcolm X la pensava allo stesso modo e, nella sua celebre autobiografia, scrive a proposito del suo pellegrinaggio alla Mecca e di come i pellegrini presenti erano migliaia, tutti diversi tra loro, dando prova di uno Spirito di unità e di fratellanza che in America si pensava non potesse esistere. Malcolm X nota anche una separazione in quanto “gli africani rimanevano con gli africani, i pakistani con i pakistani e così via”, anche se non volle pensare che questo avesse a che vedere con forme di razzismo. Il Corano, in realtà, non esprime alcun pregiudizio razziale, semmai riconosce la diversità tra il sentimento arabo contrapposto a quello del persiano, del greco o di altre popolazioni. La questione diventa più rilevante quando l'Islam si espande al di fuori del mondo arabo -> per quanto riguarda il colore, i primi arabi utilizzavano una gamma ampia per descrivere le diversità epidermiche dell'umanità, facendo riferimenti cromatici riferiti più all'individuo che ha un gruppo etnico o a una razza. Inoltre, gli arabi si definivano talvolta neri, per distinguersi dai persiani che erano rossi, e talvolta bianchi o rossi, in contrasto con gli africani neri. Il celebre orientalista Bernard Lewis riporta un episodio riferito all'epoca della conquista dell'Egitto da parte degli arabi nel 641 -> un capo arabo, nero, guidò una delegazione al cospetto del capo dei cristiani di Egitto, che si spaventò alla vista del nero e chiese che fosse mandato un altro rappresentante. I suoi risposero che lui era il più saggio e il più nobile, ma il capo cristiano non riuscì a comprendere come un nero fosse superiore a tanti altri arabi meno scuri di lui. Con il tempo, le varie sfumature di colore si ridussero a rosso (con la conquista dell’Iran, il rosso attribuito ai persiani prese connotazione negativa, finendo per descrivere tutti i popoli conquistati), nero (prese la connotazione di inferiorità, i neri vennero definiti “corvi degli arabi”) e bianco. Sono molti gli aneddoti riportati da Lewis che testimoniano come i neri fossero considerati inferiori; tale sentimento venne accentuato dalla rapida espansione araba dopo l’avvento dell’islam -> per i musulmani, gli africani di pelle nera erano ai limiti dell’umano: lo storico tunisino Ibn Khaldun scriveva a proposito degli africani neri, in quanto poco umani accondiscendevano alla schiavitù. Occupando regioni in Asia e in Africa, gli arabi incontrarono popolazioni “bianche” più evolute e popolazioni “nere” considerate primitive e questo innescò la comparazione, la pratica della schiavitù il commercio degli schiavi -> rafforzamento dell’idea di inferiorità dei neri. Per i musulmani, il mondo civilizzato era il loro, il regno dell’islam; al di fuori, c’erano barbari (concepiti come bacino di schiavi; la loro natura era quella di animali selvatici, ponendo l’accento sulla nudità, sul paganesimo e sul tribalismo, visti come indici di primitivismo: è nella natura dei neri essere schiavi e commerciabili) ed infedeli (abitanti dell’India e della Cina che godevano di qualche rispetto, in quanto considerati abbastanza civilizzati). Nei racconti delle Mille e una notte, i neri appaiono come schiavi, nei ruoli più umili, ma allo stesso tempo presentati come sessualmente minacciosi, sempre pronti a insidiare le donne “bianche”. Fino al 1888, in Brasile la questione razziale era definita: a essere neri erano gli schiavi. Nella Bahia del 1835, la popolazione si divideva in brasiliani, africani ed europei, ma c’erano differenze di colore tra i nati in Brasile: il negro veniva chiamato crioulo e tra i neri c’era il negro crioulo nato in Brasile e il negro africano, detto anche preto. I frequenti rapporti sessuali tra padroni e schiavi avevano prodotto molti individui meticci, segno di degenerazione. Dopo l’abolizione della schiavitù ci si pose il problema delle relazioni sociali tra europei, indigeni e africani; inoltre, si registrò un aumento dell’immigrazione europea (italiani, portoghesi e tedeschi); il processo di industrializzazione provocò alcune trasformazioni nelle relazioni socio-economiche. Per i bianchi, il meticciato e la presenza di neri costituivano un impedimento al nascere di una nazione moderna e avanzata -> nel 1890 venne proibito l’ingresso in Brasile agli africani e si diffuse la teoria del branqueamento (sbiancamento), secondo la quale la convivenza tra europei, neri e meticci avrebbe sbiancato questi ultimi - > il meticciato appariva come frutto di un processo di evoluzione positivo. Negli anni Trenta del Novecento, grazie all’opera di Freyre, prende piede l’idea che il meticciato possa rappresentare un dato positivo, senza che per questo venga abbandonata l’idea del branqueamento. Freyre arriva a sostenere che il meticciato non deve essere visto negativamente, ma che esso rappresenti l’elemento principale dell’unità nazionale. Tale affermazione si basa sull’idea che il cosmopolitismo ha fatto sì che i primi coloni portoghesi non avessero particolari giudizi razziali. Questi arrivarono in Brasile senza donne, per cui il meticciato divenne la condizione naturale fin da subito -> fatto riassunto nella frase di Jorge Amado: “In Brasile, il razzismo lo abbiamo sconfitto a letto”. Nel 1935, mentre in Europa dominavano le ideologie razziste, in Brasile viene redatto un Manifesto contro il pregiudizio razziale, per controbattere a nazismo e fascismo -> da qui, si diffonde l’immagine del Brasile come terra scevra da pregiudizi razziali, una “democrazia razziale”, che ha fatto di questa il fulcro della sua identità nazionale. Negli anni Cinquanta, l’UNESCO propone il Brasile come laboratorio di ricerca per studiare il suo modello di convivenza tra gruppi diversi: i risultati offuscarono l’immagine rosea condivisa fino ad allora -> in realtà, il pregiudizio razziale era diffuso e le persone di origine africana erano discriminate più perché povere, che perché nere. Le ricerche condotte dagli antropologici hanno, quindi, messo in discussione l’immagine di un Brasile esente da ogni forma di discriminazione. Tra il 1964 e il 1986 il Brasile visse sotto una dittatura militare, il cui regime temeva che il parlare di differenze razziali costituisse una minaccia per il patriottismo nazionalista -> l’idea della democrazia razziale assunse un ruolo istituzionale importante, rafforzando l’idea del Brasile come paradiso razziale. Caduta la dittatura, si aprì una nuova stagione, in cui i movimenti sociali tornarono a ricoprire un ruolo fondamentale (Movimento Negro Unificado, che si propone di riscattare un passato di sottomissione ed emarginazione, battendosi a favore dell’integrazione sociale ed economica dei neri) -> emanazione di leggi sulle quote per i neri all’università simili a quelle statunitensi. Queste iniziative, sì, riparano in parte i torti subiti da una parte della popolazione, ma reintroducono il concetto di razza come elemento specifico, anche se rimane il fatto che il Brasile si possa definire come un paese in cui la convivenza tra genti di origine diversa sia meno conflittuale e più armoniosa. PARAGRAFO 10: L’equivoco Il termine razza deriva dal francese antico haraz, che indicava un allevamento di cavalli e quale sia stato lo slittamento semantico che ha portato il termine a diventare sinonimo di gruppo biologicamente connotato è incerto. Cosa intendiamo oggi quando parliamo di razza? Luigi Luca Cavalli-Sforza spiega questo interrogativo: una razza è un gruppo di individui che si possono riconoscere come biologicamente diversi dagli altri. Il biologo evoluzionista Ernst Mayr distingueva tra le specie al cui interno le caratteristiche degli individui variano gradualmente nello spazio geografico e quelle in cui esistono confini riconoscibili che separano gruppi diversi (chiamati razze o sottospecie). Per realizzare una classificazione razziale occorre individuare i criteri che segnano le frontiere della razza -> affinché queste frontiere esistano occorre presupporre una stanzialità dei gruppi originari. Nel suo celebre libro, Il gesto e la parola, lo studioso dell’evoluzione André Leroi-Gourhan scrive che la storia dell’umanità è stata un cammino, in quanto l’uomo è stato migrante da sempre; di questo cammino ci danno prova le mappe genetiche. Un po' meno chiaro è il modo in cui si sia riusciti a colonizzare le isole oceaniche - > si pensa che dopo aver colonizzato l’intero pianeta abbiamo continuato a muoverci con irrequietezza, fondamentale per i nostri incontri. Nel 1953, sull’autorevole rivista scientifica “Nature”, comparve un articolo firmato da Watson e Crick in cui i due scienziati mostravano per la prima volta la struttura a doppia elica del DNA, la carta d’identità biologica che fa di ciascuno di noi un individuo unico. Lewtonin nel 1972 decise di studiare le variazioni dei 17 geni meglio conosciuti all’epoca e per farlo prese un campione di individui appartenenti a 7 di quelle che venivano pensate come razze: caucasici, subsahariani, mongoloidi, aborigeni del Sudest asiatico, amerindi, abitanti dell’Oceania e gli aborigeni australiani. Il risultato fu che ogni popolazione presentava l’85% della variabilità genetica umana -> la variazione tra presunte razze diverse è inferiore alla variazione generale: siamo molto più diversi al nostro interno di quanto lo siamo rispetto a quelli che consideriamo diversi da noi. I successivi studi di Cavalli-Sforza e di altri genetisti hanno confermato le affermazioni di Lewtonin e l’idea che non sia possibile classificare l’umanità sulla base di differenze biologiche significative. Quello della razza è un grande equivoco sorto a causa di una mal interpretazione della teoria darwiniana (anche se Darwin era molto cauto sulla questione), sulla base della quale si ipotizzarono delle differenze biologiche e culturali tra i gruppi umani, che vennero percepite come naturali, lo sostiene Ta-Nehisi Coates. Un altro equivoco nato dall’ossessione della razza è stato il fatto di pensare che la biologia determinasse le attitudini culturali dei gruppi umani. Cavalli-Sforza ha prestato attenzione alla correlazione tra la diffusione genetica e quella linguistica e culturale; infatti, sono le circostanze della nascita a determinare le lingue alle quali l’individuo è esposto e le differenze linguistiche possono generare barriere genetiche, così come una differenziazione dei fattori culturali. Questa correlazione tra geni e cultura può essere spiegata attraverso "istituzionale" (previsto dalle leggi, come le leggi razziali italiane e tedesche, le leggi statunitensi “Jim Crow”, l'apartheid sudafricano…). In altri casi, riscontriamo forme di razzismo "sociologico", esercitate individualmente o collettivamente da persone razziste in un sistema che non lo prevede. Di fatto ogni razzismo storico è stato sia sociologico che istituzionale. Esiste un razzismo di inclusione, in cui le vittime rimangono all'interno della società che li discrimina, dalla quale vengono sfruttati per motivi economici (schiavismo negli Stati Uniti, senza un piano di genocidio); possiamo dire la stessa cosa del razzismo coloniale, dove i colonizzati erano a loro volta privati dei diritti e sfruttati come manodopera. Al contrario, il nazismo prevedeva prima l'espulsione e poi la soluzione finale, il totale annientamento degli ebrei -> fu un razzismo di esclusione. Caso particolare fu il modello sudafricano, che riunì e mescolò le caratteristiche delle tre forme di razzismo nazista, colonialista e schiavista -> avvenne una proletarizzazione dei neri che non prevedeva alcuna forma di espulsione, ma una separazione sociale e spaziale istituzionalizzata. “Il razzista comune non è un teorico, non è capace di giustificare il suo comportamento con argomenti scientifici ", queste sono le parole di Todorov. Per quanto riguarda la costruzione simbolica e retorica, alcuni atteggiamenti razzisti sono autoreferenziali, in quanto si basano sulla presunzione di superiorità della razza che esercita questa pratica. Il razzismo suprematista del Ku-Klux-Klan è una di queste espressioni, così come lo è stata l'ideologia legata alla supremazia ariana dei tedeschi. Non è facile trovare società contemporanee totalmente esenti da forme di razzismo: ciò che le distingue è la misura in cui le sue espressioni pubbliche sono inibite dalla cultura dominante o le azioni violente sono frenate dall'apparato legale. Se esiste un legame tra razzismo e nazionalismo, come si sviluppa? Anche il nazionalismo è un concetto che presenta diversi problemi di definizione e raramente funziona da solo, essendo parte di una catena che è arricchita con espressioni come patriottismo, etnocentrismo, xenofobia, imperialismo…Anche se i diversi nazionalismi hanno seguito percorsi differenti, in alcuni casi c'è stata una sorta di reciprocità tra nazionalismo e razzismo, che si manifesta nel modo in cui il nazionalismo trasforma in razzismo forme di antagonismo e rivalità che hanno origini diverse. Quasi nessuno Stato nazionale si fonda su una base etnica, per cui il nazionalismo non dovrebbe essere definito come una forma di etnocentrismo; ma l’antropologia ci insegna che nemmeno le etnie sono sempre degli insiemi coerenti per origine, anzi, in molti casi, sono prodotti di alleanze e di eventi storici: in sostanza, l'essenza di un etnia va ricercata più nel progetto che nel suo passato e in tale prospettiva, nulla impedisce ai cittadini di uno stato di pensarsi come il frutto di una radice comune. Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo le costruzioni nazionali si dotarono di miti dell'origine e di ideologie della discendenza, sovrapponendo nazione e razza e rafforzando la convinzione di condividere lo stesso sangue, una discendenza comune e attributi superiori. Secondo Hannah Arendt, l'idea che il razzismo sarebbe una forma esasperata di nazionalismo è errata: ci sono stati casi di nazioni che si sono rette su principi razziali, gli stessi principi che ne hanno segnato i rapporti con altri paesi -> il razzismo non è espressione di nazionalismo “normale”, ma un “supplemento" in eccesso di un nazionalismo di intensità estrema. La relazione tra nazionalismo e razzismo sta nel trasformare un'ideologia e una politica "normali" in un'ideologia e un comportamento "eccessivi" e proporre questi ultimi come inevitabile risultato del primo, producendo, attraverso un'adeguata propaganda, un immaginario che legittima ogni tipo di azione -> fu questo il caso della Germania dopo la fine della Prima guerra mondiale. In alcuni casi, il razzismo si manifesta come una forma di repulsione dell'altro, una paura di essere contaminati: è il caso di un episodio accaduto nel 2018 quando sul treno Frecciarossa Milano-Trieste a una ragazza di 23 anni di origine indiana venne dato della "negra" da una signora che non le voleva sedere accanto: le insicurezze e le paure delle persone portano a una forma di risentimento: si basti pensare alla ormai abusata accusa "ci rubano il lavoro". Cavalli- Sforza era conscio del fatto che la genetica aveva dimostrato l'esatto contrario di ogni teorema razzista: non esistono razze umane e non esiste alcun rapporto deterministico tra patrimonio genetico e attitudini culturali. Oggi però il razzismo non si presenta sotto la forma di un’ideologia esplicita e definita: il nuovo razzismo si è riformulato sul piano della differenza culturale e, aggirando il vecchio biologismo, opera con o senza riferimenti alla razza nel senso stretto del termine -> non si basa più sulla razza, ma usa lo stesso atteggiamento rispetto alle differenze, per svalorizzare l'altro. A volte questo razzismo si maschera da nazionalismo o da “sovranismo”, aggrappandosi alle origini ed esprimendosi con un linguaggio intimidatorio e minaccioso che tende a spaventare il “nemico”. Capitolo 2: Dalla razza all’identità PARAGRAFO 1: Oltre la razza Nell’Europa postbellica, l’idea di escludere ed eliminare gli esseri umani sulla base della razza sembrava essere sparita -> la tragedia della Shoah aveva prodotto una reazione che aveva relegato le pulsioni razziste, non venivano più tollerate dichiarazioni pubbliche di matrice razzista. Non andò così ovunque -> in Sudafrica, pochi anni dopo la fine della guerra, nasceva un regime di segregazione che durò per oltre 40 anni; negli USA continuavano a vigere leggi razziali, anche se la protesta si faceva sempre più ampia (ricordare il “no!” di Rosa Parks all’ordine di alzarsi, gesto che diede il via a una stagione di denunce e di lotte per i diritti negli anni Sessanta-Settanta); gli anni Sessanta furono anche quelli delle indipendenze africane, che segnarono la fine del colonialismo. In questo contesto entrò nella storia del mondo occidentale una generazione nuova, aperta e con forte vocazione pacifista e mondialista -> fino ad allora, la gioventù era stata pensata in chiave militare, era una categoria istituzionalizzata dal potere politico, unita solo dalla condizione militare comune; ora, l’irrequietezza e il desiderio di insubordinazione tipici dei giovani si trasformano da sentimento individuale in aspirazione collettiva. Le rivolte prima americane, poi europee, nel ’68 segnarono una separazione dal mondo degli adulti e la partecipazione dei giovani come gruppo a sé stante. Per la prima volta, i giovani percepirono che i problemi degli altri erano anche loro problemi -> non a caso, una delle parole chiave dell’epoca era “movimento”: movimenti collettivizzanti, come scrive Luigi Zoja -> “collettivo” fu un’altra parola epocale, declinato sia come aggettivo che come sostantivo. Prevaleva in questo momento l’idea di partecipazione, dando vita a nuove forme di associazione da parte dei giovani, nelle quali prevalevano spinte universaliste, egualitarie e pacifiche, senza spazio per il razzismo. In realtà, se l’epoca del razzismo sembrava lontana (ricordiamo comunque l’ammonizione di Primo Levi “è avvenuto, quindi può accadere di nuovo”), quella dei pregiudizi non si era mai assopita -> in quegli anni, a Milano o Torino si leggeva che gli affitti non erano destinati ai meridionali e gli immigrati del Sud venivano chiamati terroni, napuli in senso derisorio. Non si registravano episodi di violenza, ma di riluttanza e diffidenza (non erano considerati uguali a quelli del Nord: avevano dialetto, abitudini e tradizioni diverse e soprattutto, erano poveri). Comunque, il lavoro non mancava, soprattutto quello in fabbrica contribuì all’integrazione: l’operaio del Nord lavorava vicino all’operaio del Sud, condividendo problemi e partecipando a lotte per i diritti. Verso la fine del decennio, la spinta dei movimenti giovanili e delle lotte operaie si esaurisce -> inizia il cosiddetto “riflusso” che vede la fine dell’epoca delle grandi ideologie collettive e l’affermarsi di una maggiore attenzione al privato (che sfocia in quella forma estrema di individualismo, alimentato dalla competizione economica e sociale), passata alla storia come “edonismo reaganiano”: sono gli anni della deregulation liberista lanciata dal presidente degli USA, del trionfo dell’individuale sul collettivo -> sono gli anni in cui la Thatcher poté affermare che non esisteva una società, ma solo degli individui e delle famiglie. Prende vita un nuovo culto del corpo, strettamente legato a quello dell’apparire in una società che si connota come società dell’immagine, in cui il mercato diventa la forza rinnovatrice, portatrice di progresso e in cui l’anticonformismo non è più un valore. Gli ultimi due decenni del Novecento sono gli anni in cui si inizia a parlare di globalizzazione, che induce un senso si spaesamento in tutto l’Occidente; il fenomeno migratorio comincia a scuotere l’Europa, mettendo in crisi l’immaginario collettivo in cui inizia a farsi largo la paura dell’invasione, soprattutto in Italia (in Francia e in Inghilterra la presenza di stranieri era un evento di lunga data, dovuto anche alla loro esperienza coloniale; anche la Germania conosceva da tempo una forte immigrazione dalla Turchia). L’Italia, invece, era tradizionalmente terra di partenza e si considerava un paese essenzialmente “bianco” e cattolico. Le migrazioni hanno avuto luogo proprio quando l’economia si indebolisce e quando ha luogo il primo conflitto etnico europeo del dopoguerra, che porta allo smembramento della Jugoslavia. Inoltre, in questo periodo, il Rwanda era sconvolto da una guerra civile che si trasformò in un genocidio in cui morirono circa 800.000 persone. Con il crollo del muro di Berlino e la fine delle “grandi narrazioni” del Novecento scompare anche la politica come la si intendeva: il sistema di mercato si impone in tutta Europa, passando ad avere un mondo il cui unico credo si traduce nel liberalismo di mercato e in esclusivo individualismo. L’imporsi sulla scena di organismi economici sovranazionali (Fondo monetario internazionale, Banca mondiale…) ha contribuito al diffondersi del sentimento e della convinzione che siano i mercati a dettare le regole e non le ideologie, anche se quella che da allora fino ad oggi domina il mondo lo è di fatto, il neoliberismo. La classe politica storica si indebolisce, conducendo ad una progressiva dissoluzione delle norme e dei valori sociali tradizionali -> tale impoverimento fa sì che l’attenzione verso il tema identitario diventi rilevante, tema che comincia ad occupare gran parte del dibattito pubblico. Da qui, un termine nuovo della retorica politica postmoderna: identità, risvegliando forme di esclusione in cui si avverte il vecchio etnocentrismo e razzismo, in quanto entrambi i concetti si fondano sul principio di identità. PARAGRAFO 2: Globalizzazione A contribuire alla fortuna delle proposte identitarie sono stati i processi di globalizzazione e le paure ad essi legate. Sul piano economico, il decentramento delle produzioni industriali, prima nell’Europa dell’Est e poi in Asia (Cina in particolare), ha ridotto le opportunità di lavoro in tutto il continente, generando un senso di perdita che alimentano le paure e le rivalità verso lo straniero. Intanto, si passa da un modello capitalistico fondato sul lavoro a un’economia incentrata sulla finanza. L’occupazione diminuisce, i contratti a tempo determinato sostituiscono quelli a tempo indeterminato, riducendo le prospettive di pianificazione e producendo una diminuzione del reddito e dei diritti dei lavoratori. La crisi economica, iniziata negli anni Ottanta, ha eroso il sistema di welfare che forniva garanzie al cittadino -> nasce quella società liquida piena di incertezze di cui parla Zygmunt Bauman. Anche sul piano culturale la globalizzazione ha innescato processi ansiogeni, provocando una frammentazione identitaria: ci si sente più attaccati ad una nostra presunta cultura, che la globalizzazione minaccerebbe di omogeneizzare. Come spiega Amselle, il mondo oggi è sempre più interconnesso, ma non per questo vengono meno le specificità locali; è proprio grazie a queste connessioni che le proposte locali trovano nutrimento nel globale e possiamo assistere, come dice Debray, al sorgere di maggiori espressioni di localismo, che si sentono minacciate dall’esterno. Se da un lato, in nome dell’Europa e di altri trattati internazionali, vengono cancellate le frontiere per le merci, le stesse frontiere vengono rafforzate per tenere fuori gli stranieri. L’orizzonte ideologico europeo deve fare i conti da un lato con politiche neoliberiste e globali sempre più aggressive e repressive verso che non è competitivo, dall’altro la conseguente perdita di sovranità degli Stati -> lo Stato ha visto ridursi la propria sovranità sull’Europa nel momento in cui non poté più controllare le attività produttive, perdendo parti del patrimonio simbolico su cui si fondavano molte ideologie: spostamento del potere reale nelle mani delle multinazionali e meno della politica. Aziende e società hanno perso il loro marchio territoriale, in quanto ormai i nomi delle aziende non sono più legate ad un luogo specifico, in quanto i loro prodotti vengono in realtà fabbricati altrove -> la deterritorializzazione è una caratteristica del mondo moderno -> come spiega Arjun Appaduraj, la globalizzazione ha prodotto una frattura tra il luogo di produzione di una cultura e quello della sua fruizione; ne consegue una frammentazione di universi culturali che mette in crisi ogni paradigma tradizionale. Curioso che, mentre i poteri degli Stati-nazione si indeboliscono a causa della globalizzazione economica, si assista ad un’esaltazione maggiore dei confini nazionali (“American first” di Trump, “Prima gli italiani” di Salvini), che corrispondo spesso ai confini culturali ed etnici. Derubato della sua sovranità tradizionale, lo Stato diventa finzione e, per non ammettere questo indebolimento, si sforza di assumere atteggiamenti repressivi nei confronti di coloro che intaccano potenzialmente questa finzione, gli stranieri. La crisi economica e la competizione sul mercato offrono terreno fertile ai populisti, che tentano di incanalare rabbia e frustrazioni lungo la strada della xenofobia e dell’esclusione, grazie anche all’assenza di progetti che vadano in direzione opposta. I confini non scompaiono, anzi, ne nascono di nuovi -> come scrive Achille Mbembe, le frontiere diventano forme primitive per tenere lontani i nemici: identitarismo e xenofobia configurano i rapporti sociali, tracciando confini tra Noi e gli Altri, che ci rubano le ricchezze. In campo politico, questi confini dividono da un lato i nazionalisti/localisti che erigono barriere e vagheggiano in un passato illusorio e dall’altro i globalisti nomadi e cosmopoliti che si affidano ai mercati e alla finanza, si affidano al progresso e allo sviluppo tecnologico. sosteneva Max Weber, si rischia di trascendere il proprio carisma e di trasformarlo in una forma di potere personalizzato e assolutista -> la conseguenza è che gli avversari diventano veri e propri nemici. Singolare la richiesta di Salvini durante la manifestazione a Roma nel 2018 di consegnargli un mandato per trattare con l’UE: non sulla base di una proposta, ma sulla base della fiducia. PARAGRAFO 6: Un rituale “contro” Il cambiamento degli ultimi decenni ha reso impotenti i governi e più distanti gli organismi internazionali, il voto si è fatto più fluido e le appartenenze meno consolidate. Una cosa accomuna oggi gran parte degli elettori: la rabbia e il risentimento contro chi governa o ha governato. Nel corso dei suoi studi sui rituali condotti in Africa meridionale negli anni Cinquanta, Max Glückman arriva a formulare l'espressione "rituali di ribellione", riferendosi a manifestazioni collettive in cui i rappresentanti dell'autorità o del potere sono oggetto di scherno e di irriverenza -> siamo di fronte a una ribellione ritualizzata. Tali riti possono venire messi in atto quando si manifestano scontri tra due aspiranti al trono o tra componenti maschili e femminili di una comunità. Lo scopo del rito sarebbe quello di mettere in scena una metafora del conflitto, in modo che l'intero gruppo sociale prenda consapevolezza della sua unità; inoltre, il suo valore liberatorio nei confronti del conflitto vero e proprio consente il ristabilimento di un equilibrio, per ribadire i principi fondamentali sui quali si fonda la comunità stessa. Se analizziamo alcune delle recenti espressioni di voto come quello relativo alla Brexit, l'elezione di Trump e le elezioni politiche italiane del 2018 si può notare che sono accomunate da intenzioni simili, anche se i contesti sono diversi tra loro: più che un voto a favore di un progetto chiaro, si è trattato di un voto contro la politica, intesa in senso generale come sistema. La globalizzazione, la riduzione del welfare, la crisi finanziaria del 2008 e l'immigrazione hanno allontanato i governi e gli organismi internazionali dai cittadini. Inoltre, la rivoluzione tecnologica ha permesso all’individuo di superare la mediazione e grazie al web, molti aspetti della vita pubblica e privata non hanno più bisogno di intermediazione in quanto internet rende ogni cittadino- utente uguale a chiunque altro, dando lo stesso peso a qualsiasi opinione. Rimasto senza i grandi partiti di massa e prospettive per il futuro, il cittadino si sente solo e abbandonato; il mondo dell’homo digitalis, come scrive Byung-Chul Han, presenta una topologia alla quale sono estranei i luoghi tipici in cui si radunano le masse. Gli abitanti digitali della rete non si riuniscono: manca loro la spiritualità del riunirsi, che produrrebbe un'unità; essi danno vita a un assembramento senza riunione -> di qui, la metafora dello sciame, che il filosofo sudcoreano propone come rappresentazione della società contemporanea: lo sciame digitale si differenzia dalla massa tradizionalmente intesa, che è volontaria e non costituisce un modello transitorio, bensì una formazione stabile; lo sciame digitale non è una folla, non possiede un'anima. Come scrive Han, “La solidarietà scompare: la privatizzazione si estende fino all'anima”. Questo appare evidente rispetto alla partecipazione politica e alla conseguente crisi della democrazia: da un lato le percentuali di voto risultano molto basse, segno di un progressivo disinteresse dei cittadini e di una mancanza di fiducia nelle classi dirigenti; dall’altro un voto sempre più imprevedibile, segno del venire meno dell'attaccamento che l'individuo provava per il suo partito, affidandosi ora al mito identitario. Eliminata ogni forma di intermediazione, l'individuo si trova solo di fronte alle sue scelte e poiché non ha più alcun sentimento di appartenenza, si sente libero da ogni vincolo sociale, senza alcun diritto o dovere che lo leghi agli altri. Il sentimento politico si trasforma in rancore e il voto diventa il rifugio del disagio e delle pretese privatistiche. Senza una progettualità vera e propria, la politica si ribella a sé stessa, ma lo fa sulla base di un cambiamento apparente che non mette in discussione il sistema. Ecco la similitudine con i rituali di ribellione: si vota gente che appare nuova, solo perché sembra venire da fuori, da un mondo estraneo alla politica, anche se questo non è vero; di fatto la maggior parte dei populisti è ben radicata nel sistema e cerca solo di ottenere posizioni più vantaggiose. Queste paure e queste solitudini sono il nutrimento dei diversi movimenti xenofobi: il nemico è sempre esterno e per i moderni populisti gli obiettivi contro cui puntare il dito sono paradossalmente l'Europa, intesa come Unione Europea e coloro che vengono chiamati "extracomunitari", cioè i non europei. Un altro paradosso del rapporto tra sovranisti ed Europa è che quest'ultima viene considerata positivamente quando elargisce aiuti e denaro, ma diventa nemico se pone delle condizioni -> esemplare il caso della distribuzione degli immigrati tra i paesi dell'Unione, rifiutata dai Paesi che più hanno tratto beneficio dall'ingresso nell'Unione. Il paradosso sta nella pretesa di rimanere nell'UE, ma senza pagarne i costi, né economici né culturali (nazionalismo di convenienza). Il sovranismo, versione ignorante del nazionalismo, si fonda sull'autoctonia identitaria e sull'esasperazione della paura, in particolare quella del nemico simbolico: lo straniero, il migrante o il nero. Infatti, il fine di questa modalità politica è quello di rendere permanenti i problemi, attribuendone la colpa agli altri, per dare più rilevanza a un capo dalle maniere forti -> è così che il populismo si trasforma in populismo sovranista, che cresce e prospera catalogando le paure e capovolgendo la politica da soluzione a inventario: trasformando l'altro in soggetto ostile, si trasforma il Noi in soggetto presidiato, sorgendo muri fisici, culturali e giuridici per tenere fuori l’Altro. PARAGRAFO 7: Ritorno alle origini In Europa, il senso di appartenenza, dopo il dopoguerra, si era formato all’ombra del Muro, la cortina di ferro che divideva il mondo occidentale liberal-capitalistico da quello orientale socialista e comunista e che aveva dato vita a schieramenti politici caratterizzati da un forte senso comune di appartenenza. All’interno dei paesi al di qua del Muro i cittadini si dividevano sulla base delle opinioni politiche, rappresentate dai partiti di sinistra e di centro, mentre la destra estrema, legata al passato nazista, era marginale nella maggior parte degli stati europei. In questo vuoto, si insediano i movimenti e i partiti localisti e identitari, proponendo una narrazione di tipo etnonazionalista che deve servire a dare una risposta ai problemi del presente e appagarne il malcontento. Finite le aspirazioni universalistiche, sembra che l’”ossessione identitaria”, come la chiama Remotti, stia pervadendo gran parte del pianeta. L’Italia sembra cavalcare con determinazione l’onda populista del momento, sfruttando il fertile terreno del debole senso di appartenenza nazionale e le paure nei confronti degli stranieri, indotte da efficaci campagne mediatiche -> ritorno al passato che vuole far apparire cultura e identità come attributi naturali, come scriveva il teorico del nazismo Rosenberg, il Blut und Boden (sangue e terra) che ricorre nelle retoriche identitarie e sintetizza la concezione deterministica dell’appartenenza -> anche lo ius sanguinis è un esempio di questo approccio, conferendo un significato biologico a un dato socio- culturale, come l’essere italiano: caratterizzazione ottenuta attraverso la propaganda. Ci sono parole che dominano le retoriche politiche contemporanee, come “popolo”: se per la sinistra, era una classe sociale il cui richiamo evocava la lotta di classe, per la destra rimanda a una concezione etnico-tribale del gruppo. Il popolo viene contrapposto allo Stato-nazione, presentato come più legato alle origini, alla terra e non traviato dalle vicende della storia e della politica. Altro termine delle retoriche dei localismi emergenti è “radici”, per cui il legame col suolo è imprescindibile. Comunque, non basta un’origine comune: occorre costruire un’ideologia dell’origine e la metafora delle radici serve a trasmettere l’idea di un legame inscindibile con la terra e ad affermare un primato fondato sulla storia e sulla natura. Bisogna fare un salto indietro e arrenderci davanti alla lucidità degli antichi greci che insegnano che l’etnicità di un popolo non risiede né nella lingua né nel territorio né nella religione, ma nel progetto e nelle attività che conferiscono un senso alla lingua, al possesso di un territorio e ai riti religiosi, come scrive Cuisenier. La distinzione tra greci e barbari si fondava sulla lingua, non sul colore della pelle: si trattava di un fatto culturale non trasmissibile; invece, il legame tra terra e sangue rimanda a una concezione tribale e fissista: si nasce e non si diventa -> individuo condannato dalla nascita a essere ciò che la sua terra genera. Naturalizzando l’essenza umana, la cultura, e vincolandola alla terra, il Noi diventa inevitabilmente un “non-loro” -> si afferma una continuità che non solo prevede un filo ininterrotto di sangue che lega le generazioni nei secoli, ma nega ogni apporto esterno: qui c’è un profondo legame con l’ideologia razziale fascista, sebbene inclinato su scala locale. PARAGRAFO 8: Lo specchio dell’Altro Siamo ciò che gli altri vedono in noi, il modo in cui costruiamo relazioni con gli altri. Ogni relazione prevede uno scambio e il riconoscimento dell’altro, oppure la sua negazione. Le identità sono un grappolo di problemi piuttosto che una questione unica; in natura, non esiste nulla di veramente identico a qualcos’altro, quindi, piuttosto che di identità, dovremmo parlare di similitudine, termine meno impegnativo -> come scrive Amin Maalouf, l’identità è ciò che fa sì che io non sia identico a nessun’altra persona; l’intera umanità è fatta di casi particolari e quando esiste riproduzione non avviene mai in maniera identica. Fino agli anni Settanta il termine “identità” era ignorato, tranne che dagli esperti di psicologia, che lo declinavano in chiave individuale. Hobsbawm fa notare come la comparsa del vocabolo “identità” sia quanto mai recente, tanto è vero che nell’Enciclopedia internazionale delle scienze sociali nel 1968 non fosse presente nessuna voce, se non in riferimento a quella psicosociale degli adolescenti. Fino a prima, il punto di riferimento per classificare sé stessi e gli altri era lo Stato. La storia moderna ha modellato il senso di attaccamento alla propria nazione; come spiega Benedict Anderson, grazie alla diffusione della stampa, si è venuto a creare un immaginario nuovo che ha reso possibile la creazione di quelle che lui ha definito comunità immaginate. Grazie alla lettura, si veniva a sapere che esistevano persone, comunità, popoli lontani che condividevano credenze e costumi comuni -> si concretizza nella mente della gente l’idea di appartenere a una comunità più ampia di quella del loro villaggio, una comunità immaginata che per esistere necessita di una costruzione da parte di qualche gruppo in grado di farlo. Così sono nate le nazioni e il nazionalismo e ogni nazione si è costruita un’immagine di sé, forgiata dalla storia e dalla memoria (rispetto a Francia, Germania ed Inghilterra, che hanno mostrato uno spirito nazionale forte, l’Italia era timida senza una tradizione identitaria alle spalle). Ciò che distingue lo stato democratico moderno da altre forme di organizzazione è il fatto che si fonda sul concetto di cittadinanza, non necessariamente legato all’autoctonia. Il moderno Stato-nazione ha formalizzato l’appartenenza sulla base di questa categoria: la cittadinanza nazionale, che concede diritti a chi risiede in un determinato territorio. C’erano e ci sono regioni di confine dove non è semplice definirsi -> nella cintura industriale della Lorena in Francia, lingua e nazionalità ufficiali sono cambiate 5 volte in 100 anni, passando da una vita rurale a un mondo industriale, mentre le loro frontiere furono ridisegnate 7 volte (gli abitanti avevano cultura tedesca ma passaporto francese). A usare il vessillo identitario sono state storicamente le minoranze etnico-linguistiche, che rivendicavano autonomie e indipendenze: identità antagonista dello Stato, che negli USA inizia ad occupare un ruolo centrale all’interno dei dibattiti sui diritti delle minoranze, soprattutto nel caso dei nativi, che ottenerono diritti sulla base della loro etnicità (tra il 1960 e il 1990 il numero di statunitensi che si dichiararono nativi americani crebbe; tendenza analoga in India, quando si iniziò a concedere più diritti ai membri delle caste basse). Per identità si intende essere quello che non è un altro; pertanto ogni identità per sussistere si avvale di qualcosa di diverso, altrimenti non potrebbe realizzarsi: uno specchio che rifletta l’immagine di coloro da cui vogliamo distinguerci (esempio di ragazzo originario della Guadalupa, che una volta arrivato in una classe a Parigi si è sentito definire “nero”, senza che mai prima si fosse posto il problema; esempio della poesia Aspettando i barbari di Kavafis, dove tutti aspettano i barbari perché servivano per pensare a sé stessi come popolo civile). Le identità vengono definite in termini di opposizione negativa, per sottrazione -> se non ci fossero gli Altri, non ci chiederemmo chi siamo noi. Ciò che determina l’appartenenza a un gruppo è l’influenza altrui, come afferma Glissant, “ogni identità si estende in un rapporto con l’altro”. L’Altro che paradossalmente viene allontanato dai paladini dell’identità, ma “se si esagera con la difesa delle identità non si rischia l’isolamento?” come si chiese papa Francesco, che disse che l’identità è una ricchezza che ogni paese ha ma che deve essere integrata col dialogo per ricevere dalle identità degli altri qualcosa di grande. Francesco Remotti dice che l’identità non esiste al di là delle intenzioni dei soggetti; l’identità è un espediente ideologico per contrastare tutto ciò che può essere chiamato instabilità e precarietà. Espediente che può diventare pericoloso, poiché totalizzante e poiché da un lato impedisce di scorgere la molteplicità e dall’altro elimina i rapporti di somiglianza/differenza che legano noi agli altri. Molte delle retoriche politiche dominanti tendono a vedere negli immigrati delle persone fortemente identitarie, portatrici di culture e valori diversi e inconciliabili con il nostro modo di vivere; classificando gli altri in un insieme coeso e omogeneo, si opera una riduzione degli individui a ingranaggi impotenti della stessa macchina, chiamata identitarismo. In questo modo, si fa dell’altro bersaglio facilmente identificabile, riducendolo a un insieme definito da chi ha il potere di farlo. La costruzione dell’altro può seguire percorsi diversi: la demonizzazione dello straniero è stata sovralimentata dalle retoriche xenofobe e razziste dei gruppi di destra emergenti, creando un marketing della paura a un livello di tolleranza zero nei confronti dei migranti, che vengono definiti come delinquenti. La campagna contro gli stranieri ha dato vita a un nuovo capro espiatorio su cui scaricare le tensioni sociali: si sposta il problema della delinquenza a un piano etnico, se non addirittura razziale. Nella sua analisi della “società dell’incertezza” Bauman evoca Freud, che afferma che la modernità ha a che fare con la bellezza, la pulizia e l’ordine (ordine che per essere creato e mantenuto richiede regole che limitano Nella sua ascesa a indumento tradizionale scozzese, il kilt incontrò anche delle resistenze: era indossato dagli abitanti delle Highlands, che gli scozzesi delle Lowlands consideravano rozzi e barbari. Nel 1822 venne organizzata la visita di Stato di re Giorgio IV a Edimburgo e il compito di scegliere i tessuti che gli highlander avrebbero indossato nella sfilata fu dato allo scrittore Walter Scott: da questo momento il kilt divenne l'autentico, tradizionale abito scozzese -> la creazione di una tradizione scozzese passò dunque attraverso l'appropriazione di elementi irlandesi, rielaborati da un inglese e presentati come antichi e puramente scozzesi: si tratta di un processo chiamato "filiazione inversa", secondo cui non sono i padri a generali figli, ma i figli a generare i propri padri. Come scrive Enzo Traverso, nelle retoriche identitarie si assiste a una reificazione del passato, che diventa oggetto di consumo: vediamo così che ciò che spesso viene chiamato tradizione è in realtà "tradizionalismo", cioè la rappresentazione cosciente di un'eredità culturale più o meno autentica -> questo tradizionalismo si rivela come uno strumento utile a influenzare le decisioni politiche riguardanti l'avvenire. PARAGRAFO 11: La pelle e la maglietta Tutti noi siamo portatori di identità diverse, ma tali identità non hanno neppure lo stesso peso sociale. Non a caso Hobsbawn propone una divisione delle identità collettive tra "identità pelle" e "identità magliette". Le prime si fonderebbero su elementi oggettivamente condivisi dai membri di una comunità, quei pochi elementi dell'identità di un individuo presente al momento della nascita. Nel libro Cronache di una società annunciata, raccolta di racconti di scrittori di Parigi, tutti nati in Francia ma di origine straniera, compare un significativo scambio di battute, poiché, ad esempio, un ragazzo si sente francese, ma non lo è agli occhi degli altri. Nel corso delle prime rivolte delle periferie francesi del 2005, i giovani protestavano perché volevano essere più francesi, volevano quella egalité che non era loro del tutto concessa: sono queste le identità "pelle”, quelle da cui è difficile emanciparsi, che si fondano sull'apparenza più che sul contenuto, che si reggono sul pregiudizio. La maggior parte delle identità collettive, afferma però lo storico inglese, sono "indumenti" più che pelle, cioè, sono opzionali, intercambiabili senza difficoltà: si tratta di fatti non inerenti all'oggetto stesso, ma dipendenti dalle nostre decisioni -> piuttosto che tentare di ricercare nelle radici una qualsivoglia forma identitaria unica, occorre osservarne la funzione e le azioni in relazione al contesto sociale. La stessa identità nazionale può essere spesa o meno sulla base del contesto in cui ci si trova ma, nel momento in cui una persona si reca a pregare in un luogo di culto prevarrà in lui il suo senso di appartenenza alla comunità religiosa cui fa riferimento, più che a quella nazionale. Queste appartenenze non hanno tutte la stessa importanza: sono le circostanze a determinarne la valenza. Noi italiani, generalmente, non esprimiamo un forte senso di appartenenza nei confronti del nostro paese, anzi lo critichiamo continuamente: questo atteggiamento venne colto con grande ironia da Gaber nella sua Io non mi sento italiano, in cui sostiene che di fronte alle critiche di uno straniero, si risveglia in noi un certo senso di appartenenza. L'immagine dell'abito si addice anche a certe identità definite "tradizionali", che sono il prodotto di manipolazioni se non vere e proprie invenzioni. Il passato appare così una sorta di baule da cui di volta in volta si pescano le magliette da indossare, per rispondere all'immagine del "Noi" che ci siamo costruiti in quel determinato momento. Così può accadere che quell'immagine cambi totalmente, che una parte della comunità arrivi a pensarsi come diversa dal resto con cui ha convissuto fino a ora (se interessa approfondire, leggere racconto di Miriam Tahri e Andrea Roccioletti); rimane difficile superare lo scoglio dell'identità unica e singolare, quella che sotto sotto deve pur esserci, come un'essenza, nonostante la storia ci dica il contrario. Anzi, la storia ci insegna che l'intera umanità è fatta di casi particolari e che spesso la proclamazione di un'identità unica si scontra con alcuni elementi costitutivi dei "Noi" e dei "Loro" definiti da ciascuno dei gruppi in questione. In ogni epoca c'è qualcuno che riesce a imporre l'idea che una delle molte appartenenze sia talmente forte da apparire naturale, ineluttabile, e questa diventa l'identità, quella vera e assoluta. PARAGRAFO 12: Quel plurale che manca Il fatto che il termine “identità” termini con un à crea un problema, perché indica un singolare -> quando si invoca l’identità, si finisce per pensarla come unica ed assoluta; tra l’altro, l’uso fatto dai politici dei movimenti e dei partiti identitari ne restringe ancora il campo semantico: per identità, nel gergo xenofobo-sovranista, si intende solo quella etnica (una e pura). Questa sovraesposizione dell’identità, di una identità, rischia di trasformarci in esseri unidimensionali. Max Gluckman era giunto a chiedersi se quei giovani che lavoravano nelle miniere fossero esclusivamente portatori di un’identità dettata dalla loro etnia di provenienza oppure se non si fossero costruiti anche un’altra identità, immergendosi in un nuovo sistema di relazioni -> le sue conclusioni sono che nel corso della vita, un individuo agisce come intestatario di vari ruoli e li porta tutti su di sé anche quando uno di questi si trova ad essere determinante; di una qualunque forma identitaria occorre osservare la funzione e l’azione in relazione al contesto sociale. Amselle riporta il caso di un referendum tenutosi tra gli abitanti ispanici della California a proposito dell’insegnamento dello spagnolo: la risposta è stata no allo spagnolo come prima lingua e sì all’inglese che consente maggiore integrazione -> risultato che dimostra che le scelte delle minoranze etniche non vanno per forza nella direzione della cultura d’origine ma che possono essere orientate verso la cultura della società che le accoglie (tra i diritti delle minoranze c’è anche quello di rinunciare alla loro cultura). Hasan ibn Muhammad al-Wazzan, meglio conosciuto come Leone l’Africano, era un letterato musulmano discendente di una famiglia di Granada scappata a fez nel 1500; vissuto come straniero per gran parte della sua vita, scrisse che le identità non sono né fisse né uniche, dicendo che a seconda delle condizioni in cui i luoghi della sua vita si troveranno, egli utilizzerà a suo vantaggio l’essere di tanti luoghi. L’identità di ciascuno coincide con la sua biografia; oggi in Occidente i musulmani sono visti come integralisti, minacciosi e terroristi: per cui un individuo arabo e musulmano dovrà prendere una decisione sul peso che per lui riveste quell’identità rispetto all’importanza di altre categorie a cui egli appartiene. Nel romanzo La lingua di Ana, Elvira Mujcic racconta la lotta interiore di una bambina moldava, giunta in Italia, tra la lingua materna e la nuova lingua che deve imparare -> una nuova lingua che significa anche il riconfigurarsi della sua identità. Il problema è che in tutte le epoche ha prevalso l’idea che ci sia una sola apparenza fondamentale e così superiore alle altre da ridurla all’unica possibile; una sorta di primo comandamento identitario: non avrai altra identità al di fuori di questa, dove “questa” viene proposta in chiave etnica. Edouard Glissant, scrittore e saggista martinicano e teorico della creolizzazione, propone un confronto tra il mondo del Mediterraneo e quello dell’arcipelago dei Caraibi: le forze interne al Mediterraneo tendono all’esaltazione dell’Uno (non a caso sono nate qui le religioni monoteiste), mentre l’arcipelago è un mondo della diversità che si oppone alla pretesa linearità delle passate forme di conoscenza. La creolizzazione è diversa dal meticciato, perché è imprevedibile, una sorta di laboratorio sperimentale dove sfuggire all’uniformità dell’essere. Alle parole di Glissant sembrano fare eco quelle di un suo allievo, lo scrittore Patrick Chamoiseau, che sostiene che il mondo caraibico di allora è immerso in un caos antropologico, senza poter parlare di etnie: i tratti culturali sopravvissuti non sono quelli delle etnie dominanti, ma quelli più funzionali nei diversi contesti; la lingua creola non riflette nessun senso di identità etnica. Glissant parla di “creolizzazione” come processo inevitabile, anche se alcuni studiosi parlano di creolità come un momento fisso nel tempo, una fase permanente. Le barriere della diversità sono, secondo Glissant, una delle tante eredità della cultura occidentale che, con la sua tendenza all’unitarismo, ha guidato tutto il processo di colonizzazione, ma anche quello di decolonizzazione. Secondo Bauman si definisce “straniero” chi non si adatta alle mappe cognitive, morali o estetiche del mondo e con la sua presenza rende opaco ciò che dovrebbe essere trasparente; per Glissant, invece, è proprio l’idea di trasparenza ad essere pericolosa, in quanto porta all’apartheid. PARAGRAFO 13: Nuovi tribalismi Il tribalismo è uno spettro che si aggira per l’Europa; infatti, benché i paladini dell’identità etnica si propongano come portatori di novità, la loro opzione è in realtà piuttosto vecchia. Come afferma il sociologo tedesco Burkart Holzner, siamo di fronte ad una tendenza mondiale alla riaffermazione di identità razziali ed etniche primordiali, riaffermazione che viene fatta coincidere con la convinzione che esista, per un soggetto collettivo (un Noi) una tradizione culturale comune, un destino comune e una comune discendenza biologica. Se si osservano le retoriche dei partiti e movimenti sovranisti e xenofobi, ci si trova a fare i conti con un continuo oscillare tra concezioni vecchie presentate come novità e viceversa elementi nuovi presentati come tradizionali -> una situazione di progressiva etnicizzazione delle società, per certi versi produce un ritorno a forme di tribalismo. Il termine tribù è stato utilizzato per la prima volta dagli antropologi evoluzionisti del XIX secolo e in particolare da Henry Morgan per indicare l’organizzazione politica di società situate a un certo stadio dell’evoluzione dell’umanità (barbarie). Superato l’approccio evoluzionista, si è continuato ad usare il termine spesso contrapposto a quello di nazione, per indicare gruppi i cui appartenenti si rifanno a un’origine comune e condivisa. È all’antropologo britannico di origine austriaca Siegfried Nadel che si deve una definizione tautologica diventata celebre: “La tribù è un’unità sociale i cui membri affermano di formare un’unità sociale” -> parole che rivelano i germi della dinamicità dei confini e della loro precarietà, che non forniscono criteri infallibili dell’identificazione tribale, poiché cultura e lingua sono suscettibili di gradi e sfumature, mentre la concezione tribale tende ad una cristallizzazione netta. Ricorda che una tribù o un gruppo etnico non può mai essere identificato in modo oggettivo, ma con la teoria che i membri hanno di esso. È il progetto che fa la tribù o l'etnia e, se questo progetto è particolarmente forte, si può arrivare a quella che Paul Mercier definisce "supertribalizzazione", termine che pare adatto a rappresentare la forzatura etnica avviata dalle varie élite, che caratterizza molti movimenti sovranisti attuali. Se per “tribalismo” intendiamo un senso di appartenenza fondato sulla presunzione di un’origine comune, ci troviamo di fronte a un atteggiamento molto simile a quello adottato dai movimenti identitari, che costruiscono la loro visione di sé sulla contrapposizione dei simili ai diversi. Si può sostenere che le forme di tribalismo esistono e stiano emergendo in modo vistoso in tutta l'Europa: la vittoria di partiti xenofobi, che hanno fatto delle etnicità la loro chiave retorica principale, dimostra come il concetto di Stato- nazione democratico e pluralista non sia più la cifra caratteristica dell'Europa contemporanea. L'identità individuale, icona della nostra postmodernità, necessita dell'installazione di un "apparato logistico", di una serie di punti di riferimento teorici e pratici che ne supportino la costruzione e il mantenimento in vita -> nascono così nuovi attori, incaricati di sostenere individui resi fragili dalla scomparsa delle strutture collettive di aggregazione. Come osserva Amselle, individuo, cultura e ritorno all'origine sono le parole d'ordine della postmodernità globalizzata; occorre trovare nuove ideologie che facciano leva sulle risorse identitarie, culturali, psichiche dell'individuo, in modo da sostituire la defunta narrazione della società dell'abbondanza: sono queste le caratteristiche della "New Age" tribalizzata e primitivizzata che ci viene offerta. La cultura di queste neotribù non si fonda su una vera tradizione condivisa, ma è il prodotto di scelte individuali di identificazione, radunate in insiemi collettivi temporanei e costruiti allo scopo di soddisfare interessi specifici. Nelle retoriche politiche dei movimenti, che fanno dell'identità il loro fulcro, possiamo facilmente notare come quell’identità sia spesso contornata di termini come popolo, tradizione… Una società fondata sull’autoctonia difficilmente può essere democratica nel senso letterale del termine, in quanto prevede un primato dei nativi a discapito del pieno riconoscimento degli altri; la democrazia è la forma di vita comune di essere umani solidali tra di loro e non può basarsi su differenze "naturali" ma deve riconoscere tutti su una base di uguaglianza; si basa sulla scelta di garantire il libero fiorire della pluralità delle opinioni, degli interessi e dei valori, senza spazio per violenti eccessi di narcisismo, come scrive Mbembe. I governi democratici tengono conto delle minoranze, di qualsiasi carattere esse siano: occorre perciò avere sempre piena coscienza che, in una democrazia che voglia dirsi tale, nessuno è autorizzato ad affermare che la verità è dalla sua parte solo perché ha ottenuto più voti: "La democrazia è relativistica, non assolutistica", scrive Zagrebelsky, “è relativistica nel senso che i fini e i valori sono da considerare relativi a coloro che li propugnano e, nella loro varietà, tutti ugualmente legittimi". Vincolando l'acquisizione di diritti dell'autoctonia e a una presunta identità unica e a scritta, derivante dal territorio, i progetti identitaristi si pongono fin dal principio in antitesi con la democrazia: l'individuo viene valutato per quel che è e non per ciò che fa, facendo prevalere una sorta di diritto naturale, la cui teoria si fonda sull'idea che esistano principi della natura umana eterni e immutabili. Nel 1861 Henry Sumner Maine teorizzava la transizione da società di status a società di contratto -> secondo il grande giurista e storico del diritto britannico, nelle prime forme di organizzazione sociale il diritto era inseparabile dalla religione e i rapporti tra gli individui si fondavano sulla loro appartenenza a una determinata famiglia o a un certo gruppo di discendenza, immutabili. La dissoluzione graduale di questo modello, insieme con l'emergere dell'individuo come personalità giuridica, portò una transizione verso società orientate all'autonomia del diritto e fondate sul contratto, cioè su relazioni tra individui liberi sulla base delle loro attitudini e competenze. Il passaggio dallo status al contratto coincide con il passaggio da un sistema di regole tribali a uno Stato di diritto. Come scrive Cinzia Sciuto: "Una delle caratteristiche della modernità è il passaggio dalla solidarietà di clan a quella di cittadinanza", quindi il ritorno allo status è un altro segno di tribalizzazione. A proposito di questa difesa della diversità, il filosofo spagnolo Savater attacca i sostenitori a tutti i costi della diversità da entrambe le parti, accusando anche chi cerca di valorizzare le specificità culturali per scopi opposti ai razzisti, definendoli razzisti e xenofobi e affermando che la ricchezza umana risiede nella nostra fondamentale somiglianza e non in ciò che ci rende diversi -> posizione iper-relativista, diversa da quelle del razzismo classico che non riconoscevano alcun diritto agli altri. Questa posizione sembra andare d’accordo con quella di Levi-Strauss: “è vero che la comunicazione è fonte di progresso, ma lo scambio è causa di distruzione: se non comunicate non potete guadagnare, se comunicate andate verso la vostra rovina” -> questo sostiene L-S, che nel suo saggio Razza e cultura invita a scegliere il minore dei due mali e si pone così contro lo scambio e la comunicazione interculturale, anche se, accettare tale posizione, significherebbe ammettere che le differenze nascono solo da una reciproca ignoranza, mentre la storia ci dimostra il contrario. La strategia diventa quella, quindi, dell’espulsione degli stranieri e della loro deportazione nei paesi da cui sono fuggiti -> tale atteggiamento porta alla separazione, alla purificazione culturale ma anche sociale e politica: occorre creare un nuovo mito di fondazione su cui costruire un nuovo nazionalismo più aggressivo, che fondi una nuova civiltà pura. Riferimento a 1984 di George Orwell -> il protagonista è Winston Smith ed aveva il compito di “correggere” libri e giornali, al fine di rendere riscontrabili e veritiere le previsioni del partito: in questo modo, il passato finiva per fornire al partito di governo una sorta di legittimazione ineludibile (“Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato” era uno slogan del ministero della Verità). Orwell centra in pieno le dinamiche della politica di oggi: il perno solido su cui fanno leva i nazionalisti è il passato o, meglio, una certa idea di passato che fa riferimento più alla memoria collettiva che alla storia vera, meno manipolabile della memoria, che non ha bisogno di prove. Utilizzando la storia in modo strumentale e ingannevole si sottrae il sistema dominante alla storia stessa e lo si consegna a una dimensione remota, quella della memoria, confusa e più vicina alla natura che alla storia. Naturalizzare e reificare il passato è un modo per renderlo ineluttabile e attribuirgli un potere condizionante e illimitato. Comunque, la presa di distanza dal razzismo storico sembra essere solo di facciata, come afferma Adriano Scianca nel suo articolo La battaglia identitaria: qui definisce l’identità come risultante dell’incontro di 3 fattori: natura (di cui fanno parte le caratteristiche fisiche, biologiche e razziali di un popolo), cultura (rappresenta il modo originale in cui il popolo percepisce il mondo arrivando all’autocoscienza attraverso un confronto con l’altro) e volontà (piena assunzione del dato fisico e del dato culturale, farsi carico della propria identità bio-culturale). Purtroppo, però, nel definire l’identità non ci si riesce a staccare da una sottesa idea di razza, anzi le caratteristiche fisiche, biologiche e razziali di un popolo vengono definite la sua essenza più concreta. Scianca, successivamente, sostiene che bisogna superare la credenza reazionaria per la quale una lotta identitaria debba difendere semplicemente la presunta verginità di un insieme di valori non contaminati dalla modernità: l’identità non un’essenza pura da preservare dagli sconvolgimenti della storia, anzi, è nella storia che essa viene generata e rigenerata, essendo l’identità un processo in divenire che dà un senso alla memoria. Successivamente, però, si torna a parole che fanno immaginare una chiusura, un allontanamento dell’altro, la costruzione della purezza: Siamo fondamentalmente d’accordo con chi, come Alain de Benoist, sostiene che l’identità vada difesa «in sé e non per sé», quindi per tutte le etnie e le culture; concordiamo anche con chi, come Marcello Veneziani, ritiene che «chi difende il suo popolo difende anche il mio»; riteniamo, però, che sia sempre e comunque da noi stessi che si debba partire. Sono gli Europei i primi a subire gli effetti perversi dello sradicamento; è solo in Europa, non altrove, che si sperimentano le suicide politiche immigrazioniste, la xenofilia masochistica, l’accoglienza indiscriminata; è da noi che la società multirazziale, il dominio totalitario della religione dei diritti umani, l’americanizzazione delle menti, l’imbarbarimento dei costumi, l’egualitarismo piú selvaggio si stanno trionfalmente affermando. Il primo popolo in pericolo è il nostro. […] Etnocentrismo come coscienza etnica, consapevolezza di essere un unico popolo, nell’unità inscindibile degli antenati e dei discendenti. Etnocentrismo come orgoglio, fierezza, patriottismo, fedeltà a se stessi, volontà di perpetuarsi biologicamente e culturalmente. È solo essendo noi stessi che potremo contribuire alla salvezza dell’Altro. Siamo qui di fronte a un “etnodifferenzialismo”, a un culturalismo separatista dietro la cui maschera spunta quell’idea di razza e di predestinazione biologica tipica dei razzismi passati: è un razzismo che da un lato, a differenza di quello suprematista, si presenta come vittimista (Sono gli Europei i primi a subire gli effetti perversi dello sradicamento), dall’altro, però, assegna ai popoli europei il destino di creare nuove civiltà; un razzismo che non vuole l’eliminazione come in epoca nazista, ma la separazione, come nel Sudafrica dell’apartheid. PARAGRAFO 3: Pericolo e purezza: l’invasione Il nemico non è solo il migrante, ma anche chi lo accoglie: Generation identitaire boicotterà nel 2017 le navi delle ong che operavano nel Mediterraneo, grazie all’impiego a sua volta di una nave, la C-Star, oltre che una forte propaganda contro le ong per screditarle, affermando che il loro lavoro fosse traffico illegale di clandestini. Qui subentra lo scenario dell’invasione, declinato in varie forme: da quella più bassa dell’occupazione degli spazi fisici e culturali a quella più ricercata del paradigma della sostituzione. Nikolaus di Coudernhove-Kalergi era un politico e filosofo austriaco, fondatore dell’Unione Paneuropea e primo uomo politico a proporre un progetto di Europa unita, fu un forte oppositore del nazismo e del mito della razza superiore. Egli distingue tra “uomo rustico” (forte di volontà ma debole di spirito, figlio dell’endogamia) e “uomo urbano” (frutto della mescolanza razziale, povero di carattere ma ricco di spirito, più incline al mantenimento della pace). Pur utilizzando il paradigma razziale al tempo dominante, Kalergi non esprime un timore del mescolamento, al contrario per lui è il futuro. Fu un negazionista austriaco, Gerd Honsik, a manipolare e decontestualizzare alcune sue frasi per dare vita al presunto “piano”, che prevederebbe la sostituzione della popolazione europea con immigrati. L’immagine dell’invasione rimanda a un pericolo: ecco la storia del popolo oppresso, tipica della nascita dei nazionalismi classici che torna per creare un’immagine vittimistica della popolazione autoctona -> il vero razzismo è quello contro di loro, sfavoriti dall’assegnazione degli alloggi popolari e nell’accesso al welfare (ribaltamento dell’atteggiamento suprematista). È questo lo scenario della nuova Europa identitaria, che si configura come una galassia in continuo movimento in cui si mescolano toni populisti, antieuropeisti e pulsioni definibili fasciste, accomunate da un atteggiamento razzista nei confronti del nemico simbolico: il migrante contrapposto alla purezza della razza, della cultura e della Patria. Il neorazzismo si fonda su principi diversi da quello storico, anche se alla base c’è sempre una forma di classificazione a cui segue una gerarchizzazione -> operazioni di naturalizzazione e di proiezione storica e sociale di differenze nel regno di una natura immaginaria. PARAGRAFO 4: Le parole per dirlo Bisogna imporre una distinzione tra il differenzialismo proposto dai teorici delle nuove destre e la traduzione in pratiche quotidiane di tali idee, che finiscono per proporsi come espressioni del razzismo più basso. L’obiettivo del neorazzismo non è l’Altro in quanto esponente di una razza specifica, ma in quanto portatore di caratteristiche culturali che gli sono state assegnate dalla propaganda. Gli esponenti politici che portano avanti progetti cosiddetti sovranisti, fondati sull’avversione per i migranti, non si esprimono con il linguaggio forbito dei teorici identitari. I governi neorazzisti sono in genere connotati dal populismo, che si fonda sulla comunicazione più che sulla politica e sull’azione -> riscuotono simpatia usando un linguaggio terra terra, simile a quello di chi li vota, i nuovi politici non sono conformi al linguaggio abituale degli esperti e appaiono gente del popolo, più naturali senza obblighi della forma e dell’abilità retorica (considerati indici di ipocrisia), per ricercare il consenso popolare più basso. La ferocia del linguaggio viene scambiate per autenticità, utile ai populisti per suscitare un senso di emulazione e di identificazione da parte dell’elettore. Un altro punto che caratterizza il pensiero e il linguaggio populista e che lo rende pericoloso è l’assenza di mediazione nel comunicare, l’assoluta franchezza anche scorretta, non solo segno di imbarbarimento linguistico ma di un modo di intrepretare i rapporti sociali come basati sull’essenza biologica e originaria, cioè tribale, degli individui. Nel suo diario dal titolo La lingua del Terzo Reich, il linguista Klemperer racconta di come il regime nazista abbia a poco a poco modificato la lingua tedesca, per asservirla ai suoi scopi e per manipolare le masse (i nazisti avevano tratto ispirazione dai rituali del fascismo italiano) -> Klemperer non parla solo della lingua in sé, ma di tutta una serie di elementi che davano vita alla propaganda. Il male si annida nella normalità del quotidiano e nella metamorfosi delle parole, nel modo di parlare e nei media che si usano. Il ruolo del politico non è più l’educazione della massa, non il governo dei migliori, ma di quelli che obbediscono agli umori della gente. I vecchi partiti di massa cercavano di educare politicamente anche i ceti sociali meno istruiti e lontani dalla politica, ma con questo neorazzismo i valori si sono capovolti -> esempio: 31 ottobre 2019, quando al Senato venne votata la mozione proposta dalla senatrice Liliana Segre per istituire una commissione straordinaria contro odio, razzismo e antisemitismo; la mozione è stata approvata con l’astensione dei partiti di destra i quali si sono schierati con il fronte di chi dice “io non sono razzista, ma…”, perché ritenevano troppo ambigui i contenuti, in quanto “affermare la propria identità deve essere sempre consentito, se non lede la libertà altrui”, come se una regola di civiltà ledesse la nostra libertà, mentre l’insulto non facesse altrettanto con quella altrui; Fratelli d’Italia non votò perché “non è una commissione sull’antisemitismo, come volevano far credere, ma una commissione volta alla censura politica”, “una struttura liberticida che avrà il potere di stabilire che ha il diritto di dire cosa e di chiedere la censura in rete delle idee non gradite: di fatto l’istituzione del ministero della Verità di orwelliana memoria”. PARAGRAFO 5: Semplificare, spersonalizzare Semplificare è una parola chiave nelle retoriche populiste e neorazziste: dopo aver riconosciuto il nemico bisogna contrarlo in pochi tratti riconoscibili da tutti, riducendolo a bersaglio facile da indentificare (la tecnologia di comunicazione digitale favorisce una semplificazione maggiore -> come ci insegna Marshall McLuhan, il mezzo è il messaggio; ogni comunicazione è connessa a e influenzata da un linguaggio riduttivo e scarno). Prendiamo termini come extracomunitario, migrante, clandestino, che finiscono per appiattire in una sola categoria individui con personalità, cultura, storie e progetti diversi, senza che abbiano il diritto a vivere nel nostro spazio nazionale perché non italiani, non europei occidentali, non sviluppati o non ricchi. Tante persone, a causa di questa ideologia, perdono la loro personalità e la loro identità, essendo ridotti a categoria (dato statistico) -> atteggiamento che riguarda l’intera Europa, i cui funzionari si esprimono con il linguaggio arido e burocratico delle normative, utile a nascondere queste ipocrisie: la questione si è trasferita dal piano etnico al piano gestionale, è diventata una problematica “amministrativa”, senza più spazio per la morale umana. Tale atteggiamento è dovuto a quella che Giorgio Agamben definisce “la biopolitica dello Stato moderno”, in seguito alla quale i diritti dell’uomo, intesi in senso universale, vengono soppiantati da quelli del cittadino e sottoposti alla sovranità nazionale: i rifugiati e gli immigrati rappresentano un elemento inquietante, perché spezzano la continuità fra natività e nazionalità, mettendo in crisi la sovranità moderna. Questa moltitudine di individui viene ridotta ad un immaginario simile a quello degli schiavi: erano considerati dei non-uomini, perché lo schiavo è un individuo strappato alla sua vita e alla sua storia, che viene cancellata; viene privato anche della sua origine, diventa un migrante, un extracomunitario e ridotto a cifra contabile -> ecco come avviene la riduzione degli individui a un solo modello: lo straniero e la traduzione automatica dello straniero in nemico. Questa è la nuova versione della razzializzazione, fondata sulla provenienza geografica generalizzata, sull’essere straniero. PARAGRAFO 6: Una mutazione antropologica? Nei suoi ultimi anni di vita, alla fine degli anni ’70, Pier Paolo Pasolini propose più volte nei suoi scritti l’espressione diventata celebre “mutazione antropologica”, con cui voleva segnalare un mutamento culturale che stava avvenendo nel nostro paese. Il bersaglio di Pasolini era il borghese, l’uomo medio, colonialista, razzista e schiavista. Quella che vediamo oggi forse è un’altra mutazione antropologica che è in continuità con quella pasoliniana, il riproporsi dell’eterno fascismo di cui lui parlava. Il linguaggio pubblico dei politici, come visto, è sceso a livelli bassi con frasi che non sarebbero state tollerate in precedenza -> aspetto sintetizzato da Ezio Mauro, quando scrive che prima non era così, non lo si permetteva: l’individuo sta spostando i propri limiti del tollerabile. Per esempio, quando nel 2009 il deputato della Lega Salvini propose di istituire vagoni della metropolitana milanese separati per gli stranieri, ci furono alcune reazioni, ma se qualcuno proporrà qualcosa di simile, le reazioni saranno minori. Questa crescita della sopportazione e dell’indifferenza nasce dal fatto che non ci si sente più parte di una società che si pensava civile e fondata su valori diversi: oggi questo codice di valori non esiste: una delle caratteristiche delle azioni identitarie è quella di separare gli Altri da Noi, senza cercare legami interni. Inoltre, quella generazione che ha vissuto il fascismo e che ha partecipato alla resistenza, che ha contribuito alla realizzazione di un paese democratico, sta scomparendo: l’intera classe politica è stata sostituita da donne e uomini che quel periodo non solo non l’hanno vissuto, ma nemmeno portano con sé la memoria familiare di quegli eventi; inoltre, si stanno susseguendo molti governi di centro-destra o di destra negli ultimi decenni, che hanno contribuito a svuotare di ogni contenuto quelle cerimonie (come quella del 25 aprile) che contribuivano a ricordare al paese cos’era accaduto. La mancanza di memoria storica fa sì che oggi ci si possa dichiarare apertamente fascisti, senza incorrere né in sanzioni giudiziarie né nella riprovazione sociale -> caso di Berlusconi, che in un discorso pubblico nel 2019 ha dichiarato di essere il fiero responsabile di aver legittimato, costituzionalizzato e fatto entrare in governo Lega e fascisti. “La maggior parte degli italiani non sa ancora di essere razzista”, ha scritto un’antropologa, Lynda Dematteo, che ha condotto una ricerca nella sede della Lega di Bergamo e che afferma che in un vuoto storico e morale
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