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commento libro dieci piccoli indiani di Fabio Cleto, Traduzioni di Storia Culturale dell'Europa

interessante commento del libro dieci piccoli indiani di Fabio Cleto

Tipologia: Traduzioni

2019/2020

Caricato il 12/12/2020

battman92
battman92 🇮🇹

4

(3)

7 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica commento libro dieci piccoli indiani di Fabio Cleto e più Traduzioni in PDF di Storia Culturale dell'Europa solo su Docsity! “Dieci piccoli indiani” raccontato da Fabio Cleto 70 anni fa, il 20 settembre 1943, al Wimbledon theatre di Londra, andava in scena per la prima volta “Ten Little Niggers” di Agata Christie, vale a dire dieci negretti, meglio noto in Italia come “Dieci piccoli indiani”. Si trattava di un adattamento per il palcoscenico del romanzo della stessa Christie, apparso con lo stesso titolo, quattro anni prima in Gran Bretagna. L’anno successivo, il romanzo era uscito anche negli Stati Uniti con il titolo “And Then There Were None” (e poi non rimase nessuno), una scelta in cui si eliminava la parola “nigger” con l’ovvia intenzione di non offendere la comunità afroamericana. Quello che apre il 20 settembre 1943 è il primo di una serie straordinari adattamenti che il romanzo conosce negli anni successivi: due versioni teatrali, una nel 2005, dopo quella di Agata Christie, svariati film per la televisione, e cinque film per il cinema, vale a dire, un gioiello diretto da Renè Clair nel 1945, un altro diretto da George Pollock nel 1965, due meno riusciti nel 1974 e nel 1989, più un film russo nel 1987. E ancora, un adattamento radiofonico nel 2010, un graphic novel nel 2009, due videogiochi di ruolo, oltre uno stuolo di riferimenti, di imitazioni, di parodie o di richiami al romanzo, nella cultura pop, da musica a serie televisive recenti come “Harper’s Islans”, o meno recenti come “The Avengers-agenti speciali”. La trasposizione teatrale che fornisce un diverso finale, cui ci si rifarà poi in modo quasi sistematico negli adattamenti filmici successivi, è un’impresa cui la regina del giallo aveva lavorato per due anni. La Christie non era nuova, in verità, alla scrittura teatrale, ma aveva affrontato questo specifico testo come una particolare sfida. La ragione è semplice: al romanzo, la Christie aveva lavorato ponendo una notevole attenzione alla sua architettura drammatica, alla logica criminale e investigativa, che lo anima come un enigma perfetto. “Forse non è il mio miglior romanzo, diceva la Christie, è sicuramente però il meglio congegnato.” Non a caso, diventerà il più venduto della storia della letteratura poliziesca. E l’essere così ben congegnato, coincide con un’assoluta semplicità di trama, quella semplicità che “Dieci piccoli indiani” deriva dalla filastrocca per bambini che dà il titolo al romanzo. E’ una filastrocca tradizionale, una canzoncina da Black face, lo spettacolo da Music Hall con bianchi dal volto annerito con lucido da scarpe che interpretavano gli stereotipi della negritudine. Venne pubblicata da Septimus Winner nel 1868 negli Stati Uniti con il titolo “Ten Little Indians”, e l’anno successivo in Gran Bretagna da Frank Green, in una versione leggermente modificata, come “Ten Little Niggers”. E’ una filastrocca che riveste un ruolo decisivo nell’economia criminale di “Dieci piccoli indiani”. “Dieci piccoli indiani” racconta la storia di dieci personaggi, sconosciuti l’uno all’altro, che a seguito di un misterioso invito, raggiungono Nigger Island, una piccola isola deserta al largo della costa del Devon, descritta come una roccia nuda, dice il romanzo, vagamente simile a una testa di negro. Ecco la ragione del suo nome, che viene negli anni modificato, parallelamente al titolo del romanzo e alla filastrocca, prima in “Indian Island”, poi in “Soldier Island” con l’elmetto a replicare la totale nudità dell’isola, che è una roccia esposta, priva di alcun anfratto o ombra. Avvolta dal mistero, la villa che li accoglie, non è un luogo sinistro dalle tinte gotiche, non è insomma, una casa vecchia con travi scricchiolanti, ombre, passaggi nascosti, che creano un senso di mistero, di imponderabile. E’ al contrario, scrive la Christie, la quint’essenza della modernità: uno spazio risolto, evidente come l’isola che la ospita, uno spazio che nega radicalmente il mistero. Non c’erano angoli bui, si legge nella storica traduzione della Mondadori, la luce elettrica rischiarava ogni cosa, tutto era nuovo, ben levigato e lucente. Non c’era nulla di strano, di sospetto, nessun’atmosfera di mistero, e proprio questa, dice, era la cosa più spaventosa. Ora, gli ospiti si recano sull’isola per diverse ragioni, tutte legate però in modo specifico alla propria identità, ad indicare che chi li ha invitati, li conosce bene. C’è chi come l’insegnante Vera Claythorne vi si reca per sfuggire alla noi, chi come il giudice Laurance Wargrave lo fa per curiosità, chi come la zitella Emily Brent per la prospettiva di risparmio e tranquillità, di isolamento e preghiera che prometteva l’invito, chi invece come il playboy Anthony Marston vi si reca perché l’invito evocava la presenza di belle fanciulle, lusso e divertimento, chi come il generale John Macarthur si aspetta un raduno nostalgico dove incontrerà alcuni vecchi amici, e infine chi, come l’avventuriero Philip Lombard, il medico Edward Armstrong, l’investigatore Henry Blore, e i domestici, Mr. e Mrs. Rogers, ci va per professione, sulla scorta di un incarico di lavoro ricevuto per lettera. Non conoscono chi li ha invitati, ma sicuramente chi li ha invitati conosce benissimo loro, il loro carattere, la loro storia, e forse li conosce persino meglio di quanto emerga dall’invito. Giunti sull’isola, e immediatamente isolati dal mal tempo, gli ospiti trovano però ad accoglierli il principio stesso del mistero, vale a dire, l’enigma e l’indeterminazione, chi li ha invitati non è infatti presente. Gli inviti sono stati firmati da uno dei signori Owen: Ulick Norman o Una Nancy Owen. Ora, basta leggere i nomi di entrambi come iniziali, ossia U. N. Owen, e il nome si trasforma in “unknown”, lo sconosciuto, l’ignoto. Il motore del loro invito e la ragione del loro soggiorno è dunque un’identità indeterminata, un inquietante presenza assente che scatena l’angoscia interpretativa. Cosa sta succedendo? Chi è costui che si ferma negando la propria identità? Perché li ha invitati? E come fa a conoscerli così bene? Ciascuno di loro, tanto da averne interpretato così a fondo i bisogni e i desideri nell’attirarli sull’isola, nel catturarli in una rete di cui non si scorge lo scopo, la forma il senso. E che cosa significa poi quella filastrocca che ciascuno ha trovato nella propria camera? Tutti la conoscono, certo, fin dall’infanzia, la filastrocca non evoca però la spensieratezza del gioco, contiene un agghiacciante sequenza di morti. E’ un conto alla rovescia quella filastrocca, che inizia a partire da dieci, proprio quanti sono gli ospiti di Owen, e dieci quante sono quelle strane, inquietanti statuine di africani, che nel corso degli anni diventeranno poi indiani, poi ancora soldatini, che si trovano sul tavolo in soggiorno. Il fine settimana da sogno nella lussuosa villa si trasforma così in un incubo, la sera stessa dell’arrivo su Nigger Island. Agli interrogativi subentra la paura, quando a cena, Owen fa la sua “entrata”. Lo fa nel modo fantasmatico che gli si addice: la sua voce, una voce che il romanzo definisce “improvvisa, inumana, penetrante”, risuona da un grammofono che il domestico ha azionato seguendo le istruzioni lasciate dal proprietario. “Signori e signori, prego silenzio” si legge. La voce di Owen impone l’ordine in sala, chiama alla sbarra gli ospiti, uno a uno, ed elenca inesorabile i capi d’imputazione: “siete imputati delle seguenti colpe: Edward George Armstrong, il 14 marzo 1925, ha provocato la morte di Luisa Mary Cleese. Philip Lombard, un giorno del febbraio del 1932, si è reso colpevole della morte di 21 uomini appartenenti a una tribù dell’Africa orientale. John Gordon Macrthur, il 4 gennaio 1917, ha deliberatamente mandato a morte sicura l’amante di sua moglie, Arthur Richmond… “e così via. “Imputati alla sbarra, che cosa avete da dire in vostra difesa? “ E’ per gli ospiti il giorno e il luogo del giudizio. Chi per impossessarsi di un’eredità, chi per guida in stato di ubriachezza, chi per gelosia, tutti gli ospiti avrebbero ucciso un innocente, tutti sarebbero colpevoli di un omicidio che sarebbe sfuggito alla legge umana, ma che non può sfuggire allo sconosciuto, a chi è presente ovunque pur senza manifestarsi visibilmente. E l’ansia lascia presto il posto al panico, quando poco dopo muore un ospite, a cena, soffocato proprio come raccontava la filastrocca, e una delle statuine viene trovata infranta. Ecco la spiegazione, o anche solo, ecco l’ordine di quello che sta avvenendo incarnato nelle statuine nella filastrocca in cui gli ospiti impareranno, presto, a riconoscersi. Ecco cosa significa la filastrocca che ha accolto ciascuno di loro: se l’isola è una corte, se questo è il loro teatro del giudizio, la filastrocca non è altro che la sentenza e l’esecuzione che inesorabile li attende. L’unico dubbio è se si trovino di fronte a una corte di giustizia umana, oppure, divina. Tutto molto semplice in “Dieci Piccoli Indiani”: abbiamo un gruppo di persone, isolate su un’isola, dove non c’è possibilità di nascondere nulla, dove tutto è esibito. Qualcuno vi ha radunato persone, di cui vuole mettere a nudo l’anima, vuole esibire ciò che è sfuggito alla giustizia, e vuole porvi rimedio. Nell’ordine: lettura dei campi di imputazione, confessione, esecuzione delle sentenze di morte, una dopo l’altra, seguendo la filastrocca che scandisce e manifesta l’inesorabilità della sentenza. Semplice, eppure dannatamente complesso da realizzare, evitando gli automatismi, lo spegnersi della tensione, e al contrario, rilanciando costantemente l’interrogativo su chi stia tirando le fila criminali e su come farà ad uccidere tutti, aderendo alla filastrocca, agendo sempre cioè dietro le quinte, in un luogo che non prevede quinte dietro le quali nascondersi.
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