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Compendio di procedura penale, Conso Grevi, 2020., Dispense di Diritto Processuale Penale

Riassunto del compendio di procedura penale, 2020. Il riassunto è completo, arriva al primi 5 paragrafi del capitolo X, l'esecuzione. Rispetta le direttive impartite dal professore a lezione.

Tipologia: Dispense

2020/2021

Caricato il 29/09/2022

Meryrose99
Meryrose99 🇮🇹

4.6

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Scarica Compendio di procedura penale, Conso Grevi, 2020. e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! 1 COMPENDIO DI PROCEDURA PENALE IL SISTEMA DELLE “FONTI” DEL DIRITTO PROCESSUALE PENALE 1. Dalla dogmatica processuale al sistema L’incessante proliferazione legislativa non deve far pensare che il diritto processuale penale manchi di una sua intrinseca sistematicità. È possibile individuare le linee portanti del sistema normativo: 1) Fonti legislative o comunque normative, 2) Fonti giurisprudenziali, 3) Fonti dottrinali o letterarie. I tre tipi di fonti si possono raggruppare in una serie di sottoinsiemi. Ma dal punto di vista istituzionale, appare utile distinguerle in funzione di una gerarchia, predisposta secondo la logica della maggiore importanza nel sistema di ogni singola fonte. 2. Le fonti legislative sovraordinate La Costituzione della Repubblica contiene una serie cospicua di principi e regole fondamentali per la disciplina del processo penale. Ha subìto poche riforme, le più significative delle quali hanno interessato: 1) Art. 27 ultimo comma, attraverso l’abolizione della pena di morte; 2) Art. 68, attraverso l’introduzione di una nuova disciplina della immunità penale; 3) Art. 79, attraverso la fissazione di norme più rigorose per la concessione di amnistia ed indulto, da approvarsi con legge deliberata a maggioranza qualificata; 4) Art. 96, attraverso la prevista sottoposizione del presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri alla giurisdizione ordinaria “per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni”; 5) Art. 111, attraverso la precisazione dei cardini del c.d. “giusto processo legale”, doveva rappresentare il tramite formale per dare concreta attuazione ai caratteri del processo accusatorio; 6) Art. 117, attraverso l’inserimento di un dettato normativo che ha permesso alla Corte costituzionale di condurre le norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; 7) Art. 134, attraverso l’attribuzione alla Corte costituzionale, oltre alla verifica della legittimità normativa e della risoluzione dei conflitti di attribuzione, anche della competenza a giudicare sulle accuse promosse contro il presidente della Repubblica per i reati di alto tradimento o di attentato alla Costituzione. Viene confermato il principio di stretta legalità in materia processuale, nella parte in cui si prevede che la giurisdizione sia attuata “mediante il giusto processo regolato dalla legge” (art. 111 comma primo Cost.). In secondo luogo, si pongono le basi perché si alimenti la cultura della giurisdizione, stabilendo che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo ed imparziale” (art. 111 comma secondo Cost.) Ed infine viene rimarcata la necessità di una vera cultura della prova, con ciò intendendosi quell’atteggiamento funzionale in base al quale ogni decisione del giudice dev’essere presa in funzione di risultati probatori ottenuti attraverso un’escussione dei mezzi di prova nel contraddittorio delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale. Il legislatore privilegiò un’ottica delle garanzie oggettive rispetto alla tutela dei diritti individuali. Nella Costituzione si fa spesso riferimento a diritti che vengono definiti inviolabili, quasi a rimarcare la loro natura di aspettative giuridiche preesistenti al loro riconoscimento formale, ed incomprimibili nei loro contenuti specifici, nemmeno da un potere costituente. Ad es. “la libertà personale” (art. 13). Grazie anche all’art. 2 è stata recepita la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e in ambito europeo la Carta di Nizza, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali assieme ai Protocolli aggiuntivi. Il secondo corpo normativo importante da annoverare tra le fonti è il Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato nell’ambito delle Nazioni Unite. Esso è completato da due Protocolli facoltativi, il secondo dei quali è dedicato all’abolizione della pena di morte. I trattati assunti in seno all’Unione Europea costituiscono espressione di preminenza del diritto comunitario anche sui diritti costituzionali degli Stati membri. In sintesi, sono qui evidenziate le principali novità, destinate a modificare il sistema della gerarchia delle fonti, non ignorabili soprattutto da chi esercita, nelle sue forme, il potere giudiziario. In particolare, l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea è modificato nei termini seguenti: 2 A) L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea” ribadendo il divieto dell’abuso del diritto. B) L’Unione aderisce nell’ottica dei principi generali alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, lo stesso è recepito per il Patto internazionale sui diritti civili e politici, giacché si tratta di diritti che fanno parte delle tradizioni costituzionali. C) Il Trattato contiene forme di cooperazione giudiziaria effettiva tra gli Stati dell’Unione. D) È previsto come obbligatoria la pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea intorno a questioni pregiudiziali. 3. Le fonti normative ordinarie primarie e secondarie Anzitutto tutte le disposizioni che potremmo definire strutturali del processo sono precedute od accompagnate da corpi legislativi complementari, il primo dei quali raggruppa le leggi di ordinamento giudiziario. Tre sono i testi legislativi che costituiscono la struttura portante del processo ordinario: 1) Il codice di procedura penale emanato assieme ad altri 18 provvedimenti allegati (decreti legislativi) sulla base di principi e criteri della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81. (Il codice presenta norme di attuazione, transitorie, coordinamento con funzione complementare). 2) D.lgs. 28 agosto 2000 n.274 in materia di poteri del giudice di pace nel procedimento ordinario allo scopo di ridurre il carico giudiziario eccessivo, integrato con un regolamento di esecuzione. 3) Convenzioni internazionali assunte in sede europea e convenzione predisposta dall’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), recepite con d.lgs. 8 giugno 2001, n.231 dove il testo è una sorta di “mini codice” con funzione di chiarimento, oggi oggetto di etero-integrazione. 4. Le fonti giurisprudenziali Ogni autorità dotata di potere giurisdizionale nell’atto conclusivo, di tenore decisorio, del procedimento principale o incidentale, fissa una regola di diritto: 1) Le giurisdizioni superiori esprimono statuizioni valoriali a carattere vincolante rispetto ai giudici di merito, 2) Particolarmente per i procedimenti incidentali della Corte costituzionale, soprattutto per sentenze interpretative di rigetto, 3) Le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. 5. Le fonti letterarie Costituite dall’insieme delle fonti conoscitive. Es. manuali di diritto. Ci si riferisce alla dottrina ma spesso giungono, nella pratica forense, ad assumere carattere di opinione personale e assolutamente non vincolante. 6. I nuovi orizzonti del diritto processuale penale – cooperazione in merito di criminalità organizzata, diritto penitenziario e cooperazione internazionale. 7. Attuazione delle decisioni quadro del Consiglio dell’Unione europea – forme di recepimento nell’ordinamento interno. 8. Navigazione a vista - tra evoluzioni possibili e cambiamenti del diritto processuale penale. 5 di essere contraddetto: a) Questioni pregiudiziali relative allo stato di famiglia o di cittadinanza: il giudice può sospendere il processo, purché: 1. il rapporto di pregiudizialità sussista effettivamente; (il che non implica necessariamente un condizionamento sulla decisione circa l’esistenza del reato, essendo da riconnettere l’effetto devolutivo anche a quelle controversie la cui risoluzione influisce sull’esistenza di una condizione di punibilità o di una circostanza aggravante); 2. la questione pregiudiziale sia seria; 3. sia già stata proposta azione a norma di leggi civili o amministrative. In mancanza di uno di questi requisiti, il giudice decide in via incidentale. La sospensione è pronunciata con ordinanza, che può essere impugnata in Cassazione, senza effetto sospensivo, ad opera di una qualsiasi delle parti. Finché dura la sospensione, è ammesso solo il compimento degli atti urgenti. In base alla difficoltà della questione e dell’entità dei costi, sarà il giudice a stabilire, di volta in volta, se nonostante la ricorrenza dei presupposti stabiliti dall’art. 2 comma 1, non sia preferibile risolvere autonomamente la questione pregiudiziale. Alla sentenza irrevocabile intervenuta in sede extrapenale viene riconosciuta efficacia di giudicato. Il giudicato amministrativo o civile ha un’identica efficacia vincolante: sia se si è formato anteriormente all’inizio del processo penale, sia se, risolta incidenter tantum la questione pregiudiziale nell’ambito del processo penale, è sopraggiunto mentre il medesimo è ancora in corso. Se la decisione extrapenale diviene irrevocabile dopo la definitiva conclusione del processo penale, soccorre l’art. 630: si percorrerà la strada della revisione. b) Questione pregiudiziale civile o amministrativa dotata dei seguenti requisiti (vista la collocazione dell’art. 479, che la disciplina, la sospensione sembrerebbe potere essere disposta soltanto nel corso del dibattimento): 1) decisiva dell’esistenza del reato (è irrilevante che riguardi altri elementi della regiudicanda); 2) particolarmente complessa; 3) la cui trattazione è già in corso presso un giudice civile o amministrativo; 4) rispetto alla quale la legge civile o amministrativa non ponga limitazioni alla prova della situazione soggettiva controversa, altrimenti si preferisce la decisione incidentale del giudice penale, che non incontra tali limitazioni. Le regole sulla sospensione sono le medesime della lettera a), con la differenza che in questo caso il giudice può revocare la relativa ordinanza, anche d’ufficio, qualora il giudizio civile o amministrativo non si sia concluso nel termine di un anno. NB: in questo caso la sentenza extrapenale non assume efficacia vincolante, ma entra semplicemente a far parte del materiale probatorio, liberamente valutabile dal giudice, salvo obbligo di motivazione. 5. Competenza: per materia, per territorio e per connessione Il capo II del titolo in questione contiene una serie di regole che consentono una distribuzione orizzontale e verticale delle regiudicande (questioni) penali, cosicché risulti predeterminato il giudice competente a conoscere di ogni procedimento, ex. art 25 Cost, comma 1. Ciò era vero in assoluto anteriormente al 1999, dove è divenuta efficace la normativa predisposta dal legislatore delegato per istituire il giudice unico di primo grado. Da quella data viene introdotto un altro criterio di assegnazione imperniato sulla categoria delle attribuzioni, la quale si differenzia da quella di competenza perché opera come criterio interno di ripartizione, idoneo a distinguere l’ambito di congizione del tribunale in composizione collegiale da quello monocratico. (quello nuovo è quello per connessione: per limitare i sacrifici imposti al principio del giudice naturale per le distorsioni e i conflitti che si sono registrati durante la vigenza del codice abrogato a causa di un’eccessiva propensione all’accumulazione dei processi) È possibile distinguere tre ordini di competenza: 1) Competenza per materia: nel concetto di materia rientrano sia un criterio qualitativo (es. natura dell’illecito, professionalità del giudice etc.), sia uno quantitativo. Con riferimento a quest’ultimo, bisogna tenere conto del massimo della pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato (diminuzione di 1/3 in questo caso), senza tenere conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze, a meno che non si tratti di aggravanti per le quali la legge prevede pene di specie diversa, ovvero ad effetto speciale. Analizziamo le singole corti: o Corte d’assise: 6 a) Delitti puniti con ergastolo o reclusione non inferiore nel massimo a 24 anni, ad eccezione dei delitti di tentato omicidio, rapina, estorsione, associazione di tipo mafioso e delitti, comunque aggravati, in materia di sostanze stupefacenti ( criterio quantitativo). Con la l. n. 52 del 2010: Si è precisato che relativamente al delitto di associazione mafiosa, è esclusa la competenza della corte d’assise, a favore di quella del tribunale; È stato eliminato dall’elenco dei delitti espressamente sottratti alla competenza della corte d’assise il riferimento all’art. 630 comma 1, con la conseguenza che ormai questa corte è competente in tema di sequestro di persona a scopo di estorsione anche quando dal sequestro non sia derivata la morte della persona offesa. b) Delitti consumati di omicidio del consenziente, istigazione o aiuto al suicidio ed omicidio preterintenzionale. c) Delitti dolosi, qualora dal fatto sia derivata morte di una o più persone, escluse le ipotesi di morte come conseguenza non voluta di altro reato, in seguito a rissa od omissione di soccorso. d) Delitti di riorganizzazione del partito fascista, genocidio e contro la personalità dello Stato, puniti con pena edittale superiore nel massimo a 10 anni. e) Delitti tentati o consumati di associazione per delinquere, procurato ingresso illegale dello straniero, tratta di persone e delitti con finalità di terrorismo. (reclusione di minimo 10 anni) o Tribunale: la sua competenza si ricava per sottrazione, essendo investito dei reati non di competenza della corte d’assise o del giudice di pace. 2) Competenza per territorio: la regola generale è quella del luogo in cui il reato è stato consumato. Il legislatore tuttavia prevede: a) Regole derogatorie: Fatto che ha causato la morte di una o più persone: l’azione è radicata nel luogo in cui è avvenuta l’azione o l’omissione. Reato permanente: luogo in cui ha avuto inizio la consumazione. Reato tentato: luogo in cui è stato compiuto l’ultimo atto diretto a commettere il delitto. b) Regole suppletive: si applicano quando non è possibile applicare quelle generali. Esse seguono una gerarchia interna: 1) Luogo in cui è avvenuta parte dell’azione. 2) Residenza 3) Dimora 4) Domicilio dell’imputato 5) Sede dell’ufficio del PM che per primo ha iscritto la notizia di reato nel registro. Le regole suppletive si applicano quando il reato è commesso in parte all’estero. NB: se il reato è stato commesso interamente all’estero, si applicano le regole del luogo della residenza, dimora, domicilio, arresto e consegna dell’imputato. NB’: se si tratta di un reato commesso interamente all’estero a danno di un cittadino italiano, la competenza è del tribunale o della corte d’assise di Roma. Deroga: è prevista nel caso di un procedimento penale in cui: a) imputato, persona offesa o danneggiata dal reato sia un magistrato b) competente sia un ufficio giudiziario ricompreso nel distretto di corte d’appello in cui egli esercita le proprie funzioni. In questi casi la competenza spetta al giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte d’appello determinato dalla legge sulla base di una tabella, incentrata sul criterio della circolarità. Si evitano in tal modo competenze incrociate. 3) Connessione: di procedimenti si verifica in una serie di ipotesi: a) Commissione del reato da più soggetti in concorso, in cooperazione o con condotte indipendenti, ma che hanno determinato l’evento. b) Concorso formale o reato continuato. c) Reato commesso per occultarne altri. (le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno avallato l’orientamento secondo cui, per la configurabilità della connessione non è necessario che l’autore o gli autori del reato mezzo siano gli stessi del reato fine, quindi si prescinde dal requisito dell’identità soggettiva). L’ipotesi di connessione influenza fortemente la competenza: o Competenza per materia: si applica il criterio del giudice superiore, per cui se la competenza è del tribunale, la 7 cognizione è affidata alla corte d’assise etc. o Competenza per territorio: prevale il giudice competente per il reato più grave o, in caso di pari gravità, quello competente per il primo reato. Ci sono criteri particolari per la connessione di procedimenti di competenza di giudici ordinari e speciali. Nell’ipotesi di competenza concorrente tra Corte Costituzionale e giudice ordinario, prevale la competenza del giudice speciale; Nel rapporto tra giudice militare e giudice ordinario, vale la regola opposta, fermo restando che la connessione opera solo quando il reato comune è più grave di quello militare. Per i procedimenti relativi ad imputati che al momento del fatto erano minorenni e procedimenti relativi ad imputati maggiorenni, la connessione non opera quindi è competente: - Da un lato, il tribunale per minorenni - Dall’altro, il giudice non specializzato. 6. Competenza funzionale L’attività giurisdizionale subisce un frazionamento in scansioni, che hanno come protagonisti giudici diversi, i quali si diversificano in virtù della differente funzione svolta nel medesimo procedimento. Si può innanzitutto distinguere per gradi di giudizio: 1) Primo grado: giudice di pace, tribunale ordinario e corte d’assise. 2) Secondo grado: tribunale monocratico, corte d’appello e corte d’assise d’appello, con riferimento, rispettivamente, alle decisioni del giudice di pace, del tribunale e della corte d’assise. 3) Controllo di legittimità: corte di cassazione. Si può poi distinguere per fasi del giudizio: a) Fase anteriore al giudizio: giudice per le indagini preliminari e giudice dell’udienza preliminare b) Fase del giudizio: tribunale, corte d’assise, corte d’appello, corte d’assise d’appello e cassazione. c) Fase dell’esecuzione: giudice dell’esecuzione e magistratura di sorveglianza (primo grado: magistrato di sorveglianza; secondo grado: tribunale di sorveglianza) 7. Attribuzioni del tribunale Consentono di stabilire se, in relazione ad un determinato reato, il tribunale competente debba decidere in composizione monocratica, ovvero collegiale. In seguito all’abolizione del pretore, l’inedita composizione monocratica è stata eletta a regola, nonostante le relative attribuzioni siano state nel tempo ridimensionate. Anche in questo caso operano due criteri: a. Criterio quantitativo: sono devoluti al tribunale collegiale i delitti puniti con la reclusione superiore nel massimo a 10 anni, anche nell’ipotesi di tentativo. b.Criterio qualitativo: sono sottratti al tribunale collegiale i delitti in materia di sostanze stupefacenti, anche se puniti con reclusione superiore a 10 anni; sono devoluti al tribunale collegiale i delitti ex art. 33-bis, comma 1, sebbene puniti con reclusione non superiore ai 10 anni. Il criterio quantitativo va coordinato con quello qualitativo, che implica varie deroge: - Per un verso, risultano sottratti al tribunale “collegiale” taluni delitti puniti con la reclusione superiore a 10 anni; - Per altro verso, gli vengono attribuiti reati che, in base al criterio quantitativo, dovrebbero essere giudicati dal tribunale in composizione monocratica. (per queste due deroghe, vedere il manuale a pag. 20) È chiaro, dunque, che le attribuzioni del tribunale monocratico si rinvengono per esclusione: esso giudica sui reati non attribuiti a quello collegiale. NB: nell’ipotesi di procedimenti connessi, rientranti nelle attribuzioni di giudici di composizione differente, si applicano le disposizioni relative al procedimento davanti al giudice collegiale, cui sono attribuiti tutti i procedimenti connessi. L’incidenza della connessione opera anche in rapporto alle indagini preliminari. 8. La disciplina della riunione e della separazione dei processi Sono due istituti che operano a partire dal momento in cui, in seguito all’esercizio dell’azione penale, il procedimento si è evoluto in processo. Analizziamoli: 1) Riunione: produce come risultato la trattazione congiunta di processi in precedenza pendenti d’innanzi a diversi giudici, sezioni o composizioni dello stesso ufficio giudiziario, preventivamente individuato in base ai normali 10 una regressione del processo: dispone la trasmissione al PM, che eserciterà azione penale. 3) Grado d’appello: due ipotesi: a) Se il giudice ritiene che dovesse pronunciarsi il tribunale collegiale, pronuncia sentenza di annullamento e trasmette al PM presso il giudice competente. b) Se il giudice ritiene che dovesse pronunciarsi il tribunale monocratico, si pronuncia nel merito. 4) Cassazione: a. Attribuzione viziata per difetto: stesse regole del grado di appello, purché il vizio sia stato tempestivamente eccepito in primo grado. b. Attribuzione viziata per eccesso: medesime regole del grado di appello, a meno che la sentenza pronunciata dal tribunale monocratico non sia inappellabile, dovendosi in tal caso annullarla. NB: il difetto di attribuzione non comporta l’inutilizzabilità delle prove acquisite, né degli atti compiuti. Per quanto concerne l’inosservanza dei criteri di ripartizione territoriale tra sede principale e relative sezioni distaccate dal tribunale: dalla violazione dei criteri di ripartizione dei procedimenti si occupa l’art. 163bis disp. Att. • La violazione può essere rilevata fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado; • Il giudice che la consideri sussistente rimette gli atti al presidente del tribunale, affinché quest’ultimo ai pronunci in proposito con un decreto non motivato e non soggetto ad impugnazione. Sia il mancato riconoscimento di un formale potere di eccezione in capo alle parti, sia la scelta a favore di una procedura de plano, testimoniano la volontà legislativa di considerare questo tipo di violazione come una questione che rileva esclusivamente da un punto di vista interno, cioè di corretta amministrazione della giurisdizione. 11. Le cause personali di estromissione del giudice: cause di incompatibilità, astensione e ricusazione Le cause di incompatibilità sono stabilite da due ordini di fonti differenti: 1) Ordinamento giudiziario: attengono esclusivamente alla costituzione dell’organo giudicante, cosicché non solo sia, ma appaia imparziale. Ad esempio non possono far parte della stessa corte, tribunale o ufficio magistrati legati da un vincolo di parentela o affinità. 2) Codice di rito: abbiamo due ipotesi di incompatibilità: a. Parentela, affinità o coniugio tra giudici dello stesso procedimento. b. Incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento: a) Il giudice che ha pronunciato sentenza di primo grado non può esercitare funzioni giudiziarie negli altri gradi. b) Il giudice che ha pronunciato provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare, disposto giudizio immediato o deciso sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere non può partecipare al giudizio. (art. 34 comma 2 la portata di questa previsione normativa risulta ampliata dopo varie sentenze additive della Corte costituzionale, che riteneva ingiustificatamente escluse specifiche situazioni che, implicando una delibazione del merito della regiudicanda, devono ritenersi idonee a compromettere l’imparzialità del giudice) c) Il giudice delle indagini preliminari non può partecipare allo stesso giudizio, nemmeno in udienza preliminare, a meno che non si sia limitato ad adottare una serie di provvedimenti tassativamente indicati. (comma 2ter aggiunto dall’art. 22 legge n. 479 del 1999, con portata innovativa perché: • Da un lato: sancendo un’incondizionata incompatibilità al giudizio, assorbe sia quella parte dell'articolo 34 in cui si fa riferimento al giudice che ha disposto il giudizio immediato o ha emesso il decreto penale di condanna, sia quel ventaglio delle sentenze della Corte che hanno ricollegato l'incompatibilità al giudizio del giudice per le indagini preliminari a specifiche situazioni pregiudicanti, • Dall’altro: escludendo che il giudice per le indagini preliminari possa tenere l'udienza preliminare, capovolge l'originaria impostazione. Tuttavia occorre precisare che nello stesso momento in cui è stata accolta la regola dell'alternatività delle funzioni di giudice per le indagini preliminari e di giudice dell'udienza preliminare, sono state introdotte alcune disposizioni che potrebbero riproporre il problema a cui si è inteso ovviare, poiché comportano un accentuato attivismo del giudice dell'udienza preliminare nella predisposizione del materiale probatorio da utilizzare per la decisione. d) Chi ha svolto funzioni di PM o di polizia giudiziaria, idonee a comprometterne l’imparzialità, non può essere giudice nel medesimo procedimento. L’esistenza di una causa di incompatibilità costituisce esclusivamente motivo di ricusazione, che la parte interessata deve far valere tempestivamente, qualora il giudice non abbia proceduto all’astensione. Astensione e ricusazione: per quanto attiene le relative cause, esse sono comuni, ad eccezione delle gravi ragioni 11 di convenienza, che è soltanto causa di astensione, e della manifestazione indebita del proprio convincimento da parte del giudice, che è soltanto causa di ricusazione. L’elenco è tassativo, ha obbligo di astensione: 1) Il giudice ha un interesse proprio o del prossimo congiunto nel procedimento. 2) Il giudice è prossimo congiunto, tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti. 3) Il giudice ha dato consigli o manifestato il suo parere sull’oggetto del procedimento fuori dall’esercizio delle sue funzioni. 4) Il giudice è in rapporto di grave inimicizia con una delle parti. 5) Un prossimo congiunto del giudice svolge funzioni di PM nel medesimo procedimento. Quanto al procedimento: a. Astensione: la dichiarazione è presentata al presidente del tribunale, che decide con decreto. b.Ricusazione: la dichiarazione è presentata in cancelleria del giudice competente, con deposito della stessa anche in quella del giudice ricusato. Si perseguono 3 obiettivi: • Accentuare il carattere giurisdizionale della procedura incidentale; • escludere un'automatica sospensione dell'attività processuale in seguito alla semplice presentazione della domanda di ricusazione; • assicurare criteri oggettivi per l'individuazione del giudice che sostituisce quello ricusato. Dalla presentazione della dichiarazione scatta il divieto per il giudice ricusato di pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta l'ordinanza di inammissibilità o di rigetto della dichiarazione stessa. L’art. 38 fissa i termini entro cui va presentata la domanda di ricusazione e le modalità con le quali essa va proposta: sono sanciti a pena di inammissibilità. L’art. 40 indica gli organi competenti Organo competente a decidere della ricusazione: di un giudice del tribunale, della corte d’assise e della corte d’assise d’appello è la corte d’appello; della corte d’appello o della Cassazione è un’altra sezione della stessa corte. La corte competente pronuncia ordinanza di inammissibilità per mancanza di legittimazione soggettiva, inosservanza di forme e termini ovvero manifesta infondatezza, senza avvisi alle parti ed in assenza di contraddittorio. Avverso l’ordinanza è promuovibile ricorso in Cassazione. Superato il controllo di ammissibilità, la corte si pronuncia nel merito con ordinanza, anch’essa impugnabile in Cassazione. Quanto agli effetti della dichiarazione, essa non comporta limitazione dei poteri del giudice ricusato, né un obbligo di astensione, ma soltanto il divieto di pronunciare sentenza fino all’ordinanza di inammissibilità; tuttavia, nell’ipotesi in cui il giudice ricusato si pronunci ugualmente, la relativa sentenza: conserva la sua validità in caso di ordinanza di inammissibilità, mentre è nulla in caso di accoglimento della dichiarazione. Quanto agli effetti dell’astensione e della ricusazione, esse comportano il divieto assoluto per il giudice astenutosi o ricusato di compiere qualsiasi atto nel procedimento, mentre gli atti compiuti precedentemente possono mantenere la loro efficacia per espressa dichiarazione nella relativa ordinanza. Il giudice astenutosi o ricusato viene sostituito con altro magistrato dello stesso ufficio, designato secondo le leggi di ordinamento giudiziario. Tutte le ordinanze che si pronunciano sul merito, emesse dal giudice competente a decidere sulla ricusazione, sono immediatamente eseguibili, essendo risolutivo in proposito il rinvio all’art. 127 operato dal 3 comma dell’art. 41. Infatti, l’art. 127 comma 8 stabilisce una deroga espressa al principio dell’effetto sospensivo dell’impugnazione per tutti i provvedimenti emessi in camera di consiglio. Rispetto all’ordinanza che sanziona l’inammissibilità della dichiarazione di ricusazione vige una diversa regola non si richiama l’art. 127 quindi ciò comporta l’inapplicabilità della deroga al principio dell’effetto sospensivo dell’impugnazione previsto dall’art. 588 comma 1. Diversamente dal codice abrogato che imponeva la condanna a pena pecuniaria come contenuto necessario dell’ordinanza di inammissibilità dell’istanza di ricusazione, l’art. 44 prevede tale condanna come facoltativa. La funzione deterrente della condanna: non si appunta più su una presunzione assoluta di “strumentalità” dell’istanza di ricusazione, insita nella pronuncia di inammissibilità, ma si appunta su una valutazione che il giudice della ricusazione deve esprimere caso per caso. 12. La rimessione del processo (art. 45-49) Consiste nello spostamento dello stesso da una sede ad un'altra in presenza di turbative ambientali che possono 12 compromettere il suo regolare svolgimento. In questi casi non viene messa in dubbio l’imparzialità di chi giudica, come avviene per astensione e ricusazione, quanto piuttosto quella dell’organo giudicante nel suo complesso. L’istituto in questione si pone in contrasto con il principio costituzionale del giudice naturale (art. 25 Cost): da qua discende la necessità di ancorare ad una previsione tassativa le situazioni idonee a determinare lo spostamento del processo. L’attuale disciplina (l. n. 248 del 2002) è finalizzata proprio a questo temperamento: si richiede la presenza di un nesso causale tra: a. una grave situazione locale di turbamento, non altrimenti eliminabile, b. un conseguente pregiudizio alla libera determinazione delle persone che partecipano al processo, ovvero alla sicurezza ed incolumità pubblica. È tuttavia problematico l’inserimento, nell’attuale disciplina, delle ipotesi di gravi situazioni locali che determinano motivi di legittimo sospetto: la formula è palesemente indeterminata e, poiché suscettibile di dilatare l’ambito di operatività dell’istituto, in palese contrasto con il principio di tassatività vigente in materia, a garanzia del principio del giudice naturale precostituito. Ex art. 45, la rimessione può essere chiesta, in ogni stato e grado del processo di merito, da imputato, procuratore generale presso corte d’appello e PM presso il giudice procedente (non è quindi legittimata la parte civile, alla luce del carattere eccezionale dell’istituto in esame). Ex art. 46, la richiesta dell’imputato deve, a pena di inammissibilità, essere sottoscritta da lui personalmente o da un suo procuratore speciale e va notificata entro sette giorni alle altre parti. A questo punto è il giudice procedente che provvede a trasmettere la richiesta alla Corte di cassazione, organo competente per la decisione. Quanto agli effetti della richiesta: prima, la richiesta di rimessione non produceva di per sé effetto sospensivo, ferma restando la facoltà della corte di cassazione di decretare nel caso concreto la sospensione del processo. Non si poteva emettere sentenza fino alla infruttuosa conclusione del procedimento incidentale. (la corte costituzionale pronuncia incompatibilità di questo divieto per via dei suoi effetti paralizzanti). L’odierna formulazione dell’art. 47 comma 1 è differente, si afferma che il giudice procedente, o la Cassazione, possono disporre con ordinanza la sospensione del processo, finché non sia intervenuta ordinanza di inammissibilità o rigetto, motivando in ordine al fumus ed il periculum. La sospensione riguarda anche i termini di prescrizione del reato e quelli di durata massima della custodia cautelare, qualora essa sia chiesta dall’imputato. • NB: la sospensione diviene invece obbligatoria, qualora il presidente della Cassazione comunichi che la richiesta è stata assegnata ad una sezione per la decisione. Il giudice sospende il processo prima dello svolgimento delle conclusioni o della discussione, e resta preclusa la pronuncia sia del decreto che dispone il giudizio, sia della sentenza. • NB’: la sospensione è invece esclusa, qualora la richiesta non sia fondata su elementi nuovi rispetto a quelli di una precedente richiesta rigettata o dichiarata inammissibile. La Cassazione decide in camera di consiglio con ordinanza di rigetto o accoglimento: in questo secondo caso allegando l’indicazione del nuovo giudice, al quale quello originario dovrà trasmettere tutti gli atti. Quando rigetta o dichiara inammissibile la richiesta di rimessione, la Corte di Cassazione può condannare l’imputato al pagamento di una somma a favore della cassa delle ammende. (disincentivazione della presentazione di richieste azzardate) Viene abbandonata la regola originaria che affidava al giudice subentrante il compito di decidere se e in che misura gli atti compiuti rimanessero efficaci. La nuova formulazione dell’art. 48 comma 5, afferma che il giudice designato procede alla rinnovazione degli atti quando una qualsiasi delle parti ne faccia richiesta, a meno che non ne sia divenuta impossibile la ripetizione. D’innanzi a questo le parti esercitano gli stessi diritti e facoltà riconosciutegli davanti al primo giudice. Quanto alla nuova richiesta di rimessione, occorre distinguere: 1) Ulteriore spostamento del processo: può essere chiesto quando si presenta una delle ipotesi previste dalla disciplina generale sulla rimessione, oppure se, nella sede originaria, sono venute meno le ragioni che giustificavano la rimessione, che viene quindi revocata. 2) Primo spostamento del processo, già negato in precedenza dalla Cassazione con ordinanza: a) Se l’ordinanza ha dichiarato inammissibilità o manifesta infondatezza, la nuova richiesta deve basarsi su elementi nuovi. 15 La richiesta non può essere riproposta salvo che si fondi su fatti nuovi e diversi. 15. Astensione: È una facoltà del PM (non è quindi obbligatoria) esercitabile nell’ipotesi di gravi ragioni di convenienza e presuppone una dichiarazione motivata, sulla quale decide il capo dell’ufficio o il procuratore generale. La sostituzione viene effettuata con un magistrato appartenente al medesimo ufficio, ma la regola è derogabile allorché si tratti del capo dell’ufficio. Non è possibile la ricusazione del PM, stante la sua qualità di parte. 16. Rapporti interni agli uffici: Ciascun ufficio del pubblico ministero si compone di: 1) Titolare dell’ufficio: procuratore generale presso corte d’appello e Cassazione; procuratore della Repubblica presso tribunale. 2) Sostituti procuratori: uno o più magistrati addetti all’ufficio. 3) Procuratore aggiunto: è un membro dell’ufficio eventuale e può essere istituito presso il tribunale ordinario, in proporzione all’organico dell’ufficio. 4) Avvocati generali: sono preposti alle procure collocate presso le sezioni distaccate delle corti d’appello. Quanto alle funzioni, i titolari dirigono l’ufficio, secondo criteri di buon andamento ed imparzialità, ed esercitano in prima persona le funzioni di PM, ovvero designano (non delegano) uno o più tra gli altri magistrati dell’ufficio, in virtù di meccanismi automatici. Quanto alla posizione del singolo magistrato nei confronti del titolare dell’ufficio, è postulata la piena autonomia dello stesso, con riferimento all’udienza (preliminare; per l’applicazione della pena nella fase delle indagini preliminari; per il giudizio abbreviato). L’autonomia del magistrato gli garantisce di potersi adeguare all’oralità dell’udienza. Per le udienze anteriori all’esercizio dell’azione penale, l’estensione della piena autonomia suona debole: - Da un lato, l’art. 53 comma 1, alludendo implicitamente al magistrato designato per l’udienza, non pare riferibile alle udienze che si tengono nel corso delle indagini preliminari, per le quali vale la designazione effettuata ex art. 70 comma 3 ord. Giud.; - Dall’altro, la tesi qui criticata produrrebbe il sovrapporsi degli istituti delineati dall’art. 53 comma 3 e dall’art. 372 comma 1. Quindi nell’intera fase delle indagini, la sostituzione operata dal titolare dell’ufficio non incontra i limiti rigorosi dell’art. 53. La ratio sottostante al riconoscimento codicistico dell’autonomia sta nel consentire che la condotta del magistrato possa adeguarsi ai mutevoli scenari che scaturiscono dall’oralità dell’udienza. Sostituzione: del titolare dell’ufficio al magistrato. Essa è possibile soltanto su ipotesi tassative, nel rispetto del principio di autonomia: o Grave impedimento o rilevanti esigenze di servizio : presuppongono una valutazione discrezionale da parte del capo dell’ufficio. o Situazioni in cui il giudice sarebbe obbligato ad astenersi: sono obbligatorie. Se il capo dell’ufficio contravviene all’obbligo, la sostituzione è demandata al procuratore generale, con designazione di un magistrato del proprio ufficio. NB: non ci troviamo di fronte ad un’avocazione, poiché la sostituzione dura non per l’intera fase delle indagini, ma solo per le funzioni di udienza. o Consenso del magistrato sostituito: qui le cause possono essere le più disparate. NB: per le udienze anteriori all’esercizio dell’azione penale non vige il principio di autonomia, dovendosi ritenere che, nell’intera fase delle indagini, la sostituzione è possibile anche al di fuori delle suddette ipotesi, ad esempio per contravvenzione da parte del magistrato delle direttive impartite dal capo dell’ufficio. Oggi la disciplina codicistica va integrata con quella contenuta nel d. lgs. n. 106 del 2006, che è improntato su un’impostazione maggiormente verticistica, se non incondizionatamente gerarchica. L’art. 1 di questo decreto conferisce al procuratore della Repubblica la titolarità esclusiva dell’azione penale. Il potere è esercitato personalmente o mediante assegnazione, e ciò segnala che, a fronte della titolarità formale dell’azione al capo dell’ufficio, ai singoli sostituti è conferito un esercizio della stessa in maniera unicamente mediata. Inoltre il decreto garantisce al procuratore della Repubblica alcune prerogative allorquando occorra disporre il fermo di indiziato di delitto o richiedere una misura cautelare reale o personale l’atto deve essere oggetto di un previo assenso scritto del procuratore della Repubblica. 16 17. Uffici del pubblico ministero distrettuale: Nei confronti dei delitti, consumati o tentati, di associazione a delinquere semplice ed aggravata, realizzata allo scopo di commettere delitti tassativamente indicati dall’art. 53, comma 3bis, nonché per una serie di delitti ulteriori richiamati dai commi 3quater e 3quinquies, è stato prevista una disciplina speciale concernente il PM, giustificata dalla gravità di tali delitti. Più nello specifico, per tali reati le funzioni di PM nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado sono attribuite all’ufficio che ha sede presso il tribunale del capoluogo del distretto della corte d’appello. Il procuratore della Repubblica di tale ufficio (cd. distrettuale) istituisce, con riferimento ai reati 3bis, una direzione distrettuale antimafia (Dda), designando i magistrati che devono farne parte per un tempo non inferiore ai due anni, i quali, salvo eccezioni, svolgeranno le funzioni di PM nei relativi procedimenti, anche se è possibile che il procuratore generale, su richiesta di quello distrettuale, designi un diverso magistrato. La concentrazione dell’attività investigativa presso le direzioni, nonché la conduzione unitaria della stessa, garantisce un alto grado di efficienza del sistema. Sono comunque possibili contrasti: se intercorrono tra diverse direzioni distrettuali, la risoluzione è affidata al procuratore generale presso la Cassazione, e al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo è demandata una funzione consultiva; se intercorrono all’interno del medesimo distretto, il compito tocca al procuratore generale presso la corte d’appello. Poiché non potrà che trattarsi di un contrasto tra la direzione distrettuale ed una procura ordinaria, il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo diviene parte in causa. Direzione nazionale antimafia (Dna): vi sono preposti un procuratore nazionale, due procuratori aggiunti e alcuni sostituti, tutti scelti tra chi ha svolto funzione di PM per almeno un decennio, con specifiche attitudini antimafia e terrorismo. L’incarico di procuratore nazionale ed aggiunto ha durata quadriennale e può essere rinnovato una sola volta. Più nello specifico la Dna è un ufficio del PM specializzato, che si avvale della Dia e dei servizi centrali ed interprovinciali delle forze di polizia. La collocazione sistematica dell’art. 371bis e la sua rubrica, incentrata sull’attività di coordinamento, non sembrano adeguati alla estensione delle funzioni espletate dal procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Nei procedimenti relativi ai delitti ex art 51 comma 3bis, egli si avvale della direzione investigativa antimafia e dei servizi centrali e interprovinciali delle forze di polizia. Nei delitti del comma 3quater, il procuratore nazionale può servirsi del solo personale dei servizi centrali ed interprovinciali delle forze di polizia, non essendosi voluto costituire un organo unitario di polizia antiterrorismo. Più nello specifico, la funzione del procuratore nazionale è duplice: o Impulso al coordinamento: egli assicura il collegamento investigativo tra i diversi procuratori distrettuali, anche impartendo specifiche direttive, cui devono attenersi. Egli può indire riunione per risolvere i contrasti che hanno impedito l’esecuzione delle direttive. Quale estremo rimedio, è inoltre dotato del potere di avocazione. o Impulso alle investigazioni: si risolve nella ricerca, acquisizione ed elaborazione di notizie, garantite dal potere di libero accesso ai registri, ai fini di repressione dei reati. Egli può procedere a colloqui personali con detenuti, senza previa autorizzazione. Infine può procedere alle applicazioni temporanee della Dia e delle procure distrettuali, per garantire l’adattamento degli apparati del pubblico ministero alle necessità investigative del caso concreto; l’applicazione è disposta con decreto motivato e non può superare la durata di un anno, potendo però essere rinnovata un altro anno. Il decreto di applicazione è trasmesso al CSM per l’approvazione, nonché al Ministro della Giustizia. 18. Le funzioni ed i soggetti di polizia giudiziaria Funzioni: la collocazione sistematica della polizia giudiziaria tra i soggetti del procedimento si giustifica alla luce del carattere sostanzialmente unitario dell’attività investigativa, alla quale essa partecipa a supporto del PM, costituendone “orecchio e braccio”. La distinzione fondamentale tra polizia giudiziaria ed amministrativa è dunque che l’intervento della prima è successivo alla commissione del reato, che invece la seconda ha il compito di impedire. Più nello specifico, l’attività della polizia giudiziaria segue una tripartizione (art. 55 comma 1): 1) Attività informativa: acquisizione della notizia di reato e riferimento della stessa al PM. 2) Attività investigativa: ricerca dell’autore di un reato compiendo atti tipici e atipici. 3) Attività assicurativa: quale ideale perfezionamento della precedente, con riferimento alle fonti di prova. NB: alle funzioni tipiche si aggiunge anche l’obbligo: a. di raccogliere quant’altro serva ai fini dell’applicazione della legge penale ha una portata ampia, potendo ricomprendere ad esempio le attività volte a determinare la pericolosità del soggetto 17 b. di impedire che i reati siano portati a conseguenze ulteriori. profilo tipico della polizia di sicurezza (per la sua natura preventiva) Data la portata solo riassuntiva dell’art. 55, la giurisprudenza giustamente esclude che possa discenderne un ampliamento dei poteri conferiti dalla normativa vigente alla polizia giudiziaria, e che quindi possano ammettersi atti preventivi atipici diversi dal sequestro preventivo. NB’: vi sono una serie di funzioni che la polizia giudiziaria adempie su ordine o delega dell’autorità giudiziaria. • Per quanto riguarda il PM, si ricorda il generale potere coercitivo, le direttive e gli atti delegabili; • per quanto riguarda il giudice, il potere coercitivo, provvedimenti ordinatori, misure cautelari, ispezioni, perquisizioni e sequestri. Soggetti: occorre distinguere tra: 1) Ufficiali: a. Dirigenti, commissari, ispettori, sovraintendenti e altri appartenenti alla Polizia di Stato, dell’Arma, cui la legge attribuisce il ruolo di ufficiale di polizia giudiziaria. b. Ufficiali, superiori, inferiori, appartenenti ai ruoli di ispettori e sovrintendenti dell’arma dei carabinieri, della guardia di finanza, della polizia penitenziaria e gli altri appartenenti alle suddette forze. c. Il sindaco dei comuni dove non ha sede un ufficio di polizia. 2) Agenti: a. Personale della PS, dell’Arma, della Guardia di finanza e della polizia penitenziaria. b. Membri della polizia municipale, ma nel solo ambito territoriale dell’ente di appartenenza. L’elenco degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria a competenza limitata o settoriale è vastissimo per effetto della progressiva sedimentazione legislativa, così da comprendere gli ispettori del lavoro, i dirigenti degli uffici di cancelleria per quanto riguarda le disposizioni tributarie concernenti le loro funzioni, il personale diretti, le autorità consolari, gli ispettori dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente. 19. L’organizzazione della polizia giudiziaria e la sua dipendenza funzionale dell’autorità giudiziaria L’attribuzione di compiti di polizia giudiziaria a funzionari della pubblica amministrazione, presenta l’inconveniente di consentire ad organi estranei all’attività giudiziaria di condizionare lo svolgimento dei compiti giudiziari. L’esiguità del personale in servizio o la modestia delle attrezzature tecniche fornite alla polizia giudiziaria finirebbero per compromettere così: - sia l’indipendenza esterna dell’ordine giudiziario, - sia la garanzia di eguaglianza di fronte alla legge, che costituisce il fondamento del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Dal canto suo, la Corte costituzionale ha escluso che dalla Costituzione derivi l’obbligo di istituire un corpo d i polizia alle dipendenze esclusive del potere giudiziario, giacché occorre distinguere tra dipendenza funzionale (all’autorità giudiziaria) e dipendenza burocratica (alla PA). Sulla scorta dei suggerimenti contenuti nella sentenza costituzionale n. 122 del 1971, il codice ha rafforzato più la dipendenza funzionale dall’autorità giudiziaria, specie dal pubblico ministero, che quella gerarchica, senza mai troncare del tutto la relazione burocratica che lega la polizia giudiziaria all’esecutivo. Tutte le funzioni di polizia giudiziaria sono svolte alle dipendenze e sotto la direzione dell’autorità giudiziaria, mentre restano affidate alla relazione burocratica le questioni inerenti alla retribuzione, la progressione di carriera e i provvedimenti disciplinari. In ogni caso, il legame che si instaura con l’autorità giudiziaria è variabile (art. 56): 1) Servizi di polizia giudiziaria: in questi casi la destinazione dei capi dei servizi è demandata ai dirigenti degli enti di appartenenza, con uno sbilanciamento dei poteri di gestione in favore di questi ultimi. Fra i servizi rientrano: a. Servizi centrali ed interprovinciali di PS, Carabinieri e Guardia di finanza. Ricordiamo il Raggruppamento operativo speciale (Ros) e il Reparto investigazioni scientifiche (Ris). b. Servizi interforze. c. Unità antiterrorismo. d. Tutti gli uffici e le unità cui sono affidate dalle rispettive amministrazioni funzioni di polizia giudiziaria. 2) Sezioni di polizia giudiziaria: si realizza nei loro confronti il massimo grado di dipendenza dall’autorità giudiziaria. Le sezioni sono istituite presso ogni procura della Repubblica, al fine di garantire uno stretto rapporto con il PM, il quale ha la disponibilità diretta ed immediata delle forze di polizia. Le sezioni di 20 In capo all’autorità procedente sorgono tre obblighi: o Interrompere l’esame: la pausa serve a consentire la nomina di un difensore. o Informare la persona che potranno essere svolte indagini nei suoi confronti (egli è ora persona sottoposta alle indagini), ma non che le dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti (vulnus). o Invitare la persona alla nomina di un difensore. (questo accentua il divario rispetto a coloro ai quali il fatto è attribuito da una comune notizia di reato nei confronti di costoro l’invito è formulato nell’informazione di garanzia, da inviarsi però solo a partire dal primo atto cui il difensore ha diritto di assistere. Vige il divieto di utilizzare, contro la persona autoindiziatasi, le dichiarazioni rese prima dell’avvertimento (inutilizzabilità soggettiva), mentre vige un’inutilizzabilità assoluta nel caso di interrogatorio dell’imputato, al quale non venga comunicato il proprio status processuale. La disciplina in questione consiste in un’anticipazione della garanzia del diritto al silenzio (in quanto, se fosse stato consapevole del proprio status, avrebbe ben potuto esercitare il diritto al silenzio e non rilasciare dichiarazioni a sé pregiudizievoli) operante in sede di interrogatorio, ed un perfezionamento della regola del nemo tenetur se detegere. 23. Interrogatorio (artt. 64-65) L’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini e dell’imputato, a differenza dell’esame dell’imputato, non si colloca tra i mezzi di prova. Distinguiamo: o Persona sottoposta alle indagini: il PM può procedere all’interrogatorio diretto se la persona è detenuta a qualsiasi titolo, mentre deve servirsi della polizia giudiziaria nell’ipotesi in cui la persona sia a piede libero; tuttavia, nell’ipotesi in cui questa non ottemperi all’ordine, l’accompagnamento coattivo richiede l’autorizzazione del giudice. L’interrogatorio del PM presenta un prevalente carattere investigativo. NB: se si tratta di persona sottoposta a custodia cautelare, l’interrogatorio del PM deve essere preceduto da quello del giudice. NB’: il PM è libero di non procedere all’interrogatorio, tuttavia, qualora non intenda formulare richiesta di archiviazione, deve notificare alla persona un avviso di conclusione, con indicazione della facoltà di sottoporsi ad interrogatorio. Quindi, non solo il pubblico ministero è tenuto a procedere all'interrogatorio se il soggetto lo richiede, ma all'inosservanza della prescrizione è ricollegata una nullità della richiesta di rinvio a giudizio o del decreto di citazione a giudizio del pubblico ministero. Quindi non pare ipotizzabile che l'avviso di conclusione delle indagini e la conseguente facoltà di rendere interrogatorio possono trovare validi equipollenti negli interrogatori resi in precedenza al pubblico ministero o al giudice per le indagini preliminari. Il titolare dell'accusa, se vuole inscenare il giudizio immediato secondo le forme dell'articolo 453 comma 1, deve procedere all'interrogatorio sui fatti dei quali emerge l'evidenza della prova o devi averlo risposto secondo l'articolo 375 comma 3, a meno che la persona sottoposta alle indagini non sia comparsa a causa di un legittimo impedimento. Essendo il giudice per le indagini preliminari tendenzialmente privo di poteri ufficiosi, il relativo interrogatorio si atteggia come attività sempre legislativamente doverosa. o Imputato: è libero di sottoporsi ad interrogatorio da parte del giudice dell’udienza preliminare o del giudizio abbreviato. Dal punto di vista funzionale: - l'interrogatorio condotto dal pubblico ministero ha un carattere prevalentemente investigativo perché è finalizzato alle determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale, - L’interrogatorio del giudice ha un significato prevalente di controllo e garanzia, anche se l’impiego dei risultati in chiave probatoria è il medesimo. Svolgimento: è disciplinato per assicurare all’interrogatorio la natura di strumento di difesa. Innanzitutto, il difensore tecnico ha diritto ad essere informato del compimento dell’atto, al fine di assistervi. Quanto al luogo di svolgimento, esso deve essere: l’istituto penitenziario in cui l’imputato o persona sottoposta alle indagini si trova, ovvero la sua abitazione nel caso di arresti domiciliari. Sono equiparate all’interrogatorio altre figure, quali le sommarie informazioni, le dichiarazioni dell’imputato in procedimento connesso etc. 21 Ex art. 64 comma 1, il soggetto deve intervenire libero in interrogatorio (se una persona è in stato di arresto o di detenzione domiciliare, si può disporre l'autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di arresto o di detenzione per il tempo strettamente necessario) e, durante quest’ultimo, non possono essere impiegati metodi e tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione (comma 2): le dichiarazioni devono essere liberamente prestate al di fuori di ogni condizionamento psicologico. Nel medesimo quadro si colloca il diritto al silenzio (comma 3) dell’interrogato, che si sostanzia in una triplice avvertimento che deve essere rivolto nei suoi confronti, pena inutilizzabilità delle dichiarazioni: a) Le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti. b) Gli compete la facoltà di non rispondere ad alcuna domanda. Dalla mancata risposta l’organo giudicante non può ricavare conseguenza alcuna. c) Se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità d’altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone. La mancanza di questo avviso comporta l’inutilizzabilità delle dichiarazioni soltanto nei confronti del terzo, non anche dell’interrogato. NB: attualmente è previsto che l’avviso della facoltà di non rispondere sia somministrato direttamente dalla polizia giudiziaria subito dopo l’esecuzione delle più severe restrizioni della libertà personale. (d. lgs. n. 101/2014) L'avviso in discorso mostra di tener conto della condizione di stress in cui versa il soggetto al momento dell'arresto tale da spingerlo a rendere dichiarazioni avventate, specie con l'intento di subito discolparsi, ma che potrebbero essere usate contro di lui nel prosieguo del processo infatti le dichiarazioni che la polizia giudiziaria riceve spontaneamente dall'indagato possono essere utilizzate: sia a fini contestati in sede di esame dibattimentale sia in chiave probatoria nei riti alternativi al dibattimento. Dall'esercizio del diritto di non rispondere l'organo procedente non può ricavare conseguenza alcuna in quanto insindacabile espressione del diritto di difesa personale. Una volta somministrati gli avvertimenti preliminari di cui si appena detto, entrano in gioco le prescrizioni dettate per l'interrogatorio nel merito ex art. 65. Esse presentano un carattere più specifico, operando esclusivamente per l'atto assunto dall'autorità giudiziaria e nel quale il giudice è tenuto ad una serie di obblighi, quale quello di: • contestare precisamente il fatto attribuito alla persona, • rendere noti gli elementi di prova e le fonti. Per il PM tali prescrizioni non valgono, essendo questi dati già inseriti nell’invito a presentarsi per l’interrogatorio. Emerge poi la natura dell’interrogatorio quale strumento difensivo: la persona è invitata a discolparsi e non vige l’obbligo di dire la verità, entro i limiti del c.p. La tecnica interrogatoria è quella delle domande poste in via diretta dal solo organo procedente, il che vale pure per l'interrogatorio che l'imputato ha facoltà di rendere all'udienza preliminare, a meno che il giudice disponga, su richiesta di parte, che “l'interrogatorio sia reso nelle forme previste dagli artt. 498 e 499”. 24. L’identificazione e l'esistenza in vita dell'imputato L’imputato è invitato dall’autorità giudiziaria, nel primo atto del procedimento in cui egli è presente, a dichiarare le proprie generalità ai fini dell’identificazione. In forza dell'esplicito rinvio operato dall'articolo 349 comma 3, gli stessi inviti ed ammonizioni sono indirizzati dalla polizia giudiziaria alla persona sottoposta alle indagini, però solo all'autorità giudiziaria si riferisce l'articolo 21 disp. Att. dove statuisce che debbano essere richiesti all'imputato informazioni relative all'identità personale, alla vita di relazione, alla posizione patrimoniale. In realtà, ciò che rileva a processo è la certezza dell’identità fisica dell’imputato, mentre un errore sulle generalità è considerato meramente materiale e come tale rettificabile in camera di consiglio. Con identità fisica si intende la coincidenza tra persona nei cui confronti è esercitata l’azione penale e persona assoggettata a processo. Allo scopo di ridurre il margine dei possibili errori nell'applicazione dei benefici penali, a causa dell' incompleta identificazione del soggetto e dei suoi precedenti penali, è stato introdotto l’art. 66bis. Si prevede che l'autorità giudiziaria debba comunicare a quella competente i fini dell'applicazione della legge penale la circostanza che l'indagato o l'imputato è già stato segnalato, magari sotto diverso nome, “all'autorità giudiziaria quale autore di un reato commesso antecedentemente successivamente a quello per il quale si procede”. 22 Nel corso delle indagini preliminari, sarà il PM a disporre gli accertamenti del caso, potendo archiviare il caso nell’ipotesi di errore sull’identità fisica (errore di persona); nel corso del processo invece, lo stesso compito spetta al giudice, il quale pronuncerà declaratoria di causa di non procedibilità con sentenza, sentiti PM ed imputato. SciNB: non è invece errore di persona in senso proprio l’ipotesi in cui la persona nei confronti della quale è elevata l’imputazione risulta, in base alle evidenze probatorie, essere diversa da quella che si voleva perseguire: l’errore di persona è un semplice scambio, rilevabile con una pronuncia processuale, mentre in questo caso viene pronunciata sentenza di merito e risulta necessario l’esercizio di una nuova azione penale. L'incertezza circa la minore età dell'imputato è sciolta dal giudice minorile con le forme caratteristiche di quel rito la soluzione: è coerente ad un sistema che demanda al giudice specializzato la cognizione di tutti i reati commessi da minori degli anni 18 risponde all'intento garantistico di evitare che, durante il tempo occorrente per l'espletamento della relativa perizia, la persona della cui età minore si dubita possa rimanere a contatto con imputati maggiorenni. Se l'autorità giudiziaria ritiene che l'imputato sia minorenne, trasmette gli atti al procuratore della Repubblica presso il tribunale minorile. Esistenza in vita dell’imputato: non rileva a fini penali la dichiarazione di morte presunta pronunciata dal giudice civile. È invece necessario che la morte sia dichiarata dal PM nel corso delle indagini preliminari, che chiede l’archiviazione per estinzione del reato, ovvero dal giudice con sentenza di proscioglimento, potendo però pronunciarsi anche nel merito in caso di evidente non sussistenza del fatto. In ogni caso, la sentenza che dichiara erroneamente la morte non impedisce l’esercizio di una nuova azione penale per il medesimo fatto. (art. 96 comma 2) 25. Infermità mentale e partecipazione cosciente Requisiti: occorre distinguere due ordini di capacità dell’imputato: 1) Capacità di essere parte: consiste nella legittimazione ad assumere la qualità di imputato. Tale capacità è propria di qualsiasi persona fisica, ad eccezione di infanti ed immuni, che devono essere distinti in assoluti e relativi, a seconda della portata generale o speciale dell’immunità. È un profilo della capacità giuridica. 2) Capacità processuale: consiste nell’idoneità ad esercitare, all’interno del processo, i diritti e le facoltà propri dell’imputato. È un profilo della capacità di agire. Normalmente alla capacità di essere parte corrisponde quella processuale. Tuttavia sono riscontrabili alcune eccezioni, la più vistosa delle quali è la: Infermità mentale: presupposto fondamentale è l’inidoneità del soggetto a partecipare coscientemente al processo, non più la mancanza di capacità di intendere e volere. Essa può essere antecedente al reato, ovvero sopravvenuta. NB: non rientrano nell’ipotesi le infermità fisiche sopravvenute, che comportano una sospensione o un rinvio dell’udienza L’effetto dell’infermità mentale è quello di compromettere la capacità processuale dell’imputato, anche nell’ipotesi in cui essa sia soltanto parziale, purché ne comprometta la consapevole partecipazione. L’infermità mentale può essere dichiarata d’ufficio dal giudice anche in assenza di una relativa indagine peritale, purché essa risulti in modo evidente, ma, nel caso in cui sia richiesta la perizia psichiatrica, il processo subisce una paralisi parziale: il giudice può assumere solo le prove per il proscioglimento dell’imputato. Nel corso delle indagini preliminari, la perizia: è disposta dal giudice solo su richiesta delle parti con le forme dell’ incidente probatorio ha effetto sospensivo dei termini, che verrà confermato con ordinanza nel caso di esito positivo della perizia. Il giudice dichiara l’infermità mentale dell’imputato con ordinanza di sospensione del procedimento ricorribile in Cassazione, sempreché non debba pronunciare sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento. Quanto agli effetti dell’ordinanza, il più rilevante è l’obbligo di nominare un curatore speciale a favore dell’imputato, con facoltà: • di ricorso in Cassazione avverso l’ordinanza • di assistere agli atti disposti sulla persona dell’imputato, quali ad esempio l’assunzione di prove. La sospensione infatti non impedisce al giudice di assumere e prove. Se la sospensione interviene nel corso delle indagini preliminari, operano le limitazioni dell'articolo 70 comma 3. Ulteriori effetti consistono: nell’obbligatoria separazione del processo 25 Inoltre, l’art. 75 comma 2 deve essere coordinato con gli artt. 651 e 652, dai quali emerge una regolamentazione che può essere sintetizzata così: se il processo penale si conclude con una sentenza irrevocabile di condanna, essa avrà forza di giudicato in sede civile, mentre ciò non accade se la sentenza è assolutoria. (art. 75 comma 3) Vi sono però due ipotesi in cui il processo civile resta sospeso, in attesa di giudicato penale: quando l’azione civile è esercitata dopo la sentenza penale di primo grado o dopo la precedente costituzione di parte civile in sede penale, salve le eccezioni previste per legge, cioè quando: a) Il processo penale è stato sospeso per incapacità dell'imputato, b) vi estate esclusione della parte civile, c) anche se ricorrano i presupposti stabiliti dalla legge per tale adempimento, non risulta possibile notificare personalmente l'imputato assente l'avviso dell'udienza preliminare, d) la parte civile ha abbandonato il processo penale in seguito alla sua mancata accettazione del rito abbreviato, e) l'esodo della parte civile consegua la pronuncia di una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti, f) viene accolta dal giudice la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova, g) il danneggiato, già costituitosi parte civile, esercita l'azione civile in sede propria dopo che il giudice penale ha dichiarato estinto il reato per intervenuta oblazione. 28. Responsabile civile Si tratta della persona fisica o giuridica tenuta a rispondere in solido con l’imputato per il fatto di quest’ultimo. Il danneggiato potrà quindi agire anche nei confronti di costui per il risarcimento del danno. La figura è generata da una serie di ipotesi civilistiche di responsabilità per fatto altrui. Naturalmente, la partecipazione al processo del responsabile civile è subordinata alla costituzione della parte civile, così come l’estromissione dello stesso: la sua presenza dipende da quella del danneggiato. Egli può costituirsi in due casi: 1) Citazione su richiesta di parte: per parte si intende il danneggiato e il PM. La richiesta può riguardare anche l’imputato, purché non per fatto proprio, ma per fatto degli altri coimputati. La richiesta deve essere effettuata non oltre il dibattimento e ad essa segue la citazione tramite decreto del giudice, verificato il fumus boni iuris. Copia del decreto è poi notificata alle parti interessate. La citazione è nulla se, per omissione di qualche elemento essenziale, il responsabile civile non sia stato in grado di esercitare i suoi diritti nell’udienza preliminare o nel giudizio o se risulti nulla la notificazione. Nonostante la citazione, il responsabile può scegliere di non costituirsi, ma nel caso in cui lo faccia (in ogni stato e grado del giudizio) dovrà essere assistito da un difensore, depositando in udienza una dichiarazione che deve contenere, a pena di inammissibilità, gli elementi indicati nell’art. 84 comma 2. 2) Intervento volontario: per contribuire alla dimostrazione di non colpevolezza dell’imputato. In ogni caso, mancando la citazione, egli non potrebbe essere condannato. L’intervento quindi si giustifica con la finalità di evitare che un’eventuale sentenza di condanna sia successivamente opposta (a lui e all’imputato) in sede civile. L’intervento deve avvenire, a pena di decadenza, entro l’effettuazione degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti. Tanto la citazione quanto l’intervento perdono efficacia in caso di revoca della costituzione di parte civile o di esclusione di quest’ultima ai sensi degli artt. 80 e 81. Il responsabile civile può essere escluso su richiesta di parti (anche dello stesso responsabile civile) ovvero d’ufficio. Sulla richiesta motivata il giudice decide con ordinanza inoppugnabile entro il termine per l’effettuazione degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti. L’esclusione sarà disposta: a) in caso di mancanza dei requisiti per la citazione o per l’intervento volontario b) nel caso di accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato. La ratio di questa ipotesi è duplice: • per esigenze di semplificazione • per la fisionomia del giudizio abbreviato che implica una decisione sulla base del materiale probatorio raccolto durante le indagini preliminari, alle quali il responsabile civile è estraneo. Sei l'esclusione del responsabile civile è stata deliberata su richiesta della parte civile viene meno, per il soggetto danneggiato dal reato, la possibilità di esercitare l'azione riparatoria ex delicto in sede propria. 26 29. Il civilmente obbligato per la pena pecuniaria e l’ente responsabile per l’illecito amministrativo dipendente da reato Una persona fisica o giuridica può essere assoggettata, in via sussidiaria e residuale, ad un’obbligazione civile pecuniaria pari all’importo della multa o dell’ammenda inflitta al condannato, nel momento in cui questo risulti insolvibile. Il civilmente obbligato non può intervenire volontariamente (mancherebbe l’interesse, dato che se rimane fuori dal processo penale, risulta scongiurata l’eventualità di una sua condanna), ma soltanto citato su richiesta di PM o imputato. - Per quanto concerne l’iniziativa della parte pubblica, è evidente il suo interesse a creare le premesse necessarie affinché la sanzione pecuniaria, una volta inflitta, non resti infruttuosa; - Sull’altro versante, l’imputato è a sua volta motivato dalla citazione della persona civilmente obbligata, dal momento che, restando la pena pecuniaria insoluta, si avrebbe una conversione della pena stessa in libertà controllata o in lavoro sostitutivo. Per il resto, le norme su citazione, costituzione ed esclusione del civilmente obbligato sono quelle di riferimento per il responsabile civile, escludendo tuttavia l’art. 87 comma 3 non viene quindi disposta la sua esclusione da parte del giudice che accoglie la richiesta per il giudizio abbreviato. NB: nel caso di accertamento di un reato commesso nell’interesse o a vantaggio di un ente (dotato o meno di personalità giuridica), da parte di persone che rivestano funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione dell’ente stesso, sono previste nei confronti dell’ente sanzioni amministrative. La cognizione dell’illecito amministrativo spetta al giudice penale competente per il reato da cui dipende l’illecito stesso. Se l’ente intende partecipare, deve costituirsi a giudizio e ad esso si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni riservate all’imputato. In ogni caso la partecipazione è solo eventuale e, in caso di mancata costituzione, si applicano le norme relative all’imputato assente. 30. La persona offesa dal reato La persona offesa dal reato è il titolare dell’interesse protetto dalla norma penale che si assume violata. Egli, nell’ipotesi in cui intervenga a processo, non è parte, ma solo soggetto processuale. Il ruolo affidato dal codice alla persona offesa non è particolarmente incisivo, in contrasto con il dettato delle fonti sovranazionali europee, le quali invece imporrebbero di valorizzare la sua posizione e sulla base delle quali il codice stesso ha modellato le principali garanzie nei suoi confronti, per evitare una vittimizzazione secondaria. • In particolare, dev’essere ricordata la direttiva 2012/29/CE del parlamento europeo e del consiglio, che detta norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione alle vittime di reato. • Molto importante è, anche, il d.l. n.93 del 2013, mediante il quale sono state dettate disposizioni per il contrasto di genere. Il d.l. n.93/2013 si collega alla convenzione di Istanbul del 2011 sulla prevenzione della violenza contro le donne e la lotta contro la violenza domestica. • Infine, bisogna menzionare il d.lgs n.122/2016, finalizzato a garantire un indennizzo da parte dello stato alle vittime di un reato intenzionale violento, anche se commesso in uno stato membro diverso da quello in cui il richiedente l’indennizzo risiede abitualmente. Attualmente, ad esempio, nell’ipotesi di particolare vulnerabilità della persona offesa da reati di violenza, odio razziale, criminalità e terrorismo, essa viene informata dal giudice della facoltà di richiedere l’emissione di un ordine di protezione europeo, che garantisce l’applicazione delle misure di tutela, previste nel proprio stato, in qualsiasi territorio dell’Unione. Tali misure di tutela assumono varia forma, prima fra tutte il cd. codice rosa per le vittime di violenza. A parte queste innovazioni, la posizione processuale della persona offesa continua a risultare debole, il che spesso spinge la stessa a costituirsi parte civile: il legislatore ha insistito per mantenere distinte le due figure, con scarsi risultati. Attualmente, infatti, ì la parte civile può costituirsi soltanto dopo la fase delle indagini preliminari, ma, dopo questa fase, di norma la persona offesa si costituisce parte civile. 31. I diritti e le facoltà della persona offesa L’art. 90, comma 1 ne indica due, aprendo poi a quelli garantiti da ulteriori previsioni legislative: 1) Presentare memorie: elaborati di vario contenuto, con i quali possono essere avanzate istanze, illustrate questioni etc. Le memorie sono indirizzate a PM o a giudice, a seconda della fase processuale, tuttavia non sussiste un obbligo di tali soggetti a deliberare sulle medesime. (a differenza di quanto prevede l’art. 121 con riferimento alle memorie provenienti dalle parti ed aventi come destinatario il giudice) 2) Indicare elementi di prova : la sede naturale per l’esercizio di tale facoltà sono le indagini preliminari, per aiutare il PM nella definizione della pretesa accusatoria. 27 Se si accetta di rinunciare ad una visione di carattere generale per menzionare un settore in cui il ruolo della persona offesa risulta particolarmente valorizzato, non si può non fare riferimento alla “sospensione del processo con messa alla prova”. Capacità processuale: è naturalmente richiesta anche per la persona offesa. (art. 90) - Il minorenne infraquattordicenne e l’infermo di mente devono essere rappresentati da genitori o tutori; - il minorenne ultraquattordicenne e l’inabilitato possono invece anche partecipare autonomamente. In ogni caso, vi è la facoltà ma non l’obbligo di nominare un difensore, legittimato anche alle indagini, con la conseguenza che l’interessato potrà anche agire in prima persona. L’art. 90 è stato modificato dal d. lgs. n. 212 del 2015, il quale: integra il 3 comma in caso di morte della persona offesa come conseguenza del reato, i suoi diritti e facoltà si estendono ai prossimi congiunti, ma anche alle persone legate da una relazione affettiva che convivano stabilmente con il medesimo. (è stata quindi ampliata) introduce il comma 2bis disciplina l’ipotesi in cui si concretizzi una situazione di incertezza circa la minore età della persona offesa: si stabilisce che il giudice disponga una perizia e, se ciò nonostante il dubbio non viene sciolto, si presume la minore età. (questo opera solo sul fronte processuale e non può essere utilizzata ai fini dell’applicazione della legge penale) NB’: sin dal primo contatto con l’autorità giudiziaria, la persona offesa deve essere informata di una serie di profili tra cui: a) modalità di presentazione della denuncia o querela; b) il suo ruolo nel procedimento; c) diritto a ricevere notifica della sentenza; d) facoltà di avvalersi di consulenza legale; e) misure di protezione in suo favore; f) possibilità di chiedere il risarcimento danni. Le informazioni sono fornite in un atto scritto, spesso di difficile comprensione (vulnus). Assai diversa sarebbe stata la valutazione se non fosse stata scartata la soluzione patrocinata dalla Commissione giustizia della Camera dei deputati nel suo parere sullo schema di decreto legislativo predisposto dal Governo che aveva proposto la costituzione all’interno di ogni tribunale, di un apposito ufficio per le vittime di reato che, sotto la guida di un magistrato, sarebbe stato più idoneo a soddisfare il bisogno di conoscenza che la persona offesa può avvertire rispetto alle molteplici dinamiche del processo penale. L’obiettivo di fornire alla persona offesa un elemento di conoscenza, caratterizza pure l’art. 90ter, il quale: - da un lato si ricollega ad una precisa indicazione contenuta nell’art. 6 della direttiva del 2012 europea; - dall’altro completa l’art. 299 comma 2bis, 3 e 4bis. Infatti, una specifica informazione, consistente nella notizia che il condannato non è più in vinculis per scarcerazione o evasione, deve essere fornita immediatamente alla persona offesa dal reato, purché: 1) esso sia stato commesso con violenza alla persona, 2) la quale abbia richiesto di essere informata, 3) nonché si escluda che dall’informazione possa derivare un pericolo di danno per l’imputato. La comunicazione delle informazioni elencate dall’art. 90bis e 90ter, non sono previste a pena di nullità, per cui dalla loro eventuale omissione deriva una semplice irregolarità. 32. Enti rappresentativi di interessi lesi dal reato: (art. 91) Sono soggetti processuali equiparati alla persona offesa nei diritti e nelle facoltà (almeno i due sopra citati), che possono intervenire in procedimenti aventi ad oggetto reati lesivi di interessi collettivi o diffusi. Viene attuata la direttiva risultante dall’art. 2 n. 33 della legge delega, la cui adozione è stata influenzata da un duplice ordine di ragioni: - Da un lato, l’opportunità di non rinunciare all’apporto che gli enti collettivi sono in grado di fornire per la repressione di un determinato reato allorché il processo penale verta sulla violazione di norme afferenti all’area di loro pertinenza; - Dall’altro la consapevolezza delle forzature verificatesi in passato, quando non essendo il ruolo di tali soggetti legislativamente disciplinato, la loro partecipazione al processo veniva assicurata ammettendo il 30 b) Iscrizione all’albo da almeno cinque anni. c) Conseguimento del titolo di specialista in diritto penale. Le liste dei difensori d’ufficio sono predisposte ed aggiornate dal Consiglio nazionale forense e sono, altresì, tenute presso un apposito ufficio presso l’ordine forense di ciascun capoluogo di corte d’appello. Una volta che i difensori vengono iscritti nelle liste, essi possono essere nominati. Attualmente il sistema di assegnazione dei difensori di ufficio si basa su una selezione automatica, operata da un apposito ufficio istituito presso l’ordine forense del capoluogo del distretto di ogni corte d’appello. Questo garantisce una minor discrezionalità nelle scelte degli organi procedenti. Quindi l’ufficio funge da collettore. NB: la procedura automatizzata non è attuabile se il caso concreto richiede specifiche competenze. Inoltre, nei casi d’urgenza, la designazione di un difensore, discrezionalmente individuato dall’organo procedente, immediatamente reperibile, è possibile, sempre che si specifichino le ragioni dell’urgenza. Quando invece la situazione di stallo deve essere affrontata dal giudice, si procede diversamente: se il difensore già nominato, non è stato reperito, non è comparso o ha abbandonato la difesa, al giudice è consentito designare come sostituto un altro difensore immediatamente reperibile. A meno che la necessità di nominare un sostituto non si palesi nel corso del giudizio in quel caso il criterio dell’immediata reperibilità passa in secondo piano e può essere nominato solo un difensore che risulti iscritto nell’elenco dei difensori ex art. 97 comma 2. Resta da sottolineare un ulteriore profilo, disciplinato solo recentemente con la dovuta attenzione dagli art. 32 e 32- bis disp. att. Pur se abrogati – fatta eccezione per l’art 32 comma 1 disp att. – dall’art 299 (t.u. delle disposizioni in materia di spese di giustizia), il loro contenuto è stato recuperato dagli art. 116 e 117 del medesimo t.u. Gli art. 116 e 117 si occupano della retribuzione del difensore d’ufficio: profilo di fondamentale importanza per garantire l’effettività del diritto di difesa. Prima di esaminare le disposizioni appena richiamate, va altresì ricordato che, grazie all’avviso previsto dall’art 369-bis, la persona sottoposta alle indagini viene tempestivamente informata del fatto che non le è consentito fare a meno del difensore, nonché del suo obbligo di retribuire il difensore d’ufficio (se non può essere ammessa al gratuito patrocinio). In tema di retribuzione la normativa base è dettata dall’art 116 t.u. delle disposizioni in materia di spese di giustizia, dalla cui normativa si possono desumere tre regole generali: 1) il difensore d’ufficio si deve far carico della procedura esecutiva per il recupero del credito professionale nei confronti dell’assistito inadempiente, fermo restando che in questa sua iniziativa giudiziaria usufruisce dell’esenzione da bolli, imposte e spese; 2) qualora sia in grado di dimostrare che la procedura di cui sopra è risultata infruttuosa, il difensore viene retribuito dallo Stato nella misura e secondo le modalità stabilite dal dpr che lo regolamenta; 3) a meno che l’assistito non chieda ed ottenga l’ammissione al patrocinio gratuito, quest’ultimo surroga il difensore nel suo credito verso il soggetto assistito. Si è inoltre dettata una norma ad hoc, l’art 117 t.u., per l’ipotesi in cui l’assistenza risulti prestata a favore di un soggetto irreperibile: in tal caso il difensore viene retribuito senza che sia necessaria una sua preventiva attivazione per il recupero del credito professionale. 36. Patrocinio dei non abbienti e poteri del difensore Lo Stato si impegna ad assicurare ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione ed in tutte le procedure, derivate o incidentali, in attuazione del principio di inviolabilità del diritto di difesa. Il soggetto ammesso al patrocinio (imputato, persona offesa, parte civile e responsabile civile) sceglie quale difensore un libero professionista, il cui compenso è liquidato dal giudice e pagato dallo Stato, ai sensi del t.u. delle spese di giustizia. Nello specifico, presso ogni consiglio dell’ordine è istituito un elenco di avvocati idonei ad essere nominati difensori dal patrocinato; circa l’ammissione all’elenco delibera il consiglio dell’ordine stesso, previa verifica di una serie di requisiti: esperienza professionale specifica, iscrizione all’albo da almeno due anni. Quanto ai requisiti per accedere al patrocinio, è richiesto un reddito non superiore ad 11.500 euro annui, aumentato di 1000 euro per ogni convivente. In ogni caso i limiti di reddito vengono aggiornati ogni due anni. È previsto che l’istanza di ammissione vada respinta, qualora il tenore di vita e le condizioni personali e familiari del richiedente offrano al giudice fondati motivi per ritenere che il reddito dichiarato sia inferiore a quello realmente percepito. Il reddito si ritiene inoltre superato, nel caso di condanna a delitti quali associazione a delinquere di stampo mafioso, 31 associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti ecc., pur essendo sempre possibile prova contraria. Alla proclamata inviolabilità del diritto di difesa, la nostra Carta Costituzionale fa coerentemente seguire, ai sensi dell’art 24 comma 3, l’affermazione dell’impegno dello Stato ad assicurare ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. Grazie al medesimo dettato normativo, il legislatore ha ritenuto di dover rafforzare la normativa costituzionale mediante la legge 30 luglio 1990 n.217 (sostituita dal t.u. delle spese di giustizia), la quale ha istituito il patrocinio a spese dello stato a favore delle persone che hanno un reddito anno non superiore a 11.493,82 euro. Il patrocinio è concesso su istanza di soggetti che sono, o possono diventare, parti private. Infatti, esso può essere concesso su istanza dell’imputato, dell’indagato, del condannato, dell’offeso, del danneggiato che intenda costituirsi parte civile. Il patrocinio a spese dello stato assicura la difesa tecnica nel procedimento penale per i reati non di tipo tributario; assicura altresì la difesa tecnica in relazione all’azione risarcitoria che eventualmente sia esercitata davanti al giudice civile per i danni derivanti dai medesimi delitti. Bisogna, inoltre, precisare che, in virtù dell’art 76 comma 4-ter t.u., la persona offesa dai reati (vittima di abusi sessuali) di cui agli art. 572, 583-bis, 609-bis, 609-quater, 609-octies e 612-bis c.p., nonché, qualora siano commessi in danno di minori, dai reati di cui agli art. 600, 600-bis, 600-ter, 600-qinquies, 601, 602, 609-quinquies e 609-unidicies c.p, può usufruire del patrocinio statale anche se il reddito è superiore alla soglia fissata dal legislatore. La stessa deroga è prevista a favore dei minorenni e maggiorenni non economicamente sufficienti, rimasti orfani di un genitore a seguito dell’omicidio commesso dal coniuge, dall’altra parte dell’unione civile o dalla persona legata da relazione affettiva e stabile convivenza, essendo irrilevante in tutte e tre le ipotesi che al momento del delitto la relazione con la vittima risultasse legalmente o di fatto interrotta. Con l’art 96 commi 2 e 3 d.P.R ci si è preoccupati del rischio che vengano ammessi al patrocinio soggetti i quali, contrariamente alle loro attestazioni, non versino in realtà nella situazione di “non abbienza”. Si è quindi previsto che l’istanza di ammissione al patrocinio vada respinta qualora il tenore della vita, le condizioni personali e familiari del richiedente, nonché le attività economiche da lui eventualmente svolte offrano al giudice fondati motivi per ritenere che il reddito da prendere in considerazione superi il tetto stabilito dalla legge. Inoltre, con specifico riferimento all’ipotesi in cui si procede per uno dei delitti previsti dall’art 51 comma 3-bis c.pp. o nei confronti di persona proposta o sottoposta a misura di prevenzione, è stata sottratta al giudice qualsiasi discrezionalità, essendo tenuto ex lege a chiedere preventivamente al questore, alla direzione investigativa antimafia e alla direzione nazionale antimafia e antiterrorismo le informazioni necessarie e utili ai fini di una decisione più occulta circa l’ammissione del richiedente al beneficio. L’art 76 comma 4-bis d.P.R ha infatti stabilito che, nel caso di un soggetto già condannato con sentenza definitiva, il livello del reddito richiesto ai fini dell’ammissione al patrocinio statale si ritiene superato. E’ il caso di precisare: da un lato, che i delitti considerati “ostativi” sono quelli di associazione a delinquere di stampo mafioso, di associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti oppure al contrabbando di tabacchi lavorati esteri; dall’altro lato, che la presunzione in esame, da considerare non superabile neppure in presenza di una prova contraria, esercita la sua efficacia preclusiva a prescindere da quanto sia remota nel tempo la condanna alla quale si ricollegava il divieto in esame. Pienamente condivisibile risulta pertanto la sentenza della Corte costituzionale, che, dichiarando parzialmente illegittima la disposizione introdotta dal legislatore del 2008, ha prodotto il risultato di rendere superabile la presunzione de qua, qualora l’interessata sia in grado di fornire un’idonea prova contraria. È stata altresì ampliata la copertura garantita al soggetto ammesso al patrocinio dei non abbienti: la nuova formulazione risulta in ultima analisi omnicomprensiva, per cui sembrerebbe lecito farvi rientrare anche l’assistenza relativa alle procedure che si svolgono davanti agli organi giurisdizionali internazionali, in particolare davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Un terzo ed importante profilo è quello concernenti gli effetti dell’ammissione al patrocinio, tra i quali non configurava la facoltà dell’interessato di potersi avvalere degli apporti di un investigatore privato autorizzato. Questa lacuna è stata oggi colmata, il quale stabilisce che il difensore del soggetto ammesso al patrocinio può 32 nominare sia un sostituto, sia un investigatore privato autorizzato. Inoltre, si prevede che il soggetto ammesso al patrocinio possa nominare un consulente tecnico di parte. Sono nominabili anche al di fuori della circoscrizione distrettuale competente. 37. Il difensore delle parti eventuali, della persona offesa e degli enti rappresentativi di interessi lesi dal reato 1) Parte civile, responsabile civile e civilmente obbligato: devono nominare un solo difensore munito di procura per il processo in corso (art. 100 comma 1). Quanto alle forme della procura, è ammessa la sua apposizione in calce o a margine dei vari atti di ingresso della parte nel processo, ovvero la sua redazione per atto pubblico o scrittura privata autenticata, anche ad opera del difensore stesso. Il difensore può compiere tutti gli atti del procedimento, tranne quelli riservati espressamente al rappresentato e quelli di disposizione del diritto in contesa, salva procura ad hoc. 2) Enti rappresentativi: operano le medesime norme. (art. 101 comma 2) 3) Persona offesa: in questo caso invece la nomina di un (solo) difensore è facoltativa e, quando avviene, al difensore spetta l’esercizio dei diritti e delle facoltà riconosciuti al rappresentato. 38. Il sostituto del difensore: Ai sensi dell’art 102 comma 1 regolamenta la nomina del sostituto del difensore. Affinché sia efficace la designazione, essa deve essere portata a conoscenza dell’autorità procedente con le stesse forme indicate nell’art 96 comma 2 per la nomina del difensore dell’imputato. Spetta dunque al difensore nominare il sostituto, fatta eccezione per le ipotesi prese in considerazione dall’art 97 comma 4, dove è precisato che provveda alla designazione il giudice o il p.m. o la polizia giudiziaria. In seguito alla modifica dell’art.102 ad opera della l.n.60/2001, per la nomina del sostituto rileva solo la volontà del difensore: non più richiesto che costui adduca di trovarsi in un caso di impedimento e, di riflesso, la supplenza del sostituto non è più circoscritta alla durata del suddetto evento impeditivo. L’innovazione è da mettere in relazione con l’ampliato ruolo del difensore conseguente alla legge sulle indagini difensive, la quale ha fatto emergere l’opportunità di consentire la nomina del sostituto anche per mere esigenze di organizzazione interna all’ufficio della difesa. Se per quanto riguarda il difensore di fiducia, la natura contrattuale del rapporto garantisce di per sé un adeguato controllo circa la loro osservanza, con riferimento alla difesa d’ufficio si potrebbero nutrire dubbi. Una così ampia facoltà di sostituzione rischia di ripercuotersi negativamente su quel principio di effettività, rigorosamente perseguito dal legislatore nel dettare le linee guida della nuova regolamentazione. Il caso limite potrebbe essere rappresentato dal difensore d’ufficio che, dopo essere stato investito ex art.97 cpp, nomini un sostituto e si faccia supplire dal medesimo per tutta la durata del procedimento. Eppure, lo stesso legislatore sembra aver dato spazio ad una simile eventualità: premesso che ai sensi dell’art.97, comma 5, cpp il difensore d’ufficio ha l’obbligo di prestare il patrocinio e che si può sottrarre soltanto per giustificato motivo, va tenuto in considerazione il disposto dell’art.30 comma 3 disp.att., in base al quale, trovandosi il difensore d’ufficio nell’impossibilità di adempiere l’incarico, si attiva la procedura per una nuova investitura solo nell’ipotesi in cui il difensore impedito non abbia provveduto a nominare un sostituto. Quanto ai poteri del sostituto egli esercita gli stessi del difensore principale, ma deve ritenersi che la traslazione non coinvolga quelle situazioni processuali soggettive aventi come fonte una procura speciale conferita dalla parte al difensore sostituito, con la conseguenza che, ad esempio, è da considerare inammissibile la richiesta di patteggiamento formulata dal sostituto qualora la relativa procura speciale sia stata conferita solo al difensore che si è avvalso della sostituzione. 39. Garanzie di libertà del difensore Il diritto di difesa necessita un adeguato scudo normativo attorno al difensore, rispetto ai poteri investigativi degli organi inquirenti. (art. 103 si fa carico del problema) Partendo da ispezioni e perquisizioni effettuate negli uffici dei difensori, sono consentite due sole ipotesi: 1) Imputazione del difensore: l’investigazione deve riguardare soltanto il reato ad egli attribuito. 2) Tracce del reato o persone e cose predeterminate: si parla quindi di corpo del reato. Sempre con riferimento a questi metodi investigativi, sono previste regole procedurali: a. avviso, a pena di nullità, da parte dell’autorità giudiziaria al consiglio dell’ordine, per consentire ad un delegato di partecipare; b. soggetti legittimati a procedere sono soltanto il giudice o il PM in prima persona, senza possibilità di delegare l’atto alla polizia giudiziaria, il giudice o il pubblico ministero. 35 a. non accettazione: ha effetto dal momento in cui perviene la relativa comunicazione all'autorità procedente (art. 107 comma 2), con l'eventualità di possibili vuoti di copertura difensiva medio tempore; b. rinuncia e revoca: Sono prive di effetto fino a che la parte non risulti assistita da un nuovo difensore. Se il nuovo difensore si avvale ex art 108 del diritto di ottenere un termine a difesa, la rinuncia alla revoca diventano efficaci solo a partire dalla sua scadenza. 43. Gli ausiliari del giudice e del pubblico ministero La categoria degli ausiliari è costituita da coloro che affiancano il giudice o il pubblico ministero svolgendo compiti di vario genere, accomunabili in virtù del loro carattere strumentale rispetto alla funzione della figura cui ineriscono. a. Pur potendosi attribuire la qualifica di ausiliare in senso lato a chi collabori anche in via precaria ed occasionale, b. Per ausiliare in senso stretto si deve intendere il coadiutore istituzionale, cioè il soggetto la cui presenza è contrassegnata dai connotati della continuità e della ordinarietà. Per quanto concerne il termine cancelliere, si rileva che il codice lo utilizza solo nell'art 124, ricorrendo normalmente a formulazioni più generiche che consentono di evitare inopportune sfasature con la normativa. Bisogna citare l'art 126 in cui si prescrive la sua assistenza a tutti gli atti posti in essere dal giudice salvo che la legge disponga altrimenti, non meno importante l'attività di documentazione, l'autenticazione di atti, la custodia delle cose sequestrate, la notificazione dell'atto di impugnazione. Anche presso l'ufficio del pubblico ministero e nell'ambito della sua segreteria, opera un ausiliario che svolge funzioni analoghe a quelle del cancelliere. Quanto all’ufficiale giudiziario, Premesso che la sua principale funzione è quella di curare l'esecuzione delle notificazioni, ne consegue che svolge un'attività ausiliaria nei confronti sia del giudice che del pubblico ministero. Un'importante corollario di tale funzione è costituito dalla relazione di notificazione che documenta l'attività svolta con riferimento all'atto da notificare. Al pari dell'ufficiale giudiziario, anche il direttore dell'istituto penitenziario opera come ausiliario di entrambi, essendo tenuto a ricevere e inoltrare immediatamente l'atto di impugnazione e gli altri atti contenenti dichiarazioni e richieste destinate all'autorità giudiziaria, che gli vengano presentati dal soggetto detenuto o internato. 36 CAPITOLO 2 ATTI 1. Premessa Viene tradizionalmente definito “atto del procedimento penale” quell’atto che è compiuto da uno dei soggetti (giudice, p.m., polizia giudiziaria, parti private, ecc.) e che è finalizzato alla pronuncia di un provvedimento penale, sia esso sentenza, ordinanza o decreto. In base a tale definizione rientrano nel concetto di atto sia gli atti delle indagini preliminari, sia gli atti dell’udienza preliminare e del giudizio. Pertanto, il primo atto del procedimento penale è quello che segue la ricezione della notizia di reato da parte della polizia giudiziaria o del p.m. Occorre precisare che con il termine atto si designa quell’attività che è compiuta da un soggetto. Tuttavia, nella prassi il termine atto individua anche il risultato permanente dell’attività che è compiuta. In quest’ultimo significato “atto” sta ad indicare sia il verbale che documenta l’attività compiuta, sia il testo del provvedimento pronunciato. • Per le notizie apprese di propria iniziativa dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero bisogna tracciare una distinzione: a. se la notizia viene acquisita dal pubblico ministero, scatta l'obbligo di scriverla nell'apposito registro, da tale iscrizione ha inizio il procedimento, b. se la notizia viene formata dalla polizia giudiziaria va escluso che la successiva informativa al pubblico ministero valga allo scopo; in mancanza di un atto tipico si conclude che il primo atto del procedimento sarà costituito da quello cronologicamente anteriore tra gli atti compiuti dopo l'acquisizione della notizia di reato. • Per l'individuazione dell'atto finale bisogna distinguere: a. se le indagini preliminari sfociano in un provvedimento di archiviazione, questo sarà l'ultimo atto del procedimento, b. se l'azione penale è stata esercitata, l'esecutività è individuata nel momento finale del processo relativamente alle sentenze di non luogo a procedere. Infine sono considerati atti processuali penali quelli relativi al procedimento di esecuzione e al procedimento di sorveglianza. 2. La lingua degli atti Di regola gli atti del procedimento sono compiuti in lingua italiana, ma non si prevedono sanzioni amministrative per chi, pur sapendo tale lingua, ne usi un'altra. L'art 109 comma due eleva altre lingue al rango di lingue del procedimento al pari di quella italiana. L'operazione assicura il cittadino appartenente ad una minoranza linguistica riconosciuta il diritto di impiegare nei rapporti con l'autorità giudiziaria la propria madrelingua, a prescindere dal proprio livello di conoscenza della lingua italiana. Questo vale per l'imputato e le altre parti private, per i testimoni, i periti, i consulenti tecnici. Per utilizzare una lingua diversa da quella italiana sono richiesti alcuni requisiti: 1) Riconoscimento della qualità di lingua minoritaria: francese per la Valle d'Aosta, tedesca per la provincia dell'alto Adige sud Tirol, ladina per la regione Trentino Alto Adige, slovena per le province di Trieste, Gorizia e Udine. 2) Procedimenti che si svolgano davanti ad un'autorità avente competenza di primo o secondo grado sul territorio dove è insediata la minoranza linguistica; 3) onere del soggetto di richiedere sempre l'uso della lingua minoritaria, ma la dichiarazione di volontà è sempre revocabile. La garanzia assicurata dall'art 109 si sostanzia nel diritto del cittadino italiano ad essere interrogato o esaminato nella lingua materna. Questa tecnica legislativa che fa riferimento agli atti, non alle qualifiche soggettive, appare più corretta sul piano sistematico ma lascia qualche dubbio. Il verbale redatto sia in lingua italiana che nella lingua minoritaria; al cittadino spetta alla traduzione di tutti gli atti 37 del procedimento. Per quanto concerne la nullità conseguenti all'inosservanza delle regole poste: a. 1 comma si tratterà di una nullità relativa, b. 2 comma nullità a regime intermedio, perché il vizio riguarda una parte privata. Per quanto concerne la partecipazione del sordo o del muto sono previste particolari modalità di comunicazione. In ipotesi del genere l'autorità procedente provvede a nominarli uno o più interpreti. 3. La sottoscrizione e la data L’articolo 110 si occupa di questo istituto, le regole si riferiscono agli atti e non anche ai documenti. Solitamente sufficiente la firma di mano propria alla fine dell'atto ma il verbale va firmato in calce ad ogni foglio. Permane l'interdizione all'impiego di mezzi meccanici o disegni diversi dalla scrittura. Il codice impone che gli atti di soggetti privati siano muniti di un'attestazione relativa all'autenticità della firma. Per quanto concerne la data, resta comprensiva pure del luogo di formazione dell'atto, di regole sufficiente accanto all'indicazione spaziale, quella temporale sotto forma di menzione del giorno, del mese e dell'anno. L’invalidità sussiste solo nell’ipotesi in cui la data non possa stabilirsi con certezza sulla base di elementi tratti dall’atto medesimo o da atti a questo connessi. Se la documentazione di un atto è stata distrutta ma di tale atto occorre fare uso, il codice prevede l’impiego di più rimedi. 1) Il più semplice si risolve nella surrogazione all’originale di una copia autentica. 2) Se non è possibile, soccorre la ricostituzione. 3) La rinnovazione dell’atto mancante è un istituto di extrema ratio: è disposta con ordinanza inoppugnabile ma non irrevocabile. 4. Divieto di pubblicazione Il codice colloca nel libro secondo alcune disposizioni che riguardano materie attinenti, prevalentemente, agli atti di indagine preliminare. Bisogna premettere che esistono due divieti di pubblicazione degli atti procedimentali: 1) Divieto di riproduzione totale o parziale dell’atto. 2) Divieto di pubblicazione del contenuto dell’atto, anche in forma riassuntiva. Di norma il divieto di pubblicazione di un atto sorge quando esso è coperto da segreto. Il divieto va inteso come assoluto ed investe l’intera fase delle indagini preliminari, ma non riguarda ogni atto di questa fase, essendovi atti quali l’informazione di garanzia, che sorgono senza tale presidio, ed atti che perdono tale presidio a seguito di deposito o richiesta di archiviazione, nonché provvedimenti di desegretazione del singolo atto da parte del giudice. NB: è possibile anche il fenomeno opposto: la segretazione di un atto. La ratio del divieto di pubblicazione inizialmente era esclusivamente quella di protezione dell’attività investigativa, mentre la tutela della riservatezza della persona sottoposta ad indagini riceveva una tutela solo incidentale: le intercettazioni, una volta venute a conoscenza della difesa, potevano essere pubblicate, cadendo la ragione di tenerle segrete, ma generando problemi enormi dal punto di vista di tutela della privacy. La disciplina attuale invece si preoccupa di tutelare i dati sensibili, istituendo un archivio destinato alla custodia di intercettazioni irrilevanti o inutilizzabili. L’art 114 individua poi una serie tassativa di divieti di pubblicazione: • Comma 2: è vietata la pubblicazione degli atti non più coperti da segreto fino alla conclusione delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare, al fine di garantire la neutralità psicologica del giudice dibattimentale, già garantita dal doppio fascicolo (dopo). Il divieto di pubblicazione riguarda solo la riproduzione totale o parziale dell’atto. • Comma 3: se si procede al dibattimento: o È consentita la pubblicazione immediata degli atti del fascicolo per il dibattimento. o La pubblicazione degli atti del fascicolo del PM è invece consentita solo dopo la pronuncia di secondo grado. o È consentita la pubblicazione di qualsiasi atto utilizzato per le contestazioni. • Comma 4: è vietata la pubblicazione di qualsiasi atto del procedimento a porte chiuse, inclusi quelli usati per le contestazioni. • Comma 5: è comunque vietata la pubblicazione di atti astrattamente pubblicabili, quando 40 “È vietata la pubblicazione dell'immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all'uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta” Qui il divieto di pubblicazione investe l’immagine di chi si trovi sottoposto a restrizione della libertà personale – qualunque ne sia la causa – purché sia ripresa mentre si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi o altro mezzo di coercizione fisica. La latitudine della formula legislativa va apprezzata non solo perché copre anche la ripresa dell’immagine della persona in stato di arresti domiciliari o di colui il quale è tenuto saldamente “a braccetto” da due agenti di polizia penitenziaria mentre è condotto all’udienza di convalida dell’arresta, ma perché appare idonea a supportare l’evoluzione normativa: la mente corre all’impiego dei c.d. braccialetti elettronici di cui all’art 275-bis. Il divieto cade, poi, se è la stessa persona a pestare il consenso alla ripresa secondo una scelta assai opinabile. Infine, l’esigenza di impedire la pubblicazione di dati che potrebbero cagionare pregiudizio alla personalità del minore, perché ne consentirebbero l’identificazione, è soddisfatta dal: Comma 6: “E` vietata la pubblicazione delle generalità e dell'immagine dei minorenni testimoni, persone offese o danneggiati dal reato fino a quando non sono divenuti maggiorenni. Il tribunale per i minorenni, nell'interesse esclusivo del minorenne, o il minorenne che ha compiuto i sedici anni, può consentire la pubblicazione. È altresì vietata la pubblicazione di elementi che anche indirettamente possano comunque portare alla identificazione dei suddetti minorenni.” Il divieto si riferisce alla sola pubblicazione delle generalità o l’immagine del minore che assuma la qualità di testimone, persona offesa o danneggiato. Perfezionando opportunamente l’ambito di tutela, l’interdizione copre anche tutti quegli elementi che, anche in maniera indiretta, possano propiziare l’identificazione del minore. La recente riforma non ha introdotto sanzioni penali per violazione del divieto di pubblicazione (e del segreto), mantenendo ferma la scelta di non procedere ad un inasprimento delle blande pene stabilite dall’art 684 c.p., ossia di un reato contravvenzionale per di più suscettibile di oblazione discrezionale. Ed infine si cerca di garantire, assicurare e tutelare l’ordine pubblico e il buon costume (così come emerge dal comma 5). Comma 5: “Se non si procede al dibattimento, il giudice, sentite le parti, può disporre il divieto di pubblicazione di atti o di parte di atti quando la pubblicazione di essi può offendere il buon costume o comportare la diffusione di notizie sulle quali la legge prescrive di mantenere il segreto nell'interesse dello Stato ovvero causare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni o delle parti private. Si applica la disposizione dell'ultimo periodo del comma 4.” Un ulteriore profilo di analisi, ma pure una spinta riformatrice, proviene da una fonte sovranazionale quale è la direttiva 2016/343/UE che avrebbe dovuto essere attuata entro il primo aprile 2018. La direttiva in discorso prescrive all’art.4 di “adottare le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata. Le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole”. Benché faccia salve la divulgazione di informazioni sui procedimenti penale per motivi connessi alle indagini medesime o per interesse pubblico, la direttiva si muova su un terreno che è stato solo marginalmente coltivato dal legislatore interno con l’immissione dell’art.5 del d.lgs. n.106 del 2006 relativo ai rapporti tra uffici delle procure della repubblica ed organi di informazione. L’ormai acquisita consapevolezza che la formula dell’art.27 comma 2 cost. vale anche a proteggere l’imputato dalle moderne gogne mediatiche costituisce la solida premessa per affrontare le sfide sollevate dalla modernità. Una strada che si voleva prendere era anche evitare il motivo troppo dettagliato dei provvedimenti cautelari, ma per ora è in ballo la decisione su questo norma. 41 5. La circolazione di copie e di informazioni La circolazione di atti ed informazioni sul procedimento è disciplinata dagli artt. 116, 117 e 118 in ragione dei soggetti legittimati ad ottenerli. La prima norma afferma come principio generale che chiunque vi abbia interesse può ottenere a proprie spese il rilascio di copie, estratti o certificati di singoli atti. Tuttavia la norma non chiarisce se esistano condizioni al cui rispetto sia subordinato il rilascio. Dopo la modifica dell'articolo 114 comma 2, alcune procure della Repubblica hanno consentito a fornire i giornalisti copia delle ordinanze relative a procedimenti da esse stesse ritenuti di particolare interesse pubblico. Il raffronto con i due articoli successivi rende palese che tale rilascio non può essere ottenuto allorché si tratti di atti ancora coperti dal segreto. Nessuno ostacolo discende invece dall'esistenza di un mero divieto di pubblicazione sganciato da un sottostante segreto. Inoltre nessuna autorizzazione dovuta nei casi in cui è riconosciuto espressamente al richiedente il diritto al rilascio di copie estratti o certificati appunto questo vale per i cittadini, persone coinvolte nel procedimento, parti private e difensori in determinate ipotesi. L'organo legittimato a presentare la richiesta della trasmissione è unicamente il pubblico ministero che procede. Nessun potere di iniziativa spetta ai difensori delle parti, Che possono giovarsi dell'art 116. Ex art. 118, il Ministro dell'Interno può accedere alle fonti informative; un analogo potere di accesso spetta al presidente del Consiglio dei ministri. L'oggetto e lo scopo della richiesta sono legislativamente predeterminati: a. L’oggetto: vengono in gioco non solo le copie degli atti di un procedimento ma anche le informazioni scritte sul loro contenuto; b. Scopo: bisogna distinguere tra le due disposizioni. La richiesta del pubblico ministero deve essere finalizzata necessariamente al compimento delle proprie indagini. La circolazione di copie ed informazioni troverà spazio quando: • mancano i presupposti del coordinamento informativo e di investigativo • o vi sia dissenso tra gli uffici del pubblico ministero sulla gestione delle indagini • O quando le indagini non risultino collegate • o quando l'altro procedimento non si trovi più nella fase delle indagini preliminari Un'ulteriore penetrazione nella sfera del segreto investigativo proviene poi dal potere conferito dall'art 117 comma 2bis al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo e dall’art. 118bis comma 3 hai funzionari delegati dal direttore generale del dipartimento delle informazioni per la sicurezza. I due soggetti possono accedere al registro delle notizie di reato tenuto presso ogni Procura della Repubblica e alle banche di dati logiche dedicate alle procure distrettuali. 6. Memorie, richieste e dichiarazioni delle parti Gli artt. 121, 122 e 123 Concernono alcuni poteri accordati alle parti e alcune modalità di esercizio di altri poteri non necessariamente propri delle parti. La prima disposizione si occupa del ius postulandi delle parti esse e i loro difensori usufruiscono del potere di presentare memorie o richieste scritte al giudice in ogni Stato e grado del procedimento. Dalla disposizione restano estranee la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa, ma la lacuna è colmata dalle formule estensive contenute nell'art 61 e nell'art 90. Guardando al loro scopo: a. le richieste sollecitano l'iniziativa o l'adozione da parte del giudice di un determinato provvedimento b. le memorie invece mirano a sostenere OA fornire un'ulteriore apporto alle ragioni della parte. L'art 121 comma due impone al giudice di provvedere entro il termine massimo di 15 giorni; l'obbligo scatta solo in dipendenza di una richiesta ritualmente formulata. La collocazione della normativa dettata per il rilascio della procura speciale al compimento di determinati atti, definiti personalissimi risponde al disegno di evidenziare la diversità dei ruoli e dei compiti affidati al procuratore speciale 42 rispetto al difensore. 7. La garanzia della legalità Le norme contenute negli artt. 120 e 124 sono accostabili per la comune garanzia di legalità che mirano a realizzare tramite strumenti diversi. L'intervento del testimone ad atti del procedimento si giustifica per: a. assicurare la regolare effettuazione dell'atto b. precostituire una fonte di prova personale distinta e aggiuntiva rispetto al relativo verbale proveniente da chi ha assistito alle operazioni. Si tenga presente come il codice espliciti che sono oggetto di prova pure i fatti dei quali dipende l'applicazione di norme processuali. Ciò spiega perché 120 si preoccupi di enunciare tassativamente le cause di incapacità, distinguendole tra naturali e giuridiche. Non possono intervenire come testimoni: • i minori degli anni 14, le persone palesemente affette da infermità di mente o in stato di ubriachezza manifesta; • le persone sottoposte a misure di sicurezza detentive o a misure di prevenzione. L'art 124 tutela il valore della legalità nel procedimento dove prescrive che la giurisdizione sia tua mediante il giusto processo regolato dalla legge resta bandito il ricorso all'integrazione analogica ogni qualvolta si producano effetti in malam partem. L’art. 124 adempio l'importante funzione di chiusura, ineludibile all'interno di un sistema che accoglie il principio di tassatività delle nullità. 8. Le forme degli atti e le classificazioni delle sentenze Il principio generale in materia è quello della massima semplificazione nello svolgimento del processo. Per quanto riguarda gli atti, si distingue tra gli atti compiuti durante il procedimento (inteso come fase delle indagini preliminari) e atti posti in essere nel complesso del processo. 1) I primi sarebbero caratterizzati da forme libere, nelle quali cioè non è descritto analiticamente il modo di procedere, ma prevale la tensione al raggiungimento dello scopo, fino a contemplare atti privi di forma e, di conseguenza, innominati. 2) I secondi si atteggerebbero sulla base di forme vincolate (o tassative, ovvero tipiche) in quanto non ammettono equivalenti. Derogatorie ed emblematiche, in proposito, appaiono le discipline approntate per l’individuazione di persone o cose, al cui espletamento procede il p.m nella fase delle indagini preliminari (art.361 cpp) e, per la ricognizione di persone, cose o quant’altro possa essere oggetto di percezione sensoriale, alle quali sovraintende il giudice nella fase dibattimentale: qui non solo la forma, intesa come struttura dell’atto, risulta minuziosamente prescritta, ma su questa stessa struttura si riverbera anche la forma intesa quale modalità documentale. Tuttavia, il legislatore non fornisce una disciplina unitaria della forma, intesa come struttura tipica, avuto riguardo agli atti posti in essere da ciascun soggetto del procedimento. Un simile disegno è coltivato solo per gli atti che giudice che si traducono in provvedimenti, purché compiuti da un organo dello Stato nell’esercizio di un potere. Ai sensi dell’art 125, infatti si recita che gli atti del giudice possono distinguersi in 3 macrocategorie: • Sentenza: E’ l’atto con cui il giudice adempie al dovere di decidere, che gli è posto a seguito dell’esercizio dell’azione penale. Le sentenze sono gli atti più importanti: si caratterizzano per l’idoneità a chiudere uno stato o un grado del procedimento, in quanto contengono una decisione sulla regiudicanda, quale massima espressione dell’attività giurisdizionale. Dal punto di vista della forma, la sentenza deve essere sempre motivata e cioè deve dare conto del percorso logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. L’obbligo della motivazione è posto direttamente dalla Costituzione e ripetuto dal codice che prevede la sanzione della nullità per l’eventuale inosservanza. Le sentenze possono essere classificate sulla base del contenuto decisiorio in: a) Sentenze di condanna: esse sono considerate dall’art 533 come uno degli esiti del dibattimento, anche se sono pronunciabili anche al termine del giudizio abbreviato. b) Sentenze di proscioglimento: 45 10. L’immediata declaratoria di cause di non punibilità e la correzione degli errori materiali Riguarda determinate cause di non punibilità ed è manifestazione di un potere di iniziativa ufficiosa del giudice. La ratio della pronuncia è quella di economia processuale, nonché di attuazione del favor rei, che impongono di arrestare lo svolgimento del processo e di far cadere la qualità di imputato appena maturi la possibilità di pronunciare una sentenza di proscioglimento. Le formule utilizzate sono infatti finalizzate a sottolinearne l’innocenza, ad es. il fatto non costituisce reato. L’immediata declaratoria opera soltanto nel processo, dal momento che nelle indagini preliminari non esiste un giudice procedente e la stessa funzione è svolta dall’archiviazione: in fatti nei confronti delle: a. formule in facto: soccorre l’art. 408, dove è disciplinata l’archiviazione della notizia infondata; b. formule in iure: opera l’art. 411, dove sono contemplate la mancanza di una condizione di procedibilità, l’estinzione del reato o l’essere il fatto non previsto dalla legge come reato. L’istituto in questione subisce limiti applicativi, a seconda della struttura processuale: Per quanto riguarda le sentenze di non luogo a procedere emesse all’esito dell’udienza preliminare le relative formule non coincidono con quelle in discorso. Infatti, residuano le sentenze che dichiarano trattatasi di persona non punibile per qualsiasi causa. Codificando un orientamento già manifestatosi in giurisprudenza, l’art.425 comma 3 abilita il giudice ad emettere sentenza di non luogo a procedere “anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. 1) Procedimenti speciali: la declaratoria impedisce l’accoglimento della richiesta di applicazione della pena, di emissione del decreto penale e di sospensione del procedimento con messa alla prova. L’istituto opera anche nel giudizio abbreviato e direttissimo, ma non anche rispetto alla richiesta di giudizio immediato. (l’art.444 comma 2, l’art.459 comma 3 e l’art.464-quater comma 1 esplicitano l’incidenza dell’art.129, la cui concreta applicabilità impedisce l’accoglimento della richiesta di applicazione della pena, di emissione del decreto penale e della richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova. Il silenzio serbato per il giudizio abbreviato e per il giudizio direttissimo non pone ostacoli applicativi, ma lo stesso non può dirsi per la richiesta di giudizio immediato. L’art.455, da cui risulta che in tal caso al giudice è demandata solo una deliberazione sulla scelta del rito, sembrerebbe escludere l’operatività dell’art.129 cpp.) 2) Gradi di impugnazione: in appello è pienamente applicabile, mentre in Cassazione consiste in un annullamento senza rinvio tutte le volte in cui dalla motivazione della sentenza impugnata risultino gli estremi di un’assoluzione o la Corte ritenga comunque superfluo il rinvio. (l’applicabilità ex officio dell’art.129 configura una deroga all’effetto parzialmente devolutivo dell’appello ed al carattere del giudizio in cassazione quale controllo di legittimità vincolato ai motivi. In quest’ultima sede, la declaratoria che il fatto non è previsto dalla legge come reato, che il reato è estinto o che l’azione penale non doveva essere iniziata o proseguita, si risolve in un annullamento senza rinvio.) 3) Atti preliminari: è ammessa la declaratoria nelle formule di improcedibilità ed estinzione del reato, non anche nella forma di sentenza di non doversi procedere per particolare tenuità del fatto, la quale richiede una serie di accertamenti ulteriori ed incompatibili con l’istituto. L’art. 129 comma 2 afferma che, anche se in presenza di una causa estintiva di reato, si impone al giudice una pronuncia di merito di assoluzione o non luogo a procedere, ogni qualvolta risulti evidente dagli atti il presupposto per tale pronuncia di merito (quindi che il fatto non sussiste o non costituisce reato). • Per le sentenze di assoluzione, la prevalenza del merito vale anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussista o che l’imputato l’abbia commesso, che il fatto costituisca reato o che il reato sia stato commesso da persona non imputabile. • Per le sentenze di non luogo a procedere, dovrebbe ormai valere la stessa soluzione. L’opinione maggioritaria sostiene che l’art.129 comma 2, laddove enuncia la regola in ordine alla priorità delle formule più favorevoli rispetto a quella dichiarativa dell’estinzione del reato, ometta di considerare le cause di improcedibilità, dimostrando implicitamente che la pronuncia di queste ultime prevale su ogni altra formula. In presenza di una causa di improcedibilità, al giudice tocca applicare la relativa formula senza poter mai entrare nel merito dell’imputazione. L’applicabilità del comma 2 dell’art.129, al pari di quella del comma 1, si atteggia diversamente in relazione alla 46 struttura del rito, ma non subisce compressione in ragione della causa estintiva. In particolare, stante il rinvio che l’art.69 fa all’art.129, la morte dell’imputato non impedisce l’emissione di una sentenza assolutoria o di non luogo a procedere nel merito. Si tratta di una regola di prevalenza, che si atteggia diversamente in relazione alla fase procedimentale: 1) Atti preliminari al dibattimento: qua non può trovare spazio una sentenza di assoluzione. 2) Dibattimento: se sussistono i presupposti, il giudice è obbligato ad ordinare il proscioglimento anticipato, ma ciò può comprimere il diritto alla prova dell’imputato, il quale potrà quindi rinunciare all’amnistia e alla prescrizione nel frattempo maturata. 3) Cassazione: la formula in questione può essere pronunciata se il giudice in primo o secondo grado ha applicato una causa estintiva: l’evidenza della prova deve risultare dalla motivazione. NB: ciò non vale in presenza di una causa di improcedibilità, la cui declaratoria avrà sempre la priorità. L’art 130 prevede la procedura di correzione degli errori materiali. L’istituto richiedere 4 requisiti: 1) In primo luogo, sono oggetto di correzione degli errori materiali soltanto gli atti del giudice riferibili al modello delle sentenze, delle ordinanze e del decreto. 2) In secondo luogo, l’errore non deve essere causa di nullità dell’atto. 3) In terzo luogo, l’errore deve essere materiale, e cioè consistere in una difformità tra il pensiero del giudice e la formulazione esteriore di tale pensiero; ma può essere errore materiale anche una omissione relativa ad un comando che dipende in maniera automatica dalla legge. 4) In quarto luogo, l’eliminazione dell’errore non deve comportare una modifica essenziale dell’atto; pertanto si devono escludere quelle correzioni che incidono sul dispositivo. Il procedimento di correzione dell’errore si svolge in camera di consiglio secondo le forme dell’art 127. La competenza spetta al giudice “autore” dell’atto, mentre nel corso delle impugnazioni spetta al giudice ad quem. L’iniziativa spetta al giudice, che provvede d’ufficio, ma anche su richiesta del pubblico ministero o della parte interessata. Ne discende che il provvedimento di correzione deve essere notificato per intero (non per estratto), che esso è ricorribile per cassazione ed inoltre che l’ordinanza recante la correzione deve essere annotata sull’originale dell’atto. Alla procedura di correzione dell’errore materiale fanno rinvio varie disposizioni: - L’art 66 comma 3 sull’erronea attribuzione delle generalità dell’imputato; - L’art 535 comma 4 sull’omessa condanna alle spese processuali; - L’art 547 sulla correzione della sentenza; - L’art 668 sulla condanna di una persona in luogo di un’altra per errore di nome. La procedura de qua non è applicabile allorché la Corte di Cassazione abbia omesso di dichiarare nel dispositivo di annullamento parziale quali parti della sentenza diventino irrevocabili. In tal caso, all’omissione pone rimedio una procedura de plano, tramite ordinanza pronunciata ex officio. Il procedimento di correzione opera anche nel giudizio di cassazione. In base al nuovo comma 1-bis, inserito nell’art 130 dalla Riforma Orlando, quando nella sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti si dovranno rettificare solo la specie e la quantità della pena per errore di denominazione o di computo, la correzione dovrà essere disposta, anche d’ufficio, dal giudice che ha emesso il provvedimento. Si è voluto deflazionare ulteriormente il ricorso per cassazione avverso le sentenze rese all’esito del rito speciale. Se il provvedimento è impugnato, alla rettificazione dovrà provvedere la cassazione a norma dell’art 619 comma 2. 11. I poteri coercitivi del giudice Al giudice spettano poteri coercitivi nell’esercizio delle sue funzioni e cioè al fine del sicuro e ordinato compimento degli atti ai quali procede. Il potere coercitivo comporta la possibilità di ottenere comportamenti anche contro la volontà dei singoli interessati; si tratta di poteri di polizia processuale per l’esercizio dei quali la legge non impone l’osservanza di particolari formalità: l’ordine può essere anche soltanto orale ed è riprodotto nel verbale di udienza. Spetta al giudice il potere di chiedere l’intervento della polizia giudiziaria; se necessario, anche l’intervento della forza pubblica. Tra gli atti che costituiscono espressione del potere coercitivo si può collocare l’accompagnamento coattivo. L’istituto consiste in una restrizione della libertà personale poiché l’accompagnamento può essere eseguito con la 47 forza. Si tratta di una limitazione della libertà che si distingue nettamente dalle misure coercitive personali: • che possono essere disposte nei confronti dell’imputato o dell’indagato • che trovano la loro giustificazione nelle esigenze cautelari. L’accompagnamento è stato collocato: - da un lato, tra i provvedimenti del giudice; - dall’altro, tra le attività espletabili dal PM. L’accompagnamento coattivo ha una finalità limitata che è quella di condurre una persona davanti al giudice per rendere possibile l’acquisizione di un contributo probatorio. Vi è poi un ulteriore limite, indicato nell’art 132 (“nei casi previsti dalla legge”); pertanto è necessari che la legge preveda espressamente l’intervento di una determinata persona per il compimento di uno specifico atto. Tra i destinatari del provvedimento di accompagnamento coattivo vi sono l’imputato o l’indagato (art 132) e le altre persone indicate nell’art 133: ossia il testimone, il perito, il consulente tecnico, l’interprete e il custode di cose. La lege n.85/2009 ha, inoltre, aggiunto come destinatario dell’accompagnamento coattivo anche la persona sottoposta all’esame del perito diversa dall’imputato. La disposizione permette al giudice di far eseguire la perizia coattiva che comporta atti idonei ad indicare sulla libertà personale, come il prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale su persone viventi, ai fini della determinazione del profilo del DNA. Il potere del giudice è molto ampio perché concerne i procedimenti per qualsiasi reato anche di minima entità; pertanto può essere disposto anche in relazione a reati per i quali non è ammessa alcuna misura cautelare. Visti i limiti funzionali sopra menzionati, l’accompagnamento non deve diventare una misura cautelare camuffata. A tal fine l’art 132 comma 2 afferma che la persona sottoposta ad accompagnamento coattivo non può essere tenuta a disposizione oltre il compimento dell’atto previsto e quelli consequenziali per i quali perduri la necessità della sua presenza. Gli atti successivi devono essere legati a quello precedente con un vincolo logico-funzionale. Vi è poi una norma di chiusura, secondo la quale “in ogni caso la persona non può essere trattenuto oltre le 24h”. Infine, l’art 133 detta una apposita norma per le persone diverse dall’imputato, che regolarmente citate, omettono di comparire senza addurre legittimo impedimento: il giudice, oltre a disporre l’accompagnamento, può condannarle al pagamento di una somma di denaro e alle spese processuali alle quali la mancata comparizione ha dato causa. La relativa ordinanza è revocata se il giudice successivamente ritiene fondata la giustificazione addotta dall’interessato. L’accompagnamento dovrebbe essere preceduto da un avviso notificato o da un decreto di citazione rimasti senza effetto. 12. I principi in materia di documentazione degli atti La documentazione è l’attività attraverso cui un atto viene inserito e conservato nella sequenza procedimentale, affinché giudice e parti possano controllarne la regolarità ed averne memoria ai fini della decisione che si dovranno adottare in primo grado e soprattutto nei giudizi di impugnazione. Normalmente la documentazione ha ad oggetto dichiarazioni verbali ed operazioni: con riferimento a tali atti infatti risulta necessaria, non avendo di per sé natura documentale ed essendo di norma compiuti da soggetti diversi rispetto a quelli cui la documentazione è demandata. Le norme sulla documentazione operata dal giudice fungono da linea guida per quella del PM e della polizia giudiziaria. Il codice ha alzato il livello qualitativo di tale operazione, ampliandone ed adattandone le modalità alle diverse fasi processuali, nonché alle diverse tipologie di atti. 13. Modalità della documentazione Per principio generale, la documentazione degli atti del giudice si effettua mediante verbale, mentre la semplice annotazione è praticabile soltanto per un insieme circoscritto di atti del PM e della polizia giudiziaria. Il concetto di verbale non presenta una definizione ufficiale, ma ciò non crea problemi, data la perdita di quella fede privilegiata che lo ha in passato contraddistinto: il giudice adesso può liberamente valutare la veridicità di quanto riportato dal p.u. È chiaro che il verbale così pensato non costituisce una fonte di prova, ma presenta una funzione solo rappresentativa e conservativa degli atti procedimentali. Il verbale può essere redatto in forma riassuntiva o integrale: la scelta spetta al giudice, tranne ipotesi tassativamente indicati, in cui è richiesto in forma integrale. Niente è detto circa l’inosservanza delle disposizioni dettate in ordine alla forma documentativa prescritta, sicché si deve escludere che ne derivi una qualche invalidità. 50 versante delle garanzie difensive. La fictio iuris trova la sua ragion d'essere nell'escludere la necessità che l'imputato debba essere assistito da due difensori. Da qui si crea la figura anomala di sostituto. Il legislatore si è preoccupato di garantire la libertà e la segretezza del flusso di informazioni tra assistito e difensore, stabilendo che il difensore e l'imputato possono consultarsi riservatamente, tramite l'installazione di apposite linee telefoniche. Il profilo di legittimità costituzionale più delicato investe però quella forma di autodifesa che è integrata dal diritto dell'imputato di partecipare al dibattimento la questione di legittimità è stata respinta dalla Corte costituzionale, rimettendo al giudice la valutazione delle diverse esigenze caso per caso. Anche nei procedimenti che si svolgono in camera di consiglio vale la disciplina approntata per la partecipazione a distanza dell'imputato al dibattimento. L'istituto si atteggia diversamente a seconda che la presenza dell'imputato all'udienza: a. sia prescritta come indefettibile non c'è problema nell'avviare la partecipazione a distanza b. o assuma carattere facoltativo 17. L’esame a distanza per salvaguardare la sicurezza di testimoni o imputati il codice aveva fatto leva sul tradizionale strumento di procedere al relativo esame a porte chiuse, nella consapevolezza che l'interesse alla conoscenza pubblica e vivace rispetto ai dibattimenti dove si concretizzino pericoli per l'incolumità di testimoni o imputati. La l. n. 103 del 2017 non ha alterato l'originaria scansione codicistica, ma l'ambito della norma risulta dilatato perché si sono considerati anche coloro che fruiscono di programmi di protezione di tipo urgente o provvisorio. La modifica ubbidisce ad un criterio razionale, ma ciò non toglie che si attribuisca un potere di interloquire nel processo penale a soggetti estranei al suo esito, poiché tra i titolari del potere di richiesta si è collocata anche l'autorità che ha disposto il programma di protezione. Ci sono anche ipotesi in cui l'adozione dell'esame a distanza rimane discrezionale e altre in cui si atteggia come obbligatoria. • Discrezionale: ipotesi del 5 comma dell’art. 147bis, dove si voleva realizzare una semplificazione processuale; • Obbligatoria: ipotesi del 3 comma: non può dirsi davvero obbligatoria perché è comunque fatto salvo il caso in cui il giudice ritenga assolutamente necessaria la presenza della persona da esaminare. Le modalità di conduzione dell'esame a distanza sono state perfezionate, tuttavia si è mantenuta la regola per cui il collegamento audiovisivo si limita a garantire la contestuale visibilità delle persone presenti nel luogo dove la persona sottoposta ad esame si trova, quindi lo standard tecnico è inferiore a quello della partecipazione a distanza. L’esame a distanza si converte in videoconferenza se la persona da esaminare deve essere assistita da un difensore, ma si tratta di ipotesi residuali rispetto alla partecipazione a distanza dell’imputato detenuto, per il quale resta ferma la disciplina più garantista. La metamorfosi è decretata dall’art. 147-bis dove estende le regole stabilite dall’art. 146bis. Non essendo parti, la partecipazione al dibattito dei soggetti ex art. 210 si esaurisce nell’effettuazione dell’esame, non esistendo per costoro “un tempo del dibattimento” diverso da questo. Le forme del contraddittorio tradizionale sono ripristinate dall’art. 147ter, dove provvede ad una riscrittura dell’art. 6 comma 9 d.lgs. n. 119 del 1993, relativo alla ricognizione di persone nei cui confronti sia stato emesso il decreto di cambiamento delle generalità. L’adozione del meccanismo è rimessa ad una valutazione del giudice in termini di indispensabilità tutte le volte in cui si tratti di procedere a ricognizione o altro atto che comporti l’osservazione del corpo della persona, la durata dell’accompagnamento coattivo è limitata “al tempo necessario al compimento dell’atto”, l’esclusione della pubblicità immediata è ora regolamentata dal comma 2 art. 473. Quindi negli ultimi anni il legislatore ha ampliato le ipotesi di adozione del mezzo telematico, ma si è mosso nella direzione di un più consapevole impiego della telematica. In ultimo, tocca rammentare le disposizioni scaturenti dall’ordine europeo di indagine penale ex art. 108 del 2017. Vengono in gioco in particolare: 51 • l’art. 18, in tema di audizione mediante videoconferenza o altra trasmissione audiovisiva • l’art. 19 in tema di audizione mediante teleconferenza; • l’art. 39 riguardante l’audizione mediante videoconferenza o altra trasmissione audiovisiva. 18. La traduzione degli atti Il codice pone la disciplina della traduzione tra gli atti del procedimento. La scelta topografica si giustifica sulla base del rilievo che la traduzione non integra un mezzo di prova, ma un semplice mediazione linguistica tra i soggetti del procedimento, e che il suo impiego non si esaurisce nell’ambito probatorio. Quanto alla terminologia adottata: - il titolo quarto prende nome dalla natura dell’attività considerata, - mentre sul piano soggettivo, l’espressione “interprete” è usata per designare: sia la persona che riproduce il lingua italiana dichiarazioni orali, sia la persona che svolge il medesimo compito nei confronti di atti scritti. La disciplina subisce una radicale riforma, anche per i mutamenti della vita sociale che hanno accresciuto il numero dei cittadini stranieri. Facciamo riferimento al d.lgs. n. 101 del 2014. Vediamo le varie novità. Rubrica dell’art. 143: l’imputato, se non conosce la lingua italiana, ha diritto ad avvalersi dell’interprete (gratuitamente) e del traduttore per gli atti fondamentali. (lamentela: la norma non indica la lingua da utilizzarsi). La norma distingue nettamente l’attività da interprete e quella da traduttore. Inoltre, il legislatore chiarisce che il diritto all’assistenza linguistica investe: - Sia il compimento di singoli atti procedimentali o processuali, - Sia lo svolgimento delle udienze alle quali egli partecipi. Inoltre, si è voluto estendere il diritto all’assistenza dell’interprete ai colloqui con il difensore, inserendo nell’art. 104 comma 4bis, una più specifica previsione per i colloqui con l’imputato privato della libertà personale. Così il legislatore non ha posto limiti quantitativi alla garanzia, ma l’ha ricollegata allo svolgimento del colloquio difensivo prima che sia reso un interrogatorio, per preparare il quale non potrebbe però riuscire sufficiente una sola sessione. Inoltre, il diritto all’assistenza gratuita è ricollegato alla presentazione di richieste e memorie. L’art. 143 comma 2, si occupa invece della traduzione con una serie di prescrizioni assai analitiche indirizzate all’autorità precedente che è chiamata a provvedere d’ufficio. 1) In primo luogo, la traduzione deve essere effettuata entro un termine congruo, così da consentire l’effettivo esercizio delle facoltà difensive. La previsione impone una sollecita iniziativa dell’autorità procedente. Il riferimento alla congruità del termine per effettuare la traduzione può ben leggersi come un riconoscimento che si tratta di un’attività che non investe la validità dell’atto, ma la sua efficacia temporale. 2) In secondo luogo, l’elenco degli atti è assai esteso anche se menziona dei traguardi di garanzia già raggiunti dall’evoluzione giurisprudenziale. Ai senti dell’art. 51bis comma 2, disp. Att., ricorrendo particolari ragioni d’urgenza, l’autorità giudiziaria dispone la traduzione orale, anche in forma riassuntiva, con contestuale redazione del verbale. L’imputato può rinunciare espressamente alla traduzione scritta a favore di quella orale. Simili economie appaiono praticabili pure in rapporto alla traduzione ex art. 143 comma 3, che recepisce l’art. 3 della direttiva europea, dove prevede la traduzione degli atti che siano essenziali per conoscere le accuse a carico dell’imputato. L’istanza per ottenere la traduzione è presentata al solo giudice il quale la dispone con atto motivato (anche in caso di diniego è imposta la motivazione). L’accertamento della conoscenza italiana è compiuto dall’autorità giudiziaria, che dovrà rivolgersi al pubblico ministero investito delle indagini. La garanzia deve essere coordinata con quelle predisposte per gli appartenenti ad una minoranza linguistica: al cittadino italiano imputato che non parli o non comprenda la lingua italiana è assicurata una posizione di parità con l’imputato straniero, anche se l’art. 143 comma 4 continua a porre a suo carico una presunzione relativa di conoscenza della lingua italiana. 52 La prestazione del relativo ufficio assume carattere obbligatorio, talché può disporsi l’accompagnamento coattivo dell’interprete. L’art. 143bis comma 1, prevede con formula generica che l’autorità procedente possa nominare un interprete quando occorre procedere alla traduzione di uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non facilmente intellegibile. La novella del 2015 è completata in parte qua con l’introduzione dell’art. 107ter disp. Att. che consente di presentare denuncia o proporre querela davanti alla procura della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello, nella lingua conosciuta dalla persona offesa. Se tali atti stanno fuori del procedimento penale, la norma suona superflua non valendo la regola posta dall’art. 109 comma 1. L’interprete non è sempre collocabile tra i collaboratori del giudice, ma dà vita ad una figura dotata di spiccata autonomia. I requisiti di capacità e le situazioni di incompatibilità dell’interprete sono costruiti sulla falsariga di quelli del perito. L’interprete incapace o incompatibile è ricusabile dalle parti privati e anche dal pubblico ministero. Se esiste un motivo di ricusazione o gravi ragioni di convenienza per astenersi, l’interprete deve manifestarlo. Con il provvedimento di nomina, l’interprete o il traduttore è citato a comparire tramite notificazione e anche oralmente a mezzo dell’ufficiale giudiziario. Il conferimento dell’incarico avviene con forme che non contemplano la prestazione del giuramento, ma che mantengono l’obbligo incondizionato di serbare il segreto, benché esso cada con la chiusura delle indagini preliminari. L’autorità procedente, se non ritiene di convocare davanti a sé l’interprete o il traduttore, può richiedere al giudice di procedere, tramite rogatoria, agli adempimenti previsti nei commi che precedono relativi al conferimento dell’incarico. Se l’incarico concerne traduzioni scritte che richiedono un lavoro di lunga durata, l’art. 147 abilità l’autorità procedente a prorogare il termine fissato una sola volta. L’interprete che non abbia presentato la traduzione nel termine può essere sostituito ed è passibile di condanna al pagamento di una somma a favore della cassa delle ammente. 19. Le linee di fondo del regime delle notificazioni Nel processo penale gli atti contano in quanto siano portati a conoscenza dei soggetti diversi dal loro autore: è predisposto l’istituto delle notificazioni. Bisogna adeguare le notificazioni alle esigenze di celerità, garanzia e parità di posizioni tra i soggetti processuali. Si deve tuttavia osservare come la tradizionale dicotomia di fondo tra conoscenza legale e conoscenza effettiva, resta a vantaggio della seconda. Qui collochiamo: a. La consegna dell’atto da parte della cancelleria ex art 148 comma 4 b. La rinnovazione della notificazione ex art. 157 comma 5 c. Le notificazioni per via telematica L’esigenza di semplificare le forme è pervenuta a notevoli traguardi con le notificazioni disposte dal giudice ex art. 150, anche se simili risultati non possono conseguirsi se non coinvolgendo le parti in una consapevole collaborazione alle notificazioni. Il procedimento di notificazione è distinto in 3 fasi: 1) Impulso, richiesta o ordine di eseguire la notificazione e consegna materiale dell’atto all’organo esecutivo; 2) Esecuzione, di cui fanno parte la predisposizione dell’atto da notificare, l’attività di ricerca del destinatario e la consegna dell’atto alla persona abilitata a riceverlo; 3) Documentazione dell’attività svolta dall’organo esecutivo. 20. Gli organi e le forme delle notificazioni disposte dal giudice o richieste dalle parti 55 Questi limiti possono non esplicare per intero i loro effetti perché il decreto di irreperibilità resta pur sempre atto sottoposto alla clausola rebus sic stantibus in quanto meramente dichiarativo di uno stato preesistente. Rispetto alla condizione dell’imputato irreperibile, la l. n. 67 del 2014 ha riconosciuto che la pur rituale notificazione presso il difensore sottende una totale ignoranza dell’esistenza del procedimento da parte del soggetto che vi è sottoposto. - Se la sussistenza di atti inseriti nella sequenza processuale dimostrano la consapevolezza dell’esistenza del procedimento, il processo potrà proseguire; - Al contrario, il processo non potrà proseguire e il giudice ordinerà che l’avviso di udienza o la citazione a giudizio siano notificati personalmente all’imputato e dispone la sospensione del processo. È evidente il favor per la consegna a mani proprie, in quanto portatrice del più alto grado di effettività conoscitiva. 23. L’elezione di domicilio La leale collaborazione da parte del destinatario si pone alla stregua di una condizione imprescindibile. Da qui l’onere per l’imputato di determinare il luogo dove dovranno essergli notificati gli atti, mediante un’apposita dichiarazione o elezione di domicilio alle quali può conseguire una serie di facilitazioni per esercitare il diritto di difesa. Le sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che per l’imputato detenuto non vale mai la dichiarazione o l’elezione di domicilio. a. La dichiarazione di domicilio consiste in una manifestazione di scienza intesa ad indicare un luogo che può essere solo la propria casa di abitazione o la sede del proprio lavoro. b. L’elezione di domicilio consiste invece in una manifestazione di volontà che comporta la designazione di un luogo e necessariamente di un destinatario. Nel primo atto compiuto con l’intervento della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, il giudice o il pm li invitano a dichiarare o eleggere domicilio per le notificazioni. Nel contempo, al soggetto è rivolto l’avvertimento che ha obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato. Al di fuori dell’ipotesi del contatto diretto, si colloca l’invito a dichiarare o a eleggere domicilio formulato con l’informazione di garanzia o con il primo atto notificato per disposizione dell’autorità giudiziaria. Se la notificazione nel domicilio determinato ex art. 161 comma 2 diviene impossibile, si provvede mediante consegna al difensore, che assume la veste di semplice consegnatario. Quanto alle forme con cui è comunicato il domicilio dichiarato o eletto, l’art. 162 appronta un elenco che deve ritenersi tassativo. Esse consistono in una comunicazione all’autorità che procede. Ad un0esigenza avvertita dalla pratica giudiziaria risponde la recente introduzione dell’art. 162 comma 4bis: l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio, non ha effetto se unitamente alla relativa dichiarazione, l’autorità procedente non riceve l’assenso del difensore domiciliatario. 24. Le notificazioni a soggetti diversi dall’imputato La rubrica dell’art. 153, relativa alle notificazioni e comunicazioni al pubblico ministero, lascia impregiudicata la questione riguardo l'autonomia concettuale delle seconde rispetto alle prime. il mantenimento della comunicazione all'interno di un modello orientato in senso accusatorio si giustifica in quanto il rappresentante dell'accusa è organo pubblico, nei confronti del quale non si profilano questioni di reperibilità. L’art. 153 ammette le parti e i difensori hai seguire direttamente la notificazione mediante la semplice consegna di copia dell'atto nella segreteria del pubblico ministero. Le notificazioni alla persona offesa, alla parte civile, a responsabile civile e al civilmente obbligato per la pena pecuniaria risultano raggruppate perché nei confronti di questi soggetti valgono le forme prescritte per la prima notificazione all'imputato non detenuto. La natura dei poteri conferiti nella fase delle indagini preliminari alla persona offesa ha imposto la creazione di una 56 disciplina alquanto analitica e sufficientemente garantista. Allo schema dell'art 157 sono state introdotte due deroghe: a) una relativa alla tutela della riservatezza b) l'altra relativa al doppio accesso da parte dell'ufficiale giudiziario, cui si aggiunge una previsione ulteriore circa le ipotesi di irreperibilità, di residenza o dimora all'estero. In questi casi la notificazione si dà per avvenuta con il deposito in cancelleria. Se per il numero elevato delle persone offese o per l'impossibilità di identificarli alcune, la notificazione prevista dall'art 154 riesce difficile, l'art 155 demanda all'autorità giudiziaria il potere di disporre l'impiego di un meccanismo simile a quello affrontato sotto la rubrica di “notificazione per pubblici proclami”. Tuttavia questa notificazione si caratterizza anche per una minor rigidità di presupposti e per una maggiore agilità di esecuzione. • Per quanto riguarda la parte civile, posto che essa deve provvedere a nominare un difensore all'atto della costituzione, le notificazioni sono eseguite presso tale soggetto che accumula il ruolo di domiciliatario. • Per quanto riguarda il responsabile civile il civilmente obbligato, vale la stessa regola seduto essere stati citati non hanno provveduto a costituirsi, permane l'onere di dichiarare o eleggere il proprio domicilio nel luogo in cui si procede. • Se i destinatari sono pubbliche amministrazioni o persone giuridiche le notificazioni seguono le regole del rito civile. • per i soggetti fino ad ora non considerati, l'art 167 mantiene il richiamo alla disciplina della prima notificazione all'imputato non detenuto, ma non operano le regole dettate per la tutela della riservatezza e per il doppio accesso. Bisogna considerare un'innovazione tecnologica che introduce la possibilità di effettuare notificazioni e comunicazioni per via telematica anche materia processuale penale, ciò avviene attraverso il ricorso al servizio di pec. Sono evidenti i vantaggi dell'innovazione dove essa consente la trasmissione di atti giudiziari in maniera tempestiva e fedele tra gli uffici. Questo comporta un maggior impiego collaborativo poiché tocca munirsi di un indirizzo pec. 25. La relazione di notificazione e le cause di nullità Alla relazione di notificazione, momento documentale e finale del relativo procedimento, l'art 168 dedica un'analitica disciplina per consentire un adeguato controllo sulla regolarità della procedura. nella relazione l'ufficiale giudiziario indica il richiedente, le ricerche effettuate, le generalità della persona a cui è stata consegnata la copia, la propria sottoscrizione per attestare la paternità dell'atto. Tuttavia per ragioni di coerenza sistematica neanche la relazione fa fede di quanto l'ufficiale attesti di aver fatto o di essere avvenuto in sua presenza: il giudice ne valuta liberamente il contenuto. La notificazione produce effetto per ciascun interessato dal giorno della sua esecuzione. Rilevano anche le notificazioni effettuate con l'ausilio degli uffici postali. Per quanto riguarda il regime delle invalidità delle notificazioni, logica vorrebbe che esso segua quello dell'atto da notificarsi tuttavia oltre le cause di nullità considerate dall'art 171 bisogna delineare anche quelle enucleabili in via generale dall'art 178: a) atto notificato in modo incompleto, b) incertezza assoluta riguardo il richiedente o il destinatario, c) difetto nella relazione della copia notificata della sottoscrizione di chi l'ha eseguita, d) violazione delle disposizioni circa la persona a cui la copia deve essere consegnata, e) mancanza dell'avvertimento nei casi previsti dall'art 161 f) dopo il deposito nella casa comunale, ho messa affissione sulla porta dell'imputato, mancanza su l'originale dell'atto notificato della sottoscrizione del portiere o di chi ne fa le veci, g) in osservanza delle modalità fissate dal giudice del decreto motivato con cui è stata disposta una forma particolare di notificazione. La mancata previsione in ordine all'incertezza assoluta sulla data della nazione si inserisce nel più generale disegno già ricordato, tuttavia l'inosservanza di una tale prescrizione può dar luogo a responsabilità disciplinare. 26. Le regole generali in materia di termini il procedimento si colloca naturalmente nella dimensione temporale intesa sia come distanza sia come durata il legislatore quindi deve instaurare relazioni cronologiche gli atti. Questo può avvenire per ragioni di speditezza del 57 rito, razionalità della progressione tra gli atti, stabilità delle situazioni giuridiche. Agli scopi indicati sono rivolti i termini processuali, poiché assegnano dei limiti cronologici all'attività di soggetti del procedimento o in quanto determinano la cessazione degli effetti dell'atto. Bisogna distinguere tra: 1) Termini dilatatori: fanno sì che un atto non possa compiersi prima che il relativo termine sia decorso, quindi generano un effetto inibitorio dell'attività dei soggetti del procedimento (termine di comparizione). Se l’atto è ugualmente compiuto esso è affetto da nullità speciale o generale; 2) Termini acceleratori: sono preordinati a realizzare un fine opposto perché stimolano l'evolversi del procedimento (termine per proporre la querela) loro caratteristica è la predeterminazione di un periodo di tempo utile per il compimento dell'atto o il mantenimento della sua efficacia. a. Termini ordinatori: le cui conseguenze sono prive di rilevanza di natura processuale (termini per il deposito della sentenza) b. Termini perentori: la cui scadenza comporta la perdita del potere di compiere l'atto al quale ineriscono oppure la cessazione degli effetti del medesimo sanzione della decadenza dal potere. Spesso capita che uno stesso termine assuma un'efficacia diversa in funzione dell'attività di soggetti del procedimento a cui si riferisce. (il termine ex art 429 è dilatorio per il giudice ai figli della fissazione della data del giudizio, ma acceleratorio per i difensori ai fini dell'esercizio delle facoltà attribuite dall'art 466). I termini sono stabiliti in relazione a determinati accadimenti. La scadenza del termine in un giorno festivo comporta una proroga ex lege al giorno successivo non festivo. Il computo è formato da ore, giorni, mesi e anni. Se è stabilito solo il momento finale le unità di tempo si computano intere e libere. ragioni di buon andamento e di corretta gestione degli uffici giudiziari hanno indotto a prevedere che il termine per fare dichiarazioni o depositare i documenti, si consideri scaduto nel momento in cui, l’ufficio medesimo viene chiuso al pubblico. La norma concerne solo gli atti da compiere personalmente e non quelli che possono essere trasmessi a mezzo di raccomandata o telegramma. L’art. 173 introduce una disposizione identica all’art. 152: in materia vige il principio di tassatività. Benché situata tra i motivi di ricorso per Cassazione accanto ai vizi dell'atto, la sanzione processuale non si risolve in una specie di invalidità degli atti del procedimento. Il legislatore si preoccupa di ricollegare alla decadenza l'inammissibilità dell'atto realizzato a termine scaduto. Secondo la dottrina più autorevole, tra la previsione appena di decadenza e quella a pena di inammissibilità non corre differenza quanto alla loro natura, con la sola variante del punto di vista prescelto per la costruzione della fattispecie: a. Nel primo caso si guarda alla vicenda estintiva del potere, b. nel secondo all'invalidità del latto pur tuttavia compiuto. In bisogno di coerenza spiega poi la regola secondo cui i termini stabiliti appena di decadenza sono improrogabili. Oltre alle proroghe che il ministro della Giustizia può accordare il rapporto ad eventi di carattere eccezionale, vanno menzionate: a. la proroga dei termini delle indagini preliminari, b. la proroga dei termini della custodia cautelare Istituto tradizionale è l’abbreviazione del termine. Non sono numerose le ipotesi in cui il potere dispositivo delle parti private si esercita con la anticipare la scadenza di un termine. Diverso dalla proroga è il prolungamento dei termini di comparizione: - la prima presuppone la pendenza di un termine già in corso posticipandone la scadenza, - il secondo scatta fin dal momento della fissazione del termine dilatorio ordinario indipendentemente dalla circostanza che sia o no prorogabile, perché presuppone la non coincidenza tra il luogo di residenza o quello del domicilio dichiarato. Infine l'istituto della sospensione dei termini non è preso in considerazione dal titolo VI. Una portata generale assume la sospensione dei termini processuali in materia penale del periodo feriale. Questa sospensione non opera nei procedimenti relativi ad imputati stato di custodia cautelare, qualora essi o loro difensori riducilo inequivocabilmente ad avvalersene. In ogni caso la sospensione dei termini di durata delle indagini preliminari non scatta dei procedimenti per reati di criminalità organizzata. Se si tratta di procedimenti per reati la cui prescrizione maturi durante la sospensione feriale ogni successivi 45 giorni, il giudice pronuncia ordinanza inoppugnabile con cui è specificatamente motivata e dichiarata l'urgenza del processo. 60 non la richiesta di archiviazione) e di norme sulla capacità e legittimazione, purché si riflettano sull’iniziativa nell’esercizio dell’azione penale. c. Imputato: la nullità deriva dall’omessa citazione al dibattimento (es. vizio di notifica) d. Difensore dell’imputato: è presidiata da nullità assoluta l’assenza dal dibattimento e da ogni altra situazione in cui la sua presenza sia obbligatoria (interrogatorio di persona detenuta; sommarie informazioni; udienza di convalida dell’arresto o del fermo; udienza per l’incidente probatorio; udienza preliminare; udienza di esecuzione). In questi casi anche l’incapacità o incompatibilità del difensore genera nullità assoluta. NB: le nullità assolute sono in larga parte generali, ma il codice ne individua alcune di ordine speciale. 31. Le nullità intermedie 2) Nullità intermedie: La nomenclatura non è quella utilizzata dal codice, che si riferisce ad altre nullità generali: una categoria dunque residuale rispetto a quella delle nullità assolute, che presenta un regime, appunto, intermedio tra quello delle prime e quello delle nullità relative. Nello specifico: a. sono rilevabili anche d’ufficio (al pari delle nullità assolute), ma non dopo la sentenza di primo grado, se verificatesi prima del giudizio, e di quella del grado successivo, se verificatesi nel giudizio; b. sono sanabili anche prima dell’irrevocabilità della sentenza (al pari delle nullità relative). Ne consegue che le parti potranno dedurre la nullità intermedia entro la chiusura del dibattimento o della discussione, mentre il giudice fino al momento della deliberazione in camera di consiglio. Si ritiene che l’effetto devolutivo in appello operi automaticamente nei confronti delle nullità intermedie regolarmente dedotte nel grado precedente, ma non dichiarate dal giudice. L’area delle nullità intermedie si ricava per sottrazione dell’area delle nullità assolute ex art. 179 dalla più ampia area delle nullità generali ex art. 178. Non si rinvengono pertanto nullità speciali sottoposte al regime proprio delle nullità intermedie. Vi figura anzitutto l’inosservanza delle disposizioni circa la partecipazione del pubblico ministero al procedimento. La norma si riferisce: • in primo luogo, all’attività di prosecuzione dell’azione; • in secondo luogo, agli interventi in cui si risolve il contributo dialettico del pubblico ministero al procedimento. Quanto alle singole cause di nullità intermedia: a) Pubblico ministero: inosservanza delle disposizioni relative alla partecipazione del PM al procedimento, purché tale attività non sia inquadrabile nell’iniziativa dell’esercizio dell’azione penale. b) Imputato: inosservanza delle disposizioni relative ad intervento; assistenza, rappresentanza. c) Parti private: omessa citazione e le stesse dell’imputato. 32. Le nullità relative Nullità relative: è una categoria che si ricava per esclusione dall’art. 181: sono tali le nullità speciali non riconducibili nell’alveo di quelle assolute o intermedie. La loro esistenza dipende dunque da un’espressa comminatoria. NB: non vale la relazione inversa: una nullità speciale può ben essere assoluta o intermedia. Quindi l'interprete posto di fronte ad una nullità a previsione speciale, individua il trattamento dopo varie operazioni: 1) si impegna a ricondurre la fattispecie nell'alveo delle nullità generali, 2) poi accerta se essa rientri nell'ambito delle nullità assolute, 3) Se l’indagine dà esito negativo dovrà inserire l'ipotesi tra le nullità a regime intermedio. Caratteristica delle nullità relative è che possono dichiarate dal giudice solo su eccezione di parte: la mancanza di un potere officioso comporta l’impossibilità per il giudice di impedire la formazione di atti che si basano su di uno nullo. La conseguenza è che per tali nullità è previsto un termine di sanatoria più breve, ma distinti a Seconda che si tenga o no l'udienza preliminare: a. Nel primo caso, le nullità relative ad atti di indagini preliminari, incidente probatorio ed udienza preliminare 61 devono essere eccepiti anteriormente al provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare, b. in mancanza, subito dopo compiuto l’accertamento della regolare costituzione delle parti. Le nullità verificatesi nel giudizio devono essere eccepite tramite impugnazione della sentenza. o Inesistenza: Le restanti difformità dallo schema tipico, non possono che essere riportate alla tipologia della mera irregolarità, produttiva di conseguenze di natura disciplinare. Tutto ciò a meno che non debbano ricondursi in via interpretativa alla specie più grave di invalidità ravvisabile nell’inesistenza giuridica. Il ricorso a quest'ultima figura, comprendente quei vizi tanto macroscopici da indurre il legislatore a non ipotizzarne neppure l’eventualità e l'interprete a negarne la collocazione nell'ambito degli atti giuridici, continua a prospettarsi come il frutto di un'operazione interpretativa quindi l'inesistenza non dovrebbe mai essere diagnosticata quando il vizio ricada già in una specie di invalidità disciplinata dal codice. Si delinea così la differente terminologia adottata dal linguaggio civilistico e dal linguaggio processo al penalistico: - il primo definisce: a. nulli gli atti inidonei ha produrre effetti b. annullabili quelli che producono effetti suscettibili di cadere mercé l'instaurazione di apposite azioni; - il secondo li chiama rispettivamente inesistenti e nulli L’inesistenza è rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, ma anche al termine dello stesso, poiché impedisce la formazione del giudicato. Su un piano concettuale distinto dalla inesistenza si colloca l’abnormità dei provvedimenti del giudice. Qui l'atto è idoneo a integrare lo schema normativo minimo ben casi caratterizzi per il suo contenuto del tutto estemporaneo. L’abnormità pone rimedio alla tassatività oggettiva delle impugnazioni, rendendo ammissibile un autonomo ricorso per Cassazione. La giurisprudenza, facendo leva sulla configurabilità di una stasi processuale altrimenti irrimediabile: - per un verso ha esteso l'istituto fino a comprendere gli atti del pubblico ministero - peraltro verso ne ha consentito la rilevazione ufficiosa da parte del giudice dell'impugnazione purché ritualmente investito. 33. Deducibilità e sanatorie Nelle nullità intermedie e relative incontra: 1) un duplice limite soggettivo: a. Non possono essere dedotte da chi ha concorso a causarle. b. Non possono essere dedotte da chi non abbia interesse all’osservanza della norma violata. 2) un limite temporale: o Devono, a pena di decadenza, essere dedotte: a. prima del compimento dell’atto, si previene il verificarsi della nullità. b. oppure, se ciò non è possibile, immediatamente dopo Ciò garantisce che il vizio non si ripercuota su atti successivi. NB: se la parte (ossia il difensore) non ha assistito all’atto, il termine di deducibilità è quello previsto per la sanatoria. Anche i termini per rilevare o eccepire le nullità sono stabiliti a pena di decadenza. Sanatorie: sono di carattere generale (art. 183) e speciale (art.184): 1) Sanatorie generali: a. Acquiescenza: vi rientrano: i. la rinuncia espressa della parte interessata ad eccepire ii. l’accettazione (espressa o tacita) degli effetti dell’atto. L'accettazione tacita presuppone la consapevolezza del vizio in capo al soggetto stesso. b. Raggiungimento dello scopo dell’atto: la parte si è avvalsa della facoltà al cui esercizio l’atto nullo è preordinato. NB: tali sanatorie non operano nei confronti delle nullità assolute, espressamente insanabili. (clausola di salvezza posta all’inizio dell’art. 183). 2) Sanatoria speciale: riguarda specificatamente PM, parti private e difensori e ha ad oggetto la nullità della citazione o dell’avviso, sanata dalla comparizione personale (quella del difensore non funge da sanatoria 62 rispetto all’imputato) e volontaria (non opera come causa di sanatoria l’accompagnamento coattivo) del soggetto, anche qualora questo non sia a conoscenza della nullità o non sia intenzionata a sanarla. NB: se la parte è intervenuta con il solo fine di far valere l’irregolarità, la sanatoria opera comunque, ma la parte ha un termine a difesa di 5 giorni, che diventano 20 per la citazione a comparire al dibattimento. Data la generalità del disposto, questo nuovo termine dilatorio parrebbe valere altresì per il giudizio davanti al tribunale in composizione monocratica. 34. Gli effetti della dichiarazione di nullità Essi sono disciplinati sotto un triplice profilo dall’art. 185 che li colloca in successione logica: Innanzitutto la nullità dell’atto comporta l’invalidità di tutti gli atti successivi da esso dipendenti (cd. nullità derivata); la successione è intesa in senso cronologico e la dipendenza può essere sia: a. logica (sentenza fondata su prova nulla), b. che giuridica (atto presupposto nullo). La nullità dell’udienza di convalida non si riverbera sull’ordinanza cautelare emessa in tale sede dal giudice per le indagini preliminari. Il giudice può disporre la rinnovazione dell’atto nullo, purché questa sia necessaria e possibile; al contrario essa è obbligatoria per gli atti di natura propulsiva. Se la nullità è dichiarata in uno stato e grado diverso da quello in cui si è verificata, occorre distinguere: o Nullità dell’atto probatorio: il giudice provvede alla rinnovazione della prova se necessaria e possibile o Nullità dell’atto non probatorio: il giudice ordina la regressione del procedimento allo stato e grado del procedimento in cui è stato compiuto l’atto nullo. Pertanto, l’obiettivo di reintegrare le parti nella posizione in cui si trovavano al verificarsi della causa di nullità non è sempre perseguito per ragioni di economia processuale. NB: in Cassazione è sempre operato il rinvio, anche per nullità della prova. 65 capita, infatti, sia nell’ipotesi del giudizio abbreviato, sia nell’ipotesi della applicazione della pena su richiesta delle parti, posto che in entrambi i casi il giudice può pronunciare la propria sentenza sulla scorta degli atti disponibili al termine delle indagini preliminari (artt. 438 e 447), 1. solo eventualmente integrati dagli atti compiuti in sede di udienza preliminare (artt. 442 e 448, in relazione agli artt. 421, 421-bis e 422). 2. E lo stesso accade, in sostanza, anche nell’ipotesi del decreto di condanna – emesso dal giudice sulla base del fascicolo trasmessogli dal pubblico ministero (art. 459) – tutte le volte in cui l’imputato non abbia presentato opposizione. In altri termini, se è vero che le indagini preliminari del pubblico ministero (nonché quelle della polizia giudiziaria) sono suscettibili, nelle ipotesi appena ricordate, di assurgere al livello di prova, contribuendo così in positivo alla formazione del convincimento del giudice, non è seriamente pensabile che le medesime possano svolgersi al di fuori di qualunque riferimento alla disciplina dettata nel codice in materia di attività probatorie. Anzi, è da ritenere che tale disciplina debba – in linea di massima – operare anche con riguardo alle predette indagini, nella misura della oggettiva compatibilità con le stesse, fermo restando naturalmente il principio che esclude la ordinaria utilizzabilità degli atti compiuti nelle fasi preliminari ai fini della sentenza dibattimentale. Se ne desume, anzitutto, che le «disposizioni generali» con cui si apre il libro III (infra, §§ 3-7), in quanto espressive di alcune basilari scelte di civiltà giuridica sul terreno probatorio – e, quindi, della ricerca probatoria – debbano senz’altro applicarsi anche nel corso delle indagini preliminari del pubblico ministero (e della polizia giudiziaria), ovviamente entro i limiti consentiti dalla natura e dalla finalità delle stesse. Il discorso sembra debba essere diverso, poi, a seconda che si faccia riferimento alle norme concernenti i «mezzi di prova», o i «mezzi di ricerca della prova». Per quel che concerne la disciplina dei mezzi di ricerca delle prove precostituite – corrispondenti, del resto, ad attività tipiche della fase delle indagini preliminari (infra, §§ 13-14) – non sembra dubbio che essa debba venire osservata dal pubblico ministero e, per quanto di sua competenza, dalla polizia giudiziaria. Al di là del dato formale rappresentato dalla circostanza che tali norme individuano, per lo più, quale proprio destinatario l’«autorità giudiziaria» – anziché il «giudice», come invece le norme sui mezzi di prova – appare infatti decisivo il rilievo che, se le medesime non dovessero trovare applicazione nella fase preliminare al dibattimento, davvero non si comprenderebbe la loro stessa ragion d’essere, con l’ulteriore inconveniente di lasciare praticamente all’arbitrio degli organi inquirenti i «casi» ed i «modi» di svolgimento delle corrispondenti attività (ciò che, tra l’altro, potrebbe anche risultare per vari aspetti in contrasto con gli artt. 13, 14 e 15 Cost.). Se poi si aggiunge che le attività in questione, in quanto caratterizzate dalla dimensione della «sorpresa», corrispondono agli «atti non ripetibili» da includersi nel fascicolo per il dibattimento, ai fini della loro utilizzabilità per la formazione del convincimento del giudice (art. 431), ci si rende conto a maggior ragione come non possa ammettersi che le medesime si svolgano senza l’osservanza delle norme correlativamente dettate in tema di mezzi di ricerca della prova. Lo stesso non può dirsi per i mezzi di prova, la cui disciplina risulta dettata facendo, di regola, riferimento al giudice, trattandosi di atti normalmente affidati alla sua gestione, in quanto destinati a sfociare in prove formate nel processo e come tali idonee e concorrere direttamente alla formazione del convincimento giudiziale. Il discorso e più delicato per quanto riguarda l'operatività delle disposizioni sulle prove alle indagini preliminari svolte dal PM (e dagli organi di PG) anche se e vero che, normalmente, le indagini preliminari non sono idonee a conseguire risultati utilizzabili come prova in dibattimento, le disposizioni generali del libro III devono applicarsi anche nel corso delle indagini preliminari del PM (e della PG), entro i limiti consentiti dalla natura e dalla finalità delle stesse. le norme relative ai mezzi di prova non devono in linea di massima applicarsi nel corso delle indagini, preliminari del PM (quando il legislatore ha voluto sancirne l'operatività, lo ha fatto espressamente). 3. L’Oggetto della prova Oggetto della prova ex art.187: delinearlo è funzionale ad evitare che l’attività probatoria possa orientarsi arbitrariamente verso qualunque obbiettivo di ricostruzione della verità storica, in un’ottica inquisitoria estranea al codice, garantendo invece che essa sia circoscritta all’oggetto del dibattimento. Ecco, quindi, che l’oggetto della prova altro non è se non il tema della decisione e la pertinenza (descritto dall’art.187) a quest’ultimo costituisce il criterio guida dell’attività probatoria, nonché il parametro di valutazione della sua ammissibilità (v. dopo). 66 Alla luce di ciò, i fatti oggetto di prova possono essere relativi a: Imputazione. Punibilità. Determinazione della pena o della misura di sicurezza. Questioni relative all’esercizio dell’azione civile (eventuale). Fatti processuali, da cui dipende l’applicazione di norme processuali. In relazione all’oggetto della prova, è operabile una distinzione: Prove dirette: hanno ad oggetto il fatto da provare. Prove indirette: hanno ad oggetto un fatto diverso, dal quale il giudice può risalire a quello da provare attraverso un meccanismo induttivo. Si parla anche di prove indiziarie, da non confondere con gli indizi richiesti per l’applicazione della misura cautelare. A tale distinzione si fa di norma coincidere quella tra prove storiche e critiche, a seconda che il fatto sia rappresentato davanti al giudice, ovvero sia necessario un suo intervento di inferenza. In realtà la coincidenza non è perfetta, poiché la prima distinzione fa leva sull’eventualità che l’oggetto della prova si riferisca direttamente o meno al tema da provare, mentre la seconda si riferisce al processo logico seguito dal giudice. 4. Prove atipiche e garanzie per la libertà morale della persona Per quanto concerne le prove atipiche o innominate il codice ha operato una scelta di natura dichiaratamente intermedia, essendo apparso troppo rigido l’indirizzo volto ad escludere expressis verbis che il giudice potesse ammettere prove diverse rispetto a quelle previste dalla legge. Si è deciso, quindi, di 1) non dettare alcuna aprioristica preclusione nei confronti delle prove non disciplinate dalla legge, 2) ma di trasferire in capo al giudice, caso per caso, il compito di un vaglio preliminare circa l’ammissibilità di tali prove. 3) E’ perfino superfluo aggiungere che, in ogni caso, dovrà trattarsi di prove non vietate dalla legge, essendo da escludere che per questa via possano introdursi nel processo prove contrare ad espressi divieti legislativi, o comunque difformi, per difetto di qualche elemento della fattispecie, dal modello di una prova tipica, cioè disciplinata dalla legge. Più precisamente, quando si abbia a che fare con una prova non riconducibile ad alcuna figura probatoria legislativamente predeterminata, spetterà al giudice il potere di decidere, di volta in volta, se la medesima possa trovare ingresso in sede processuale, sulla base di una verifica subordinata a due distinte e concorrenti valutazioni: da un lato, che essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti (ciò vuol dire in concreto che deve essere capace di fornire elementi attendibili e di permettere una valutazione sulla credibilità della fonte di prova), dall’altro lato che non pregiudica la libertà morale della persona (cioè deve lasciare integra la facoltà di determinarsi liberamente rispetto agli stimoli si tratta di un’applicazione del principio generale stabilito dall’art 188. Il limite in oggetto costituisce un divieto probatorio imposto a pena di inutilizzabilità). Dopodiché, verificata e riconosciuta l’ammissibilità della prova, sarà ancora compito del giudice definire in concreto le modalità di assunzione, dopo aver sentito le parti, allo scopo di concordare le relative cadenze processuali. Dunque, in sostanza, nessuna prova potrà essere ammessa né tanto meno assunta, quando la stessa presupponga il ricorso a metodiche tali da vanificare o comunque compromettere, la normale attitudine della persona all’autodeterminazione ed all’esercizio delle facoltà mnemoniche e valutative: si pensi agli esempi oggi rappresentati da narcoanalisi, ipnosi, lie detector, nonché dai c.d. sieri della verità. E ciò non solo, e non tanto, per una preoccupazione rilevante sotto il profilo dell’attendibilità delle risultanze così conseguibili, quando, soprattutto, per un’esigenza di tutela della libertà morale della persona, da intendersi in chiave oggettiva, quale valore probatorio rispetto a quello dell’accertamento processuale. Tuttavia, bisogna precisare che la dottrina è unanime nel richiamare l’attenzione sulla necessità che la prova atipica non si risolva in uno strumento per aggirare i requisiti delle prove tipiche contrabbandando omissioni o irritualità come semplici profili di atipicità. In casi del genere ci troveremmo dinanzi ad una vera e propria truffa delle etichette e la prova atipica, da strumento di integrazione del sistema probatorio, si trasformerebbe in uno stratagemma per aggirare le regole stabilite dal legislatore. 67 5. Diritto alle prove e criteri di ammissione La disciplina delle modalità di ammissione della prova costituisce uno dei terreni sui quali più decisamente incide il modello del processo di parti, in coerenza con il suo canone di fondo per cui il giudice, di regola, deve decidere iuxta alligata et probata partium. Corollario di questa impostazione è il riconoscimento nei confronti delle parti di un vero e proprio «diritto alla prova» (a sua volta tipica manifestazione del diritto di difesa, per quanto riguarda le parti private, sotto il particolare profilo dell’esigenza di “difendersi provando”), che infatti il codice esplicitamente sancisce, dando concretezza, anche in chiave di enunciazione formale, ad una nozione in precedenza elaborata soprattutto sul piano delle ricostruzioni dottrinali. Lungo questa prospettiva, capovolgendo la logica inquisitoria ispirata all’idea della iniziativa officiosa del giudice in materia di prove, e relegando nei confini delle eccezioni stabilite dalla legge «i casi in cui le prove sono ammesse d’ufficio», l’art. 190 non esita ad affermare con chiarezza il principio – di impronta tipicamente accusatoria – per cui «le prove sono ammesse a richiesta di parte», e su tale base impone al giudice di provvedere «senza ritardo con ordinanza» alla delibazione di ammissibilità che gli è demandata. Emerge così il duplice livello sul quale si articola il diritto alla prova riconosciuto alle parti. In primo luogo come diritto di richiedere l’ammissione di determinate prove, espressivo di un potere di disponibilità in ordine all’intera gamma delle prove ammissibili, salve le ipotesi in cui, ai sensi dell’art. 190 comma 2°, è consentito al giudice un intervento ex officio (si pensi, per esempio, agli artt. 70 comma 1°, 195 comma 2°, 210 comma 1°, 224 comma 1°, 237, 468 comma 5°, 507, 508 comma 1°, 511 comma 1°, 511-bis, 603 comma 3°, cui devono aggiungersi le previsioni degli artt. 422 comma 1° e 441 comma 5°, così come modificate dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479): ciò che, ovviamente, si traduce in un onere di iniziativa al fine dell’acquisizione al processo delle stesse. In secondo luogo, una volta adempiuto a tale onere, come diritto ad ottenere la prova richiesta, entro i limiti in cui la medesima possa venire ammessa, o, comunque, ad ottenere una tempestiva pronuncia – distinta dalla sentenza finale – sulla richiesta ritualmente formulata. Al riguardo, tra le concrete specificazioni del diritto alla prova così riconosciuto alle parti, non si può non ricordare almeno l’esplicita attribuzione all’imputato – già prefigurata, del resto, da una precisa direttiva della legge delega (art. 2 n. 75), a sua volta mutuata dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 6 comma 3° lett. d), i cui princìpi sono oggi recepiti nell’art. 111 comma 3° Cost. – del diritto ad ottenere l’ammissione delle prove a discarico «sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico», ed al pubblico ministero del corrispondente diritto in ordine alle prove a carico «sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico» (art. 495 comma 2°). In queste ipotesi, anzi, il legislatore ha voluto evidentemente attribuire un particolare risalto al c.d. diritto di “controprova” – in quanto tipica espressione della dialettica del contraddittorio – al punto da configurare uno specifico motivo di ricorso per cassazione proprio con riferimento alla «mancata assunzione di una prova decisiva», allorché la stessa sia stata richiesta dalla parte, anche nel corso dell’istruzione dibattimentale, a norma dell’art. 495 comma 2° (art. 606 comma 1° lett. d). Per quanto concerne, poi, i criteri della pronuncia sulla ammissibilità della prova, il giudice risulta vincolato ad un duplice ordine di parametri, ai fini del giudizio che gli compete (art. 190 comma 1°), e che rappresenta – secondo la logica del sistema – un punto di passaggio obbligato in vista della successiva acquisizione della prova stessa. Si tratta anzi, salvo diversa disposizione di legge, di un punto di passaggio obbligato (in chiave di «filtro») rispetto a qualunque prova, quale che sia l’oggetto della stessa, non potendosi accreditare l’interpretazione, pur non priva di base testuale, orientata a ritenere incompatibili i suddetti criteri di ammissibilità con il riconoscimento costituzionale della «facoltà» dell’imputato di ottenere «l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore» (art. 111 comma 3° Cost.), quasi che per le prove di quest’ultimo tipo non dovesse prevedersi alcun limite di ammissibilità. Più precisamente – tornando al disposto dell’art. 190 comma 1° –, da un lato, sul piano delle valutazioni di diritto, il giudice dovrà escludere anzitutto le prove «vietate dalla legge», cioè quelle per le quali esista un espresso divieto in ordine all’oggetto o al soggetto della prova, ovvero in ordine alla procedura di acquisizione probatoria. D’altro lato, sul piano delle valutazioni di fatto, lo stesso giudice, dopo avere riscontrato l’insussistenza di divieti legislativi, dovrà escludere le prove che risultino in concreto, e manifestamente, «superflue» o «irrilevanti». 70 Questa differenza viene in rilievo dal riferimento al regime di rilevabilità del vizio che non ammette sanatorie essendo modellato sullo schema del regime previsto per le nullità assolute (art.179). L'inutilizzabilità è rilevabile «anche di ufficio in ogni Stato e grado del procedimento» (art. 191 comma secondo). Quanto alla sfera di operatività della sanzione ex art. 191, essa va individuata avendo riguardo ad ogni ipotesi di inosservanza di un divieto sancito dalla legge processuale in materia di ammissione di acquisizione probatoria anche qualora si concreti esclusivamente nel momento di valutazione della prova. Il disposto dell'art. 191 punto si configura come: 1. una norma generale di previsione della sanzione dell’inutilizzabilità destinata a combinarsi con tutte le svariate disposizioni che non prevedono alcun riflesso sanzionatorio per l'ipotesi della sua trasgressione (comma primo); 2. norma generale di riferimento per il regime normativo del vizio dell'inutilizzabilità destinata a trovare applicazione tutte le volte in cui singole disposizioni dichiarino inutilizzabili determinati atti probatori. In definitiva si deve ritenere che la sanzione dell’inutilizzabilità in via generale operi nei confronti di tutte le prove acquisite contra legem, cioè in violazione di un divieto di ammissione o di acquisizione stabilito per legge. Il comma 2 bis dell'articolo 191 prevede uno specifico caso di inutilizzabilità per le dichiarazioni delle informazioni ottenute mediante il delitto di tortura di cui all'articolo 613 bis c.p. 7. Valutazioni della prova e regole di convincimento del giudice Passando al regime di valutazione della prova ex articolo 192, ne risulta anzitutto ribadito il principio del libero convincimento del giudice. Tale principio viene affermato con esclusivo riferimento al momento della valutazione della prova, non anche a momenti anteriori del procedimento probatorio: una valutazione che, stando a quanto risulta dai meccanismi di selezione del materiale assoggettabile alla conoscenza del giudice, già delineati nelle precedenti disposizioni, può avere ad oggetto soltanto l’area delle prove legittimamente ammesse ed acquisite, dunque utilizzabili. È quindi senza dubbio da escludere che il convincimento del giudice possa formarsi (su questo terreno nessuna “libertà” è ammessa, trattandosi di materia legislativamente vincolata) al di fuori di tale ambito, perché ciò significherebbe fare uso di prove per legge non utilizzabili. Questa esigenza di legalità circa il momento valutativo della prova trova la sua conferma nella previsione del necessario raccordo tra le valutazioni operate dal giudice – ai fini del proprio convincimento – e la motivazione dei provvedimenti che ne siano derivati, nella quale dovrà essere dato conto sia dei «risultati acquisiti», sia dei «criteri adottati» (art. 192 comma 1°). Come dire, in sostanza, che l’obbligo di motivazione dei provvedimenti, se da un lato rappresenta un limite intrinseco alla libertà di convincimento del giudice (costringendolo a rendere ragione della razionalità dell’itinerario mentale seguito per giungere alla decisione), dall’altro si configura quale premessa logica imprescindibile per l’esercizio del successivo controllo sulle linee di formazione di quel convincimento. Per conseguenza, attraverso i doverosi passaggi argomentativi imperniati sulla indicazione delle risultanze probatorie legittimamente acquisite, nonché sulla esplicitazione dei criteri di valutazione impiegati per saggiarne la attendibilità (mediante il ricorso alle c.d. massime d’esperienza, da intendersi come espressione di canoni ordinari relativi a condotte, o ad eventi, suggeriti dalla prassi, in rapporto all’id quod plerumque accidit), il giudice dovrà in concreto ricostruire il percorso logico-conoscitivo che lo abbia condotto ad apprezzare in un certo modo le prove disponibili ed a trarne determinate conclusioni: anzitutto per la propria consapevolezza, ma anche per gli eventuali riscontri da parte del giudice d’impugnazione. In particolare, come risulta testualmente richiesto tra i requisiti della sentenza dibattimentale, all’interno della motivazione non solo dovranno essere indicati i «criteri di valutazione della prova adottati», ma dovranno essere altresì enunciate le «ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie» (art. 546 comma 1° lett. e). Oltre al limite razionale derivante dall’obbligo della motivazione, il principio del libero convincimento del giudice incontra tuttavia (a testimonianza di una «libertà» suscettibile di esplicarsi soltanto entro i confini prefissati ex lege) anche alcuni limiti di tipo normativo, a parte la dichiarata irrilevanza degli sbarramenti probatori «stabiliti dalle leggi civili» (rectius, non penali), con l’unica eccezione per quelli concernenti lo stato di famiglia e di cittadinanza (art. 193). 71 Più precisamente, è lo stesso art. 192 ad enunciare due specifiche regole di giudizio, volte oggettivamente a circoscrivere la sfera di libero apprezzamento probatorio che la medesima disposizione riconosce al giudice per la formazione del proprio convincimento. 1. In primo luogo, su un piano generale, si esclude che a tale fine possano venire utilizzati elementi di natura soltanto indiziaria (si riflette qui, evidentemente, la classica distinzione tra «prove dirette» ed «indizi», questi ultimi intesi nel senso di prove critiche indirette: retro, § 3), a meno che i medesimi possano qualificarsi come «gravi, precisi e concordanti», secondo la tradizionale formula mutuata dalla disciplina civilistica delle presunzioni (art. 2729 c.c.). Quando si accerti una simile caratterizzazione degli indizi entrati nella sfera conoscitiva del giudice, infatti, la regola probatoria risulta ribaltata: gli indizi, così intesi nel loro organico complesso, assumono valenza di prova, e diventano senz’altro idonei ad integrare la piattaforma di convincimento, da cui può essere desunta «l’esistenza di un fatto» (art. 192 comma 2°). 2. In secondo luogo, ma questa volta con riferimento alla peculiare situazione dei coimputati del medesimo reato, ovvero degli imputati in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 (al cui esame, qualora si proceda separatamente, devono applicarsi le disposizioni dettate nell’art. 210, trattandosi di soggetti ex art. 197 incompatibili con l’ufficio di testimone), si stabilisce che le dichiarazioni, di natura sostanzialmente testimoniale, provenienti da una di tali persone non possano venire valutate ex se, ma debbano sempre esserlo «unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità» (art. 192 comma 3°). E lo stesso vale anche nei confronti delle dichiarazioni rese dall’imputato di un «reato collegato» a quello per cui si procede, nell’ipotesi di collegamento probatorio ai sensi dell’art. 371 comma 2° lett. b (art. 192 comma 4°); nonché nei confronti delle dichiarazioni rese dall’imputato che abbia assunto l’ufficio di testimone, per effetto del disposto ex art. 197-bis comma ultimo (infra, § 8). In tal modo il codice sembra configurare, in sostanza, una sorta di presunzione relativa di inattendibilità delle suddette dichiarazioni (tra le quali rientrano, ovviamente, le ipotesi di «chiamata in correità», oltreché ogni altra dichiarazione erga alios proveniente dalle persone ivi indicate), ammettendo che di esse possa tenersi conto unicamente quando siano stati acquisiti altri elementi probatori (prove o indizi) idonei a comprovarne la credibilità, da soli od anche nell’ambito di una valutazione congiunta di questi ultimi con le prime. È palese la deroga così apportata al principio del libero convincimento del giudice – attraverso la ricezione degli indirizzi giurisprudenziali già affermatisi circa l’esigenza del riscontro probatorio estrinseco in ordine alle chiamate in correità – come pure sono intuibili i condizionamenti che più o meno recenti esperienze giudiziarie possono avere esercitato su una soluzione del genere. La quale, in definitiva, non esclude la utilizzabilità probatoria delle dichiarazioni rese dal coimputato dichiarante sull’altrui responsabilità (salvo il problema delle modalità di acquisizione al processo delle medesime dichiarazioni, da risolversi alla luce dell’art. 111 Cost.); ma, nell’imporre a valutazione unitaria delle stesse insieme agli altri elementi «che ne confermano l’attendibilità», finisce di necessità per subordinarla, nel momento valutativo, al concreto vaglio di tali elementi di riscontro ab externo, naturalmente rimesso all’apprezzamento dello stesso giudice. Con riguardo al quale nulla vieta che i predetti «elementi di prova» – da valutarsi “a conferma” – possano essere rappresentati anche da dichiarazioni di un diverso coimputato, seppure acquisite soltanto mediante contestazione, ovvero mediante lettura, in sede dibattimentale. Si potrà magari discutere una simile scelta normativa (ricalcata, peraltro, su una classica tradizione dottrinale), anche da opposti punti di vista, ma non c’è dubbio che essa abbia il merito di imporre al giudice un preciso impegno di verifica in vista della corroboration di dichiarazioni particolarmente delicate per la loro provenienza, facendogli intendere che, in assenza dei necessari elementi di supporto, le medesime non potrebbero venire utilizzate ai fini della decisione. D’altro canto, tale scelta, presupponendo che le dichiarazioni del coimputato chiamante in correità non possano accantonarsi come elementi probatori ex lege inutilizzabili, evita di per sé il rischio della aprioristica esclusione dell’impiego di prove che, in molti casi, l’esperienza ha dimostrato preziose fonti per la conoscenza dei fatti. Tutto dipenderà, allora, dall’esito degli sforzi realizzati dal giudice al fine di vagliare la sussistenza e la adeguatezza di ulteriori elementi probatori, capaci di corroborare le suddette dichiarazioni del coimputato, facendole così rientrare nella sfera del convincimento giudiziale. Ed è palese che, in questo contesto, torna ad emergere la logica del libero convincimento, quale dovrà esprimersi nella motivazione circa la sufficienza e l’attitudine di tali «altri elementi» ad attestare l’attendibilità della prova così «confermata». Una motivazione che, naturalmente, sarà suscettibile di censura in Cassazione (art. 606 comma 1° lett. c e e) sia nel caso in cui le dichiarazioni di cui all’art. 192 commi 3° e 4° siano state utilizzate come prove nonostante l’assenza di adeguati riscontri, sia nell’opposto caso in cui delle medesime non si sia fatto uso nonostante la possibilità di 72 addivenire ai necessari riscontri (ad esempio, per avere omesso il giudice di merito l’esame di alcuni elementi potenzialmente idonei a rendere credibili le suddette dichiarazioni). Da ultimo, una ulteriore ipotesi di limite al principio del libero convincimento del giudice – sia pure circoscritto alla prova della «colpevolezza dell’imputato» – è quella che si esprime nel divieto di valutazione sancito dall’art. 526 comma 1-bis, con l’escludere che tale prova possa essere ottenuta sulla base di «dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore». Dove, evidentemente, si è operata una trasposizione nel tessuto codicistico della regola enunciata nella seconda parte dell’art. 111 comma 4° Cost., da cui risulta come – a livello costituzionale – la relativa regola probatoria operi nelle sole ipotesi in cui il dichiarante si sia «sottratto» all’esame in contraddittorio (non anche, dunque, nelle ipotesi in cui si sia sottoposto all’esame, pur rendendo dichiarazioni difformi da quelle rilasciate in precedenza al di fuori del contraddittorio). 8. La testimonianza Come si è già ricordato, dopo il titolo dedicato alle disposizioni generali in materia probatoria il libro III del codice colloca in due titoli separati la disciplina dei singoli mezzi di prova (artt. 194-243) e, rispettivamente, dei mezzi di ricerca della prova (artt. 244-271), operando una distinzione che trova le sue ragioni nella diversa incidenza di tali mezzi sui meccanismi di formazione del convincimento del giudice. In particolare, mentre i mezzi di prova (testimonianze, esami delle parti, confronti, ricognizioni, esperimenti giudiziali, perizie, documenti) si caratterizzano per la loro attitudine ad offrire al giudice dei risultati direttamente utilizzabili ai fini della decisione, lo stesso non può dirsi, invece, per i mezzi di ricerca della prova (ispezioni, perquisizioni, sequestri, intercettazioni telefoniche), che non integrano di per sé una fonte del convincimento giudiziale, ma risultano funzionalmente diretti a permettere l’acquisizione di cose, tracce, notizie o dichiarazioni idonee ad assumere rilevanza probatoria. Da un diverso punto di vista, la distinzione si giustifica anche sotto un profilo più squisitamente tecnico ed operativo, dal momento che i mezzi di ricerca della prova si caratterizzano specialmente in quanto diretti a propiziare l’acquisizione al processo (per lo più attraverso atti fondati sulla sorpresa) di elementi probatori in vario modo precostituiti rispetto al medesimo, laddove i mezzi di prova si qualificano, al contrario, per la loro funzionalità ad assicurare la formazione della prova in sede processuale. Non deve meravigliare, quindi, che la disciplina degli uni sia stata tenuta distinta da quella degli altri, anche per sottolineare a livello sistematico come nel caso dei mezzi di prova l’attenzione legislativa debba soprattutto concentrarsi sulle modalità di assunzione in iudicio della prova medesima, diversamente da quanto accade nel caso dei mezzi di ricerca della prova, riguardo ai quali assume prioritaria importanza il regime delle modalità di individuazione e di ingresso nel processo di elementi in vario modo preesistenti rispetto allo svolgimento processuale. Tutto ciò premesso, non essendo possibile soffermarsi dettagliatamente in questa sede sulla regolamentazione dei singoli mezzi (di prova o di ricerca della prova) disciplinati dal libro III nel loro versante statico, converrà almeno sottolineare gli aspetti di maggiore importanza di tale disciplina, cominciando dai mezzi di prova destinati ad assumere un risalto primario in sede dibattimentale, quale momento centrale della relativa istruttoria: vale a dire l’esame testimoniale e l’esame delle parti. Quanto alla tematica della testimonianza (artt. 194-207), il cui oggetto ed i cui limiti risultano definiti con sufficiente chiarezza dall’art. 194 – dove spicca, tra l’altro, la prevista possibilità che l’esame del testimone si estenda anche alle diverse circostanze «il cui accertamento è necessario per valutarne la credibilità» – merita anzitutto d’essere posta in luce la articolata normativa dettata per il fenomeno della c.d. testimonianza indiretta (art. 195). Più precisamente, da un lato, viene sancita, in termini generali, la inutilizzabilità della deposizione di chi non possa o non voglia indicare la persona o la fonte da cui abbia appreso la notizia al centro dell’esame testimoniale (art. 195 comma 7°). E di qui deriva il tradizionale corollario rappresentato – come si vedrà tra breve – dal divieto di acquisizione e di impiego delle notizie provenienti dagli informatori confidenziali, dei quali gli organi di polizia e dei servizi di sicurezza non abbiano rivelato i nomi, essendo espressamente facoltizzati a tacerli anche di fronte al giudice (art. 203). Il tutto in applicazione del principio che vieta le testimonianze di provenienza anonima. 75 Anzitutto si stabilisce, attraverso una previsione inedita rispetto alla ordinaria figura testimoniale, che nelle ipotesi in questione il testimone venga assistito da un difensore (di qui la formula, ormai diffusa nella prassi, di “testimone assistito”), con l’ulteriore precisazione relativa alla nomina di un difensore d’ufficio nel caso di mancanza di un difensore di fiducia. E, sebbene a questo difensore non venga attribuito un «diritto di partecipare all’esame» del tipo di quello spettante, invece, al difensore dei soggetti (imputati in un procedimento connesso che «non possono assumere l’ufficio di testimone») ai quali si riferisce l’art. 210 comma 4°, non sembra tuttavia dubbio che al medesimo difensore debba riconoscersi sia il diritto di presenziare all’esame dei testimoni di cui tratta l’art. 197-bis (nonché all’audizione dei medesimi soggetti prevista dagli artt. 351 comma 1° e 362, stante il rinvio ivi operato al suddetto art. 197-bis) sia, in quella sede, il diritto di formulare richieste, osservazioni e riserve, ovviamente a tutela della posizione del testimone assistito e delle corrispondenti prerogative sul versante dei limiti al dovere testimoniale. A tale proposito, per quanto concerne più specificamente gli «obblighi» di quest’ultimo testimone di fronte al giudice (o ad altra autorità interrogante, in particolare nel caso degli artt. 351 comma 1° e 362) va sottolineato come, in aggiunta alla clausola generale derogatoria sancita ex art. 198 comma 2° (di cui si dirà tra breve), l’art. 197-bis comma 4° individui due altre specifiche ipotesi con riferimento alle quali il medesimo testimone «non può essere obbligato a deporre», e quindi può legittimamente rifiutarsi di rispondere alle relative domande. In primo luogo, quando si versi in una delle situazioni previste dal 1° comma del predetto art. 197-bis, si stabilisce che il testimone è esonerato dall’obbligo di deporre sui fatti per i quali in giudizio sia stata pronunciata a suo carico sentenza irrevocabile di condanna (non anche, dunque, sentenza di applicazione della pena ex art. 444, attesa la esplicita distinzione tra le due sentenze rimarcata nello stesso 1° comma), allorché nel procedimento egli «aveva negato la propria responsabilità» (da intendersi in senso stretto, con riguardo al fatto storico), ovvero «non aveva reso alcuna dichiarazione» 4. Inoltre, quando si versi in una delle situazioni previste dal successivo 2° comma dell’art. 197- bis, si stabilisce che il testimone è del pari esonerato dall’obbligo di deporre su fatti concernenti «la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti», così integrandosi e specificandosi il già ricordato principio per cui nessun testimone può essere obbligato a deporre su fatti «dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale» (art. 198 comma 2°). Ma non è tutto, poiché accanto a queste garanzie, destinate ad operare ex ante, cioè come altrettanti limiti rispetto alla ordinaria estensione dei doveri testimoniali (col risultato di consentire ai testimoni in questione di sottrarsi ad eventuali domande per loro pregiudizievoli sotto il profilo del canone «nemo tenetur se detegere»), il 5° comma dell’art. 197-bis si preoccupa di predisporre anche un diverso tipo di garanzia, destinata ad operare ex post, cioè con riferimento al potenziale ambito di impiego processuale delle dichiarazioni comunque rese dall’imputato che abbia assunto l’ufficio di testimone a norma dello stesso art. 197-bis. Più precisamente, si prescrive che tali dichiarazioni non possano essere utilizzate «contro» la persona da cui provengano non solo nel procedimento a suo carico, ove ancora in corso (e potrebbe anche trattarsi dello stesso procedimento in cui tale persona avesse assunto veste testimoniale ex art. 197-bis comma 2°), ma nemmeno nell’eventuale procedimento di revisione della sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti, né in qualsiasi altro giudizio civile o amministrativo relativo al fatto oggetto di tali procedimenti o di tale sentenza. Si tratta di una classica previsione di chiusura (come risulta palese dal suo stesso esordio, attraverso la formula «in ogni caso»), grazie alla quale viene assicurata all’imputato dichiarante sul fatto altrui una sorta di garanzia “ombrello” idonea a funzionare a largo raggio rispetto a tutte le dichiarazioni da lui rese in qualità di testimone ex art. 197-bis: nel senso, cioè, di escludere qualunque tipo di utilizzabilità processuale di tali dichiarazioni a danno del loro autore, essendo state esse rilasciate dal medesimo nell’adempimento dell’ufficio testimoniale, e quindi sul presupposto (ancorché in parte qua erroneo) di non potersi sottrarre alla relativa deposizione. Per questa via, evidentemente, il legislatore ha inteso non lasciare dubbi sulla completezza della tutela riservata agli imputati, cui l’art. 197-bis riconosce il ruolo di testimone, dinanzi al rischio di eventuali ricadute contra se del contenuto delle dichiarazioni dagli stessi rese in sede di audizione testimoniale, ed è questa una soluzione sicuramente coerente alla logica interna del sistema. In armonia, del resto, con la ratio del meccanismo di salvaguardia previsto dall’art. 63 nei confronti del 76 soggetto che abbia reso dichiarazioni autoindizianti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria al di fuori del contesto garantistico tipico della posizione dell’imputato o della persona sottoposta alle indagini. Infine, secondo l’ultimo comma dell’art. 197-bis, alle dichiarazioni provenienti dai testimoni indicati nel medesimo articolo viene estesa la regola dettata nell’art. 192 comma 3°, nel senso di esigere che anche le suddette dichiarazioni, per assumere pieno valore probatorio, debbano venire corroborate da «altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità» (retro, § 7). Da un certo punto di vista, la previsione risulta meno comprensibile. Se da un canto fa chiarezza rispetto ad un problema che, in mancanza di una esplicita precisazione, si sarebbe probabilmente profilato in termini equivoci sul terreno interpretativo, dall’altro suscita qualche non infondata perplessità di fronte alla scelta legislativa di un ulteriore allargamento dell’ambito di operatività della regola di valutazione ex art. 192 comma 3° 5. Una regola di per sé eccezionale, in quanto limitativa del principio del libero convincimento, e comunque fondata su una presunzione legislativa di minorata attendibilità del dichiarante, che può apparire discutibile rispetto a soggetti ai quali (sebbene imputati nella posizione ormai più volte precisata) viene oggi formalmente riconosciuta la qualifica di testimone, ed oltretutto con le prerogative e le garanzie previste dall’art. 197-bis 6. Per quanto riguarda i doveri processuali cui è tenuto in via generale, salvo diversa disposizione di legge, il soggetto che assume la veste di testimone, l’art. 198 – dopo aver definito i tradizionali obblighi propri dell’ufficio testimoniale (obbligo di presentarsi al giudice, di attenersi alle prescrizioni e di rispondere veridicamente) – vi ricollega esplicitamente la classica garanzia contro il rischio della self-incrimination, stabilendo che il medesimo teste «non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale». La disposizione così consacrata nel 2° comma dell’art. 198, evidente espressione di un principio generale di cui non mancano nel sistema altri significativi riflessi (artt. 63, 64 comma 3° lett. b, 208, 209 e 210 comma 4°), tanto più in rapporto alla già ricordata posizione del c.d. “testimone assistito” (art. 197-bis comma 4°), non costituisce, tuttavia, l’unica eccezione all’obbligo del testimone di «rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte», poiché il legislatore ha avuto cura di confermare (e, per certi aspetti, di allargare) la tradizionale area delle deroghe a tale obbligo. Deroghe da inquadrarsi, per lo più – al di là della sfera di quel principio – tra gli effetti dei «segreti» opponibili allo stesso giudice, e modellate come altrettanti divieti (da valutarsi ex art. 191) rispetto all’assunzione della testimonianza in chiave obbligatoria, sia pure con diverse modulazioni, a seconda che in capo al testimone sussista una facoltà (artt. 199, 200 e 203), oppure un obbligo (artt. 201 e 202), di astenersi dal deporre. A parte la disciplina della testimonianza dei prossimi congiunti dell’imputato, imperniata sull’ordinario riconoscimento della facoltà di astensione e sul diritto al relativo avviso, a pena di nullità (art. 199) – salvo che abbiano presentato denuncia, querela o istanza, ovvero essi, od un loro prossimo congiunto, siano offesi dal reato – le deroghe all’obbligo della deposizione sono dunque riconducibili alla sfera dei segreti, cui la legge attribuisce rilevanza in sede di acquisizione probatoria. Per quanto riguarda l’ambito del segreto professionale (art. 200), oltre alle categorie tradizionalmente legittimate all’opposizione di tale segreto (quali risultano dalle lettere a, b e c dello stesso art. 200), va soprattutto segnalato il riferimento anche agli esercenti altri uffici o professioni cui la legge «riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale» (il che, alla lettera, appare tautologico, mentre sarebbe eccessivo ricollegare la facoltà in questione ad ogni ipotesi in cui le leggi professionali sanciscono genericamente l’obbligo del segreto). Un limite a tale facoltà è previsto, però, in rapporto ai casi in cui i soggetti elencati nell’art. 200 «hanno l’obbligo» di riferire all’autorità giudiziaria le notizie conosciute «per ragione del proprio ministero, ufficio o professione» (si pensi per esempio, quanto agli esercenti le professioni sanitarie, all’obbligo di referto sancito dall’art. 334, con riferimento all’art. 365 c.p.). Fermo restando il potere del giudice di ordinare che, in ipotesi del genere, il testimone deponga, tutte le volte in cui si sia convinto, dopo i necessari accertamenti, della infondatezza della dichiarazione di segretezza opposta dal medesimo per esimersi dal deporre, un regime particolare è previsto nei confronti dei giornalisti professionisti iscritti all’albo (esclusi, dunque, i pubblicisti), relativamente ai nomi delle persone che abbiano loro fornito notizie in via fiduciaria. Entro questi limiti anche ad essi viene estesa la normativa dettata per il segreto professionale, ma al giudice è sempre riservato il potere di obbligarli a rivelare l’identità di tali persone, quando le suddette notizie siano 77 indispensabili per la prova del reato, e la loro veridicità possa venire accertata solo attraverso l’identificazione della fonte fiduciaria (art. 200 comma 3°). Una disciplina analoga a quella dettata per la facoltà d’astensione dei titolari di un segreto professionale risulta estesa anche ai pubblici ufficiali, ai pubblici impiegati ed agli incaricati di un pubblico servizio in rapporto alla tematica del segreto d’ufficio, sia pure con la variante che ad essi compete non tanto la facoltà, quanto «l’obbligo di astenersi dal deporre» su fatti conosciuti per ragioni del loro ufficio «che devono rimanere segreti» (art. 201). Anche a questo proposito sono fatti salvi, tuttavia, i casi in cui tali soggetti «hanno l’obbligo» di riferirne all’autorità giudiziaria, sicché si deve ritenere che, in simili eventualità (ad esempio nelle ipotesi di denuncia obbligatoria ex art. 331, da ricollegarsi agli artt. 361 e 362 c.p.), la prevalenza riconosciuta a quest’ultimo obbligo, funzionale alle esigenze della giustizia, ripristini sul loro capo gli ordinari doveri testimoniali. Un aspetto peculiare della disciplina del segreto d’ufficio è rappresentato, infine, dalla prerogativa riconosciuta agli ufficiali ed agli agenti di polizia giudiziaria – ai quali vengono accomunati gli appartenenti ai servizi di sicurezza – di non rivelare i nomi dei propri informatori confidenziali, senza alcuna possibilità per il giudice di obbligarli a fornire le relative indicazioni, fermo in tal caso il già ricordato divieto di acquisizione e di utilizzo processuale delle informazioni provenienti dai medesimi (art. 203 comma 1°). A tale proposito si è inoltre ribadito, probabilmente ad abundantiam (retro, § 2), che la suddetta previsione di inutilizzabilità deve ritenersi operante anche nelle fasi diverse dal dibattimento (ivi comprese, per esempio, le fasi delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare), tutte le volte in cui gli informatori di polizia «non sono stati interrogati né assunti a sommarie informazioni» (art. 203 comma 1-bis). Dove, a parte la maldestra improprietà lessicale di quest’ultima precisazione, palesemente contaminata dal gergo della pratica di polizia, appare evidente la preoccupazione legislativa di sottolineare l’operatività della stessa clausola di inutilizzabilità nelle diverse fasi del procedimento: come risulta ribadito, in particolare, dall’esplicito richiamo effettuato all’art. 203 con riferimento alla valutazione dei «gravi indizi» richiesti dalla legge come presupposto dei provvedimenti in tema di intercettazioni telefoniche (art. 267 comma 1-bis) e di misure cautelari (art. 273 comma 1-bis). Quanto alle ipotesi di opposizione del segreto di Stato, in sede testimoniale, da parte degli stessi soggetti tenuti ad opporre il segreto d’ufficio, l’art. 202, originariamente ricalcato sulle linee della corrispondente direttiva della legge delega (art. 2 n. 70), è stato riformulato nell’ambito della più ampia riforma in materia di «sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto» (l. 3 agosto 2007, n. 124), fermo restando comunque l’obbligo di tali soggetti di «astenersi dal deporre su fatti coperti dal segreto di Stato» (così come definito dall’art. 39 di quest’ultima legge). In situazioni del genere è stato ribadito l’obbligo dell’autorità giudiziaria di rivolgersi al presidente del Consiglio dei ministri al fine di chiedere conferma della sussistenza di quel segreto, sospendendo nel frattempo ogni iniziativa volta ad acquisire «la notizia oggetto del segreto». Dopo di che, qualora entro trenta giorni la relativa conferma venga fornita (con «atto motivato», sulla scorta di un preciso insegnamento risalente alla sentenza costituzionale n. 86 del 1977, anche in vista dell’eventuale ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato), all’autorità giudiziaria sarà vietata l’acquisizione e l’utilizzazione «anche indiretta delle notizie coperte dal segreto». Per conseguenza, allorché il giudice reputi essenziale, ai fini della definizione del processo, la conoscenza delle notizie così inibite alla sua sfera cognitiva, potrà soltanto dichiarare con sentenza «non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato»7. Al di fuori di una simile eventualità, invece, il processo potrà proseguire, non essendo in ogni caso precluso all’autorità giudiziaria di procedere «in base a elementi autonomi e indipendenti» dagli atti, dai documenti e dalle cose «coperti dal segreto». Naturalmente il processo potrà proseguire, a maggior ragione, qualora il presidente del Consiglio dei ministri neghi la sussistenza di un tale segreto, o comunque non ne dia conferma entro trenta giorni dalla notificazione della corrispondente richiesta, essendo allora previsto che l’autorità giudiziaria possa senz’altro acquisire la notizia su cui era stato opposto il segreto (cioè, nella specie, possa ordinare che il testimone deponga), e provvedere quindi «per l’ulteriore corso del procedimento». A questo punto l’art. 202 comma 7° si preoccupa di descrivere per grandi linee quali siano le possibili alternative nell’ipotesi, non improbabile, in cui, a seguito della conferma della sussistenza del segreto di Stato da parte del presidente del Consiglio, venga sollevato ad opera dell’autorità giudiziaria conflitto di attribuzione di fronte alla Corte costituzionale (alla quale «in nessun caso il segreto di Stato è opponibile»). Al riguardo, qualora il conflitto venga risolto nel senso della insussistenza del segreto, si stabilisce che il presidente del Consiglio non possa più 80 • processi diversi da quello in cui rivestano formalmente la qualità di imputati (ma anche nei processi in cui rivestano tale qualità, ove l’esame si riferisca al fatto altrui, secondo quanto aveva insegnato a suo tempo la giurisprudenza costituzionale: infra, cap. VII, § 18), essi vengano di regola esaminati a richiesta di parte, ma possano, o meglio debbano, esserlo anche d’ufficio, allorché ai medesimi sia stato fatto riferimento nell’ambito di una testimonianza, o di un esame, di natura indiretta (art. 210 comma 1°) 10. E, in questa sede particolare, contrariamente alla scelta operata a proposito dell’esame dell’imputato, si applicano sempre le disposizioni dettate dall’art. 195 per l’ipotesi della testimonianza de relato, come risulta dall’art. 210 comma 5°, che rende in ogni caso applicabile anche il disposto dell’art. 194 (retro, § 8). Quanto alle forme di svolgimento dell’esame, lo stesso art. 210 comma 5° fa esplicito riferimento agli artt. 498, 499 e 500, assumendo, dunque, come modello di base quello dell’esame dei testimoni, sia pure con le peculiarità necessariamente imposte dalla atipica posizione processuale delle persone che devono esservi assoggettate (ad esempio in rapporto alla prevista partecipazione del loro difensore). • Per il resto, la disciplina dell’esame dei soggetti in questione risulta costruita sulla base di un assetto intermedio tra quello del testimone e quello dell’imputato: da un lato sotto il profilo del richiamo delle norme concernenti la citazione (ai sensi dell’art. 142 disp. att.), l’obbligo di presentazione e l’eventuale accompagnamento coattivo dei testimoni (art. 210 comma 2°); dall’altro sotto il profilo della necessaria assistenza difensiva, se del caso anche attraverso la nomina di un difensore d’ufficio, ove manchi quello di fiducia, salvo comunque il diritto del difensore di partecipare all’esame (art. 210 comma 3°); nonché, ancora, sotto il profilo dell’esplicito riconoscimento a tali soggetti del diritto al silenzio, del resto coessenziale alla loro qualità di imputati in un procedimento connesso, evidentemente allo scopo di tutelarli rispetto al rischio di dichiarazioni contra se, che potrebbero essere utilizzate a loro carico nel procedimento di provenienza. Ne deriva che il coimputato potrà essere sempre costretto a soggiacere all’esame diretto, salvo il diritto ad essere avvertito della facoltà di non rispondere, come se si trattasse di un interrogatorio (art. 210 comma 4°). Quanto all’ambito di operatività dell’istituto disciplinato dall’art. 210 occorre precisare, come si diceva poco sopra, che con l’introduzione nel sistema processuale penale dell’art. 197-bis (retro, § 8) tale ambito si è ovviamente ridotto rispetto a quello definito dal testo previgente del medesimo art. 210, il cui 1° comma è stato infatti modificato circoscrivendo la cerchia soggettiva dei destinatari della procedura ivi descritta. Ne deriva che i soggetti cui dovrà applicarsi la particolare disciplina dell’esame attualmente prevista dall’art. 210 sono soltanto quelle non ricomprese nell’area degli imputati che a norma dell’art. 197-bis «assumono l’ufficio di testimone». Ciò significa, in altri termini, che lo speciale meccanismo di acquisizione della prova dichiarativa ex art. 210, con le sue innegabili peculiarità, tra le quali il già ricordato riconoscimento al soggetto esaminato della «facoltà di non rispondere» anche sul fatto altrui (da coordinarsi con il richiamo alla disciplina dell’art. 500, come emerge dall’art. 210 commi 4° e 5°), risulta oggi riservato, anzitutto, alle persone «imputate in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 comma 1 lett. a», le quali «non possono assumere l’ufficio di testimone» (in corrispondenza, dunque, al caso di incompatibilità a testimoniare previsto dall’attuale art. 197 lett. a). Per quanto riguarda, invece, le persone «imputate in un procedimento connesso ai sensi dell’art. 12 comma 1 lett. c o di un reato collegato a norma dell’art. 371 comma 2 lett. b», occorre distinguere sulla base della loro precedente condotta processuale, in forza del combinato disposto degli artt. 210 comma 6° e 197-bis comma 2° (questa volta in corrispondenza al caso di incompatibilità a testimoniare previsto dall’attuale art. 197 lett. b). Più precisamente, dispone a quest’ultimo proposito il 6° comma dell’art. 210 che la disciplina contenuta nell’intero articolo debba applicarsi anche ai soggetti in questione, ma solo quando i medesimi «non hanno reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato». Attraverso una simile precisazione ci si riferisce – a ben vedere – sia all’ipotesi in cui tali persone non siano mai state sentite da alcuna autorità interrogante, sia all’ipotesi in cui, pur essendo state interrogate, non abbiano reso in tale sede alcuna dichiarazione sull’altrui responsabilità. Sennonché a queste ipotesi sembra doversi equiparare anche quella in cui le suddette persone abbiano bensì reso dichiarazioni sul fatto altrui, nel corso del loro interrogatorio, ma senza avere ricevuto l’avvertimento ex art. 64 comma 3°, con la conseguenza della inutilizzabilità di simili dichiarazioni (e soprattutto, per quel che qui importa, con la conseguenza della impossibilità, da parte del soggetto dichiarante, di assumere veste testimoniale in ordine a tale fatto). 81 Con riguardo a tutte queste ipotesi è previsto, dunque, che in linea di regola la disciplina dettata nell’art. 210 si applichi anche agli imputati (non precedentemente dichiaranti sull’altrui responsabilità) cui allude il 6° comma dello stesso articolo. Tuttavia, si prevede altresì che a tali soggetti, pur chiamati per essere esaminati a norma dell’art. 210, venga comunque dato l’avvertimento previsto dall’art. 64 comma 3° lett. c, nel qual caso, ove non si avvalgano della facoltà di non rispondere, gli stessi assumeranno l’ufficio di testimone (ovviamente «su fatti che concernono la responsabilità di altri»): come sarebbe stato, cioè, se già in precedenza essi avessero reso dichiarazioni «concernenti la responsabilità dell’imputato» 11. In ipotesi del genere al loro esame dovranno applicarsi, pertanto, non solo le disposizioni relative alla deposizione testimoniale richiamate dal 5° comma dell’art. 210 ai fini dell’esame ivi previsto, ma anche, in evidente raccordo con l’ufficio di testimone ormai assunto dall’imputato dichiarante, le disposizioni dettate dagli artt. 197-bis e 497: ivi compreso, quindi, l’avvertimento al testimone «dell’obbligo di dire la verità» (naturalmente da coordinarsi con il secondo periodo dell’art. 197-bis comma 4°). 10. Confronti, ricognizioni ed esperimenti giudiziali Riguardo alle figure dei confronti (artt. 211-212), delle ricognizioni (artt. 213-217) e degli esperimenti giudiziali (artt. 218-219), va anzitutto rilevata la scelta diretta a dislocarne la disciplina in capi distinti, ovviamente allo scopo di evidenziare l’autonomia sul piano sistematico dei diversi mezzi probatori. Cominciando dai confronti, ammessi «esclusivamente» fra persone «già esaminate o interrogate», nel caso di dichiarazioni in contrasto «su fatti e circostanze importanti» (art. 211), si tratta di un mezzo che dovrebbe trovare largo impiego anche, se non soprattutto, nel corso delle indagini preliminari (non a caso il relativo potere viene testualmente riconosciuto al pubblico ministero ex art. 364 comma 1°), pur al di là dell’ipotesi prevista in termini espressi con riferimento all’incidente probatorio (art. 392 comma 1° lett. e). Circa le modalità dell’atto, ne risulta evidenziata la funzione propulsiva attribuita al giudice nel richiamare le precedenti dichiarazioni – sulle quali i soggetti ammessi al confronto siano risultati in disaccordo – nonché nell’invitarli alle «reciproche contestazioni», quando le medesime siano state confermate. Il tutto, com’è naturale, nell’ambito di un rapporto dialettico a più voci, di cui dovrà essere dato puntuale riscontro in sede di verbale (art. 212). La disciplina delle ricognizioni si caratterizza in ispecie – sia che esse abbiano ad oggetto le persone (art. 213), sia che abbiano ad oggetto le cose (art. 215) – per la accuratezza e l’analiticità della descrizione degli adempimenti preliminari e, quindi, dei modi di svolgimento dell’atto (art. 214), evidentemente a causa di una certa diffidenza legislativa verso l’attendibilità dei risultati di questo delicato mezzo di prova. Addirittura si prevede che sia causa di nullità anche soltanto la mancata menzione, in sede di verbale, dell’osservanza delle forme prescritte per scandire la relativa procedura, dai suoi preliminari alla vera e propria attività ricognitiva (artt. 213 comma 3°, 214 comma 3° e 215 comma 3°). A quest’ultimo proposito va sottolineata l’attribuzione al giudice del potere-dovere di adottare, anche in sede dibattimentale, le necessarie cautele volte ad impedire che la persona chiamata ad effettuare la ricognizione possa subire intimidazioni da parte di quella sottoposta all’atto, disponendo che l’atto stesso «sia compiuto senza che quest’ultima possa vedere la prima» (art. 214 comma 2°). Merita di essere ricordata, ancora, l’apertura contenuta nell’art. 216 a proposito della ricognizione di voci, di suoni o «di quanto altro può essere oggetto di percezione sensoriale». Prevedendo l’ammissibilità di queste specie di ricognizioni, che per il loro oggetto (anche non predeterminato) si discostano da quelle specificamente regolate ex lege, e limitandosi a richiamare soltanto alcune delle disposizioni sancite per queste ultime «in quanto applicabili», il codice delinea qui una figura probatoria riconducibile all’ambito delle prove «non (del tutto) disciplinate dalla legge», per la quale dovranno quindi valere, anche in rapporto alle modalità di assunzione, i princìpi dettati nell’art. 189. Sia nel caso dei confronti, sia nel caso delle ricognizioni, è innegabile che la persona chiamata a compiere l’atto viene a trovarsi nella condizione di dover rilasciare dichiarazioni che – a seconda della sua posizione processuale – sono assimilabili per il loro contenuto informativo a quelle rese dall’imputato in sede di interrogatorio ovvero di esame ex art. 503, o, rispettivamente, dal testimone in sede di sommarie informazioni ovvero di esame ex art. 500. 82 Per conseguenza, quando si tratti dell’imputato (o, nella fase preliminare, della persona sottoposta alle indagini) non sembra dubbio che nei suoi riguardi debbano operare le garanzie ispirate al principio «nemo tenetur se detegere», quali si concretano nel riconoscimento al medesimo del diritto a non collaborare allo svolgimento dell’atto ovvero della facoltà di non rispondere alle domande che gli vengano rivolte. E le stesse garanzie devono valere anche nei confronti dei coimputati dello stesso reato, nonché degli imputati in un procedimento connesso o di un reato collegato: ivi comprese le ipotesi in cui a loro carico si proceda separatamente, in conformità al disposto dell’art. 210, e tenendo conto dei rilievi già svolti a proposito di quest’ultima disposizione 12. Quanto agli esperimenti giudiziali, mezzo di prova tipicamente finalizzato ad accertare se un fatto «sia o possa essere avvenuto in un determinato modo», attraverso la riproduzione della situazione e la ripetizione delle modalità relative al suo presumibile svolgimento (art. 218), la preoccupazione del legislatore si è appuntata soprattutto sull’esigenza di una maggiore specificazione in ordine alle forme da osservarsi per fare luogo alla relativa procedura, come risulta dal disposto dell’art. 219. Di qui la dettagliata previsione sia dei contenuti dell’ordinanza che abbia disposto l’esperimento (tra i quali l’eventuale nomina, da parte del giudice, di un «esperto» in vista dell’esecuzione di determinate operazioni, ovviamente non qualificabili come perizia), sia dei poteri del giudice diretti ad assicurare, mediante appositi provvedimenti, un efficace e corretto svolgimento dell’atto (ivi compresi i provvedimenti previsti dall’art. 471, se del caso anche fuori dell’aula d’udienza). In particolare, rimane confermato l’obbligo del giudice di provvedere affinché l’esperimento possa regolarmente svolgersi senza offendere «sentimenti di coscienza», e senza esporre a pericolo «l’incolumità delle persone o la sicurezza pubblica». 11. La perizia Dominata dall’esigenza del «riordinamento dell’istituto», esplicitamente previsto dalla legge delega (art. 2 n. 10) allo scopo di assicurare, tra l’altro, la «più idonea competenza tecnica e scientifica dei periti, nonché, nei congrui casi, l’interdisciplinarietà della ricerca peritale e la collegialità dell’organo cui è affidata», la disciplina della perizia (artt. 220-233) riveste una notevole importanza. Circa l’oggetto della perizia, esso risulta delineato in via generale dall’art. 220 comma 1° attraverso la definizione del presupposto di ammissibilità della prova peritale (che si configura, nel contempo, come presupposto del dovere del giudice di disporre la perizia), facendo cioè riferimento alle situazioni in cui «occorre svolgere indagini», ovvero «acquisire dati o valutazioni», i quali richiedano «specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche». Si tenga presente, al riguardo, per il suo importante significato strumentale rispetto alla disciplina della perizia in materia penale, che a norma dell’art. 45 comma 5° d.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 (regolamento di polizia mortuaria), allorché nel corso di un’autopsia non ordinata dall’autorità giudiziaria emerga «il sospetto che la morte sia dovuta a reato», il medico settore deve «sospendere le operazioni e darne immediata comunicazione all’autorità giudiziaria»: evidentemente affinché la stessa possa disporre gli accertamenti peritali del caso. Un’ipotesi particolare di perizia è quella prevista dall’art. 16 l. 15 febbraio 1996, n. 66, stando alla quale l’imputato per uno dei gravi delitti ivi indicati (contro la personalità dei minori o contro la libertà sessuale) dev’essere sottoposto «con le forme della perizia» ad accertamenti per l ’individuazione di «patologie sessualmente trasmissibili», tutte le volte in cui le modalità del fatto possano prospettare «un rischio di trasmissione delle patologie medesime». Tornando alle linee di fondo dell’istituto, quando il giudice accerti la sussistenza di una delle necessità indicate nell’art. 220 comma 1°, egli sarà obbligato ad ammettere – e, quindi, a disporre – la perizia anche d’ufficio, come si dà cura di precisare l’art. 224 comma 1°, prevedendo altresì il contenuto della relativa ordinanza, che accanto alla nomina del perito dovrà, tra l’altro, recare la «sommaria enunciazione dell’oggetto delle indagini». L’ammissibilità della perizia è esclusa in rapporto a determinati oggetti. Salvo quanto disposto in sede di esecuzione della pena o della misura di sicurezza (artt. 678 comma 2° e 679 comma 1°), infatti, sono vietate le perizie concernenti il carattere e la personalità dell’imputato, le forme qualificate di pericolosità sociale e, in genere, le sue qualità psichiche indipendenti da cause patologiche (art. 220 comma 2°): non è consentita, cioè, la perizia psicologica e criminologica, al di fuori della fase esecutiva. Mentre in rapporto alla tematica della incapacità, incompatibilità ed astensione del perito (artt. 222 e 223) non emergono profili di particolare risalto, per quel che riguarda la disciplina della sua nomina va sottolineata la preoccupazione legislativa di assicurare un adeguato livello di specifica qualificazione delle persone cui la perizia 85 sottoporne i contributi al giudice, quando pure quest’ultimo non abbia ritenuto necessario nominare un perito (su un piano diverso, anche se ovviamente collegato, si collocano poi i poteri attribuiti anche ai consulenti tecnici nel quadro delle investigazioni difensive previste dagli artt. 391-bis e seguenti). Dopo di che, qualora successivamente alla nomina del consulente tecnico il giudice si decidesse a disporre perizia, al medesimo consulente sarebbero riconosciuti i diritti e le facoltà ordinariamente previsti ex artt. 226 comma 2° e 230 (art. 233 comma 2°). Qualora, invece, la perizia non venisse disposta, si deve ritenere che il consulente tecnico possa di sua iniziativa svolgere le indagini e gli accertamenti consentitigli dalla oggettiva disponibilità (ad opera della parte che lo abbia nominato) delle persone, delle cose o dei luoghi assunti come oggetto della consulenza: col risultato non solo di fornire alla parte interessata gli apporti tecnici necessari per gli ulteriori sviluppi processuali, ma anche di porre il giudice nelle condizioni di non poter prescindere dal contenuto del parere e delle eventuali memorie che gli vengano presentate. Tanto più non essendovi ragione per escludere che anche il consulente tecnico nominato ex art. 233 (al quale possono essere attribuiti i poteri previsti dal comma 1-bis dello stesso articolo) possa venire sottoposto ad esame, nel corso del dibattimento, ai sensi dell’art. 501, proprio allo scopo di consentire l’acquisizione probatoria degli esiti delle sue indagini e delle sue valutazioni. 12. La prova documentale Raggruppando in un unico contesto le disposizioni relative alla prova documentale (artt. 234-243), il codice si è, anzitutto, preoccupato di assicurare una sistemazione unitaria all’istituto, operando inoltre una scelta concettuale di fondo, con riguardo alla nozione stessa di «documento». Lungo questa prospettiva si è tenuta distinta l’area dei «documenti» in senso stretto (formati fuori dall’ambito processuale, nel quale devono essere introdotti affinché possano acquistare rilevanza probatoria) da quella degli «atti» (formati all’interno del procedimento, e rappresentativi di quanto vi sia accaduto, come sono tipicamente i verbali), e soltanto ai primi si è riferita la disciplina in discorso, sulla base della definizione accolta nell’art. 234 comma 1°. Dove, accanto ai tradizionali «scritti», e con innegabile intento estensivo, viene consentita la acquisizione come documento di ogni altra cosa idonea a rappresentare «fatti, persone o cose» attraverso «la fotografia, la cinematografia, la fonografia e qualsiasi altro mezzo. Esclusa, in armonia con quanto già previsto a proposito della prova testimoniale (art. 194), la possibilità di acquisire documenti concernenti le «voci correnti nel pubblico», ovvero la «moralità in generale» delle parti e dei testimoni (art. 234 comma 3°), viene invece ammessa la acquisizione dei documenti necessari al giudizio sulla personalità dell’imputato e, se del caso, della persona offesa dal reato, ricomprendendovi anche quelli esistenti presso gli uffici pubblici di servizio sociale e presso gli uffici di sorveglianza (art. 236 comma 1°). Per i certificati del casellario giudiziale e per le sentenze divenute irrevocabili – nonché per le sentenze straniere riconosciute – si prevede, inoltre, che possano venire acquisiti, con evidente riferimento alla tematica dell’esame diretto, anche al fine di valutare la credibilità dei testimoni (art. 236 comma 2°). Sempre in relazione alla problematica dell’acquisibilità, va ricordato come di recente – nell’ambito della lotta al terrorismo, anche di matrice internazionale – sia stato introdotto dall’art. 2 comma 1-bis d.l. 18 febbraio 2015, n. 7, convertito con l. 17 aprile 2015, n. 43, l’art. 234-bis, in virtù del quale è sempre consentita l’acquisizione di documenti e dati informatici conservati all’estero, anche diversi da quelli disponibili al pubblico, previo consenso, in quest’ultimo caso, del legittimo titolare. Sulla base di una opportuna distinzione tra i documenti come ordinario mezzo di prova ed i documenti costituenti corpo del reato, un regime differenziato è stato sancito per questi ultimi, escludendosi che ad essi si applichi la comune disciplina relativa ai primi, e stabilendosi in via generale – del resto non senza riscontri in altre specifiche disposizioni (artt. 103 commi 2° e 6° e 240) – che i medesimi «devono essere acquisiti qualunque sia la persona che li abbia formati o li detenga» (art. 235): anche d’ufficio, quindi, del resto in sintonia con la corrispondente previsione in materia di sequestro, dove è altresì definita la nozione di «corpo del reato» (art. 253). Una normativa ad hoc è inoltre dettata per i documenti provenienti dall’imputato, nel senso che di essi è sempre consentita l’acquisizione «anche di ufficio», sebbene si tratti di documenti sequestrati presso altri o da altri prodotti (art. 237). Passando al problema nascente dall’incertezza circa la provenienza dei documenti, si prevede che ai fini della relativa verifica il documento venga sottoposto per il riconoscimento alle parti private ed ai testimoni (art. 239), 86 mentre relativamente ai documenti anonimi – rectius, contenenti «dichiarazioni anonime» – viene confermata la classica regola di esclusione, prescrivendosi che essi «non possono essere acquisiti, né in alcun modo utilizzati», a meno che «costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall’imputato» (art. 240 comma 1°). Nel qual caso, come è naturale, prevalgono le esigenze già espresse attraverso le disposizioni generali ex artt. 235 e 237. Da notare che, per effetto di una ambigua quanto opinabile scelta legislativa, derivante dal d.l. 22 settembre 2006, n. 259, convertito con l. 20 novembre 2006, n. 281, alla previsione base dettata nel 1° comma dell’art. 240 in materia di documenti anonimi è stata affiancata, nei commi successivi dello stesso articolo, una particolare disciplina concernente la sorte «dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti», nonché dei «documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni». Più precisamente vi si prevede – all’insegna della manifesta preoccupazione di evitare l’indebita “circolazione” di simili materiali dentro e fuori gli atti del procedimento – che di tali documenti e supporti il pubblico ministero debba disporre l’immediata secretazione e la custodia in luogo protetto, stabilendosi altresì che di essi sia comunque vietato effettuare copia e, soprattutto, che «il loro contenuto non può essere utilizzato» (nemmeno, sembrerebbe, come corpo del reato o come prova nei confronti degli autori delle suddette attività illecite, nel qual caso si tratterebbe di disposizione di assai dubbia ragionevolezza), salva restando, peraltro, la sua utilizzabilità come notizia di reato (art. 240 comma 2°). Nel medesimo ordine di idee si prescrive, inoltre, che nell’arco di termini molto brevi il pubblico ministero debba chiedere al giudice per le indagini preliminari la distruzione dei suddetti materiali, e che il giudice debba allo scopo fissare un’apposita udienza camerale in contraddittorio con le parti interessate, al termine della quale – ove se ne accertino i presupposti – dovrà essere pronunciato e subito eseguito il relativo provvedimento di distruzione (art. 240 commi 3°, 4° e 5°). Si prevede, infine, che di queste ultime operazioni venga redatto apposito verbale (suscettibile di lettura, a norma dell’art. 512 comma 1-bis), nel quale dovrà darsi atto anche «dell’avvenuta intercettazione o detenzione o acquisizione illecita» dei materiali in discorso, nonché dei mezzi usati e dei soggetti interessati, ma «senza alcun riferimento al contenuto degli stessi» materiali (art. 240 comma 6°). Ne risulta in tal modo delineata una procedura di eliminazione anticipata della prova (ivi compreso il corpo del reato, ed insieme anche atti e documenti configurabili come corpo di altri reati), che appare gravemente carente sotto il profilo della garanzia dei valori tutelati dagli artt. 24 comma 2°, 111 commi 2° e 4°, e 112 Cost., e perciò fortemente sospetta di incostituzionalità. Anche se dello stesso avviso non è stata la Corte costituzionale che, subito chiamata ad occuparsi della questione, ha circoscritto ad altri aspetti la propria declaratoria di illegittimità. Quanto alla ipotesi di falsità dei documenti, a parte l’eventualità in cui la stessa venga accertata e dichiarata con la sentenza di condanna o di proscioglimento (art. 537), stabilisce l’art. 241 che il giudice – ove ritenga falso uno dei documenti acquisiti – dopo la definizione del procedimento debba informarne il pubblico ministero, trasmettendogliene copia in vista degli adempimenti di sua competenza. È palese come, per questa via, si sia in sostanza riconosciuto al giudice penale il potere di accertare incidenter tantum l’eventuale falsità dei documenti, in sede di valutazione complessiva delle prove, rinunciandosi così a riproporre nel nuovo codice lo schema dell’impugnazione e del conseguente incidente di falso: una scelta coerente con l’opzione di fondo diretta alla abolizione della c.d. pregiudizialità penale (art. 2), che ovviamente non preclude al giudice la possibilità di operare accertamenti tecnici in ordine al documento sospettato di falsità, ma senza imporre la sospensione o il rinvio del procedimento fino alla pronuncia della sentenza definitiva sul falso. Notevole risalto assume, inoltre, la disciplina dettata nell’art. 238 per regolare l’ingresso nell’ambito processuale dei verbali relativi alle prove di altri procedimenti – non esclusi i procedimenti penali stranieri, ai sensi dell’art. 78 disp. att. – qui considerati alla stregua di documenti in ragione della loro provenienza ab externo rispetto al processo nel quale dovrebbero venire acquisiti (in forza di una procedura avviata dalla «espressa richiesta» di parte, nei modi previsti dall’art. 468 comma 4-bis). Adottandosi una impostazione coerente con gli ordinari limiti posti all’impiego probatorio delle risultanze degli atti compiuti nelle fasi preliminari al dibattimento, l’acquisizione dei verbali di prove di altri procedimenti penali è ammessa senza ulteriori condizioni, secondo i normali criteri di legge (così come, in genere, l’acquisizione dei verbali di prove assunte in un processo civile definito con sentenza passata in giudicato), solo quando si tratti di prove assunte nell’incidente probatorio o nel dibattimento (art. 238 commi 1° e 2°), mentre la stessa regola non vale per i verbali di cui sia stata data lettura in sede dibattimentale. È stato opportunamente precisato, tuttavia, che nel caso di acquisizione dei verbali di prove previste dal 1° e dal 2° comma, ove si tratti di verbali recanti dichiarazioni, essi sono utilizzabili – in omaggio al principio del contraddittorio – soltanto contro gli imputati i cui difensori abbiano partecipato alla loro assunzione, ovvero nei cui confronti fa stato la sentenza civile (art. 238 comma 2-bis). 87 È sempre ammessa, inoltre, l’acquisizione della documentazione di atti compiuti nel corso di altri procedimenti penali, ivi comprese le fasi preliminari, i quali anche per cause sopravvenute «non sono ripetibili» (art. 238 comma 3°). È stato inoltre precisato, sulla base di una previsione analoga a quella risultante dall’art. 512 (ma difficilmente riconducibile alla medesima ratio, trattandosi nel nostro caso di atti compiuti in «altri» procedimenti), che, nell’ipotesi di impossibilità di ripetizione dovuta a «fatti o circostanze sopravvenuti», l’acquisizione della relativa documentazione deve ritenersi consentita soltanto quando questi ultimi fatti o circostanze risultino «imprevedibili». Restano ferme, per altro verso, le limitazioni previste in ordine agli «atti non ripetibili compiuti dalla polizia straniera» (art. 78 comma 2° disp. att.), mentre è fatta salva, ovviamente, l’eventuale diversa disciplina risultante da specifiche disposizioni: qual è, ad esempio, l’art. 270 con riguardo all’utilizzabilità «in altri procedimenti» dei risultati delle intercettazioni telefoniche. Al di fuori delle ipotesi fin qui descritte, invece, l’acquisizione e la successiva utilizzazione dibattimentale dei verbali di altri procedimenti contenenti dichiarazioni (si pensi, soprattutto, alle dichiarazioni rese da testimoni, o da imputati in separati procedimenti connessi, nell’ambito delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare) è ammessa soltanto nei confronti dell’imputato che vi consenta. In assenza di tale consenso, i predetti verbali potranno essere utilizzati esclusivamente ai fini delle contestazioni in sede di esame dibattimentale, nei limiti e per gli effetti previsti dagli artt. 500 e 503 (art. 238 comma 4°). In ogni caso, come si preoccupa di precisare il 5° comma dell’art. 238, quando a norma dei commi precedenti siano stati acquisiti verbali di dichiarazioni provenienti da altri procedimenti, rimane fermo il diritto delle parti di ottenere, ai sensi dell’art. 190, l’esame delle persone che tali dichiarazioni abbiano rese (con le particolarità previste dall’art. 495 comma 1° e dall’art. 468 comma 4-bis quanto all’ammissione di tale esame ed alla successiva citazione della persona da esaminarsi), salva la già ricordata previsione speciale dell’art. 190-bis (retro, § 5). A parte quest’ultima eccezione, viene così garantita alle parti la possibilità di escutere direttamente nel contraddittorio dibattimentale le persone fonti delle dichiarazioni acquisite in forza dell’art. 238, i cui verbali in simili ipotesi sono destinati ad essere letti in dibattimento ex art. 511-bis solo dopo il corrispondente esame, sempreché la suddetta «nuova assunzione della stessa prova» abbia luogo (infra, cap. VII, § 12). Va ricordato, ancora, che per effetto dell’art. 238-bis – e fermo restando quanto previsto dall’art. 236 – è sempre consentita l’acquisizione delle sentenze divenute irrevocabili, ai fini della prova dei fatti in esse accertati. Ovviamente nei limiti dei criteri di pertinenza fissati dall’art. 187, ma con l’importante precisazione che esse potranno valere come prova dei fatti accertati, a norma dell’art. 192 comma 3°, soltanto se confortate da altri elementi probatori di riscontro. Per quel che riguarda, infine, le modalità di introduzione nel processo delle prove documentali, va anzitutto ricordata – in rapporto al dibattimento – la regola desumibile dal combinato disposto degli artt. 495 e 515. Più precisamente, dopo che siano stati ammessi su richiesta di parte a norma dell’art. 495 (o, bisogna aggiungere, anche ex officio a norma dell’art. 507) i documenti dovranno essere inseriti nel fascicolo per il dibattimento, e perciò, come tali, potranno considerarsi legittimamente acquisiti: salva la possibilità di lettura ai sensi dell’art. 511, ma senza che quest’ultimo adempimento possa configurarsi come presupposto necessario per la loro acquisizione al processo (la lettura rappresenta invece, come si accennava poco sopra, a norma dell’art. 511-bis, il normale strumento di acquisizione processuale dei verbali di prove provenienti da altri procedimenti ex art. 238). Quanto alle fasi anteriori al dibattimento, assume rilievo la disciplina dettata con riferimento all’avviso di conclusione delle indagini preliminari (art. 415-bis comma 3°), nonché, specialmente, all’udienza preliminare, in vista della quale si stabilisce che – una volta avvenuto il deposito in cancelleria del fascicolo del pubblico ministero, contenente tutte le risultanze delle indagini preliminari (art. 416 comma 2°) – anche il difensore dell’imputato possa, tra l’altro, «produrre documenti» (art. 419 comma 2°, da leggersi tenendo conto delle «facoltà» previste ex art. 327-bis), i quali dovranno essere ammessi dal giudice prima dell’inizio della discussione (art. 421 comma 3°). Allo stesso modo dovranno essere ammessi i nuovi documenti eventualmente prodotti a seguito delle «ulteriori indagini» contemplate dall’art. 421-bis comma 1°, come pure quelli acquisiti dal giudice in virtù dei poteri di integrazione probatoria ex art. 422. Dopo di che, conclusasi l’udienza preliminare con il rinvio a giudizio, tra i documenti acquisiti in precedenza sono destinati a confluire nel fascicolo per il dibattimento ex art. 431 soltanto i certificati del casellario giudiziale ed i restanti atti indicati nell’art. 236 (nonché i documenti costituenti corpo del reato o, comunque, cose pertinenti al reato), mentre tutti gli altri documenti già raccolti dal pubblico ministero nel corso delle indagini, o successivamente prodotti ed ammessi ai fini dell’udienza stessa, entreranno a far parte del fascicolo del pubblico ministero formato ai sensi dell’art. 433 (e, quindi, potranno essere impiegati, se del caso, solo per le contestazioni ex artt. 500 e 503, ove non vengano ritualmente ammessi come prova in dibattimento). 13. Ispezioni e perquisizioni Passando all’area dei mezzi di ricerca della prova, il codice comincia con l’occuparsi di due tipici atti «a sorpresa», quali sono le ispezioni (artt. 244-246) e le perquisizioni (artt. 247-252), 90 1990, n. 309). Analogo potere è attribuito, poi, ai medesimi organi, nell’ambito di operazioni relative ai delitti previsti dagli artt. 416-bis, 648- bis e 648-ter c.p., nonché agli altri delitti indicati in questi ultimi articoli, ove abbiano fondato motivo di ritenere che possano essere rinvenuti denaro o valori costituenti il prezzo o il profitto di tali delitti, o comunque da essi provenienti, ovvero armi ed esplosivi (art. 27 l. 19 marzo 1990, n. 55). Resta fermo, inoltre, il potere attribuito in via generale agli organi di polizia, sempre in situazioni di necessità ed urgenza, di procedere ad «immediata perquisizione sul posto» di persone e di mezzi di trasporto «al solo fine di accertare l’eventuale possesso di armi, strumenti di effrazione ed esplosivi» (art. 4 l. 22 maggio 1975, n. 152), mentre è stato attribuito ai soli ufficiali di polizia giudiziaria il potere di procedere a perquisizioni locali anche di «interi edifici o blocchi di edifici». Più precisamente, si è stabilito (art. 25-bis d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con l. 7 agosto 1992, n. 356) che queste perquisizioni, durante il cui svolgimento potrà venire sospesa la circolazione di persone e di veicoli nelle aree interessate, quasi si trattasse di vere e proprie operazioni di rastrellamento urbano, possano venire disposte quando vi sia fondato motivo di ritenere che in tali edifici si trovino armi, munizioni ed esplosivi, ovvero che vi si sia rifugiato un latitante od un evaso in relazione a taluno dei delitti di criminalità organizzata indicati nell’art. 51 comma 3-bis, ovvero ai delitti aventi finalità di terrorismo (infra, cap. IV, § 14). Nella medesima prospettiva si colloca il potere, riconosciuto agli ufficiali di polizia giudiziaria, di procedere anche di loro iniziativa – qualora non sia possibile un tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria – alla perquisizione degli immobili, rispetto ai quali sussistano concreti elementi per «ritenere che l’autore se ne sia avvalso come luogo di riunione, di deposito o di rifugio, o per altre attività» connesse ai più gravi reati finalizzati alla discriminazione od alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (art. 5 comma 1° d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito con l. 25 giugno 1993, n. 205). Si tenga presente che in tutte le suddette ipotesi di perquisizioni di polizia si prevede – coerentemente con la regola dettata nell’art. 352 comma 4° (infra, cap. V, § 17) – che delle operazioni compiute venga data tempestiva notizia al procuratore della Repubblica in vista della eventuale convalida delle stesse, che dovrà sopravvenire entro le successive quarantotto ore, affinché i risultati così acquisiti possano venire utilizzati nel procedimento. 14. Il sequestro Nel tracciare la disciplina del sequestro penale il legislatore si è anzitutto preoccupato di distinguere questo particolare mezzo di acquisizione della prova (artt. 253-265) dalle diverse figure di sequestro che, pur concretandosi anch’esse nell’imposizione di un vincolo di indisponibilità sulla cosa, ubbidiscono invece ad una esigenza di natura eminentemente cautelare: ora, come si vedrà, con finalità «conservativa» (artt. 316-320), ora con finalità «preventiva» (artt. 321-323). La non equivoca caratterizzazione in chiave probatoria dell’istituto emerge già, del resto, dalla stessa definizione del suo oggetto, che l’art. 253 comma 1° individua facendo riferimento al «corpo del reato» ed alle «cose pertinenti al reato», le quali – si aggiunge con evidente accentuazione della dimensione finalistica – risultino «necessarie per l’accertamento dei fatti». Circa la nozione di corpo del reato, essa viene opportunamente precisata dal 2° comma dello stesso art. 253 (anche a beneficio delle numerose disposizioni che vi si richiamano), ricomprendendovi non solo le cose «sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso», ma anche quelle che «ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo». Si tratta, come si è già rilevato (retro, § 13), delle stesse cose per la cui ricerca può essere disposta perquisizione (art. 247), sicché è del tutto coerente con i meccanismi del sistema che si instauri un rapporto di logica consequenzialità tra perquisizione e sequestro. In altri termini, pur potendo ben accadere che il sequestro non sia preceduto da perquisizione – tanto più che la legge tende a favorire le forme di consegna (art. 248) o di esibizione (art. 256 comma 1°) delle cose da sequestrare – appartiene tuttavia all’ordine naturale delle sequenze di ricerca probatoria che «le cose rinvenute a seguito della perquisizione», ove questa abbia avuto buon fine, vengano «sottoposte a sequestro» (art. 252). Da tutto ciò parrebbe doversi desumere che, nell’ipotesi di perquisizione eseguita contra legem, dalla illegittimità della attività perquirente dovrebbe scaturire in via derivata la illegittimità del sequestro ad essa conseguente e, quindi, la inutilizzabilità come prova dei suoi risultati (secondo la nota teoria dei “frutti dell’albero avvelenato”, codificata nei limiti previsti dall’art. 191). Tuttavia, dopo una lunga serie di contrasti giurisprudenziali, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno ritenuto che la sanzione dell’inutilizzabilità non operi quando si tratti di sequestro ex art. 253 del «corpo del reato» o delle «cose pertinenti al reato», sulla base del rilievo che in tali ipotesi – essendo il sequestro comunque un «atto dovuto» – debba reputarsi irrilevante il modo con cui allo stesso si sia pervenuti, e debba invece prevalere l’obbligo dell’autorità procedente di disporre il sequestro. 91 Dopo avere rapidamente delineato i profili procedurali del sequestro, prescrivendo la necessità del decreto motivato (da consegnarsi in copia all’interessato, se presente) ad opera dell’autorità giudiziaria procedente, e stabilendo altresì che la medesima possa procedere all’atto sia di persona, sia a mezzo di un ufficiale di polizia delegato con il predetto decreto (art. 253) – ferma in ogni caso la redazione dell’apposito verbale (art. 81 disp. att.) – il codice passa quindi a disciplinare alcune fattispecie peculiari di sequestro, ovviamente prescindendo da quello presso i difensori, di cui poco sopra si è ricordata la specifica regolamentazione all’interno dell’art. 103. Rientrano in questa cornice le ipotesi del sequestro di corrispondenza, del sequestro presso banche, nonché le diverse figure di sequestro aventi ad oggetto atti o documenti rispetto ai quali venga eccepita la sussistenza di un segreto. Cominciando con il sequestro di corrispondenza, la disciplina dell’art. 254 (estesa anche al sequestro di oggetti di corrispondenza telematica presso i fornitori dei relativi servizi) prevede, da un canto, la sequestrabilità negli uffici postali di lettere, pieghi, pacchi e di ogni altro oggetto presumibilmente spedito dall’imputato, od a lui diretto (esclusa, come si è constatato ex art. 103, la corrispondenza «riconoscibile» tra imputato e difensore), o che comunque possa avere relazione con il reato. E, d’altro canto, qualora proceda al sequestro un ufficiale di polizia giudiziaria, prevede l’obbligo per il medesimo di consegnare gli oggetti sequestrati al magistrato senza aprirli né alterarli, e senza prendere in altro modo conoscenza del loro contenuto (in ottemperanza al disposto dell’art. 15 comma 2° Cost.). L’art. 254 comma 3° impone esplicitamente la immediata restituzione all’avente diritto delle carte e dei documenti sequestrati, laddove si accerti ex post la loro estraneità all’ambito della corrispondenza suscettibile di sequestro – anche al di fuori, dunque, della sfera di un formale divieto – con la conseguente previsione della inutilizzabilità dei medesimi sul piano probatorio. Una particolare disciplina di garanzia è dettata, infine, nell’art. 254-bis (introdotto dalla l. 18 marzo 2008, n. 48) con riferimento al sequestro – presso i fornitori di servizi informatici, telematici o di telecomunicazioni – dei dati dagli stessi detenuti, potendo in tal caso l’autorità giudiziaria stabilire che, per esigenze legate alla regolare fornitura dei medesimi servizi, la loro acquisizione avvenga mediante copia di essi su adeguato supporto, attraverso «una procedura che assicuri la conformità dei dati acquisiti a quelli originali e la loro immodificabilità». Anche in rapporto al sequestro presso istituti bancari non emergono dall’art. 255 peculiarità di grande rilievo, a parte la possibilità (che deve ritenersi sempre ammessa ex art. 253 comma 3°, non essendo stata esplicitamente esclusa) che l’esecuzione di tale atto venga delegata agli organi di polizia giudiziaria, d’altronde in linea con la già richiamata possibilità di delega agli stessi del potere di «esaminare atti, documenti e corrispondenza presso banche», a norma dell’art. 248 comma 2°. Per il resto, ed in evidente collegamento con quest’ultima disposizione, si prevede che presso le banche possano venire sequestrati documenti (ivi compresi, naturalmente, i c.d. documenti bancari), titoli, valori, somme ed ogni altra cosa, ancorché depositata o contenuta in cassette di sicurezza, quando si abbia fondato motivo di ritenere la loro pertinenza al reato, indipendentemente dal fatto che appartengano all’imputato o siano iscritti a suo nome: col che risulta manifestamente ribadita la insussistenza di alcun «segreto bancario» di fronte al potere di sequestro dell’autorità giudiziaria in sede penale. Più delicata appare, invece, la tematica dei rapporti tra sequestro e segreti: quegli stessi segreti, più precisamente, cui il codice attribuisce risalto nell’ambito della disciplina della prova testimoniale (retro, § 8), ai fini dell’esenzione dal relativo obbligo. Anche qui, tuttavia, non vi sono rilevanti particolarità da segnalare, essendo state in concreto ricalcate le linee della normativa già dettata a proposito dei rapporti tra testimonianza e segreti, sulla base del generale «dovere di esibizione» imposto alle persone indicate negli artt. 200 e 201, allorché venga loro richiesta dall’autorità giudiziaria la consegna di atti, documenti (ivi compresi dati e programmi informatici) edi ogni altra cosa di cui abbiano la disponibilità «per ragioni del loro ufficio, incarico, ministero, professione o arte». A meno che, si aggiunge, le medesime persone vi si oppongano, dichiarando per iscritto il vincolo derivante da un segreto professionale, o d’ufficio, ovvero da un segreto di Stato (art. 256 comma 1°). In ipotesi del genere, ove l’opposizione si riferisca all’esistenza di un segreto professionale o di un segreto d’ufficio, e l’autorità giudiziaria dubiti della fondatezza delle suddette dichiarazioni (ritenendo, nel contempo, di non poter procedere senza le corrispondenti acquisizioni), la medesima autorità potrà disporre i necessari accertamenti, a conclusione dei quali il sequestro dovrà essere ordinato, nel caso di accertata infondatezza dell’opposizione di quei segreti (art. 256 commi 1° e 2°). 92 Da notare che, sebbene l’art. 256 nulla dica al riguardo, nel caso di opposizione del segreto giornalistico il sequestro dovrà essere ordinato – simmetricamente a quanto disposto in tema di testimonianza (art. 200 comma 3°) – anche prescindendo dalla fondatezza, o meno, della relativa dichiarazione, allorché le notizie fornite dalla fonte fiduciaria del giornalista risultino indispensabili ai fini della prova del reato, e la loro veridicità possa venire accertata solo attraverso la identificazione di tale fonte. È questa una conclusione che si impone non solo sul piano di una corretta interpretazione sistematica all’interno del codice, ma anche in ossequio alla specifica direttiva della legge delega (art. 2 n. 70), che in materia di «segreto giornalistico» non distingue, e perciò non ammette distinzioni, tra la sfera della testimonianza e quella del sequestro. Allo stesso modo è da escludere – sempre in sintonia con la corrispondente previsione relativa alla prova testimoniale (art. 203) – che possano comunque venire sottoposti a sequestro gli atti ed i documenti contenenti i nomi degli informatori confidenziali, dei quali gli organi di polizia giudiziaria o dei servizi di sicurezza dichiarino di non voler rivelare l’identità. Anche in questa situazione non è pensabile, infatti, che il legislatore abbia inteso prevedere per il sequestro una disciplina diversa da quella dettata per la testimonianza: col risultato, tra l’altro, di vanificare per tale via le garanzie predisposte per la tutela del c.d. segreto di polizia, ovviamente entro i limiti sanciti dall’art. 203. Nell’ipotesi, infine, di opposizione del segreto di Stato, rispetto agli atti o documenti in questione, gli adempimenti prescritti all’autorità giudiziaria risultano corrispondenti a quelli delineati dall’art. 202 a proposito della analoga eventualità in ordine alla prova testimoniale, con il conseguente epilogo della sentenza di non doversi procedere nel caso di conferma del segreto (al più tardi «entro sessanta giorni»), da parte del presidente del Consiglio dei ministri, su una prova ritenuta dal giudice essenziale per la definizione del processo. Mentre, allorquando tale conferma non venga tempestivamente fornita, l’autorità giudiziaria potrà senz’altro disporre il sequestro degli stessi atti o documenti. Resta comunque fermo, anche in rapporto alla disciplina del sequestro, il principio sancito dall’art. 204 (con le precisazioni fornite dall’art. 66 disp. att.), nel senso di non ammettere la opponibilità del segreto d’ufficio o di Stato ex artt. 201, 202 e 203 su «fatti, notizie e documenti concernenti reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzionale», ovvero concernenti gli altri delitti indicati nello stesso art. 204 comma 1°, e nemmeno nelle situazioni descritte dai successivi commi 1-bis e 1-ter (art. 256 commi 3°, 4° e 5°). Si tenga presente che, a seguito della già menzionata legge n. 124 del 2007, una disciplina particolare è stata dettata, con l’art. 256-bis, per l’acquisizione, ad opera dell’autorità giudiziaria, di documenti (ovvero di atti o di altre cose) presso le sedi dei servizi di informazione per la sicurezza, nell’eventualità in cui dai responsabili dei relativi uffici non venga eccepito il segreto di Stato. In queste ipotesi si prevede che l’autorità giudiziaria, dopo aver proceduto – mediante uno specifico ordine di esibizione – all’esame «sul posto» dei suddetti documenti, e dopo avere acquisito solo quelli «strettamente indispensabili» alle indagini (con le cautele imposte dall’art. 42 comma 8° della suddetta legge, nel caso di acquisizione di «documenti classificati», a tutela della loro riservatezza), possa rivolgersi al presidente del Consiglio dei ministri, sollecitandone una decisione, ove ritenga che i documenti esibiti non siano quelli richiesti, o siano incompleti. Al medesimo presidente dovrà invece necessariamente rivolgersi l’autorità giudiziaria quando intenda acquisire un documento «originato da un organismo informativo estero» e «trasmesso con vincolo di non divulgazione», essendo in tal caso prevista la sospensione dell’esame e della consegna, nell’attesa che il presidente del Consiglio (dopo aver assunto le necessarie iniziative presso l’autorità estera) adotti le relative determinazioni, autorizzando l’acquisizione del documento, ovvero opponendo il segreto di Stato «entro sessanta giorni». Qualora invece, al di là di quest’ultima peculiare evenienza, il responsabile dell’ufficio detentore dei documenti da acquisirsi eccepisca il segreto di Stato, dispone l’art. 256-ter (da leggersi, evidentemente, in chiave integrativa rispetto alla disciplina già dettata nell’art. 256 commi 3° e 4°) che l’esame e la consegna degli stessi debba venire sospesa, per farsi luogo alla loro immediata trasmissione al presidente del Consiglio dei ministri. Il quale, quindi, verrà a trovarsi nell’alternativa, consueta in situazioni del genere, tra l’autorizzare l’acquisizione di tali documenti ovvero il dare conferma del segreto di Stato, salva comunque la precisazione per cui, allorquando il presidente non si pronunci per la conferma del segreto «entro trenta giorni» dalla suddetta trasmissione (dunque, entro un termine inspiegabilmente dimezzato rispetto all’analogo termine previsto dall’art. 256 comma 4°), l’autorità giudiziaria potrà procedere all’atto acquisitivo. Il decreto di sequestro – che dev’essere motivato mediante l’enunciazione del fatto di reato e la dimostrazione, sia pure sintetica, della necessità ai fini dell’accertamento – è impugnabile mediante richiesta di riesame, per la quale viene richiamata la procedura descritta nell’art. 324, con riguardo alla parallela richiesta contro i decreti di sequestro conservativo e preventivo (art. 257). Da notare che quando il sequestro riguarda i dati informatici memorizzati in un personal computer, di regola l’apparecchio viene immediatamente restituito, previa estrazione di copia integrale (clonazione) della memoria: ciò nondimeno, secondo l’orientamento delle Sezioni unite della Corte di cassazione, l’impugnazione del decreto è ugualmente ammissibile se viene dedotto l’interesse concreto ed attuale alla esclusiva disponibilità dei dati per ragioni di privacy (con specifico riferimento ai dati sensibili non necessari per l’accertamento dei fatti). Prescindendo in questa sede dalla dettagliata regolamentazione concernente sia il rilascio di copie, estratti e certificati dei documenti sequestrati, sempre corredati dalla menzione dell’avvenuto sequestro (art. 258), sia, più in generale, la custodia delle cose sequestrate (art. 259 e art. 82 disp. att.), nonché la loro assicurazione mediante sigilli (artt. 260 e 95 Più precisamente, in questa prospettiva si prevede che, di regola, l’intercettazione possa venire disposta dal pubblico ministero solo a seguito di autorizzazione da parte del giudice per le indagini preliminari, il quale vi provvederà con decreto motivato – nella propria qualità di organo garante delle libertà individuali– quando, in presenza di «gravi indizi» di reato, non necessariamente già orientati a carico di una determinata persona, la intercettazione stessa risulti «assolutamente indispensabile» per la prosecuzione delle indagini (ovvero necessaria, in forza dell’art. 295 commi 3° e 3-bis, al fine di «agevolare le ricerche del latitante»). Tuttavia nei casi di urgenza, qualora cioè vi siano valide ragioni per ritenere che il ritardo provocherebbe gravi pregiudizi alle indagini, si ammette che l’iniziativa di disporre l’intercettazione possa venire direttamente assunta dal pubblico ministero con decreto motivato, peraltro da convalidarsi entro quarantotto ore ad opera del medesimo giudice mediante un proprio decreto: con la conseguenza che, nel caso di mancata (tempestiva) convalida, l’intercettazione non potrà venire proseguita, ed i risultati eventualmente già ottenuti non potranno essere utilizzati (art. 267 commi 1° e 2°). Si era in passato ritenuto, sulla base di una discutibile interpretazione giurisprudenziale (peraltro accolta anche dalle Sezioni unite della Corte di cassazione), che alla medesima disciplina autorizzativa dovesse soggiacere anche l’acquisizione dei tabulati attestanti il flusso del traffico telefonico relativo ad una certa utenza: con il corollario, quindi, della inutilizzabilità ex art. 271 di tali tabulati, quando fossero stati acquisiti in violazione dell’art. 267. Sennonché questa interpretazione è stata successivamente ribaltata dalle medesime Sezioni unite che – anche sulla scorta di importanti precisazioni fornite dalla Corte costituzionale 21 – hanno escluso la necessità di estendere all’acquisizione dei suddetti tabulati le garanzie dettate in tema di intercettazioni telefoniche, movendo dall’ovvia premessa per cui, mentre in quest’ultimo caso viene pregiudicata la segretezza del contenuto delle conversazioni intercettate (ciò che giustifica l’intensità delle garanzie previste dall’art. 267), al contrario, nel primo caso, ci si limita ad acquisire la documentazione del fatto storico consistente nelle conversazioni intercorse tra determinati soggetti in determinate circostanze. Sicché, in proposito, ai fini del rispetto del principio sancito dall’art. 15 comma 2° Cost. può ritenersi sufficiente il provvedimento motivato dell’«autorità giudiziaria» impersonata dal pubblico ministero. L’art. 132 del c.d. codice privacy (d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196: articolo modificato dal d. lgs. 30 maggio 2008, n. 109, e da ultimo dall’art. 11 d. lgs. 10 agosto 2018, n. 101) stabilisce che i dati relativi al traffico telefonico debbano essere conservati dal fornitore del servizio per ventiquattro mesi dalla data della comunicazione «per finalità di accertamento e repressione dei reati», mentre, in rapporto alle medesime finalità, il termine di conservazione è fissato in dodici mesi rispetto ai dati concernenti il traffico telematico, e soltanto in trenta giorni rispetto ai dati concernenti le «chiamate senza risposta» 22. Entro tali termini di conservazione, che risultano differenziati secondo criteri non del tutto comprensibili, i dati in questione possono venire acquisiti dal pubblico ministero, con decreto motivato, anche su istanza dei difensori delle parti private. Resta salvo, in ogni caso, il potere del difensore dell’imputato, in sede di indagini difensive, di richiedere direttamente al fornitore i dati relativi alle utenze intestate al proprio assistito, secondo le modalità previste dall’art. 391-quater. Occorre peraltro segnalare che – nell’ambito della lotta al terrorismo, anche di matrice internazionale – a partire dal d.l. 18 febbraio 2015, n. 7, convertito con l. 17 aprile 2015, n. 43, erano stati successivamente previsti tempi di conservazione più lunghi, in deroga a quanto prescritto dal citato art. 132 codice privacy, in relazione ai reati di cui agli artt. 51 comma 3-quater e 407 comma 2° lett. a. Per questi reati il termine è stato infine stabilito in settantadue mesi dall’art. 24 l. 20 novembre 2017, n. 167 (legge europea 2017), in attuazione dell’art. 20 della direttiva (UE) 2017/541 del 15 marzo 2017, sulla lotta contro il terrorismo: tale disciplina è ora espressamente fatta salva dal comma 5-bis del suddetto art. 132 (comma aggiunto dal citato art. 11 d. lgs. n. 101 del 2018). In pratica, dunque, i gestori dei servizi dovranno sempre conservare i dati per settantadue mesi, non essendo in grado di prevedere in anticipo per quali reati potrebbero essere legittimamente richiesti ed essere utilizzabili. Tornando al tema centrale delle intercettazioni, per quanto riguarda gli aspetti esecutivi, si prescrive anzitutto, che il decreto del pubblico ministero stabilisca «le modalità» (ad esempio individuando le utenze telefoniche da sottoporre a controllo, secondo i criteri già indicati dal giudice nel provvedimento autorizzativo) e «la durata» delle corrispondenti operazioni. A quest’ultimo proposito l’art. 267 comma 3° prevede che esse non possano prolungarsi, in forza di tale decreto, oltre il termine di quindici giorni (peraltro prorogabili dal giudice, con decreto motivato, ed in permanenza dei presupposti richiesti ab origine, per periodi successivi di quindici giorni), e debbano venire 96 eseguite dal pubblico ministero personalmente o, come avviene di regola, tramite un ufficiale di polizia giudiziaria (art. 267 comma 4°). Una disciplina particolare è stata dettata, in deroga a quanto disposto ex art. 267, dal già citato art. 13 d.l. 13 maggio 1991, n. 152 (così come modificato ed esteso, a seguito di successivi interventi legislativi), con riferimento alle indagini relative a delitti di «criminalità organizzata», ovvero al delitto di «minaccia col mezzo del telefono», nonché ai delitti previsti dagli artt. 270-ter, 280-bis, 600-604 c.p. e dall’art. 3 l. 20 febbraio 1958, n. 75, ed ancora ai delitti di natura terroristica od eversiva indicati nell’art. 407 comma 2° lett. a n. 4. Più precisamente, da un canto si è stabilito che, quando l’intercettazione risulti «necessaria» per lo svolgimento di tali indagini, essa possa venire autorizzata dal giudice anche soltanto in presenza di «sufficienti indizi» di reato. D’altro canto, si è prescritto (con evidente allungamento rispetto ai termini ordinari) che la durata delle operazioni così autorizzate non possa di regola superare i quaranta giorni, ma che la stessa possa venire prorogata, con decreto motivato, dal giudice (ovvero, nei casi di urgenza, direttamente dal pubblico ministero), previa verifica della permanenza dei presupposti richiesti dalla legge, per periodi successivi di venti giorni. Quando poi si tratti, come già accennato, di una intercettazione di conversazioni tra persone presenti, sempre nell’ambito di procedimenti per delitti di criminalità organizzata, nonché per gli altri gravi delitti richiamati poco sopra, si è ulteriormente precisato, in deroga al limite fissato ex art. 266 comma 2°, che la relativa operazione possa venire autorizzata e disposta – anche nei luoghi di domicilio – pur quando «non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l’attività criminosa» (art. 13 comma 1° d.l. 13 maggio 1991, n. 152, integrato dall’art. 3-bis comma 2° d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con l. 7 agosto 1992, n. 356). E ciò vale, evidentemente, anche con riguardo alle intercettazioni ambientali consentite allo scopo di agevolare le ricerche dei latitanti in relazione ai suddetti delitti, in quanto richiamati dall’art. 295 comma 3-bis (infra, cap. IV, § 14). Alla sfera delle preoccupazioni legislative di tipo garantistico si ricollega – tornando alla normativa ordinaria – la previsione che impone di annotare in un apposito registro riservato, secondo il loro ordine cronologico, tutti i decreti che abbiano disposto, autorizzato, convalidato ovvero prorogato le intercettazioni (poi destinati ad essere depositati a disposizione delle parti), nonché, in rapporto a ciascuna di esse, i tempi di inizio e di conclusione delle operazioni. Si prevede, inoltre, che queste ultime vengano compiute «esclusivamente» per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica, salvo consentire subito dopo che – nel caso di insufficienza o inidoneità dei medesimi – lo stesso pubblico ministero possa autorizzare con decreto motivato l’uso degli impianti di pubblico servizio, ovvero di quelli in dotazione alla polizia giudiziaria, qualora sussistano «eccezionali ragioni di urgenza». Così dispone l’art. 268 comma 3°, mentre il successivo comma 3-bis, nel caso di intercettazione di comunicazioni informatiche o telematiche, ammette che possa venire autorizzato anche l’impiego di impianti appartenenti a privati. Quanto alle ulteriori forme di svolgimento delle operazioni, l’art. 268 stabilisce che le comunicazioni intercettate siano sempre registrate, e che nel relativo verbale venga trascritto, anche in maniera sommaria, il loro contenuto (nell’uno e nell’altro caso osservando le modalità indicate ex art. 89 disp. att.). Dopo la scadenza del termine stabilito per lo svolgimento delle operazioni, i verbali e le registrazioni sono immediatamente trasmessi al pubblico ministero (art. 268 comma 4°), che entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni deve depositarli a disposizione dei difensori delle parti (salvo che il giudice lo autorizzi a ritardare il deposito, se può pregiudicare gravemente le indagini, non oltre la chiusura delle stesse). I difensori vanno avvisati della facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni entro il termine fissato dal pubblico ministero ed eventualmente prorogato dal giudice. Scaduto il termine assegnato ai difensori per prendere conoscenza degli atti, su indicazione delle parti il giudice, in apposita udienza (c.d. “di stralcio”), dispone l’acquisizione delle intercettazioni, indicate dalle parti, che non appaiano manifestamente irrilevanti o inutilizzabili, a norma dell’art. 268 comma 6°. A questo punto il giudice provvederà per la trascrizione integrale delle registrazioni destinate ad essere acquisite, nel rispetto delle forme e delle garanzie previste per le perizie, salva in ogni caso ai difensori la facoltà di estrarre copia delle trascrizioni e di trasporre le registrazioni: dopo di che le trascrizioni così ottenute, in quanto espressive di atti per loro natura «non ripetibili», saranno inserite nel fascicolo per il dibattimento formato ai sensi dell’art. 431 (art. 268 commi 7° e 8°). 97 Nella pratica, però, l’udienza di stralcio nel corso delle indagini preliminari risulta quasi sempre omessa, e l’acquisizione delle intercettazioni rinviata – nonostante le chiare indicazioni della legge – in sede dibattimentale, considerato anche che il deposito viene usualmente ritardato fino alla chiusura delle indagini. Può accadere che le intercettazioni debbano essere utilizzate prima della conclusione delle operazioni o comunque senza che sia avviata la procedura acquisitiva davanti al giudice: è il caso, assai frequente, della richiesta di una misura cautelare, richiesta alla quale il pubblico ministero deve allegare, ai sensi dell’art. 291 comma 1°, gli elementi che dimostrino la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari (infra, cap. IV, § 13). A questi fini, se la richiesta precede – come quasi sempre accade, trattandosi di atto a sorpresa – il deposito e lo stralcio delle intercettazioni, o addirittura la conclusione delle operazioni, possono essere presentate al giudice le trascrizioni sommarie contenute nei verbali della polizia (c.d. “brogliacci”), che sono utilizzabili per la decisione. Una volta eseguita la misura cautelare, l’ordinanza va depositata in cancelleria, ai sensi dell’art. 293 comma 3°, insieme alla richiesta del pubblico ministero e agli atti presentati con la stessa (infra, cap. IV, § 14): fra questi ultimi sono ovviamente inclusi i verbali delle intercettazioni. La Corte costituzionale ha peraltro riconosciuto alla difesa il diritto di richiedere copia delle registrazioni – delle quali non è contemplato il deposito – per prenderne conoscenza in vista dell’impugnazione del provvedimento. La documentazione delle intercettazioni deve essere di regola – al di fuori cioè dei casi di inutilizzabilità con conseguente distruzione ai sensi dell’art. 271 comma 3° – conservata integralmente fino al passaggio in giudicato della sentenza, in modo da consentirne l’eventuale recupero anche nei gradi successivi di giudizio. Tuttavia gli interessati, a tutela della propria riservatezza, possono chiederne la distruzione al giudice, il quale provvederà in camera di consiglio e, qualora la distruzione venga disposta, curerà che sia eseguita sotto il proprio controllo (art. 269). Salva comunque la possibilità di desumere eventuali notizie di reato anche da intercettazioni disposte in altri procedimenti 24, per quanto specificamente attiene al profilo della utilizzabilità probatoria delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli rispetto ai quali siano state autorizzate, essa viene disciplinata dall’art. 270. Più precisamente vi si prevede, in deroga alla regola generale della non utilizzabilità, la più coerente con la garanzia dell’art. 15 Cost. – ma anche, per altro verso, in deroga al disposto dell’art. 238 comma 3° – che in contesti del genere le suddette intercettazioni possano venire utilizzate soltanto quando le medesime risultino • «indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza» (in chiave limitativa, dunque, rispetto all’area dei reati cui si riferisce l’art. 266). • Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno tuttavia ritenuto che il procedimento non va considerato “diverso” per i reati connessi ai sensi dell’art. 12 che fossero scoperti nel corso di un’intercettazione autorizzata per un altro reato, e che quindi l’intercettazione sarebbe in tal caso utilizzabile: a patto, comunque, che si tratti di reati per i quali l’art. 266 consente l’intercettazione. • All’interno del diverso procedimento ci si è sforzati di circoscrivere il sacrificio delle garanzie difensive, prescrivendosi che, una volta trasmessi le registrazioni ed i verbali correlativi all’autorità giudiziaria competente, nell’ambito di tale procedimento debba assicurarsi il contraddittorio in ordine alla suddetta documentazione nelle forme previste dall’art. 268. Molto opportunamente si prevede tuttavia che, in ogni caso, ad evitare i rischi connessi ad una trasmissione soltanto parziale dei verbali e delle registrazioni risultanti dalle intercettazioni compiute, il pubblico ministero ed i difensori possano esaminare l’intera documentazione delle stesse – ivi compresi, dunque, i verbali e le registrazioni non acquisiti – così come depositata ex art. 268 nel procedimento per il quale le intercettazioni siano state all’inizio autorizzate (art. 270 comma 3°). Occorre ricordare, da ultimo, che, secondo quanto precisato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, ove la conversazione o comunicazione intercettata costituisca essa stessa corpo del reato – a condizione che integri ed esaurisca completamente la condotta criminosa, come ad esempio nel caso di rivelazione di segreto d’ufficio – è sempre utilizzabile nel processo penale e pertanto anche in procedimenti diversi da quello d’origine, pure quando non indispensabile per l’accertamento di delitti per i quali sia obbligatorio l’arresto in flagranza. Passando oltre, la già ricordata legge n. 124 del 2007 fa riferimento alle ipotesi in cui l’autorità giudiziaria, attraverso lo strumento delle intercettazioni, abbia acquisito «comunicazioni di servizio» di appartenenti al sistema dei servizi di sicurezza. Dispone al riguardo l’art. 270- bis che la relativa documentazione debba venire immediatamente secretata e custodita «in luogo protetto», prevedendo quindi che la medesima autorità giudiziaria debba trasmettere al presidente del Consiglio dei ministri copia della suddetta documentazione, nella parte «contenente le informazioni di cui intende avvalersi nel processo», allo scopo di accertare se alcuna di esse «sia coperta da segreto di Stato». Dopo di che, qualora entro sessanta giorni il presidente del Consiglio non opponga tale segreto, l’autorità giudiziaria potrà acquisire la documentazione trasmessa e provvedere per l’ulteriore corso del procedimento, mentre nel caso di opposizione del segreto di Stato le sarà inibita (sulla falsariga
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