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COMPENDIO DI PROCEDURA PENALE - CONSO GREVI (2021), Sintesi del corso di Diritto Processuale Penale

file completo (aggiornato all'ultima edizione e comprendente la riforma orlando) e integrato con gli appunti delle lezioni .

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 23/03/2020

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Scarica COMPENDIO DI PROCEDURA PENALE - CONSO GREVI (2021) e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! Sogg etti Il codice è diviso in due parti: una prima parte contiene i primi tre libri: 1  Il primo libro riguarda i soggetti (primo libro) che sono il giudice, il pm, la polizia giudiziaria, l’imputato, parti eventuali (che possono esserci o non esserci) come la parte civile, responsabile civile (controparte della parte civile), difensore (collegato con l’imputato di solito), persona offesa, che non è una parte, lo può diventare se si costituisce parte civile, per conseguire gli interessi risarcitoria.  Il secondo libro è dedicato agli atti. All’interno del medesimo libro vi sono delle norme non legate ad una fase o ad un grado del processo, ma sono suscettibili di essere applicate in ogni stato e grado (es: lingua degli atti).  Il terzo libro è il libro delle prove. Libro diviso in due parti: una parte di disposizioni generali, contenente le norme fondamentali; e una seconda parte di disposizioni speciali, contenenti le norme che disciplinano i mezzi di prova e i mezzi di ricerca della prova (intercettazioni, sequestri, ispezioni..); Una seconda parte contiene i restanti libri che concernono prevalentemente il procedimento processuale. 1. Procedimento e processo. Il processo penale inquadrato nel ciclo della penalità. 2 1. Accertare se una determinata persona ha commesso reato 2. Qual è la personalità dell’autore del reato 3. Quali sono le sanzioni che devono essere applicate all’autore del reato. Il processo penale ha una funzione strumentale rispetto al diritto penale sostanziale, nel senso che è veicolo necessario per applicare la legge penale, la quale indica i fatti che costituiscono il reato e indica le sanzioni previste per coloro che li commettono. Il processo penale si propone il fine di accertare i fatti storici che costituiscono il reto, di identificare gli autori e di conoscere la personalità di questi ultimi. Il processo penale, inoltre, non ha lo scopo meramente teorico di ricostruire la verità su un fatto commesso, bensì ha un fine più limitato, che consiste nell’accertare se tale fatto costituisce reato e nel caso positivo, nell’applicare una sanzione a chi lo ha commesso. L’accertamento del fatto e l’individuazione del suo autore non perseguono finalità astratte o storiche ma servono soltanto per valutare se e quali sanzioni penali devono essere irrogate. 1.2. Procedimento e processo. “Procedimento” e “processo” non sono sinonimi; nel codice di procedura penale ciascun dei due termini assume un significato preciso. Il procedimento penale. Con l’espressione procedimento penale si indica una serie cronologicamente ordinata di atti diretti alla pronuncia di una decisione penale, ciascuno dei quali, in quanto validamente compiuto, fa sorgere il dovere di porre in essere il successivo ed, al contempo, è esso stesso realizzato in adempimento di un dovere del suo antecedente. Dalla definizione riportata si ricava che nel concetto di procedura penale sono ricompresi almeno 3 elementi fondamentali:  In primo luogo, la legge prevede una serie cronologicamente ordinata di atti, nel senso che gli atti stessi devono essere compiuti rispettando una determinata sequenza temporale.  In secondo luogo, tutti gli atti del procedimento hanno la finalità di accertare l’esistenza di un fatto penalmente illecito e la sua attribuibilità ad una persona.  In terzo luogo, il compimento di un atto del procedimento fa sorgere in un altro soggetto il dovere di compiere un atto successivo fino alla decisione. Quest’ultima può essere una sentenza di condanna o di proscioglimento se viene percorsa l’estensione massima del procedimento; oppure sarà un decreto di archiviazione se il procedimento si arresta prima che venga formulata una imputazione. Il processo penale. L’espressione “processo penale” indica una porzione del procedimento penale. Fanno parte del “processo” le fasi dell’udienza preliminare e del giudizio. 5 Il momento iniziale del processo corrisponde all’esercizio dell’azione penale mentre il momento finale si ha quando la sentenza diventa irrevocabile e cioè, in sintesi, non più impugnabile perché nessuna part ha presentato ricorso nei termini o perché tutte le impugnazioni ordinarie sono state esperite. Occorre fare attenzione nella lettura del codice, perché i due termini sono usati, di regola, nel loro significato tecnico. Infatti, per indicare i medesimi termini si usa la locuzione “in ogni stato e grado del …” Con il termine grado si vuole indicare se il giudice prende cognizione dell’oggetto sul quale deve decidere in primo esame o in appello, o infine, in sede di ricorso per cassazione. Con il termine stato si vuole indicare una fase del procedimento. Dunque, con l’espressione “in ogni stato e grado del processo” si intende escludere un periodo meramente procedimentale, e cioè la fase delle indagini preliminari. Con l’espressione “in ogni stato e grado del procedimento” si intende ricomprendere sia le indagini sia il processo. L’azione penale. La nozione di “azione penale” è corredata a quella di processo penale. Come abbiamo visto, con l’espressione “processo penale” si fa riferimento a quella serie cronologicamente ordinata e necessitata di atti che ha come atto iniziale l’azione penale. Ciò premesso, possiamo dare una definizione di azione penale: l’azione penale è la richiesta, diretta al giudice, di decidere sull’imputazione. Il codice precisa con quale atto si esercita l’azione penale. Ai sensi dell’art 405 comma 1 c.p.p, nel procedimento ordinario il pubblico ministero esercita l’azione penale quando chiede il rinvio a giudizio dell’imputato. La richiesta è rivolta al giudice e contiene la formulazione dell’imputazione. L’imputazione consiste nell’addebito della responsabilità di un fatto storico di reato; nel procedimento ordinario l’imputazione è formulata dal pubblico ministero al termine delle indagini preliminari. Elementi di imputazione sono: l’enunciazione, in forma chiara e precisa; fatto storico di reato addebitato all’imputato; l’indicazione degli articolo di legge che si ritiene siano stati violati; le generalità della persona alla quale il reato è stato addebitato (art 417 comma 1). L’esercizio dell’azione penale ha 2 effetti: in primo luogo pone al giudice l’obbligo di decidere su un determinato fatto storico e in secondo luogo fissa in modo tendenzialmente immutabile l’oggetto del processo, e cioè, impone al giudice il divieto di decidere su un fatto storico differente da quello precisato nell’imputazione (salve le eccezioni descritte ai sensi degli art 516-521). Riepilogando: nel processo ordinario, l’azione penale è esercitata quando il giudice è chiamato a decidere nell’udienza preliminare sulla richiesta di rinvio a giudizio. Nei procedimenti speciali che ommettono l’udienza preliminare, l’azione penale è esercitata con quell’atto introduttivo del singolo procedimento, con il quale è precisata l’imputazione; ad esempio, nel giudizio direttissimo il pubblico ministero, contesta l’imputazione all’imputato che sia condotto direttamente in udienza. Non ha natura di imputazione l’addebito provvisorio che è formulato dal pubblico ministero nel corso delle indagini, ad esempio quando nell’interrogatorio il pubblico ministero contesta all’indagato il fatto che gli viene addebitato (art 65, comma 1). 6 La contestazione operata dal pubblico ministero ha unicamente la funzione di mettere in grado l’indagato di esercitare il diritto di difesa. 1.3. I soggetti e le parti. Il libro del codice ricomprende tra i soggetti del procedimento penale il giudice, il pubblico ministero, la polizia giudiziaria, l’imputato, la parte civile, il responsabile civile, il civilmente obbligato per la pena pecuniaria, la persona offesa ed il difensore. Il codice è preciso nell’attribuire la qualifica di soggetto a determinate persone, anche se dalla stessa non offre una definizione. I soggetti. Si ritiene che possano essere definiti “soggetti” coloro che sono titolari di poteri di iniziativa nel procedimento. Tale potere comporta che il compimento di un atto del procedimento a parte di un soggetto faccia sorgere in un altro soggetto il potere (e cioè il diritto-dovere) di compiere un atto successivo. Dall’elenco contenuto nel libro primo del codice si può ricavare che non sono considerati soggetti, ad esempio, i testimoni e i periti, probabilmente perché costoro non hanno poteri di iniziativa in relazione al procedimento. Essi rientrano nella più ampia categoria delle “persone” che partecipano al procedimento. Occorre sottolineare che i soggetti vengono definiti in relazione alla nozione di procedimento penale, e cioè in relazione anche alla fase delle indagini preliminari, quando ancora non è stata esercitata l’azione penale. Le parti. Diverso è il concetto di “parte” che tradizionalmente è correlato a quello di “azione”. Ne consegue che sono “parti” il soggetto attivo e quello passivo dell’azione, che consiste nella formulazione dell’imputazione unitariamente alla richiesta d rinvio a giudizio o al compimento di un altro atto che instaura un procedimento speciale. Pertanto, si può definire parte coli che ha chiesto al giudice una decisione in relazione all’imputazione e colui contro il quale tale decisione è chiesta. Con riferimento all’esercizio dell’azione penale, sono parti necessarie il pubblico ministero e l’imputato. Sempre in relazione all’esercizio dell’azione penale, può essere parte anche se eventualmente, il civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Si tratta della persona che è tenuta al pagamento della pena in caso di insolvibilità dell’imputato. Ai sensi dell’art 197 c.p. è civilmente obbligato l’ente giuridico (es. società per azioni) qualora venga condannato colui che ne ha l’amministrazione (es. amministratore delegato) se ne compiere il reato quest’ultimo ha violato gli obblighi inerenti le sue qualità. Qualora il condannato risulti insolvibile, l’ente è obbligato al pagamento della pena pecuniaria. L’azione civile di danno. Il quadro è reso più complesso dal fato che entro il processo penale il danneggiato dal reato può esercitare l’azione civile tendente ad ottenere il risarcimento del danno (art 185 c.p.). Il danneggiato esercita l’azione civile costituendosi parte civile contro l’imputato. L’esercizio dell’azione civile in sede penale è eventuale, in quanto risulta subordinato ad una scelta facoltativa del danneggiato. 7 carriera) e 6 laici (c.d. giudici popolari, che solo temporaneamente fanno parte dell’ordinamento giudiziario e sono scelti fra i cittadini in possesso di determinati requisiti), la cui partecipazione all’amministrazione della giustizia va ricollegata al disposto dell’art.106 comma 2 cost.  La corte d’appello: giudice collegiale composto d 3 magistrati.  La corte d’assise d’appello: giudice collegiale, la cui composizione è mista (ai 2 magistrati togati si vanno aggiungere 6 giudici “popolari”) e ricalca quella di assise.  Magistrato di sorveglianza: monocratico  Tribunale di sorveglianza: giudice collegiale composto da 4 magistrati, di cui 2 togati e 2 laici.  Tribunale per i minorenni: quest’ultimo è un giudice ordinario specializzato con competenza sui reati commessi dai minori di anni 18.  La corte di cassazione. Essa ha sede a Roma; è divisa in 7 sezioni, ciascuna delle quali giudica con 5 componenti che diventano 9 quando tale organo è chiamato a pronunciarsi nella composizione a sezione unite; ed, infine, è unica per tutto il territorio nazionale e davanti a essa possono essere impugnate tutte le sentenze per motivi di sola legittimità. Il suo giudizio ha di regola un oggetto limitato: la corte può controllare se vi è stata inosservanza della legge e se il giudice inferiore ha motivato in modo corretto (art 606). Viceversa non può condurre un esame di merito, e cioè ad esempio non può valutare l’attendibilità delle dichiarazioni di un testimone. Sono organi giurisdizionali “speciali” quelli che sono competenti a giudicare soltanto alcune persone e che sono, inoltre, composti da magistrati speciali, cioè non appartenenti all’ordinamento giudiziario. Sono giudici speciali i tribunali militari in tempo di pace, che sono competenti soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle forze armate. Le garanzie di indipendenza di questi ultimi non sono previste direttamente dalla costituzione, che rinvia la regolamentazione della materia alla legge ordinaria (art 108, comma 2). E’ giudice speciale la corte costituzionale, che è competente a giudicare i delitti di alto tradimento e di attentato alla costituzione commessi dal presidente della repubblica (art 90 cost.) Il termine giurisdizione può essere utilizzato anche con un ulteriore significato, oltre a quello precisato all’inizio di questo paragrafo. Giurisdizione può indicare l’insieme delle regole che permettono di distingue i procedimenti di competenza della magistratura ordinaria dai procedimenti della magistratura speciale, in 10 tal senso ad esempio l’art 28, lett. a) tratta del conflitto di giurisdizione tra giudice ordinario e speciale. Infine, la giurisdizione penale è autosufficiente, nel senso che ha cognizione autonoma su tutte le questioni strumentali alla pronuncia finale. Adeguandosi al canone della massima semplificazione nello svolgimento del processo, l’art 2 comma 1 c.p.p stabilisce infatti il dovere del giudice penale di risolvere ogni questione che si ponga come antecedente logico-giuridico della decisione di cui è investito: si può fare l’esempio della ricettazione (648 c.p.), in merito alla quale il giudice non può decidere se prima non accerta la provenienza delittuosa del denaro o della cosa che si assumono ricettati. Quella con cui viene risolta la questione logicamente prioritaria è una semplice pronuncia incidentale che può avere natura civile, amministrativa o penale e che ha rilevanza solo all’interno del procedimento in cui è inserita (cognitio incidenter tantum), senza alcuna efficacia vincolante in nessun altro processo (art 2 comma 2). [Esempio: Supponiamo che all’interno del giudizio diventi rilevante accertare che ci sia stata una autorizzazione amministrativa a costruire un edificio X: se su quella questione vi è già una pronuncia definitiva, il giudice penale deve considerarla; ma se non c’è stata decisione, è il giudice penale che deve accertare la sussistenza o meno dell’autorizzazione, ma senza pretendere che la sua decisione valga anche nel giudizio amministrativo. Quindi non si può far valere la pronuncia sull’autorizzazione, non ha effetti vincolanti in altri processi. Esempio: Tuttavia, possono esserci anche questioni penali che è necessario accertare prima di arrivare alla decisione penale che ci interessa, es: ricettazione (presuppone un precedente reato per compiersi, che è il reato di furto di cosa intercettata). Il giudice è titolato ad accertare il furto? Si, ma se accerta quel furto, la sua decisione non vale anche in altri giudizi, in quanto altro giudice potrebbe arrivare alla conclusione che il furto non c’è stato.] Il meccanismo regolato dall’art 2 comma 1, scongiurando un’interruzione del processo e la conseguente investitura di un altro giudice, risponde all’esigenza di accelerare i tempi necessari per pervenire alla decisione definitiva. Sono state tuttavia previste delle eccezioni alla regola, come si ricava dalla clausola di salvezza (“salvo che sia diversamente stabilito”) contenuta nell’inciso finale del comma in esame. Prescindendo, data la peculiarità di tali questioni, dalla sospensione del processo penale conseguente alla devoluzione di una quaestio de legitimitate alla Corte costituzionale e dalla pregiudiziale c.d. comunitaria, le deroghe alla regola della cognizione incidentale stabilita all’art 2 vanno fatte risalire a talune disposizioni del codice che è opportuno suddividere in due categorie: 1) da un lato si collocano quelle disposizioni che, in caso di controversia sulla proprietà delle cose sequestrate o confiscate si limitano a devolvere la relativa risoluzione al giudice civile. 2) dall’altro lato si collocano quelle disposizioni che, occupandosi specificatamente delle questioni da cui dipende la decisione definitiva, disciplinano i presupposti e il modus dell’eventuale sospensione, nonché l’efficacia della decisione intervenuta in sede extra-penale. Si tratta di due sole ipotesi con riferimento alle quali è parso opportuno consentire che sulla questione pregiudiziale intervenga una vera e propria decisione, idonea a stabilizzarsi con la 11 formazione del giudicato e non un accertamento incidentale suscettibile di essere contraddetto da ulteriori accertamenti si degno eventualmente opposto. Quanto appena osservato vale in particolar modo per le questioni pregiudiziali relative allo stato di famiglia o di cittadinanza (art 3). In presenza di una controversia rientrante in una di tali categorie, il giudice penale può sospendere il processo allorchè ricorrano 3 condizioni: a) deve effettivamente sussistere un rapporto di pregiudizialità tra la risoluzione della controversia sullo stato di famiglia o cittadinanza e la decisione della regiudicanda penale. (giudizio pendente) Ciò non implica necessariamente un condizionamento sulla decisione circa l’esistenza del reato, essendo da riconnettere l’effetto devolutivo anche a quelle controversi la cui risoluzione influisce sull’esistenza di una condizione di punibilità o di una circostanza aggravante; b) è necessario che la questione pregiudiziale sia seria, vale a dire non manifestatamente infondata o artificiosa; [Se non c’è una controversia pendente, ma la questione sia seria, a quel punto è il giudice penale che deve decidere (come ci dice l’articolo 2), e qui il rischio è che se dopo il giudizio penale, l’interessato si fa attore in sede civile, il giudice civile arrivi a questioni differenti. Nel previgente codice si seguì una via più radicale, per garantire l’esclusione del giudice civile in queste materie. Anche se non era pendente la questione civile, era obbligo per il pm farsi attore, e creare la condizione per cui si sarebbe arrivata ad una soluzione civile, che avrebbe fatto stato nel processo penale. Così si evita conflitti tra le decisioni. Allora il legislatore interviene su una norma che riguarda le prove, art.193: le limitazioni di prove previste dalle leggi civili, non valgono nel processo penale, con l’eccezione dell’art.3. “Nel processo penale non si osservano i limiti di prova (riferimento esplicito all’art.2) stabiliti dalle norme civile, ad eccezione delle norme sullo stato di famiglia e sulla cittadinanza”. Il giudice penale opera con gli strumenti probatori tipici del processo penale, ma su queste materie, è soggetto alle limitazioni stabilite dal processo civile. Applicando le stesse regole probatorie, è più probabile che si arrivi alla stessa soluzione] c) dev’essere già stata proposta l’azione a norma delle leggi civili, al qual proposito è opportuno precisare che l’aggettivo sa ad indicare l’area non penale: il rinvio deve pertanto intendersi esteso alle leggi amministrative. Mentre se manca una delle suddette condizioni il giudice deve decidere in via incidentale senza sospendere il processo penale, non si può dire che valga la regola opposta. In base alla difficoltà della questione e all’entità dei costi ricollegabili alla scelta abdicativa, sarà il giudice a stabilire, di volta in volta, se, nonostante la ricorrenza dei presupposti stabiliti dall’art 3 comma 1, non sia preferibile risolvere autonomamente la questione pregiudiziale. Nel caso di sospensione è prevista la pronuncia di un’ordinanza che può essere impugnata in cassazione: nel silenzio della legge si deve ritenere che, in conformità con quanto stabilito nel secondo periodo dell’art 568 comma 3, siano legittimate al ricorso tutte le parti in quel momento presenti al processo. 12 delitti, comunque aggravanti, previsti dal d.P.R. 9 ottobre 1990 n.309, in materia di sostanze stupefacenti Con il d.l. 12 debbraio 2010 n.10, convertito con la l.6 aprile 2010 n.52, si è precisato che relativamente al delitto di associazione mafiosa è esclusa la competenza della corte di assise, a favore del tribunale, prescindendo agli aumenti di pena riconducibili alle circostanze aggravanti. Secondariamente, è stato eliminato dall’elenco dei delitti espressamente sottratti alla competenza della Corte d’Assise il riferimento all’art 630 comma 1 c.p., con la conseguenza che ormai questa corte è competente in tema di sequestro di persona a scopo di estorsione anche quando dal sequestro non deriva la morte della persona offesa.  I delitti consumati di omicidio del consenziente, di istigazione al suicidio e di omicidio preterintenzionale (art 579, 580, 584 cp).  I delitti dolosi qualora dal fatto sia derivata la morte di una o più persone [Es. abbandono di minore o di incapace seguito da morte; art 591 comma 3 c.p.], escluse le ipotesi di morte come conseguenza non voluta di altro reato (586 cp), di morte avvenuta in seguito a rissa (588 cp) e di morte derivante da omissione di soccorso (593 cp).  I delitti di riorganizzazione del partito fascista, I delitti di Genocidio, I delitti contro la personalità dello Stato puniti con la pena edittale con inferiore al massimo a 10 anni.  I delitti consumati o tentati di associazione per delinquere prevista dall’art 416 comma 6 c.p, (associazione diretta a commettere i reati di cui agli art. 600 [delitti di riduzione di schiavitù], 601 [delitti di tratta di persone], 602 c.p. [delitti di acquisto e alienazione di schiavi], nonché il delitto di procurato ingresso illegale dello straniero nel territorio dello Stato, contemplato dall’art 12 comma 3-bis d.lgs 25 luglio 1998, n.286) e i delitti con finalità di terrorismo, sempre che per tali delitti sia stabilita la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 10 anni. In sintesi: alla Corte d’Assise sono attribuite le competenze a giudicare i più gravi fatti di sangue e i più gravi delitti politici. Come linea di tendenza, il legislatore ha evitato di far giudicare dalla Corte d’Assise quei delitti che richiedono conoscenze tecnico-giuridiche, che i giudici popolari non hanno, ma al contempo, il legislatore ha attribuito alla medesima Corte quelle materie in relazione alle quali ha ritenuto che si possa esprimere al meglio la valutazione di un cittadino, che non sia un giudice in carriera. Le competenze per Materia vengono attribuite, oltre alla corte di Asisse, anche al Tribunale per i minorenni, al giudice di pace e al Tribunale. Infatti: 15 Il tribunale per i minorenni (composto da 2 giudici togati e da 2 esperti in psicologia, pedagogia e materie analoghe, nominati con decreto del capo dello Stato su proposta del ministero della Giustizia, previa deliberazione del consiglio superiore della Magistratura) è competente per i reati commessi dai minori degli anni diciotto e questa competenza è esclusiva. Ciò significa che per stabilire la competenza del tribunale per i minorenni si deve prendere in considerazione l’età che aveva l’imputato all’epoca dei fatti contestati, indipendentemente da un lato dall’ipotesi per cui il minore abbia commesso un reato che sarebbe di competenza della Corte di Assise o del Tribunale o del Giudice di pace, e dall’altro lato indipendentemente dalla circostanza per cui il minore abbia commesso il reato assieme ad un adulto, perché per il minore la competenza resta radicata nel medesimo Tribunale. Il Giudice di pace è un giudice non professionale, nominato a tempo determinato: per accedere all’ufficio di giudice di ace non occorre aver vinto il concorso in magistratura, è sufficiente avere conseguito la laurea in giurisprudenza e aver superato l’esame di abilitazione alla professione forense. Il giudice di pace è competente a conoscere una serie di fattispecie attribuite qualitativamente. Come conferma la Relazione ministeriale, si tratta per la maggior parte di reati che costituiscono espressione di situazioni di microconflittualità individuale. In generale, il criterio per la determinazione della competenza di tale organo è costituito dalla tenuità della sanzione e dalla semplicità dell’accertamento. E’ opportuno dar conto delle fattispecie attribuite alla competenza del giudice di pace distinguendo tra i reati procedibili a querela e quelli procedibili d’ufficio. Tra i reati procedibili a querela attribuiti al giudice di pace merita ricordare le percosse; le lesioni volontarie procedibili a querela che consistono nell’aver cagionato una malattia di durata fino a 20gg; la diffamazione; la minaccia semplice; furti lievi, il danneggiamento doloso e infine le lesioni colpose, limitatamente alla fattispecie perseguibile a querela di parte (es. lesioni di circolazione stradale lievi e lievissime, ossia con malattia fino a 40gg). Tra i reati procedibili d’ufficio attribuiti al giudice di pace è, invece, opportuno menzionare alcune fattispecie contravvenzionali previste dal codice penale: la somministrazione di bevande alcoliche a minori o inferi di mente, la determinazione in altro dello stato di ubriachezza, gli atti contrari alla pubblica decenza, l’inosservanza dell’obbligo di istruzione elementare dei minorenni. Il Tribunale è competente a giudicare quei reati che non appartengono alla competenza della Corte d’Assise o del giudice di Pace (art 6 c.p.p). Oltre a questa competenza, che si può definire “residuale”, il tribunale ha una competenza qualitativa a giudicare reati che sono previsti in modo specifico da singole norme di legge e che presuppongono che il magistrato giudicante conosca materie tecniche o di una qualche complessità. Quale esempio di competenza qualitativa del tribunale, si può citare l’art 21 della legge .4 del 1929, che concerne i reati finanziari. Inoltre varie leggi speciali attribuiscono al tribunale la competenza a giudicare i reati commessi a mezzo cinema, stampa, radio, televisione. A seguito della legge n.479 del 1999 e di alcuni adeguamenti apportati con la legge n.144 del 2000, le attribuzioni del tribunale in composizione collegiale e monocratica risultano ripartite nel modo seguente: 16  Il tribunale in composizione collegiale, ossia formato da 3 giudici, conosce i reati puniti, anche nelle ipotesi di tentativo, con una pena detentiva superiore nel massimo a 10 anni, ma inferiore a 24 anni, purchè non siano di competenza della corte d’Assise; inoltre conosce una serie di fattispecie nominativamente indicate all’art 33-bis, comma 1 (criterio qualitativo). In applicazione di detti criteri, appartengono alla cognizione del tribunale collegiale quasi tutti i reati riconducibili all’associazione a delinquere (art 416 – 416bis cp); lo scambio elettorale politico mafioso (art 416 ter); i delitti concernenti le armi (art 407 c.p.p); i reati in materia di aborto (l. n.194/1978) e l’usura (644 cp). Sono altresì attribuiti al tribunale collegiale, di regola, anche i reati commessi dai pubblici ufficiali contro la P.A; la concussione; la corruzione; la bancarotta fraudolenta; reati in materia di società e consorzi; reati commessi dai ministri nell’esercizio delle proprie funzioni.  Il tribunale in composizione monocratica (e cioè al tribunale composto da un solo giudice) è attribuita la cognizione dei reati puniti con la pena detentiva fino a 10 anni nel massimo, purché non siano di competenza del giudice di pace. È chiaro come al giudice monocratico siano attribuiti molti reati che presentano un notevole tasso di pericolosità sociale. Si pensi ad esempio a varie ipotesi di delitti contro l’incolumità pubblica, all’adulterazione o contraffazione di cose in danno alla salute pubblica. Ma vi sono altri delitti per i quali la pena irrogabile in concreto può essere elevata, come ad esempio le lesioni personali stradali. [Ricapitolando sulle attribuzioni: mentre l’articolo 33-bis elenca tutti i casi in cui sia il tribunale collegiale a trattare una causa, l’art.33-ter ci parla delle residuali competenze del tribunale in composizione monocratica. In particolare, al comma 2 ci dice che tutte le materie non espressamente previste dall’articolo 33-bis sono trattate dal tribunale in composizione monocratico, con l’eccezione al comma 1, il quale ci dice che sono attribuiti a questo tribunale i delitti previsti dall’art.73 del testo unico approvato con decreto del Pdr 9 ottobre 1990, n.309 (normativa in materia di stupefacenti), sempre che non siano contestate le aggravanti di cui all’articolo 80 del medesimo testo unico.]  Territorio: la regola fondamentale è quella del luogo in cui il reato è stato consumato (art 8 comma 1). La celebrazione del processo nel c.d. locus commissi delicti risponde a ragioni di indubbio rilievo, fra le quali l’esigenza di assicurare un effettivo controllo sociale; quella di rendere più agevole e rapida la raccolta delle prove; quella di ridurre i disagi per le parti e per i testi ed infine per la ragione che il diritto e la giustizia devono riaffermarsi nel luogo in cui sono stati violati. Ad essa il legislatore fa seguire altre regole di carattere generale che derogano al criterio del locus commissi delicti in ragione della particolare configurazione della fattispecie 17 In questi casi, si produce, per ovvie ragioni di opportunità, l’investitura del giudice, ugualmente competente per materia, ubicato nel capoluogo del distretto di corte d’appello più vicino, determinato sulla base di una tabella – allegata alle disposizioni di attuazione del codice – incentrata sul criterio della circolarità (per i procedimenti riguardanti i magistrati del distretto della corte di appello di Roma sono competenti i magistrati di Perugia, per quelli di Perugia sono competenti i magistrati di Firenze, e così via). In tal modo si è evitato l’inconveniente delle competenze incrociate.  Connessione: Attraverso l’incrocio tra competenza per materia e competenza per territorio troviamo il giudice competente, e teoricamente non ci sarebbe bisogno d’altro per attuare l’art.25 comma 1, cost. C’è però un terzo tipo, competenza per connessione, istituita per evitare l’applicazione rigida dei due criteri incrociati. Riguardano fatti che hanno tra di loro una connessione. La connessione è un legame sia logico (l’accertamento di questi fatti, che sono profondamente legati, rende coerente la competenza ad un singolo giudice) che giuridico dei fatti (somiglianza giuridica dei fatti). La connessione è un criterio attributivo della competenza del giudice. Essa non comporta necessariamente la riunione dei procedimenti. Vi è connessione di procedimenti di competenza del tribunale e della Corte di assise in 3 casi (art 12): 1. Quando il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o cooperazione tra loro, o se più persone con condotte indipendenti hanno determinato l’evento. Esempio concorso di persone nel reato: A e B d’accordo commettono un omicidio volontario. Esempio: più condotte indipendenti hanno determinato l’evento: morte di una persona attribuita al feritore e al medico che ha errato nel curarla. 2. Quando una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione o con più azioni o omissioni esecutive del medesimo disegno criminale. Esempio: concorso formale di reati: un guidatore di auto con la medesima condotta colposa uccide F e ferisce G. Esempio: reato continuato: un rapinatore commette più rapine per finanziare un gruppo eversivo. 3. Quando si procede per più reati, se gli uni sono stati commessi per eseguire od occultare gli altri. A questo proposito è opportuno precisare che le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno avvallato l’orientamento secondo cui non è necessario che l’autore o gli autori del c.d. reato-mezzo siano gli stessi del c.d reato-fine, per cui si può prescindere dal requisito dell’identità soggettiva. 20 Esempio: furto d’auto per commettere una rapina. Quando vi è connessione un solo giudice è competente a giudicare tutti i reati connessi; di regola i procedimenti saranno riuniti (art 17), ma potranno anche svolgersi separatamente (art 18). Il giudice competente in caso di connessione viene individuato in base ai seguenti criteri: fra i giudici competenti per materia, la corte d’assise prevale sul tribunale (art 15); applicata questa regola, se più giudici sono egualmente competenti per materia (es: due tribunali) ed hanno una diversa competenza per territorio, prevale il giudice competente per il reato più grave, sulla base degli indici elencati nell’art 16 comma 3; in caso di pari gravità, prevale il giudice competente per il reato commesso per primo (art 16 comma 1). Tuttavia, esiste un’importante deroga alla connessione in presenza di procedimenti contro imputati minorenni. Costoro devono essere sempre e comunque giudicati dal tribunale per i minorenni, e cioè, da un giudice specializzato che deve tenere presente il fine primario della rieducazione: in base all’art 14, la connessione non opera fra i procedimenti relativi a imputati che al momento del fatto erano minorenni e procedimenti relativi a imputati maggiorenni. Infine, vi sono regole particolari per la connessione di procedimenti di competenza di giudici ordinari e speciali (art 13) e per la connessione di procedimenti appartenenti alla competenza del giudice di pace. Nell’ipotesi di competenza concorrente tra Corte Costituzionale e giudice ordinario, prevale la competenza del giudice speciale, mentre nel rapporto tra giudice militare e giudice ordinario, prevale il giudice ordinario, fermo restando, tuttavia che la connessione opera solo quando il reato comune è più grave di quello militare. [Una digressione. C’era una volta l’articolo 45 del codice di procedura del 1930, che elencava i casi di connessione nel vecchio codice, e ne elencava molti di più rispetto che ad oggi. L’articolo 45 per certi versi lascia persistere i propri effetti ancora oggi, con riferimento soprattutto al diritto al silenzio. L’art.45 è stato scomposto in due articoli nel codice attuale (art.12 cpp; art.371, comma 2, lettera b, cpp). Se si fanno le somme delle ipotesi dei due articoli otteniamo l’art.45, che quindi sopravvive nella nuova codificazione. Per questi casi si estende il diritto al silenzio. Non si estende solo alle ipotesi di connessione nuova, ma anche alle ipotesi di connessione vecchia (chiamati casi di collegamento). Questo ha portato complicazioni notevoli, perché il diritto al silenzio spesso è un preteso per sottrarsi al confronto.] 8. La disciplina della riunione e della separazione dei procedimenti La riunione e la separazione sono istituti che operano – non solo in primo grado (come risulta per il giudizio di cassazione dall’art 610 comma 3) – a partire dal momento in cui, in seguito all’esercizio dell’azione penale, il procedimento si è evoluto nel processo. Quando i procedimenti sono connessi, essi possono essere riuniti. E’ evidente che la finalità naturale, alla quale, è preordinata la connessione, è quella di permettere la riunione di più procedimenti in uno unico (simultaneus processus); se ciò avviene, si consente una economia di atti processuali, poiché, ad esempio, un testimone che riferisce su più imputati è sottoposto ad un unico esame. 21 Al tempo stesso, il processo riunito può permettere di ricostruire con maggiore chiarezza e completezza il quadro probatorio e i rapporti tra i vari fatti di reato. La riunione dei processi produce, dunque, come risultato la trattazione congiunta di processi in precedenza pendenti davanti a giudici diversi, sezioni, dello stesso ufficio giudiziario, preventivamente individuato in base ai normali criteri di competenza, il cui unico giudice permette di scongiurare il rischio di decisioni logicamente contrastanti. Perché si possa disporre la riunione dei procedimenti, sono necessari i requisiti espressamente previsti ai sensi dell’art 17:  I procedimenti devono essere pendenti, omogeneamente, nella stessa fase e nello stesso grado di giudizio;  I procedimenti devono essere di competenza del medesimo giudice;  I procedimenti devono essere connessi oppure vi deve essere un collegamento probatorio.  La riunione non determini un ritardo nella definizione dei procedimenti.  La sussistenza di uno dei requisiti tassativamente indicati dalla legge. Questo requisito permette di affermare che la riunione può essere disposta quando i processi pendenti siano connessi ai sensi dell’art 12 (art 17 comma 1 lett a)), nonché – in seguito al rinvio operato dall’art 17 comma 1 lett c) ai casi previsti dall’art. 371, comma 2, lett b) – quando siano relativi ai reati dei quali taluni siano stati commessi in occasione di altri o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, prezzo, prodotto, impunità, o che sono stati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, o se la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di altra circostanza. Infine, ai sensi dell’art 17 comma 1-bis, si prevede che negli stessi casi e alle stesse condizioni, qualora alcuni processi pendano davanti al tribunale in composizione collegiale e altri davanti al tribunale in composizione monocratica, la riunione sia disposta in capo al tribunale in composizione collegiale, il quale si pronuncerà su tutte le regiudicande anche nell’eventualità in cui esse siano oggetto di un successivo provvedimento di separazione. Qualora, invece e contrariamente, siano più di uno i processi in grado di attrarre il processo pendente davanti al tribunale in composizione monocratica, dovrà essere designato il giudice o la sezione collegiale cui è stato assegnato per primo uno dei processi (art 2 comma 1 bis disp att.). L’esigenza di riunire i procedimenti, tuttavia, si scontra con un’esigenza di segno opposto che tende, invece, a separarli. E’ un esigenza ricollegabile al sistema accusatorio, che tende ad assicurare un solo imputato in un singolo procedimento. La finalità è chiara: si ritiene che in tal modo sia possibile garantire la migliore difesa dell’imputato stesso. Ma se ai sensi dell’art 17 si prevede che il giudice abbia una tendenza natura a riunire i processi in un unico procedimento, il codice, invece, impone al giudice in determinati casi la separazione. E ciò si evince ai sensi dell’art 18, in cui si recita che il giudice deve operare obbligatoriamente alla separazione dei procedimenti: 22 alla riconosciuta esistenza del vincolo connettivo, di trasmettere gli atti all’ufficio del P.M. presso il giudice competente ex art 16. Però vi è anche da dire che di fronte all’impossibilità di stabilire preventivamente un elenco esaustivo delle varie ipotesi di conflitto, il legislatore ha fatto ricorso alla categoria dei conflitti analoghi, i quali pur strutturandosi in maniera diversa rispetto a quelli contemplati dal 1 comma dell’art 28, sono sottoposti alla stessa regolamentazione: si pensi ad un conflitto tra due tribunali di sorveglianza in tema di competenza territoriale, dove il contrasto non ha per oggetto il fatto su cui verte l’imputazione, com’è invece espressamente richiesto dalla legge per la configurabilità del conflitto “tipico”. Tuttavia, non è consentito far rientrare nella categoria dei conflitti analoghi il contrasto che ha come protagonisti, da un lato, il giudice, e dall’altro, il P.M, in quanto i conflitti regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale e non possono riguardare un soggetto (P.M.) che, a maggior ragione nel sistema del codice vigente, ha la funzione di parte, anche se pubblica. Ad originare il procedimento del conflitto è:  La denuncia del P.M presso uno dei giudici del conflitto (art 30 comma 2);  La denuncia delle parti private (art 30 comma 2) presso uno dei giudici del conflitto;  L’incompetenza viene rilevata d’ufficio da uno dei giudici (art 30 comma 1). L’ordinanza che rileva il conflitto è trasmessa alla corte di Cassazione con la copia degli atti necessari alla decisione. Occorre ricordare che né la denuncia, né l’ordinanza hanno effetto sospensivo sul procedimento (art 30 comma 3). La corte di cassazione decide in camera di consiglio, con la procedura stabilita dall’art 127, con sentenza e indica quale è il giudice competente a procedere (art 32). La decisione della corte è vincolante, salvo che risultino nuovi fatti che determinano la competenza di un giudice superiore o comportino una diversa definizione giuridica. La disciplina dettata in tema di controllo del difetto di giurisdizione e di competenza persegue un duplice obiettivo: per un verso, quello di anticipare quanto più è possibile la risposta definitiva sulla giurisdizione e sulla competenza, in modo da non distogliere il procedimento dal suo vero oggetto, relativo all’accertamento dei fatti e delle responsabilità; per un altro verso, quello di scongiurare i rischi di regressione di procedimenti giunti in stadi avanzati, evitando le eccezioni tardive. In questa direzione gli art. 20 e 21 indicano i momenti in cui può essere sollevata la relativa questione. L’inosservanza delle disposizioni che regolano la competenza comporta che il giudice dichiari la propria incompetenza. Differenti sono i termini entro i quali il giudice può rilevare tale difetto: infatti quanto al difetto di giurisdizione si prevede che lo stesso possa essere rilevato, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento (art 20 comma 1): quindi a cominciare dalla fase delle indagini preliminare. Se il difetto di giurisprudenza è rilevato nel corso delle indagini preliminari, il giudice provvede con ordinanza e dispone la restituzione degli atti al P.M., fermo restando che la sua ordinanza non 25 risolva definitivamente la questione: mutata, per ipotesi, la situazione processuale, di fronte ad una successiva richiesta del P.M, potrà accadere che il giudice si pronunci su di essa, riconoscendo implicitamente la propria giurisdizione. Dopo la chiusura delle indagini preliminari e in ogni stato e grado del processo, il giudice pronuncia, invece, la sentenza e ordina, eccettuata l’ipotesi di un difetto assoluto di giurisdizione, che gli atti vengano trasmessi all’autorità competente (art 20 comma 2). Se differenti sono i termini, identica, invece, è la normativa sull’efficacia degli atti che siano stati compiuti dal giudice incompetente. Di regola, le prove acquistate restano efficaci (art 26), mentre le dichiarazioni, se ancora ripetibili, diventano utilizzabili in giudizio soltanto con il meccanismo delle contestazioni probatorie. Le misure cautelari, invece, già disposte conservano la loro efficacia provvisoria limitata a 20gg dall’ordinanza che dichiara l’incompetenza e che trasmette gli atti. Entro tale termine il giudice deve disporre una nuova misura cautelare, se lo ritiene necessario. (art 27) Per quanto concerne l’incompetenza occorre preliminarmente distinguere tra:  INCOMPETENZA PER MATERIA: L’incompetenza per materia è l’incompetenza più grave, tant’è che viene trattata alla stregua delle nullità assolute. L’incompetenza per materia può essere rilevata anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, quindi anche in cassazione, con l’effetto di ricominciare il processo da capo. Tuttavia, in tema di incompetenza per materia, le norme sono più rigorose quando è eccepita o rilevanza un’incompetenza “per difetto”, e cioè quando sta procedendo un giudice “inferiore”, il quale per definizione, è meno idoneo a giudicare rispetto ad un giudice “superiore”. Così’ avviene che, se un tribunale procede per un reato di competenza della corte d’assise, l’incompetenza è rilevabile fino a quando non si è prevenuti ad una sentenza irrevocabile (art 21 comma 1). Meno rigoroso è, invece, il regime giuridico quando un giudice superiore stia procedendo per un reato di competenza di un giudice inferiore (art 23 comma 2). Pertanto, se la corte d’assise sta procedendo per un reato di competenza del tribunale, l’incompetenza “per eccesso” può essere rilevata anche d’ufficio, ma non oltre le questioni preliminari prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. Inoltre, se il giudice di primo grado, errando, avesse ritenuto di essere competente, la corte d’appello che accerti un’incompetenza “per eccesso” deve decidere nel merito (art 24 comma 2).  INCOMPETENZA PET TERRITORIO: Un regime attenuato vale per la declaratoria dell’incompetenza per territorio, che è eccepibile dalle parti, ma è rilevabile dal giudice fino alla chiusura della discussione finale nell’udienza preliminare. Quando l’udienza medesima non ha luogo, l’incompetenza per territorio deve essere eccepita o rilevata nel corso delle questioni preliminari in dibattimento (art 21 comma 2). 26 Se l’eccezione è respinta in udienza, può essere ripresentata nelle questioni preliminari, se è respinta, invece, in tale sede, deve costituire oggetto di uno specifico provvedimento di impugnazione, altrimenti la questione è preclusa (art 24 comma 1). La declaratoria di incompetenza: la pronuncia del giudice che dichiara l’incompetenza presenta alcune peculiarità. Nel corso delle indagini preliminari il giudice dichiara l’incompetenza con ordinanza e si limita a restituire gli atti al P.M. che in questo momento sta conducendo le indagini. L’ordinanza produce effetti limitatamente al provvedimento richiesto (art 22 comma 2) e non impedisce al P.M. di svolgere le indagini. Dopo la chiusura delle indagini il giudice dichiara l’incompetenza con sentenza e trasmette gli atti al P.M. presso il giudice competente (art 22 comma 3). Nel corso del dibattimento di primo grado il giudice dichiara la propria incompetenza con sentenza e trasmette gli atti al P.M. presso il giudice competente. Nell’ipotesi in cui anche detto giudice ritenga che sussista la propria incompetenza, troveranno applicazione le disposizioni inerenti le modalità di risoluzione dei conflitti (art 28; art 30). In sede di appello, se il giudice rileva che su un reato di competenza della corte d’assise ha giudicato il tribunale, oppure che su un reato di competenza del tribunale ha giudicato il giudice di pace, pronuncia sentenza di annullamento e ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice di primo grado (art 24 comma 1). Nell’ipotesi inversa, invece, il giudice di appello, salvo che si tratti di decisione inappellabile, pronuncia invece nel merito, anche quando l’eccezione di incompetenza, ritualmente formulata in primo grado ai sensi dell’art 23 comma 2, sia stata riproposta con i motivi di appello (art 24 comma 2). Con riferimento all’incompetenza per territorio o connessione, è prevista la pronuncia di una sentenza di annullamento da parte del giudice di appello e la conseguente trasmissione degli atti, rispettivamente al P.M. presso il giudice di primo grado. A tal fine, è indispensabile che l’incompetenza per territorio o per connessione, dopo essere stata eccepita in primo grado entro i termini previsti dall’art 21 comma 2 e 3, sia stata denunciata con i motivi di appello (art 24 comma 1); altrimenti il giudice d’appello, nonostante l’incompetenza del giudice di primo grado, deve – sempre che si tratti di una decisione appellabile – pronunciare nel merito. Nel giudizio davanti alla Corte di Cassazione, quest’ultima è tenuta a dichiarare, anche d’ufficio, l’incompetenza per materia derivante dall’avere il tribunale giudicato un reato di competenza della corte d’assise. Può essere eventualmente dichiarata anche l’incompetenza per territorio o per connessione, purchè la relativa eccezione, tempestivamente proposta in primo grafo e riproposta nei motivi di appello, sia stata ulteriormente riproposta nei motivi del ricorso per cassazione. La decisione della corte di Cassazione è vincolante nel corso del processo: può essere superata nella sola ipotesi in cui risultino fatti nuovi che, incidendo sul nome delicti, implichino la modificazione della giurisdizione oppure la competenza del giudice superiore (art 25). 27 11. Le cause personali di estromissione del giudice: incompatibilità, astensione, ricusazione. Nel capo VII del libro I sono regolate le ipotesi in cui il giudice ha l’obbligo di non esercitare la funzione giurisdizionale (astensione) e le parti hanno diritto di chiedere l’estromissione (ricusazione). Invece nel capo VIII del libro I sono regolate le ipotesi di rimissione. Per quanto riguarda, in particolare, le cause d’incompatibilità, esse sono previste autonomamente negli art. 34 e 35. Le cause d’incompatibilità sono stabilite, in parte, dalle leggi dell’ordinamento giudiziario e, in parte, dalle norme del codice di rito. Le prime attengono esclusivamente alla costituzione dell’organo giudicante e prefigurano alcune condizioni dirette ad assicurare che la persona chiamata ad esercitare la funzione giurisdizionale non solo sia, ma anche appaia imparziale. L’imparzialità del giudice persona-fisica non è una qualità innata o carismatica della quale egli è dotato in virtù del fatto di aver superato un concorso pubblico e di avere una determinata qualifica. La storia ci insegna che l’imparzialità, perché sia effettiva, deve essere fondata sui seguenti principi:  La soggezione del giudice alla legge: soltanto la presenza di legge, che indichino con precisione quali fatti sono reato e quali poteri processuali debbano essere esercitati, impedisce che il giudice sia influenzato dall’esterno (dal potere economico, politico, sindacale) o dall’interno (soggettivismi caratteriali ed ideologismi del singolo magistrato). Non è sufficiente garantire il cittadino contro l’arbitrio del potere esecutivo e del potere legislativo; occorre, altresì, garantirlo contro l’arbitrio del giudice e per fare ciò, sono necessarie leggi precise, certe, che non lascino al giudice quelle scelte discrezionali che devono essere compiute dal potere legislativo.  La separazione tra le funzioni giurisdizionali e quelle che sono tipiche di una parte: l’imparzialità è fondata sulla separazione delle principali funzioni processuali in soggetti distinti, e cioè l’accusa, la difesa ed il giudice. Se il giudice cumula i poteri di una parte (ad esempio i poteri dell’accusa), la sua funzione decidente rischia di essere sviata, anche inconsciamente, dagli ulteriori poteri che egli è chiamato ad esercitare. Di riflesso, se la pubblica accusa esercita i poteri del giudice, inevitabilmente diminuisce l’imparzialità della funzione giudicante.  La terzietà: in base all’art 111 cost. il processo deve svolgersi “dinanzi al giudice terzo e imparziale”. Non si tratta di un’endiadi: l’imparzialità concerne la funzione esercitata nel processo ed impone che non v siano legami tra il giudice e le parti.  L’impregiudicatezza come situazione psichica di assenza della forza della prevenzione: Vi è imparzialità quando il giudice è in una condizione di impregiudicatezza rispetto alla questione da decidere. L’impregiudicatezza è un requisito che concerne l’atteggiamento interiore del giudice rispetto alla decisione da prendere: esso manca quando il giudice ha già emesso una decisione sulla responsabilità del medesimo imputato in relazione al medesimo reato. 30 La situazione di impregiudicatezza è stata definita dalla Corte Costituzionale come “assenza di un pre-giudizio rispetto all’oggetto del procedimento (la c.d. res iudicanda, e cioè, la responsabilità dell’imputato”. Il fondamento teorico di tale asserto è stato individuato nella “forza della prevenzione” che, ad avviso del Giudice delle leggi, consiste nella naturale tendenza di ogni persona a mantenere fermo un giudizio già espresso.  L’equidistanza delle parti (nel senso che il giudice deve essere super partes): il giudice non deve avere legami né con le parti né con l’oggetto del procedimento. Ad esempio, l’art 19 comma 1 ord. giud., nella versione aggiornata con il d.lgs. n.109/2006, prevede che non possano far parte della stessa corte, dello stesso tribunale o dello stesso ufficio giudiziario i magistrati legati tra loro da un vincolo di parentela o affinità fino al secondo grado, oppure dal vincolo di coniugo o di convivenza.  La presenza di garanzie procedimentali che consentano di estromettere il giudice che sia (o appaia) non imparziale: concerne il rimedio della ricusazione. Con più specifico riferimento al catalogo codicistico, bisogna preliminarmente distinguere tra 2 diverse incompatibilità: l’incompatibilità per ragioni di parentela, affinità o coniugio, regolata dall’art 35 e l’incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento, regolata dall’art 34. Quando si parla di incompatibilità ci si riferisce alla situazione di incapacità del giudice di svolgere una determinata funzione in relazione ad un determinato procedimento. Rispetto alla funzione del giudice, l’incompatibilità, disciplinata ai sensi dell’art 34, scatta nelle situazioni nelle quali appare carente la caratteristica dell’impregiudicatezza. Dal punto di vista operativo, le situazioni che danno luogo all’incompatibilità sono facilmente conoscibili ex ante rispetto al momento in cui il magistrato è assegnato ad un determinato procedimento. Ciò vuol dire che l’impregiudicatezza del giudice può essere apprezzata fin dal momento della formazione dell’organo giudicante. Pertanto, le situazioni di incompatibilità impediscono ad un magistrato di essere designato a svolgere le funzioni di giudice in un determinato procedimento; se non vengono accertate preventivamente al momento della formazione dell’organo, le situazioni di incompatibilità diventano motivi di astensione o di ricusazione. L’incompatibilità disciplinata dall’art 34, dopo l’ampliamento operato dall’art 171 del decreto attuativo della legge delega in tema di giudice unico, contempla 4 diverse tipologie di situazioni che danno luogo ad incompatibilità: 1. Aver pronunciato la sentenza in un precedente grado del medesimo procedimento: Il giudice che ha pronunciato o ha concorso a pronunciare sentenza in un grado del procedimento non può esercitare funzioni di giudice negli altri gradi, né partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento da parte della corte di cassazione o al giudizio per revisione (art 34 comma 1) 31 2. Aver emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare e Aver emesso il decreto penale di condanna: 3. Aver disposto il giudizio immediato: 4. Aver deciso sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere: Il giudice che ha pronunciato il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare o ha disposto il giudizio immediato o ha emesso decreto penale di condanna o il giudice che ha deciso sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere, pronunciata dal giudice dell’udienza preliminare - in base all’art 34 comma 2, il cui contenuto risulta parzialmente superato dal nuovo comma 2-bis – non può partecipare al “giudizio” (termine che in base a quanto precisato dalla Corte Costituzionale, deve ritenersi riferibile sia al giudizio abbreviato sia all’udienza preliminare) La portata di questa previsione normativa risulta ampliata in seguito ad una serie di sentenze additive della Corte Costituzionale, la quale ha ritenuto ingiustificatamente escluse dall’art 34 comma 2 specifiche situazioni che, implicando a loro volta una penetrante deliberazione del merito della regiudicanda, devono ritenersi idonee a compromettere l’imparzialità del giudice. Il giudice che in un determinato procedimento ha esercitato le funzioni di giudice per le indagini preliminari non può in quello stesso procedimento emettere il decreto penale di condanna, né partecipare al giudizio; inoltre, è incompatibile alla funzione di giudice dell’udienza preliminare (art 34 comma 2-bis). Questa disposizione introdotta dall’art 171 d.lgs. n.51/1998, è stata successivamente precisata nella sua portata dal comma 2-ter, il quale, in deroga alla previsione del comma precedente, esclude la ricorrenza di una situazione di incompatibilità allorché il giudice per le indagini preliminari si sia limitato ad adottare, nell’ambito del medesimo procedimento, taluno dei seguenti provvedimenti, ritenuti inidonei a determinare una situazione di pregiudizio: a) Il provvedimento con cui si autorizza il trasferimento in un luogo esterno di cura dell’indagato sottoposto a custodia cautelare in carcere e quello con cui si autorizza il medesimo ad essere visitato da un sanitario di fiducia. b) I provvedimenti relativi ai permessi di colloquio, alla corrispondenza telefonica e al visto di controllo sulla corrispondenza, concernenti l’indagato sottoposto a custodia cautelare in carcere. c) Il provvedimento con cui si accoglie o si rigetta la richiesta di permesso di uscire dal carcere in presenza dell’imminente pericolo di vita di un familiare o del convivente della persona sottoposta ad indagini o in presenza di altri eventi di particolare gravità inerenti alla sua famiglia. d) Il provvedimento con cui una parte o un difensore vengono restituiti in un termine stabilito a pena di decadenza (art 175). e) Il provvedimento con cui viene dichiarata la latitanza dell’indagato. 32 La stessa corte può anche disporre, con ordinanza, che il giudice ricusato sospenda temporaneamente ogni attività processuale o si limiti al compimento degli atti urgenti. Quanto agli effetti della dichiarazione di recusazione: la semplice presentazione della dichiarazione non comporta per il giudice ricusato alcuna limitazione di poteri nello svolgimento dei compiti istituzionali, né tanto meno l’insorgere di un obbligo di astensione. L’unico divieto imposto è quello contemplato dall’art 37 comma 2, il quale prevede che al giudice ricusato non è consentito pronunciare né concorrere alla pronuncia della sentenzia fino a che non sia intervenuta l’ordinanza che dichiara l’inammissibilità o rigetta la ricusazione. Circa la portata del medesimo divieto si è pronunciata la Corte di Cassazione a Sezione Unte, la quale ha così statuito: nell’ipotesi in cui venga assunta la decisione da parte del giudice, nei confronti de quale è stata formulata a dichiarazione di ricusazione, tale decisione conserva la sua validità qualora la richiesta venga poi dichiarata inammissibile o infondata dall’organo competente ai sensi dell’art 40 comma 1; qualora invece la richiesta di ricusazione venga accolta, il provvedimento emesso in violazione del divieto sancito ai sensi dell’art 37 comma 2 deve ritenersi viziato di nullità assoluta. 12. La rimessione del processo. Gli art 45-29 disciplinano la rimessione del processo. Vi possono essere casi nei quali si presume, iuris et de juri, pregiudicata l’imparzialità dell’intero ufficio giudicante territorialmente competente a prescindere da situazioni che riguardano il singolo magistrato che lo compone. In questi casi il codice prevede lo spostamento della competenza per territorio ad un altro organo giudicante (con la medesima competenza per materia) situato presso il capoluogo del distretto di corte d’appello che è individuato in base all’art 11. Anche in questi casi si vuole salvaguardare l’imparzialità di chi giudica: diversamente dall’astensione e dalla recusazione, ad essere messa in dubbio non è l’imparzialità del magistrato in quanto persona fisica, ma quella dell’organo giudicante nel suo complesso. Ai sensi dell’art 45 la rimessione può essere richiesta in ogni stato e grado del processo di merito dell’imputato, dal procuratore generale presso al corte d’appello e dal pubblico ministero presso il giudice procedente. I motivi per i quali è possibile richiedere rimessione sono 3: 1. Sicurezza e incolumità pubblica 2. Libera determinazione delle persone che partecipano al processo 3. Motivi di legittimo sospetto Nei medesimi casi nei quali è prevista la rimessione devono essere presenti, al contempo, gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili. La situazione deve essere grave, e cioè occorre che sia presente una obiettiva situazione di fatto che lasci fondatamente presagire un esito non imparziale e non sereno del giudizio. La situazione deve essere locale, e cioè non diffusa sull’intero territorio nazionale. La situazione deve essere esterna rispetto al processo, e cioè non deve consistere in un fenomeno connesso alla dialettica processuale. 35 Se sono ovvie le ragioni che inducono ad escludere l’operatività dell’istituto quando il processo pende davanti alla corte di cassazione, assai meno scontata, in considerazione degli importati provvedimenti che il giudice può assumere durante le indagini preliminari, risulta la scelta di subordinare la richiesta di rimessione all’avvenuto esercizio dell’azione penale. Ai sensi dell’art 46 la richiesta di rimessione proveniente dall’imputato deve essere, a pena di inammissibilità, sottoscritta da lui personalmente o da un suo procuratore speciale, e, sempre a pena di inammissibilità, dopo essere stata depositata nella cancelleria del giudice unitamente ai documenti che la giustificano, va notificato, entro 7gg, a cura del richiedente alle altre parti. Una volta depositate, la richiesta e la relativa documentazione sono immediatamente trasmesse alla corte di cassazione ad opera del giudice procedente, al quale è consentito formulare proprie osservazioni aggiuntive. [Come individuare il giudice competente per rimessione. Supponiamo che accada a Ravenna un omicidio: sarebbe competente la corte d’Assise, ma per ragioni di ordine pubblico è necessario rimettere il processo. Ravenna è dentro il distretto della corte d’appello di Bologna. Intanto dovrà essere una corte d’Assise, inoltre della città stabilita alla stregua dell’art.1 disp.att., quindi nella corte d’Assise di Ancona. Giudice ugualmente competente per materia nella città indicata nella tabella allegata all’art.1, che sia sede della corte d’appello.] Inoltre, sulla base dell’art 47 comma 1, si recita che è lo stesso giudice procedente che, in seguito alla presentazione della richiesta, può disporre la sospensione del processo fino a che non sia intervenuta l’ordinanza di inammissibilità o di rigetto. Analogamente, dopo essere stata investita della richiesta, la corte di cassazione può disporre la sospensione. Quanto ai presupposti delle due ipotesi di sospensione facoltativa si deve prendere atto del silenzio del legislatore che può essere superato ritenendo la sospensione ancorata ai requisiti del fumus bonis iuris e del periculum in mora. Qualora, tuttavia, l’iter del processo non sia stato interrotto, è previsa comunque la sua sospensione obbligatoria, rispetto alla quale funge da necessaria premessa la comunicazione da parte della corte di cassazione, che, non avendo il presidente della medesima corte rilevato, nell’ambito del suo esame preliminare, alcuna causa di inammissibilità tale da giustificare l’investitura della sezione- filtro, è avvenuta l’assegnazione della richiesta ad una delle altre sezioni della corte oppure alle sezioni unite. In seguito a tale comunicazione, il giudice procedente deve sospendere il processo della discussione, in sede dibattimentale, e resta preclusa la pronuncia sia del decreto che dispone il giudizio sia della sentenza. Anche in questo caso la sospensione dura fino a che non venga pronunciata l’ordinanza della corte che dichiari inammissibile o rigetti la richiesta. Si è, però, dovuto tenere anche conto della sentenza costituzionale n.353 del 1996 che ha dettato la regola per cui si escluda la sospensione quando la richiesta non è fondata su elementi nuovi rispetto a quelli di una precedente richiesta rigettata o dichiarata inammissibile. Il provvedimento che ordina la sospensione non impedisce il compimento di atti urgenti, ma ha effetto fino a che la cassazione non si sia pronunciata sulla richiesta di rimessione e comporta la sospensione della prescrizione del reato e dei termini di custodia cautelare (art 47 comma 3 e 4). Successivamente alle valutazioni della Corte di Cassazione si giunge alla decisione. 36 La decisione della corte di cassazione, che procede in camera di consiglio assume la forma dell’ordinanza. L’ordinanza può essere di rigetto, di accoglimento o di inamissibilità. In caso di ordinanza di accoglimento, questa deve contenere l’indicazione del nuovo giudice, individuato ai sensi dell’art 11 e deve essere comunicata senza ritardo al giudice che procede e a quello designato. Il giudice designato provvede alla rinnovazione degli atti compiuti anteriormente alla rimessione quando ne è richiesto da una delle parti e non si tratta di atti di cui è diventata impossibile la ripetizione. In caso di ordinanza di rigetto o di inammissibilità della richiesta delle parti, il giudice può condannare le parti al pagamento a favore della cassa delle ammende di una somma da 1000 a 5000 euro. In base alla Legge Orlando, la quale ha l’obiettivo di disincentivare la presentazione di richieste azzardate, la somma potrà essere aumentata fino al doppio tenuto conto della causa di inammissibilità della richiesta; il suo importo sarà adeguato all’ISTAT. Quanto infine alla conservazione degli atti del processo oggetto di remissione vale la regola secondo cui il giudice designato procede alla rinnovazione degli atti quanto una delle parti ne faccia richiesta, con due sole eccezioni concernenti, da un lato, l’ipotesi che si tratti di atti di cui è diventata impossibile la ripetizione, e, dall’altro, l’eventualità che si versi in una delle situazioni rispettivamente contemplate dal comma 1 e 1-bis dell’art 190. Nuova richiesta di rimessione: art 49. CASI DI RIMESSIONE: Caso del delitto Matteotti, anno 1924. Il deputato socialista antifascista denuncia una serie di imbrogli elettorali nella zona della provincia di Rovigo, nell’aprile del 1924. Il delitto Matteotti segna il passaggio da un fascismo che ancora riconosce altri partiti oltre il proprio ad un fascismo totalitario e dittatoriale. Nel giugno del 1924 Matteotti, che abitava vicino piazza del popolo, viene rapito mentre si recava in parlamento, per sottrargli dei documenti o per dargli una lezione. Durante una collusione rimane ferito ad un’ascella, si presume incidentale, e lo sotterrano in un bosco. Verrà trovato ad agosto. Ne nasce un procedimento penale che si orienta verso una banda di soggetti che già si erano resi responsabili di azioni squadriste, la banda Dumini. Arrivati al punto di rinvio a giudizio, il dibattimento non si voleva fare a Roma. Viene spostato a Chieti. I giudici togati sono più proni al regime e finiscono con il condannare a pene lievi, non per omicidio volontario ma preterintenzionale, con una derubricazione della responsabilità penale. Questo è stato voluto dalla politica, per evitare che Roma diventasse un luogo di discussione nel caso. 37 A sua volta, l’art 50 comma 2 ribadisce il tradizionale principio dell’officialità dell’azione penale, circoscrivendo l’efficacia delle condizioni di procedibilità alla querela, richiesta, istanza, autorizzazione a procedere. Tale elenco però non è esaustivo. Suona pertanto più adeguata la formula aperta adottata dall’art 345 comma 2: sono ad esempio, generalmente ritenute condizioni di procedibilità la presenza del reo nel territorio dello Stato per i delitti comuni dei cittadini e dello straniero commessi all’estero (art 10 c.p.); oppure l’assenza di una sentenza o di un decreto penale irrevocabili pronunciati nei confronti della medesima persona per il medesimo fatto. Trattandosi di fatti o atti giuridici in mancanza dei quali il P.M non può agire validamente, le condizioni di procedibilità sono suscettibili, in concreto, di collidere con il principio dell’esercizio obbligatorio dell’azione penale. Il 3 comma dell’art 50 esprime, invece, il tradizionale principio della irretrattabilità dell’azione penale: questa, una volta esercitata, esce dalla sfera del suo autore e comporta l’insorgere di un dovere decisorio in capo al giudice. Ciò equivale a dire che l’oggetto del processo penale è indisponibile e che esso si può chiudere solo con l’emissione di una sentenza o di un atto equivalente. naturalmente, a tal punto, è necessario sottoporre le cause di sospensione o di interruzione dell’azione penale al principio di tassatività. 14. L’organizzazione e la distribuzione del lavoro tra gli uffici. Esistono diversi rapporti:  I rapporti con il potere politico: La scelta compiuta dalla Costituzione è stata quella di configurare il pubblico ministero come rappresentante della legge. La soluzione tende a tenere il pubblico ministero fuori dalla dipendenza politica, e cioè a svincolarlo dal controllo operato dal potere esecutiva o dal potere legislativo. Il pubblico ministero è vincolato “alla legge”, e cioè al prodotto legislativo. Nell’ordinamento italiano il magistrato del pubblico ministero ha garanzie di indipendenza simili a quella dei giudici. La soluzione è apparsa adeguata al nostro sistema, nel quale non è contemplata la separazione tra potere legislativo e potere esecutivo e, quindi, un efficace controllo del primo sul secondo.  I rapporti all’interno dell’ufficio: I rapporti di dipendenza gerarchica, che esistono all’interno dell’ufficio del pubblico ministero, assumono una configurazione tutta particolare perché devono contemperare due esigenze contrapposte. La prima irrinunciabile esigenza, imposta dalla Costituzione, è quella di garantire la posizione di indipendenza del singolo magistrato del pubblico ministero che ha l’obbligo di osservare la legge. 40 La seconda esigenza, parimenti irrinunciabile, tende ad assicurare la buona organizzazione dell’ufficio della pubblica accusa, che non ha funzioni meramente decisorie, bensì ha oneri di iniziativa e di impulso del procedimento penale. Vi è la necessità di coordinare indagini condotte da più magistrati per evitare intralci reciproci. Inoltre, occorre che le direttive impartite alla polizia giudiziaria siano unitarie. Tuttavia, la materia ha cambiato la configurazione che aveva nel 1988; il cambiamento è dovuto alla legge-delega n.150 del 2005 sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, alla quale è seguito il d.lgs. n.106 del 2006 e la legge 24 ottobre 2006 n.269 che hanno introdotto ulteriori modifiche. La normativa vigente risulta configurata nel modo che veniamo ad esporre. In estrema sintesi, si è passati da un sistema classificabile come “personalizzazione delle funzioni” il titolare dell’ufficio designava il magistrato che doveva svolgere le indagini nel singolo procedimento in modo automatico in base ad un sistema tabellare che era fondato su criteri predeterminati. Detto sistema era previsto dalla legge per il giudice, ma il CSM con varie circolari lo aveva esteso agli uffici della pubblica accusa. Il magistrato designato conservava una vera e propria autonomia operativa, poiché il capo dell’ufficio del pubblico ministero poteva dare soltanto direttive di carattere generale per l’organizzazione dell’ufficio, e non di carattere particolare, relative allo svolgimento del singolo procedimento. La revoca della designazione era consentita soltanto in casi tassativi: e cioè quando il magistrato intendeva formulare richieste in contrasto con le direttive di carattere generale, o quando le richieste erano insostenibili sul piano tecnico. In base alle norme oggi vigenti, i criteri automatici non costituiscono più l’unica modalità di attribuzione di un caso; il procuratore della repubblica può assegnare un procedimento ad un determinato sostituto in deroga al criterio di autonomia previsto dal “progetto organizzativo”. Il principio generale sta nella titolarità esclusiva spettante al procuratore della repubblica, che esercitano l’azione penale personalmente o mediante assegnazione ad uno o più magistrati addetti all’ufficio. La novità sta nel fatto che non si tratta più di quella “designazione” che era prevista nel testo del 1988 e che lasciava piena autonomia operativa al singolo sostituto. La legge n.269 del 24 ottobre 2006 ha introdotto un nuovo istituto: la “assegnazione”, la cui natura giuridica consiste nel conferire poteri con limitata autonomia funzionale, come afferma la Relazione ministeriale. In base alla disposizione modificata, il procuratore della Repubblica, quale titolare esclusivo dell’azione penale, la esercita personalmente o mediante assegnazione ad uno o più magistrati dell’ufficio (art 2 comma 1). Con l’atto di assegnazione il procuratore può stabilire i criteri (generali, ma anche particolari per il singolo procedimento) ai quai il magistrato deve attenersi nell’esercizio della relativa attività. Quando i criteri generali o particolari sono violati, o comunque quando si verifica un contrasto con il titolare dell’ufficio, questo può revocare l’assegnazione con provvedimento motivato (art 2 comma 3). Entro 10gg dalla comunicazione della revoca, il magistrato può presentare osservazioni scritte al procuratore della repubblica, ove non intervenga un chiarimento delle rispettive 41 posizioni, sia il titolare dell’ufficio, sia il magistrato interessato possano segnalare la relativa revoca del CSM per i provvedimenti di competenza di quest’ultimo. Un caso particolare di direttiva è quella che concerne l’impiego della polizia giudiziaria. Il procuratore della repubblica determina i criteri generali ai quali i magistrati addetti all’ufficio devono attenersi nell’impiego della polizia giudiziaria, nell’uso delle risorse tecnologiche assegnate e nell’utilizzazione delle risorse finanziarie delle quali l’ufficio può disporre (art 4). Tuttavia, il potere direttivo del titolare si attenua quando il magistrato si trova in udienza. In tal caso, il magistrato del pubblico ministero esercita le sue funzioni con “piena” autonomia. Il capo dell’ufficio provvede alla sostituzione soltanto su consenso dell’interessato o, se il consenso manca, nel caso di grave impedimento o di rilevanti esigenze di servizio. Inoltre, vi è l’obbligo di provvedere ala sostituzione se il magistrato ha un interesse “privato” nel procedimento (art 53 comma 2). Quando ciò avviene, il titolare dell’ufficio deve trasmettere al consiglio superiore della magistratura copia del provvedimento motivato con cui ha disposto la sostituzione del magistrato. Se il capo dell’ufficio non provvede alla sostituzione, il procuratore generale presso la corte d’appello deve disporre l’avocazione ai sensi dell’art 53 comma 3. Nelle medesime ipotesi il procuratore generale deve disporre l’avocazione al di fuori dell’udienza o anche quando, in conseguenza dell’astensione o dell’incompatibilità del magistrato designato, non è possibile provveder alla sua tempestiva sostituzione. [Ricapitolando su Avocazione: L’avocazione è il potere dell’organo superiore di sostituirsi all’organo inferiore nello svolgimento di una determinata attività. Il codice attribuisce al potere di avocazione al procuratore generale presso la corte d’appello nei confronti del P.M. presso il tribunale quando sono presenti situazioni espressamente previste dalla legge. Ciò avviene quando il titolare, o un magistrato dell’ufficio inferiore, hanno ommesso attività doverosa o quando comunque il procedimento penale rischia una stasi per l’inerzia del magistrato del pubblico ministero. Il potere di avocazione mira a conciliare i principi di indipendenza del magistrato della pubblica accusa con quelli della buona amministrazione dell’ufficio o della ragionevole durata del processo. In concreto, in base al provvedimento di avocazione un magistrato della procura generale presso la corte di appello sostituisce un magistrato del pubblico ministero di primo grado nel compimento di quell’attività che quest’ultimo sta svolgendo. Il provvedimento deve essere motivato e trasmesso al CSM e al magistrato “avocato”, il quale può proporre reclamo al procuratore generale presso la corte di cassazione. L’avocazione inoltre può essere obbligatoria o discrezionale. E’ obbligatoria quando vi sia stata inerzia del P.M che non ha provveduto nei termini ad esercitare l’azione penale o a chiedere l’archiviazione; se è impossibile sostituire il magistrato della pubblica accusa perché questi è incompatibile o si è astenuto; se il capo dell’ufficio inferiore ha ommesso di sostituire il magistrato nei casi in cui era obbligatoria la sostituzione; se in caso di delitti di criminalità organizzata politica o terroristica, è mancato il coordinamento delle indagini collegate e non hanno avuto esisto positivo le riunioni indette dal procuratore generale. E’ discrezionale se il giudice per indagini preliminari non ha accolto la richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero o l’offeso si è opposto alla richiesta; quando il giudice dell’udienza preliminare ha ritenuto incomplete le indagini e ha indicato al pubblico ministero ulteriori indagini da compiere.] 42 Il problema era di difficile soluzione perché occorreva mantenere integra la scelta fondamentale, fatta dall’ordinamento italiano, di un pubblico ministero indipendente dal potere politico. Accolta tale scelta, era esclusa la possibilità di creare una gerarchia tra gli uffici del p.m. in quanto avrebbe imposto un qualche controllo politico sul vertice. Ed allora è rimasta altra possibilità se non quella di creare uno stretto coordinamento tra gli uffici indipendenti, rendendolo tuttavia coercibile. La soluzione proposta da Falcone e approvata dal Parlamento ha condotta all’esecuzione di numerose modifiche, le quali hanno ridotto, da un lato, il numero delle procure legittimate a svolgere indagini in materia di associazione a delinquete mafiosa e, dall’altro, hanno permesso di istituire una procura nazionale antimafia. [Digressione: Si parla della direzione investigativa antimafia e dei servizi centrali e interprovinciali delle forze di polizia. Questi sono stati istituiti nell’autunno del 1991. I servizi centrali interprovinciali nella primavera del 1991. Si realizzò prima l’esigenza di centralizzare le informazioni per contrastare fenomeni che valicano gli stretti confini territoriali. Questo determinò un senso di arretratezza delle procure della repubblica, per cui la polizia avendo una visione più generale dei fenomeni poteva influenzare meglio l’attività dei pm. Questo risponde all’art.109 cost.: l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria. Il rapporto di dipendenza dunque si rovescia. Questo è un argomento per cui combatté Giovanni Falcone sulla creazione delle procure antimafia. Si temeva però di creare un organo troppo potente che avrebbe posto un problema di relazione con il potere politico. L’argomento che Falcone utilizzò fu proprio questo: diceva che si sarebbe finiti comunque col dipendere dalla politica, perché dalla politica dipendono anche i servizi di polizia. Fu chiamata anche FBI all’italiana quando furono create, con l’obiettivo di mettere insieme le tre principali forze di polizia. È stato un tentativo fallito, in funzione antiterrorismo, di unificarli.] Dunque, attualmente, esistono 2 tipologie di procure: 1. Procura distrettuale: La procura distrettuale è l’ufficio della procura della Repubblica presso il tribunale del capoluogo di ciascuno dei ventisei distretti di corti d’appello. L’ufficio svolge le funzioni di pubblico ministero in primo grado per tutti reati previsti dall’art 51, commi 3 bis, 3 quater, 3 quinquies che sono di competenza di un giudice appartenente al singolo distretto di corte d’appello. Si tratta dei delitti di criminalità organizzata mafiosa e assimilati, dei delitti con finalità di terrorismo, dei delitti in materia di pedopornografia, di reati informatici, di intercettazione abusiva. Per tali delitti la procura distrettuale svolge le indagini preliminari ed esercita le funzioni di accusa pubblica nell’udienza preliminare e nel dibattimento entro l’ambito territoriale del distretto della Corte di appello. E’ necessario, tuttavia, precisare che per i reati sopra menzionati il giudice del dibattimento resta quello originariamente competente per materia e per territorio; viceversa, le funzioni del giudice per le indagini preliminari del giudice per l’udienza preliminare devono essere esercitate dai magistrati del tribunale del capoluogo presso cui opera la procura distrettuale. 45 Inoltre, vi è da dire che negli uffici delle procure distrettuali può essere istituito un posto di procuratore aggiunto per specifiche ragioni riguardanti lo svolgimento dei compiti della direzione distrettuale. Lo stesso procuratore distrettuale è preposto all’attività di direzione e cura, in particolare, che i magistrati addetti ottemperino all’obbligo di assicurare la completezza e la tempestività della reciproca informazione sull’andamento delle indagini, eseguendo, inoltre, le direttive impartite per il coordinamento delle investigazioni e per l’impiego della polizia giudiziaria. Salvi casi eccezionali, il procuratore distrettuale designa per l’esercizio delle funzioni di P.M. nei procedimenti in discorso i magistrati addetti alla direzione. La continuità nella designazione può, però venire meno, essendo previsto che il procuratore generale presso la corte d’appello, per giustificati motivi, possa disporre che le funzioni di P.M. per il dibattimento siano esercitate da un magistrato designato dal procuratore della Repubblica presso il giudice competente: l’eccezione alla deroga ripristina, così la regola. Se si considera, infine, che nessuna norma vieta ai magistrati addetti alla direzione distrettuale di essere designati a svolgere indagini anche per altri reati, se ne deduce che essi non sottostanno ad alcun vincolo funzionale, in quanto magistrati per così dire “specializzati”. Infine, all’interno della procura distrettuale è costituita una “direzione distrettuale antimafia” (D.D.A) che non è altro che un gruppo (pool) di magistrati (eletti per 2 anni) che hanno chiesto di dedicarsi esclusivamente ai procedimenti attinenti alla sola criminalità organizzata mafiosa e assimilati, indicati ai sensi dell’art 51 comma 3-bis. I magistrati predetti hanno l’obbligo di coordinarsi in modo stretto sia tra di loro, sia con il procuratore capo. Però a questo punto potrebbe sorgere spontaneo domandarsi: è possibile che si generino dei contrasti tra le diverse direzioni distrettuali? A questo quesito risponde l’art 54-ter che muove da due ipotesi: 1) se il contrasto si verifica tra diverse direzioni distrettuali la risoluzione è affidata al procuratore generale presso la corte di Cassazione, ma al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo è demandata una funzione consultiva. 2) se, invece, il contrasto insorge all’interno del medesimo distretto, il compito tocca al procuratore generale presso la corte d’appello. Poiché in questo caso non potrà che trattarsi di un contrasto tra la direzione distrettuale ed una procura ordinaria, il procuratore antimafia e antiterrorismo diviene, in un certo qual modo, parte in causa. 2. Procura nazionale Antimafia e antiterrorismo (DNA) E’ una procura generale istituita presso la corte di Cassazione con sede a Roma. Alla direzione sono preposti:  Un magistrato con funzioni di procuratore nazionale (capo del medesimo ufficio),  Due magistrati con funzioni di procuratore aggiunto  Tre magistrati che abbiano conseguito la terza valutazione di professionalità che rivestono la carica di sostituti del procuratore nazionale e dei procuratori aggiunti. 46 Tutti i magistrati della direzione sono scelti tra coloro che hanno svolto, anche non continuativamente, funzioni di P.M per almeno un decennio e che abbiano specifiche attitudini, capacità organizzative ed esperienze nella trattazione dei procedimenti in materia di criminalità organizzata e antiterroristica. Si deve però precisare che il procuratore nazionale è nominato dal Consiglio Superiore della Magistratura in seguito ad un accordo (definito “concerto”) con il ministro della Giustizia. Il legislatore ha precisato, inoltre, che l’incarico di procuratore nazionale e di procuratore aggiunto ha una durata quadriennale e può essere rinnovato per una sola volta. L’ufficio del procuratore nazionale è denominato “Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo” e viene composto da 20 magistrati del P.M. nominati dal CSM, sentito il procuratore nazionale. Il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo ha poteri di coordinamento che non toccano l’indipendenza dei singoli uffici del P.M e poteri di impulso alle investigazioni. Al primo nucleo di funzioni (potere di coordinamento) è ascrivibile il compito di assicurare, d’intesa con i procuratori distrettuali interessati, il collegamento investigativo anche tramite i magistrati alla direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo è, inoltre, investito del potere di impartire ai procuratori distrettuali specifiche direttive, alle quali essi devono attenersi al fine di prevenire e risolvere contrasti sulle modalità relative al coordinamento delle attività di indagine. Inoltre, sempre relativamente al primo nucleo, il procuratore nazionale può indire riunioni tra procuratori distrettuali interessati allo scopo di risolvere i contrasti che, nonostante, le direttive specifiche già impartite, hanno impedito di promuovere o rendere effettivo il coordinamento. Infine, sempre relativamente al primo nucleo, il procuratore nazionale può ricorrere allo strumento dell’avocazione come estremo rimedio al mancato coordinamento. Al secondo nucleo di funzioni (potere d’impulso alle investigazioni) è ascrivibile il compito di acquisizione ed elaborazione delle notizie, informazioni e dati attinenti alla criminalità organizzata e ai delitti di terrorismo, anche internazionale, ai fini non solo del coordinamento investigativo, ma pure della repressione dei reati. Il riferimento all’acquisizione rende palese che il procuratore nazionale è abilitato non solo a ricevere ma anche a ricercare le informazioni. Inoltre, sempre relativamente al secondo nucleo, il procuratore nazionale ha la facoltà di procedere a colloqui personali con detenuti ed internati senza necessità di autorizzazione. In sintesi, il procuratore nazionale ha compiti di controllo che gli permettono di verificare se sia effettivo il coordinamento tra i singoli uffici del P.M. che stanno compiendo indagini per i delitti di criminalità organizzata, mafiosa e terroristica, indicati nell’art 51 comma 3, 3- bis, 3-quater; in casi di mancato coordinamento il procuratore deve avocare le indagini (art 371-bis comma 3 lett h). Soltanto di recente, con il decreto n.7/20015, convertito in legge n.43/2015, il legislatore ha anche attribuito il potere di controllo e avocazione, al procuratore nazionale, in tema di delitti di terrorismo nazionale e internazionale. Inoltre, il procuratore nazionale, ha poteri sia di impulso nei confronti dei procuratori distrettuali sia di controllo sull’attività degli organi centralizzati di polizia giudiziaria. 47 L’art 55 comma 2 considera, per completezza, le funzioni che la polizia giudiziaria adempie su ordine o su delega dell’autorità giudiziaria. Per quanto riguarda il P.M. sono da ricordare le direttive impartite ai sensi dell’art 348 comma 3 (c.d. attività guidata) e gli atti delegabili ex art 370. Né vanno dimenticate le funzioni esecutive consistenti nell’eseguire le notificazioni richieste dal P.M con riferimento ai soli atti di indagini o ai provvedimenti che la stessa polizia giudiziaria è delegata a compiere o è tenuta ad eseguire (art 151 comma 1) o nel documentare, mediante verbale o annotazioni, gli atti del titolare delle indagini. Per quanto riguarda il giudice, va rammentato come l’intervento della polizia giudiziaria possa essere chiesto per eseguire provvedimenti ordinatori quali l’accompagnamento coattivo dell’imputato o misure cautelari personali o reali, le perquisizioni e i sequestri. L’elenco di chi riveste la qualifica di ufficiale o di agente di polizia giudiziaria è fornito dall’art 57. Ai sensi del 1 e 2 comma dell’art 57: tra gli ufficiali che svolgono funzioni di polizia in via generale (per tutti i reati) figurano:  I dirigenti  I commissari  Gli ispettori  I sovraintendenti  Gli ufficiali superiori e inferiori  Il personale dei ruoli ispettori e sovraintendenti dell’arma dei carabinieri, della guardia di finanza, della polizia penitenziaria e del corpo forestale.  Il personale della polizia di stato  I carabinieri  Le guardie di finanza  Gli agenti del corpo di polizia penitenziaria  Le guardie forestali  Gli agenti della polizia municipale.  In una posizione del tutto particolare si situa la direzione investigativa antimafia (dia). Il relativo personale attinto da quello della polizia di stato, in primo luogo, dell’arma dei carabinieri e della guardia di finanza, è investito anche del compito di effettuare indagini di polizia giudiziaria relative esclusivamente a delitti di associazione di tipo mafioso o comunque ricollegabili all’associazione medesima. Ai sensi del 3 comma dell’art 57: tra gli ufficiali di polizia giudiziaria con competenza limitata a determinati reati vi sono gli ufficiali e agenti di polizia a cui le leggi e i regolamenti attribuiscono le funzioni di polizia giudiziaria direttamente. Dunque, per godere di tale qualifica è sufficiente che una legge o un regolamento attribuisca la funzione ad una determinata persona (es: ispettore del lavoro). La differenza tra polizia di sicurezza e polizia giudiziaria si basa sulla contrapposizione tra “prevenzione dei reati” e “repressione di un reato”; con quest’ultima espressione si vuole indicare la 50 raccolta di tutti gli elementi necessari per accertare il reato e per rendere possibile lo svolgimento del processo penale. La distinzione tra le due funzioni ha finalità prettamente garantistiche. Quando svolge la funzione di prevenire i reati, la polizia, di regola, non gode di poteri coercitivi, e cioè non può direttamente limitare le libertà fondamentali. Viceversa, non appena giunge la notizia che è stato commesso un reato, viene esercitata la funzione di polizia giudiziaria con l’uso dei poteri coercitivi. Facciamo un esempio: la pattuglia di polizia che percorre in auto le strada, svolge una funzione di polizia di sicurezza, ossia tende a prevenire il compimento dei reati. Quando scorge uno scippatore in azione da quel momento opera in funzione di polizia giudiziaria e deve sequestrare il corpo del rato e può compiere l’arresto in flagranza e la perquisizione. 19.Organizzazione della polizia giudiziaria: Il costituente ha auspicato a creare un vero e proprio organo di polizia giudiziaria, all’esclusiva dipendenza della magistratura in relazione all’art. 109 cost. La Corte costituzionale a sua volta, investita dalla questione ha ritenuto che l’istituzione di un corpo di polizia alle esclusive dipendenze della magistratura non discenda solo dalla costituzione (sentenza n.94 del 1993), in quanto occorre distinguere tra la dipendenza funzionale dell’autorità giudiziaria dalla dipendenza burocratica dalla pubblica amministrazione. Molti studiosi sono del parere che non sia opportuno separare rigidamente l’attività di polizia giudiziaria da quella di prevenzione, poiché è nel corso di quest’ultima che sono assai spesso apprese le notizie di reato. Sulla scorta dei suggerimenti contenuti nella sentenza costituzionale n.122 del 1971, il codice ha rafforzato più la dipendenza funzionale dell’autorità giudiziaria, che quella gerarchica, senza mai troncare del tutto la relazione burocratica che lega la polizia giudiziaria all’esecutivo, per effetto del rapporto di servizio che investe la retribuzione, la progressione in carriera, i provvedimenti disciplinari. Benché tutte le funzioni siano svolte alle dipendenze e sotto la direzione dell’autorità giudiziaria, il legame che si instaura con la medesima è variabile, perché costruito in relazione ai diversi apparati amministrativi. L’art. 56 individua una triplice struttura:  La prima concerne i servizi di polizia giudiziaria. La l. n.121/1981 prevede l’istituzione e l’organizzazione di unità del dipartimento di pubblica sicurezza ‘’nei contingenti necessari, determinati dal Ministro dell’interno di concerto con il ministro della giustizia’’. L’art 12 del d.l. n.152/1991 ha imposto alle amministrazioni interessate di costituire servizi centrale ed interprovinciali della polizia di Stato, dell’arma dei carabinieri e del corpo forestale della guardia di finanza. Al riguardo si rammentano il servizio centrale della polizia di stato (SCO), il raggruppamento operativo speciale (ROS), il reparto investigazioni scientifiche dell’arma dei carabinieri (RIS) ed, infine, il servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata (SCICO), della guardia di finanza. 51 In particolari regioni e per particolari esigenze, le predette strutture possono poi costituirsi in servizi interforze, secondo una previsione già introdotta per delitti di sequestro di persona e a scopo di estorsione. Nella stessa prospettiva si colloca l’unità antiterrorismo operata, per le esigenze derivanti da indagini su delitti terroristici di ‘’rilevante gravità’’ (art 5 d.l. n.144/2005). In sede alternativa è stata cllocata la regola secondo la quale fanno parte dei servizi tutti gli uffici e le unità, a cui sono affidate in via prioritaria e continuativa le funzioni di polizia giudiziaria. Lo stesso art 12 commi 2 e 3 prevede che siano comunicati periodicamente al procuratore della Repubblica il nome e il grado degli ufficiali che dirigono i servizi di polizia giudiziaria, in modo da individuare con certezza e tempestività i responsabili dei servizi. Essendo la distinzione dei capi dei servizi demandata in via esclusiva ai dirigenti degli enti di appartenenza, anche da questo punto di vista, si avverte il permanere di uno sbilanciamento tra i poteri di gestione conferiti all’autorità amministrativa rispetto a quelli propri dell’autorità giudiziaria.  Nella seconda struttura, il grado massimo di dipendenza organizzativa e funzionale dall’autorità giudiziaria si coglie in rapporto alle sezioni di polizia giudiziaria (art 56 con lettura intrecciata delle disposizioni di attuazione del cpp) che si trovano in ogni procura della repubblica, al fine di garantire uno stretto rapporto con l’organo che dirige le indagini preliminari e di scongiurare una proliferazione che avrebbe finito per compromettere il livello di efficienza del processo. L’art 5 disp. att. Prevede che la sezione sia composta da ufficiali e agenti di polizia giudiziaria appartenenti alla polizia di stato, ai carabinieri e alla guardia di finanza e, infine, per ora anche al corpo forestale. L’art 6 disp att., in vista di un adeguata formazione dell’organico, prevede che il personale delle sezioni non debba essere inferiore al doppio dei magistrati della procura della Repubblica presso il tribunale e stabilisce in due terzi il rapporto numerico tra ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria.  Nella terza struttura, ad un grado minimo di dipendenza organizzativa e funzionale sono posti i restanti ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria tenuti per legge a compiere indagini a seguito di una notizia di reato. Il profilo di dipendenza è imposto dall’art 58 con riguardo al rapporto che intercorre tra l’autorità giudiziaria e gli organi di polizia giudiziaria. Ciò non significa, tuttavia, che i singoli magistrati dispongano della polizia giudiziaria solo tramite il dirigente del rispettivo ufficio giudiziario. Dal sistema si ricava che la disponibilità è conferita al magistrato in quanto titolare delle indagini preliminari o del processo, benché, secondo l’organizzazione verticistica tipica dell’ufficio del pubblico ministero, al procuratore della Repubblica sia sempre consentito sostituirsi al magistrato designato per le indagini preliminari nell’impartire ordini alla polizia giudiziaria. 52 Nel procedimento ordinario l’assunzione di tale qualifica avviene con l’esercizio dell’azione penale, la quale coincide con la richiesta di rinvio a giudizio. Viceversa, nei procedimenti speciali la qualifica di imputato si acquista nel momento in cui si instaura il singolo rito, ossia con la richiesta di giudizio immediato; con la richiesta di applicazione della pena ad iniziativa congiunta delle parti; con l’atto introduttivo del giudizio direttissimo, consistente nella contestazione dell’imputazione in udienza o nella citazione a comparire. La qualità di imputato si conserva, ai sensi dell’art 60 comma 2, in ogni stato e grado del procedimento sino a che non sia più soggetta ad impugnazione la sentenza di non luogo a procedere, sia divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento o di condanna, o sia diventato esecutivo il decreto penale di condanna. Solo attraverso l’emissione della sentenza o un atto ad essa assimilabile può perdersi la qualità di imputato. Infine, il 3 comma dell’art 60 prevede che la qualità di imputato si riassuma in caso di revoca della sentenza di non luogo a procedere o qualora la corte d’appello disponga la revisione del processo. Occorre evidenziare i motivi in base ai quali il codice pone la fondamentale distinzione tra imputato e indagato. In primo luogo, il legislatore vuole che il p.m. prenda una posizione definitiva sull’addebito soltanto quando, terminate le indagini preliminari, chiede il rinvio a giudizio. Infatti l’imputazione deve essere sorretta da una consistente base probatoria. In secondo luogo, prima che sia stata formulata una imputazione, il codice tende ad usare un termine il più possibile “neutro” e non “pregiudizievole”. Ecco allora il riferimento alla persona sottoposta alle indagini preliminari (art 61 comma1), denominata indagato nell’art 415-bis e nella prassi. È vero che il p.m. nel corso delle indagini può formulare un addebito provvisorio nei confronti dell’indagato ma ciò avviene soltanto ai fini di garanzia, perché mette in grado quest’ultimo di esercitare il diritto di difesa. L’addebito provvisorio non deve essere confuso con l’imputazione, che potrà essere formulata al termine delle indagini. In conclusione, il codice distingue “indagato” e “imputato” a fini prevalentemente garantistici. A riprova di ciò, è possibile constatare che, quando si tratta di enunciare i diritti di difesa, il codice opera un’ampia equiparazione: ai sensi dell’art 61 comma 1, “i diritti e le garanzie dell’imputato si estendono alla persona sottoposta alle indagini preliminari”. Ovviamente l’equiparazione non è totale, perché risente del fatto che la fase delle indagini preliminari è di regola segreta, mentre le successive fasi dell’udienza preliminare e del giudizio si svolgono in contradditorio. Occorre segnalare che l’equiparazione opera anche negli aspetti pregiudizievoli. In base all’art 61 comma 2 all’indagato si estende ogni altra disposizione relativa all’imputato, salvo che sia diversamente stabilito. Pertanto, le misure cautelari, previste per l’imputato, possono essere applicate all’indagato purché naturalmente, siano presenti i requisiti necessari per emanare il relativo provvedimento. [Riepilogando: Quando si acquista la qualità di imputato? 55 Il cpp per rispondere al medesimo quesito fa una scelta molto precisa, perché individua come momento dopo il quale il soggetto assume la qualità di imputato l’atto di esercizio dell’azione penale - il cui atto costituisce il momento in cui un soggetto indagato diviene imputato - che può articolarsi in vari modi. Quindi l’indagato non è sinonimo di imputato. L’indagato è il soggetto che per primo si incontra nel processo penale, e assume questa qualifica attraverso varie strade: l’ipotesi più frequente è che la p.g o il p.m ricevano una notizia di reato qualificata (contiene già l’indicazione del soggetto a cui viene attribuito il reato). La denuncia, la querela, il referto sono notizie di reato qualificato. C’è anche la notizia non qualificata (quando non si sa chi abbia commesso il reato). In questi casi resta per la pg e il pm uno spazio di valutazione, un minimo di controllo sulla notizia di reato deve esserci. Verificata a grandi linee la notizia, scatta per la pg l’obbligo di trasmettere immediatamente al pm la notizia, e scatta per il pm l’obbligo di iscrizione del reato nel registro delle notizie di reato, l’iscrizione può essere contro ignoti o lo attribuisce ad un soggetto: in questo momento il soggetto verrà chiamato indagato. Il procedimento contro ignoti può diventare, quando si sappia, un procedimento contro un soggetto specifico. Può essere anche che vi sarà un aggiornamento dell’iscrizione, con l’aggiunta di altri indagati. Questo soggetto indagato resta tale durante tutto il corso delle indagini preliminari finché il pm non si determini ad esercitare l’azione penale. L’atto di esercizio per eccellenza è la richiesta di rinvio a giudizio. Alla fine delle indagini, se non vuole archiviare, richiede il rinvio a giudizio, e qui c’è la formulazione dell’imputazione. Questo è il momento in cui l’indagato diviene imputato, e c’è una differenza sostanziale: essendo le indagini caratterizzate da una certa fluidità, c’è un addebito provvisorio suscettibile di verifica; nel momento in cui il pm esercita l’azione cristallizza l’accusa nel capo di imputazione: l’addebito qui non è provvisorio, è preciso, e l’imputato sa di doversi difendere. L’imputazione può comunque essere modificata nel corso dell’udienza preliminare e nel corso del giudizio dibattimentale. La richiesta di rinvio a giudizio non è l’unica attività attraverso cui si propone l’azione: si possono chiedere i riti alternativi, come il giudizio immediato (si salta l’udienza preliminare); si può chiedere anche un decreto penale di condanna (non si svolge nemmeno il dibattimento in questo caso); nel patteggiamento, che è un accordo tra le parti, l’esercizio dell’azione penale è l’atto di consenso tra i due; il pm, per i reati puniti con la pena non superiore a 4 anni, può anche emettere un decreto di citazione diretta a giudizio, e questo decreto è l’atto di esercizio dell’azione penale; per l’arresto in flagranza, in quel caso l’imputazione si formula contestualmente (quindi l’indagato diviene subito imputato). In tutti questi casi il soggetto diviene imputato.] 22. Le dichiarazioni rese dall’imputato. 56 Le norme contenute negli art. 62-65 presentano un oggetto comune (riguardano dichiarazioni rese dall’imputato, dalla persona sottoposta alle indagini o da soggetti che a seguito di tali dichiarazioni possono assumere le predette qualità) ed uno scopo comune (mirano ad assicurare nei rapporti con l’autorità procedente un libello di lealtà e civiltà adeguato ai canoni personalistici tipici del modello accusatorio). L’art 62 assume una portata estremamente lata con il prescrivere che le dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento dall’imputato e dalla persona sottoposta alle indagini non possono formare oggetto di testimonianza. Le dichiarazioni di cui si parla ai sensi dell’art 62 sono sia le dichiarazioni sollecitate sia le dichiarazioni rilasciate di propria iniziativa sia le dichiarazioni rese dinanzi all’autorità giudiziaria, alla polizia giudiziaria nonché ad altre persone abilitate a riceverle (si pensi alle notizie che il perito può ricevere o chiedere all’imputato ai soli fini dello svolgimento dell’incarico). L’unica condizione che questa norma pone è che si tratti di dichiarazioni rese nel corso del procedimento. Quindi deve trattarsi di dichiarazioni rese all’interno del processo, all’interno della sequenza procedimentale, la quale deve essere intesa non come procedimento pendente, bensì come procedimento svolto all’interno del processo. Dunque, sono escluse dalle dichiarazioni ai sensi dell’art 62 le c.d. res gestae (si pensi a quanto narrato dal soggetto X, sottoposto alle indagini, ad un ufficiale di polizia giudiziaria nel corso di una conversazione svoltasi in un bar), ossia le dichiarazioni rilasciate prima dell’avvio del procedimento o al di fuori dello stesso. Infine, considerata la natura oggettiva del divieto, è inibito pure l’ingresso alla testimonianza di chi riferisce, anche avendolo appreso da altri, il contenuto delle dichiarazioni dell’imputato o dei soggetti a lui assimilati. Bisogna precisare che in caso di inosservanza del divieto imposto ai sensi dell’art 62, il codice contempla delle sanzioni processuali. Esempio: qualora una testimonianza venga acquisita illegittimamente, essa non potrà essere utilizzata nel processo. Il codice prevede una disciplina apposita in relazione ad un’ipotesi particolarmente delicata. Può accadere che nel corso della disposizione il testimone (o il possibile testimone) renda più o meno consapevolmente “dichiarazioni dalle quali emergano indizi di reità a suo carico” (le c.d. dichiarazioni autoindizianti). In tal caso l’art 63 comma 1 stabilisce una serie di obblighi per l’autorità procedente e la sorte processuale delle dichiarazioni rese. A seguito delle dichiarazioni indizianti l’autorità procedente deve:  Interrompere l’esame  Avvertire la persona che a seguito delle dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti  Invitarla a nominare un difensore. Le dichiarazioni rilasciate fino a quel momento non possono essere utilizzate a suo favore (ad esempio come prova della legittima difesa) o contro altre persone. 57 Ecco perché si parla di interrogatorio di garanzia a favore dell’imputato. In questo caso il gip è tenuto ad interrogare l’imputato e lo deve fare entro 5 giorni, nel caso della custodia cautelare in carcere, ed entro 10 giorni, nel caso di applicazione delle altre misure. Se l’interrogatorio non viene effettuato o se viene effettuato successivamente al decorso dei termini ivi previsti, la misura cautelare perde efficacia e il soggetto viene rimesso in libertà. Vi è un solo correttivo (ex art.294 commi 1, 1-bis, 1-ter), il quale prevede che nel caso in cui il p.m. ne faccia istanza, nella richiesta di custodia cautelare, l’interrogatorio ad opera del giudice deve avvenire entro 48 ore. In questo caso, a differenza del p.m., il gip – essendo una figura di garanzia – svolge un’attività di controllo e di garanzia a favore dell’imputato. Considerando la situazione soggettiva di chi interroga, il titolare delle indagini è libero di scegliere il momento in cui assumere l’atto, salvo che si tratti di una persona sottoposta a custodia cautelare: in tal caso l’interrogatorio del giudice deve precedere quello del pubblico ministero. Dal punto di vista delle modalità del suo svolgimento, l’interrogatorio è disciplinato in guisa da assicurarne la natura di strumento di difesa: infatti in relazione all’assistenza tecnica si richiede che il difensore dell’indagato venga informato e avvisato del compimento dell’atto in tempi brevi, in modo tale da concedergli di assistere all’interrogatorio. In relazione, invece, alla difesa personale, le regole generali dell’interrogatorio sono precisate nell’art 64 e nell’art 65 (le cui normative si preoccupano di garantire una partecipazione libera e cosciente da parte del soggetto). Infatti, ai sensi del primo comma dell’art 64, si ricava un primo dato: dall’interrogatorio si potranno ottenere dichiarazioni soltanto se e nei limiti in cui l’indagato – sottoposto a custodia cautelare o detenuto per altra causa - decida liberamente di renderle, salve le cautele necessarie per prevenire il pericolo di fuga o di violenza. La norma si propone, dunque, di rispettare la libera scelta di tale soggetto. Il secondo comma dell’art 64, invece, fa divieto di utilizzare, anche se vi fosse il consenso dell’indagato, metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti. Il riferimento alle tecniche preclude il ricorso a strumenti come l’ipnosi, narcoanalisi, il lie-detector, prescindendo da ogni considerazione non solo della loro efficacia ma pure dell’interesse che il soggetto potrebbe, in certe ipotesi, avere a soprapporvisi (c.d. divieto indisponibile). Il riferimento ai metodi si pone, invece, in un rapporto imprescindibile con la concezione dell’interrogatorio come sede di dichiarazioni liberamente prestate in assenza di ogni condizionamento psicologico, più che come strumento di difesa. Dunque, con tale prescrizione il codice vuole affermare che la libertà di autodeterminazione dell’imputato non è disponibile. Infine, in base al terzo comma dell’art 64, che è stato interamente modificato dalla legge n. 63/2001, l’indagato riceve una serie di avvisi prima che abbia inizio l’interrogatorio: infatti dapprima viene avvertito che le sue dichiarazioni potranno essere sempre utilizzate nei suoi confronti sia durante le indagini, sia nel corso del dibattimento anche se il medesimo non si presenta o tace. Pertanto, l’ordinamento si comporta lealmente nei confronti dell’indagato perché lo avvisa del fatto che quanto egli dirà potrà essere utilizzato sia contro di lui sia a favore di lui. 60 Successivamente l’indagato deve essere avvertito che ha la facoltà di non rispondere ad alcuna domanda e ha, al contempo, l’obbligo di rispondere secondo verità sulla sua identità personale. A prescindere da ciò, il codice riconosce all’indagato il “diritto di restare silenzioso” su tutte le domande o su alcune fra di esse a sua scelta. L’indagato è altresì ammonito che, se anche rispondesse, comunque il procedimento seguirà il suo corso. Se l’autorità inquirente ommette di rivolgere i due avvisi menzionati, le dichiarazioni rese sono considerate inutilizzabili ai sensi dell’art 64 comma 3. Infine, l’indagato viene avvertito che se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone. Il legislatore per un dovere di lealtà vuole che l’indagato sia informato che “prima o poi” diventerà testimone se ha coinvolto la responsabilità di un’altra persona. L’omissione dell’avviso comporta una duplice conseguenza: da un lato le dichiarazioni eventualmente rese dall’indagato sui fatti che concernono la responsabilità di altri non sono utilizzabili nei loro confronti, dall’altro lato l’indagato non potrà assumere la qualità di testimone sulle dichiarazioni rese in assenza di un rituale avvertimento. Le regole dell’interrogatorio sul “merito”, ossia sui fatti addebitati, sono contenute nell’art 65. Le disposizioni contenute nell’art 65, a differenza di quelle contenute nell’art 64, presentano un carattere più specifico, operando esclusivamente per l’atto assunta dall’autorità giudiziaria. Il pubblico ministero prima di rivolgere domande all’indagato, deve rendergli noto in forma chiara e precisa il fatto che gli è attribuito. Quindi deve indicargli gli elementi e le fonti di prova esistenti contro di lui, salvo che ciò comporti un pregiudizio per le indagini. Pertanto, se vi è pericolo di inquinamento delle prove, il p.m. non rende note le fonti di prova. Soltanto a questo punto il p.m. invita l’indagato a rispondere alle domande. Varie sono le possibilità che si presentano a quest’ultimo: - Prima di tutto l’indagato può rifiutare di rispondere a tutte le domande o ad alcune soltanto di esse. In tal caso il p.m. dà atto nel verbale che l’indagato si è avvalso della facoltà di non rispondere. Dal diritto di non rispondere – ossia non collaborare – l’organo procedente non può ricavare conseguenza alcuna in quanto insindacabile espressione del diritto di difesa personale. - In secondo luogo, l’indagato può rispondere. Se i fatti, che egli ammette, sono a lui sfavorevoli si ha una confessione. Occorre segnalare che l’indagato non ha un obbligo, penalmente sanzionato, di dire la verità. Tuttavia, i difensori in genere consigliano che è meglio tacere, piuttosto che rendere dichiarazioni false, in quanto se la falsità viene accertata, ciò costruirà la prova che l’indagato non è credibile e le sue dichiarazioni saranno usate contro di lui. 61 - In terzo luogo, può accadere che l’indagato risponda, ma affermando il falso. Se l’indagato dovesse procedere con questa modalità egli, da un lato, non commette il delitto di falsa testimonianza né di false informazioni al p.m., giacché tali reati richiedono la qualifica di testimone o di possibile testimone che l’indagato non ha. Dall’altro lato, in relazione ad ulteriori reati che possa integrare rendendo dichiarazioni mendaci, egli è protetto dalla causa di non punibilità prevista dall’art 348 comma 1 c.p. Ai sensi dell’art 348 si stabilisce che un esimente in favore di colui che ha commesso determinati delitti contro l’amministrazione della giustizia, qualora può esservi stato costretto dalla necessità di salvarsi da un grave e inevitabile pregiudizio nella libertà o nell’onore. L’imputato deve però stare attento perché egli è coperto dalla causa di non punibilità soltanto in relazione a determinati fatti di reato. Per questa ragione l’art 348 comma 1 prevede le ipotesi in cui l’imputato non sia coperto da causa di non punibilità:  L’indagato è punibile quando compie simulazione di reato, ossia afferma falsamente che è avvenuto un reato che nessuno ha commesso (art 367 c.p.)  L’indagato è punibile quando calunnia un’altra persona, ossia incolpa di un reato taluna che egli sa innocente (art 368 c.p.)  L’indagato è punibile quando intralcia la giustizia, ossia offre al testimone una qualsiasi utilità (denaro o altro) per indurlo a dire il falso o ad essere reticente (art 377 c.p.)  L’indagato è punibile quando compie favoreggiamento reale, ossia aiuta taluno ad assicurare il profitto o il prezzo di altro reato.  L’indagato è punibile quando induce una persona che ha facoltà di non rispondere a non rendere dichiarazioni a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Dalle predette ipotesi si può ricavare un principio comune: l’indagato per difendersi può dire il falso ma non può arrivare fino al punto di sviare la Giustizia Penale, in quanto lo sviamento della stessa non è scriminato quando avviene abusando del diritto di difesa. 24. L’identificazione e l’esistenza in vita dell’imputato. Il procedimento penale è finalizzato ad accertare un fatto di reato: occorre stabilire se qualcuno ha posto in essere una condotta penalmente rilevante. Può accadere che nel corso delle indagini ci si trovi di fronte ad una persona fisica e non si sappia con certezza se si tratta davvero del soggetto al quale l’inquirente attribuisce il reato. Occorre dunque procedere a verificare l’identità di tale persona. La verifica dell’identità dell’imputato o indagato comporta due accertamenti che è opportuno esaminare separatamente a causa delle loro differenze: Accertamento dell’identità fisica: Per quanto concerne il profilo dell’identità personale (art 66) nel primo atto del procedimento in cui è presente l’imputato – atto che non coincide necessariamente con 62 sempreché non debba pronunciare sentenza di non luogo a procedere o proscioglimento – emette ordinanza di sospensione del procedimento a norma dell’art 71 comma 1. L’ordinanza, ricorribile per cassazione, produce una pluralità di effetti. Il più rilevante tra di essi è costituito dall’obbligo di nominare un curatore speciale a favore dell’imputato, designando l’eventuale rappresentante legale. I diritti attribuiti al curatore speciale sono piuttosto ampi, essendogli consentito sia di ricorrere per cassazione avverso l’ordinanza di sospensione, sia di assistere agli atti disposti sulla persona dell’imputato nonché a quelli rispetto ai quali tale potere è riconosciuto all’imputato stesso. La sospensione, infatti non impedisce al giudice di assumere prove, alle condizioni e nei limiti che valgono durante il tempo occorrente per l’espletamento della perizia nel processo, anche su richiesta del curatore speciale. Se la sospensione interviene nel corso delle indagini preliminari, operano le limitazioni dell’art 70 comma 3 (art 71 comma 4 e 5). Ulteriori effetti consistono nell’obbligatoria separazione del processo e nell’inoperatività della regola posta dall’art 75 comma 4 circa la sospensione obbligatoria del processo civile. Decorsi 6 mesi, il giudice è tenuto a controllare se l’incapacità persiste o se essa è venuta meno. Qualora l’infermità persista, viene rinnovato il periodo di sospensione. Qualora l’infermità sia venuta meno, il procedimento riprende il suo corso e viene revocata l’ordinanza di sospensione. Tuttavia, il problema che si poneva prima della riforma Orlando concerneva gli eterni giudicabili. Infatti, se la situazione di incapacità permaneva a lungo il processo rischiava di rimanere aperto in eterno, senza la possibilità di maturare i tempi di prescrizione, dato che la sospensione del processo costituiva, secondo l’art.159 cpp, una causa di sospensione della prescrizione. Ciò determinava un problema, in quanto mantenere aperto in eterno un procedimento generava la perdita dell’interesse pubblico a perseguire un determinato soggetto per il compimento di un determinato reato. Per poter fornire una soluzione alla medesima problematica - prima della legge orlando - era intervenuta la Corte costituzionale con una c.d. sentenza monito, all’interno della quale si avvertiva come non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al medesimo problema. Nonostante la medesima sentenza, il legislatore non intervenne, costringendo conseguentemente la Corte costituzionale a dichiarare incostituzionale l’art.159 per un duplice profilo di irragionevolezza: da un lato l’incapacità irreversibile determina effetti permanenti che contrastano con il progressivo venir meno, con il tempo, dell’interesse della comunità alla punizione del comportamento penalmente illecito e con il diritto all’oblio da parte dei cittadini, dall’altro lato se l’incapacità è irreversibile risultano frustate entrambe le finalità insite nelle norme sostanziali e processuali. Attraverso la medesima pronuncia della Corte, il problema era stato parzialmente risolto. Parzialmente in quanto la problematica permaneva con riguardo ai reati puniti con la pena all’ergastolo (perché questi sono imprescrittibili). E proprio a causa di ciò, nel giugno 2017, attraverso la riforma Orlando che ha introdotto l’art 72 bis – con l’intento di definire il procedimento in tempi ragionevoli - si è stabilito che, qualora lo stato di incapacità sia irreversibile (su parere medico), il giudice, revocata l’ordinanza sospensiva, deve emettere una sentenza di non luogo a procedere. 65 Inoltre, si prevede che qualora il giudice, scopra che la costruzione dell’incapacità a partecipare coscientemente al procedimento è stata determinata da una simulazione fraudolenta dell’infermità mentale da parte del soggetto stesso, deve revocare l’ordinanza di sospensione e riassumere il procedimento, dando vita ad un procedimento incidentale inteso ad accertare l’esistenza delle condizioni per procedere una seconda volta a carico del soggetto già prosciolto. Tuttavia, difficoltà interpretative nascono dal mancato coordinamento legislativo tra le ipotesi di sospensione ex art.71 comma 1 e quella simmetrica ex art.72-bis ultima parte. Infatti, tra i casi di sospensione del procedimento andrebbe collocato anche quello in cui, pur rimanendo sempre irreversibile lo stato di incapacità, difettano le condizioni per pronunciare una sentenza di improcedibilità proprio perché sussistono i presupposti per applicare in via provvisoria una misura di sicurezza diversa dalla confisca. Un’interpretazione sistematica costituzionalmente doverosa induce a ritenere che, a fronti di uno stato di incapacità processuale, originario o sopravvenuto di natura irreversibile, dovrebbe, salvo che per coloro ai quali è addebitato un reato imprescrittibile, essere impedito che si determini l’effetto sospensivo sulla prescrizione ai sensi dell’art.159 c.p. Il vero è che la stasi del procedimento non è senza limiti perché la sua durata va rapportata al termine prescrizionale. Se quest’ultimo si è consumato, l’esito è obbligatorio: il dispositivo della sentenza costituzionale n.45 del 2015 impone, in ogni caso, di emettere una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere che dichiari l’estinzione del reato. Quindi, in pratica, l’imputato la cui capacità a partecipare al procedimento sia irreversibile, a cui sia stato addebitato un reato imprescrittibile, a cui sia stata applicata una misura di sicurezza detentiva, nei confronti del quale l’accertamento periodico continui a dare esito positivo circa la sussistenza della pericolosità, può dirsi ancora un eternamente giudicabile (limiti di riforma). Il giudice, con cadenza semestrale, deve verificare la sussistenza dell’incapacità. Al giudice non spetta il potere di disporre il ricovero (spetta al sindaco), ma in caso di ritardo può disporre il ricovero provvisorio. 26. La parte civile: legittimazione, costituzione, esodo del processo penale. Tra le parti c.d. eventuali va collocata in primo piano la parte civile, il cui intervento è finalizzato ad ottenere le restituzioni o il risarcimento del danno ricollegabili al reato oggetto di accertamento in sede penale. Il reato, infatti, oltre a costituire un’offesa ad un bene giuridico può aver provocato in concreto un danno. Il tal caso colui che ha commesso il reato è obbligato a risarcire il danno e, se del caso, a restituire la cosa sottratta (art 185). Per quanto riguarda la legitimatio ad causam, l’art 74 stabilisce che l’azione civile, di cui all’art185 c.p., possa essere esercitata dal soggetto che mira alle restituzioni o al risarcimento del danno cagionato dal reato, o dai suoi successori universali. Il danno può essere: - Patrimoniale: 66 consiste ai sensi dell’art 2056 c.c. nella privazione o diminuzione del patrimonio nelle forme del danno emergente e del lucro cessante. Il danno patrimoniale viene quantificato per “equivalente pecuniario” nel senso che si deve ripristinare quella situazione economica e patrimoniale del danneggiato che era preesistente e che avrebbe dovuto proseguire se non fosse stato commesso il reato. - Non patrimoniale: consiste ai sensi dell’art 2059 c.c., nel “danno morale”, ossia nelle sofferenze fisiche e psichiche patite a causa del reato. Si tratta di un danno che non può essere quantificato “per equivalente”, poiché non è ripristinabile la situazione anteriore al reato. Il danno non patrimoniale viene calcolato con una modalità di tipo “satisfattivo”. Il giudice in via equitativa determina una cifra di denaro che possa dare soddisfazione tale da compensare, se così si può dire, le sofferenze subite. Secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art 2059 c.c. il danno non patrimoniale è risarcibile in due ordini di casi: in primo luogo quando la risarcibilità è prevista dalla legge e in secondo luogo quando, pur in assenza di una previsione normativa, il danno non patrimoniale deriva dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione (es: danno biologico). Il danneggiato, ossia il soggetto che ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale in conseguenza del reato (che non necessariamente coincide con l’offeso, ossia il soggetto titolare del bene giuridico protetto dalla norma penale), può costituirsi parte civile personalmente o anche per mezzo di un procuratore speciale – di regola il difensore munito di una procura ad hoc – fermo restando però che, ai fini della suddetta costituzione, difetta di legittimazione il sostituto eventualmente nominato dal difensore della parte civile. A proposito di quest’ultimo va inoltre tenuto presente quando dispone l’art 122 comma 1, secondo il quale, laddove il codice di rito consente il compimento di un atto per mezzo di un procuratore speciale, se la procura è rilasciata per scrittura privata al difensore, la sottoscrizione può essere autenticata dal difensore medesimo. Una volta costituitosi, il danneggiato, in ossequio al principio della c.d. immanenza della costituzione di parte civile, partecipa al processo in tutti i suoi gradi, compreso l’eventuale giudizio di rinvio senza dover assumere ulteriori iniziative. Qualora sia carente la capacità processuale del danneggiato, costui deve essere rappresentato assistito o autorizzato nelle forme prescritte per l’esercizio delle azioni civili. Dopo aver posto questa regola, l’art 77 prevede, in successione, due diversi correttivi per l’ipotesi in cui risulti impedito l’inserimento dell’azione civile del processo penale. Anzitutto viene considerata l’eventualità della nomina di un curatore speciale, necessaria quando manchi la persona a cui spetterebbe la rappresentanza o l’assistenza e ricorrano ragioni di urgenza oppure quando sussista un conflitto di interessi tra l’incapace e il suo rappresentante legale; secondariamente ma solo sul presupposto di un’assoluta urgenza, viene consentito che il p.m. eserciti l’azione civile nell’interesse del minore, dell’infermo di mente, finché non subentri il legale rappresentante o, quanto meno, il curatore speciale previsto dall’art 77 comma 2. 67 2. In secondo luogo, l’azione civile subisce la regolamentazione del processo penale. Ciò comporta che al di fuori di quanto attiene alla natura civilistica dell’azione, i poteri ed il comportamento processuale della parte civile sono disciplinati dal codice di procedura penale. Pertanto, l’esercizio dell’azione civile nel processo penale subisce, nei suoi aspetti procedimentali, varie deroghe rispetto alla regolamentazione che vige nel processo civile. Ad esempio, le prove dell’illecito penale e dei danni cagionati sono ricercate d’ufficio dal p.m. nel corso delle indagini preliminari, che restano segrete (di regola) fino al loro termine. Vi sono tuttavia, anche delle normative espresse all’interno del codice che regolamentano i rapporti tra l’azione civile da reato e l’azione penale. Infatti, il codice di procedura penale prevede che il danneggiato del reato possa compiere altre due scelte in alternativa a costituirsi parte civile:  Può restare inerte: Qualora il danneggiato resti inerte corre il rischio che il giudice penale assolva l’imputato con una formula ampia, che acquista la forza di giudicato. Infatti, quando il danneggiato è stato messo in grado di partecipare al processo penale e non ha voluto difendersi, la sentenza di assoluzione con formula ampia ha efficacia vincolante in relazione al fatto che sia stata accertato (art 652). Il codice ha riconosciuto alla persona offesa un ruolo meramente penalistico e cioè un interesse ad ottenere soltanto la condanna del responsabile del reato. Viceversa, al danneggiato che si sia costituito parte civile il codice ha voluto riconoscere un ruolo meramente civilistico, intendendo tutelare soltanto l’interesse ad ottenere il risarcimento del danno derivante dal reato. Di regola, tuttavia, le due qualifiche: “offeso” e “danneggiato” coesistono nel medesimo soggetto: ad esempio: il soggetto che ha subito una lesione personale è al tempo stesso persona offesa e danneggiata.  Può esercitare l’azione di danno davanti al giudice civile. In questo caso, l’art 75, nell’occuparsi delle possibili interferenze tra il processo penale e parallela azione di danno esercitata davanti al giudice civile, opera una scelta a favore dell’autonomia dei rispettivi giudizi, modificando profondamente la normativa previgente, la quale favoriva l’azione civile nel processo penale, in quanto il processo civile rimaneva sospeso fino al momento dell’arrivo del giudicato penale. Il primo comma dell’art 75 si limita a disciplinare la trasferibilità nel processo penale dell’azione civile che il danneggiato del reato abbia promosso davanti al giudice civile. Il trasferimento risulta subordinato a 2 condizioni che riguardano rispettivamente lo stadio di progressione del giudizio a quo e quello del giudizio ad quem, per cui se, da un lato, per ragioni di economi a processuale l’attore è vincolato alla sua scelta iniziale dopo la pronuncia in sede civile di una sentenza di merito anche non definitiva, dall’altro lato non è 70 più consentito l’inserimento dell’azione civile nel processo penale una volta spirato il termine finale stabilito dall’art 79 comma 1. Il trasferimento comporta l’estinzione del giudizio civile per rinuncia agli atti e la conseguente devoluzione al giudice penale della decisione sulle spese afferenti al processo civile interrotto. Il secondo comma dell’art 75, invece, dispone che, se si prescinde dall’ipotesi di una volontà del danneggiato di trasferire la sua pretesa risarcitoria nell’ambito del processo penale, niente impedisce che l’azione di danno proceda in assoluta autonomia rispetto al parallelo processo penale. Va aggiunto che, pur avendo confermato la possibilità di una costituzione di parte civile, il legislatore del 1988 non ha mancato di incentivare la soluzione alternativa. L’art 75 comma 2, deve infatti essere coordinato con gli art 651 e 652 dai quali emerge una regolamentazione che può essere sintetizzata nei seguenti termini: nell’ipotesi in cui il processo penale si concluda con una sentenza irrevocabile di condanna, il danneggiato può sfruttare nel giudizio civile l’efficacia del giudicato ad essa riconosciuta dall’art 651 comma 1, mentre non può accadere il contrario, perché, grazie alla clausola di salvezza inserita nella parte finale dell’art 652 comma 1, è esclusa l’efficacia di giudicato della sentenza assolutoria. Solo in via eccezionale alla regola, l’art 75 comma 3, detta una disciplina che ricalca quella del codice previgente, disponendo che l processo civile rimanga sospeso in attesa del giudicato penale, qualora l’azione sia stata proposta in sede civile, dopo la sentenza penale d primo grado o dopo la precedente costituzione di parte civile nel processo penale. Il pregiudizio che implica una simile previsione risulterebbe tuttavia ingiustificato nelle ipotesi in cu l’esodo del processo penale sia il risultato di una situazione subita dal danneggiato anziché di una sua libera scelta. Opportunamente, pertanto, l’art 75 comma 3 fa salve le eccezioni previste dalla legge, con la conseguenza che il giudizio civile prosegua senza interruzioni il suo corso quando: - il processo penale è stato sospeso per l’incapacità dell’imputato; - vi è stata esclusione, ai sensi degli art 80 e 81, della parte civile - sebbene ricorrano i presupposti stabiliti dalla legge per tale adempimento, non risulta possibile notificare personalmente all’imputato assente l’avviso dell’udienza preliminare - la parte civile ha abbandonato il processo penale in seguito alla sua mancata accettazione del rito abbreviato - l’esodo della parte civile consegue alla pronuncia di una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti - viene accolta dal giudice la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova - il danneggiato, già costituitosi parte civile, esercita l’azione civile in sede propria, dopo che il giudice penale ha dichiarato estinto il reato per intervenuta oblazione. 71 28. Il responsabile civile. Oltre che nei confronti dell’imputato il soggetto danneggiato dal reato può agire per le restituzioni e il risarcimento del danno nei confronti della persona fisica o dell’ente plurisoggettivo che, come recita l’art 185 comma 2, è tenuto a norma delle leggi civili a rispondere per il fatto dell’imputato. A questo soggetto, obbligato in solido con il protagonista del processo penale, il codice di rito riserva il nome di responsabile civile. Il responsabile civile è un soggetto che non ha partecipato al compimento dell’illecito penale, ma è chiamato a risarcire il danno provocato dalla persona che ha commesso tale fatto illecito. Il responsabile civile è parte fin dal momento in cui è stato citato o è intervenuto volontariamente, ma è una “parte eventuale” del processo penale perché la sua presenza richiede che, in primo luogo, il danneggiato si sia costituito parte civile e, in secondo luogo, che il responsabile civile sia stato citato o sia intervenuto volontariamente. Dunque, la presenza del responsabile civile è strettamente collegata all’inserimento e al mantenimento, da parte del danneggiato, della pretesa restitutoria o risarcitoria all’interno del processo penale. Pertanto, mentre da un lato non è ipotizzabile un intervento del responsabile civile antecedentemente alla costituzione di parte civile, dall’altro, al recesso o all’esclusione di quest’ultima consegue l’estromissione del responsabile civile. Si è previsto che il responsabile civile venga citato su richiesta di parte e che possa, altresì, intervenire volontariamente nel processo penale. Ai sensi dell’art 83 comma 1, legittimati a richiedere la citazione sono:  Esclusivamente la parte civile, che ha un trasparente interesse a fare intervenire il coobbligato solidale e il p.m., limitatamente all’ipotesi in cui, sul presupposto di una assoluta urgenza, abbia esercitato l’azione civile a favore dell’infermo di mente o del minore.  Limitatamente il pm, legittimato a richiedere la citazione in giudizio nella sola ipotesi dell’art.77, comma 4, ossia qualora sia il p.m a costituirsi parte civile nell’interesse di un soggetto che è impossibilitato a farlo;  Raramente l’imputato, il quale può citare il responsabile civile solo nei casi in cui viene citata l’assicurazione per i danni stradali. Questo è l’unico caso in cui l’imputato, grazie all’intervento della corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo l’art.83 nella parte in cui non prevedeva la medesima ipotesi, può chiamare il responsabile civile. Quanto ai tempi della richiesta, l’art 83 comma 2 stabilisce solo il termine finale, ossia prevede che la citazione venga proposta al più tardi del dibattimento. Verificato il fumus bonis iuris della richiesta, il giudice procedente ordina la citazione con un decreto, il cui contenuto è specificato ai sensi dell’art 83 comma 3 (generalità della parte civile; 72 Qualora l’imputato anche qui sia insolvente, è obbligato il civilmente obbligato per la pena pecuniaria.] In definitiva, si tratta di una responsabilità civile sussidiaria ed eventuale per il caso dell’insolvibilità del condannato in relazione al pagamento della multa o all’ammenda. Pertanto, la persona civilmente obbligata è una “parte eventuale” del processo in relazione all’azione penale esercitata dal pubblico ministero. Soltanto dopo che la persona civilmente obbligata è stata citata su richiesta del p.m. o dell’imputato, questa diventa “parte” del processo penale ed il giudice deciderà in sentenza sui suoi obblighi. Non è prevista, tuttavia, la possibilità di un intervento volontario, rispetto al quale, la persona civilmente obbligata non avrebbe interesse, dato che, se rimane fuori dal processo penale, risulta, in assoluto, scongiurata l’eventualità di una sua condanna. Per completare il censimento delle parti eventuali, bisogna fare un cenno alla legge delega 29 settembre 2000, n.300, e al conseguente d.lgs. 8 giugno 2001, n.231, varati in ossequio ad esigenze di modernizzazione del nostro ordinamento. La normativa prevede l’erogazione di sanzioni amministrative, consistenti nella sanzione pecuniaria, nelle sanzioni interdittive, nella confisca e nella pubblicazione della sentenza a carico degli enti forniti di personalità giuridica, delle società, associazioni anche prive di personalità giuridica, qualora vengano accertati reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio da parte di persone che rivestano funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente, nonché di persone che ne esercitino, anche di fatto, la gestione e il controllo, ed infine, di persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza dei soggetti precedentemente menzionati. Va, peraltro, sottolineato che la responsabilità amministrativa collegata al reato presupposto e le relative sanzioni possono venire in rilievo solo se espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto: per il momento, la nuova forma di responsabilità ha un ambito di applicazione circoscritto ad un ristretto numero di delitti dolosi. Quanto ai profili processuali, è prioritario chiarire che la cognizione dell’illecito amministrativo addebitabile all’ente appartiene al giudice penale competente per il reato dal quale l’illecito amministrativo dipende. Se intende partecipare al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, l’ente deve costituirsi – depositando in cancelleria una dichiarazione contenente, a pena di inammissibilità, oltre alla denominazione e alle generalità del legale rappresentante, il nome del difensore, la sottoscrizione del medesimo, la dichiarazione o l’elezione di domicilio. La partecipazione dell’ente al processo penale è solo eventuale: nell’ipotesi di una sua mancata costituzione, oggi si ritiene che si debba procedere alla dichiarazione di contumacia. 30. 31. La persona offesa dal reato e i diritti e le facoltà della persona offesa La persona offesa dal reato può essere definita come il titolare dell’interesse giuridico protetto, anche in modo non prevalente, da quella norma incriminatrice che si assume sia stata violata dal fatto storico di reato. Il codice attribuisce alla persona offesa la qualifica di soggetto del procedimento (art 90). La qualifica di “parte” le viene riconosciuta soltanto se, nella veste di danneggiato dal reato, la persona offesa ha esercitato l’azione risarcitoria costituendosi parte civile (art 78). 75 Dunque, la persona offesa ha una posizione peculiare nel processo, perché rimane un mero soggetto processuale, a meno che non decida di costituirsi parte civile. In quel caso acquisirà la qualifica di parte, con tutti i poteri, i diritti e le facoltà che ne conseguono. Se non si costituirà, invece, rimane un mero soggetto che ha diritti e facoltà, ma inferiori rispetto a quelli riconosciuti alle parti. Originariamente la normativa nazionale in relazione a questa figura processuale era assai scarsa, ma da qualche anno si può assistere ad una progressiva espansione della disciplina circa il medesimo soggetto processuale. Infatti, la normativa interna è stata arricchita da disposizioni finalizzate a potenziare i diritti e le facoltà della persona offesa, per rispondere a esigenze nazionale e soprattutto sovranazionali. Per questa ragione, sono state emanate diverse convenzioni UE che mirano a tutelare la persona offesa nell’ambito del processo, per evitare la vittimizzazione secondaria (vuol dire che bisogna evitare che un soggetto che è già vittima, finisca poi per essere trascurato anche nel contesto del processo). In particolare, dev’essere ricordata la direttiva 2012/29/CE del parlamento europeo e del consiglio, che detta norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione alle vittime di reato. Molto importante è, anche, il d.l. n.93 del 2013, mediante il quale sono state dettate disposizioni per il contrasto di genere. Il d.l. n.93/2013 si collega alla convenzione di Istanbul del 2011 sulla prevenzione della violenza contro le donne e la lotta contro la violenza domestica. Infine, bisogna menzionare il d.lgs n.122/2016, finalizzato a garantire un indennizzo da parte dello stato alle vittime di un reato intenzionale violento, anche se commesso in uno stato membro diverso da quello in cui il richiedente l’indennizzo risiede abitualmente. Nell’art.12 di tale legge vengono stabiliti i presupposti per il conseguimento dell’indennizzo, tra cui vi è la titolarità, da parte del richiedente, di un reddito annuo non superiore a quello previsto per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato e nell’infruttuoso esperimento dell’azione esecutiva nei confronti dell’autore del reato, fatta salva l’ipotesi in cui il giudice penale abbia dichiarato che quest’ultimo è rimasto ignoto sia quella in cui l’autore del reato abbia ottenuto l’ammissione al gratuito patrocinio nel procedimento penale o civile sfociato nell’accertamento delle sue responsabilità. In questi casi, vigono per il suo esame testimonianze delle regole particolari. Ad esempio, l’art.498 comma 4-quater, in ambito di dibattimento, prevede la cross examination dei testimoni. Il comma 4 quater, introdotto nel 2013, stabilisce che quando occorre sentire la persona offesa vulnerabile il giudice, se la persona offesa o il suo difensore ne fa richiesta, dispone l’adozione di modalità protette. Le modalità protette sono per esempio l’udienza dibattimentale a porte chiuse (senza la presenza del pubblico, come vuole la regola generale), o può essere sentita tramite esame domiciliare, o in luoghi che non siano un’aula di tribunale. In alcuni casi può essere disposta la presenza di uno psicologo Per quanto concerne invece la normativa nazionale si rinvia all’art 90 e ss. 76 Le normative interne permettono di suddividere i diritti e le facoltà, garantite alla persona offesa, in 3 gruppi: 1. Disposizioni che riguardano le modalità di audizione della persona offesa: Per quanto riguarda il primo gruppo un primo esempio ci viene fornito dall’art.101, comma 1, cpp. Questa norma ci dice che la persona offesa ha diritto alla nomina di un difensore. Infatti, il pubblico ministero e la polizia giudiziaria, al momento dell’acquisiione della notizia di reato, devono informare la persona offesa della facoltà di nominare un difensore di fiducia e devono avvisarla che ha la possibilità di accesso al patrocinio a spese dello Stato, se rientra nei limiti di reddito previsti o qualora sia vittima di determinati reati contro la persona. Inoltre, attraverso la Riforma Orlando, il legislatore ha integrato la normativa dell’art 101 comma 1 con il nuovo comma 3-ter dell’art 335, all’interno del quale si recita che, decorsi sei masi dalla data di presentazione della denuncia o della querela, la persona offesa dal reato può chiedere di essere informata dall’autorità che ha in carico il procedimento circa lo stato del medesimo, senza pregiudizio del segreto investigativo. La richiesta viene rivolta all’autorità che ha in carico il procedimento (se è già finita la prima fase, viene rivolta o al gip o al gup). Inoltre, Ai sensi dell’art 90 comma 1 si analizzano i diritti e le facoltà della persona offesa garantiti da specifiche previsioni legislative. Tra i poteri che la persona offesa può esercitare possiamo menzionare quelli meramente “sollecitatori” dell’attività dell’autorità inquirente, come il presentare memorie (elaborati scritti di vario contenuto, mediante i quali possono essere avanzate istanze, illustrate questioni o toccati temi rilevanti per il processo in corso.) e/o indicare elementi di prova nel corso del procedimento, escluso il giudizio di cassazione. Tale potere attribuisce all’offeso una mera facoltà, poiché al suo esercizio non corrisponde un obbligo per il giudice di pronunciarsi, diversamente da quanto accade per le richieste presentate dalle arti e dai loro difensori, in relazione ai quali il giudice deve provvedere senza ritardo. 2. Disposizioni concernenti i diritti di informativa della persona offesa: la persona offesa dal reato ha il diritto di ricevere le informazioni necessarie al fine di esercitare i propri poteri nel procedimento penale. I diritti di informativa sono stati potenziati dal d.lgs. n.212/2015 in attuazione della direttva n.29/2012 UE e si sostanziano in informazioni che devono essere fornite alla persona offesa, in una lingua a lei comprensibile, sin dal primo contatto con l’autorità procedente (art 90-bis). Infatti Ai sensi del nuovo art 90 bis si recita che: “Alla persona offesa, sin dal primo contatto con l'autorità procedente, vengono fornite, in una lingua a lei comprensibile, informazioni in merito: 77 Se nonostante ciò, il dubbio non viene sciolto la minore età viene presunta. Per quanto concerne il 3 comma dell’art 90, è indispensabile premettere che si tratta di una disposizione in cui viene sancita ope legis un’estensione soggettiva delle prerogative riservate alla persona offesa, allorché quest’ultima sia deceduta in conseguenza del reato. La persona offesa può, inoltre, durante il procedimento penale essere, sentita come testimone in dibattimento e come possibile testimone durante le indagini preliminari. La persona offesa tuttavia può essere qualifica come “persona offesa vulnerabile”. Infatti, il codice prevede due differenti qualifiche di persona offesa vulnerabile al fine di garantire determinate protezioni nel momento in cui esse dispongono: si tratta del minorenne e della persona che si trovi in situazioni di particolare vulnerabilità. In determinati casi, l’esame deve essere sottoposto a registrazione fonografica o audiovisiva e deve essere assunto in strutture diverse dal tribunale, eventualmente con vetro-specchio con impianto citofonico. Le protezioni permettono una migliore valutazione di attendibilità della relativa deposizione. Quando il soggetto è minorenne gode delle protezioni appena menzionate soltanto se il procedimento penale ha per oggetto quei reati di violenza alla persona che sono indicati espressamente dal codice. A prescindere dall’essere minorenne o maggiorenne, la persona offesa gode delle medesime protezioni qualora si trovi in concreto in condizioni di particolare vulnerabilità. In tal caso, le protezioni potrebbero essere applicate in astratto per qualsiasi reato: è soltanto necessario che siano presenti le condizioni soggettive e oggettive previste dall’art 90-quater. Sotto un profilo soggettivo, la condizione di particolare vulnerabilità è desunta, oltre che dall’età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica della persona offesa, anche dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede. 32. Gli enti e le associazioni rappresentativi di interessi lesi da reato. Se si tiene presente che, oltre ai reati esclusivamente lesivi di interessi individuali, esistono reati plurisoggettivi (con quest’ultima locuzione terminologica si fa riferimento non solo a quei reati che violano interessi collettivi e diffusi, ma anche a quei reati che offendono diritti appartenenti a categorie omogenee.) si riesce a comprendere la ratio dell’art 91, che crea un soggetto processuale ignoto alla legislazione previgente, equiparandolo alla persona offesa dal reato. E’ previsto, infatti, che gli enti e le associazioni aventi finalità di tutela degli interessi lesi dal reato possano esercitare, in ogni stato e grado del procedimento, i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato. Con il varo del nuovo codice i confini sono tracciati con chiarezza: qualora l’ente collettivo risulti direttamente danneggiato dal reato, niente gli impedisce di inserire la sua pretesa civilistica all’interno del processo penale mediante la costituzione di parte civile; al contrario, se manca tale presupposto e risultano contemporaneamente soddisfatti i requisiti di cui all’art 91,l’ente collettivo può partecipare al processo in veste di accusatore privato al fianco della persona offesa disposta ad accettare il suo intervento, senza peraltro che ciò comporti alcun trasferimento di poter dall’accusatore privato principale all’ente collettivo. 80 Va, piuttosto, segnalato che, nonostante la perentoria equiparazione operata dall’art 91, la coincidenza di poteri tra la persona offesa e la sua eventuale appendice non è perfetta. Così dicendo, si vuole alludere alla diversa ampiezza di diritti e facoltà riconosciuti in relazione a specifici contenti processuali. Gli art. 91 e 92, nello stabilire i requisiti ai quali è subordinata l’acquisizione da parte dell’ente collettivo, della qualifica di soggetto processuale legittimato a svolgere il ruolo di accusatore privato sussidiario, si concentrano, rispettivamente sugli attribuiti idonei ad una appropriata caratterizzazione dell’ente collettivo e sui rapporti intercorrenti tra l’ente medesimo e il soggetto passivo del reato. Dal primo punto di vista si richiede non solo che l’ente collettivo non abbia scopo di lucro, ma anche che gli siano state riconosciute in forza d legge finalità di tutela degli interessi lesi dal reato. Come ulteriore garanzia di affidabilità si esige, infine, che il riconoscimento sia avvenuto anteriormente alla commissione del fatto per cui si procede. Quanto all’art 92, che si uniforma all’esigenza del costante consenso della persona offesa espressa dal legislatore delegante, è stato ritenuto necessario il consenso della persona offesa da prestare con atto pubblico o con scrittura privata autenticata e si è ammessa la possibilità di una revoca, con le stesse forme previste per la prestazione del consenso, in qualsiasi momento dell’iter processuale: fermo restando che, in conformità con l’obiettivo di scoraggiare prese di posizioni poco lineati, dopo l’eventuale revoca resta in assoluto esclusa, per la persona offesa, la possibilità di essere nuovamente fiancheggiata da uno degli enti di cui all’art 91. E’ chiaro che, non poteva essere trascurata neppure l’ipotesi del consenso plurimo. A tale proposito è stata assunta una posizione molto netta, visto che la regola secondo la quale il consenso può essere prestato ad un unico ente è stata rafforzata dall’ulteriore previsione di una generale inefficacia, in caso contrario, dei consensi prestati (art 92 comma 2). Affinché l’ente collettivo possa svolgere all’interno del processo il ruolo ausiliario che gli compete, è indispensabile che il suo difensore, munito di procura speciale, presenti all’autorità procedente un atto di intervento – da notificare alle parti quando la presentazione non avviene in udienza – il cui contenuto deve essere conforme, a pena di inammissibilità, alle indicazioni risultanti dall’art 93 comma 1. Ai fini della sua legittimatio ad processum, occorre, altresì, che venga presentata la dichiarazione di consenso della persona offesa nonché la procura al difensore, qualora la stessa sia stata conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata. Anche per quando concerne questo soggetto, l’intervento produce i suoi effetti in ogni stato e grado del procedimento, salva, ovviamente, l’ipotesi di una successiva estromissione dell’ente collettivo. Analogie con la normativa detta per le parti eventuali emergono anche a proposito di limiti temporali fissati per l’intervento dell’ente collettivo, pur dovendosi dare atto di una significativa differenza. Se è vero, infatti, che con riferimento al termine finale l’intervento non può avvenire dopo che si è conclusa la fase del dibattimento dedicata alla verifica della regolare costituzione delle parti, è vero anche che, come si ricava dall’art 94 e più esplicitamente dalla parte iniziale dell’art 95 comma 2, l’intervento dell’ente collettivo si può collocare nella fase delle indagini preliminari. Si tratta di un favor praesentiae da ricollegare al ruolo di accusatore privato, sia pure accessorio, che svolge l’ente collettivo, la cui azione risulterebbe non poco sminuita qualora gli fosse impedito di 81 essere attivo anteriormente all’orientamento del p.m. circa le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione processuale. Successivamente all’intervento, si può prevenire ad un’estromissione dell’ente collettivo disposta dal giudice con ordinanza inoppugnabile, in seguito ad un’opposizione di parte oppure ex officio, allorché si risconti un motivo di inammissibilità o un vizio attinente alla capacità processuale del soggetto intervenuto. Con riferimento all’eventualità di un’opposizione, bisogna tenere presenti le distinzioni operate dall’art 95. L’ipotesi più articolata è quella in cui vi sia stato un atto di intervento: l’opponente nel termine perentorio di 3gg dalla data di notificazione, deve far notificare la dichiarazione scritta di opposizione al rappresentante legale dell’ente collettivo, in modo da consentire a quest’ultimo di presentare, nel termine perentorio di 5gg dalla notifica, le sue controdeduzioni. Se l’intervento è avvenuto prima dell’esercizio dell’azione penale, la decisione è di competenza del giudice per le indagini preliminari e il giudice del dibattimento rispetto agli interventi verificatasi in tali fasi, ferma restando, comunque, la dichiarazione di opposizione, l’osservanza di termini stabiliti a pena di decadenza: nel caso dell’udienza preliminare, bisogna proporla prima che sia dichiarata aperta la discussione; analogamente con riferimento all’udienza dibattimentale, l’opposizione deve essere proposta subito dopo compiuto per la priva volta l’accertamento della costituzione delle parti. 34. Il difensore. La costituzione, ai sensi dell’art 24, afferma che la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. In generale, si può definire “difesa” la tutela contro un attacco che venga mosso ai diritti di un soggetto con qualsiasi procedura giudiziaria. In particolare, la “difesa penale” è quella forma di tutela che permette all’imputato di ottenere il risarcimento della piena innocenza o comunque di essere condannato ad una sanzione non più grave di quella applicabile secondo la legge. La difesa è un diritto, ossia consiste nel potere di esigere da altri soggetti un comportamento conforme alla legge. Sono titolari del diritto di difesa le parti ed alcuni fra i soggetti del procedimento penale. Per quanto concerne la modalità di esercizio, tale diritto può essere esercitato sia personalmente (autodifesa), sia per mezzo del difensore (difesa tecnica). Il difensore (al quale viene dedicato il titolo VII del libro primo) è una persona che ha particolare competenza tecnico-giuridica e che ha determinate qualifiche di tipo penalistico, privatistico e processuale. La qualifica penalistica è quella di esercitare un servizio di pubblica necessità, poiché alla funzione di avvocato si accede mediante una speciale abilitazione dello stato e, al tempo stesso, dell’opera del difensore i privati sono per legge obbligati a valersi. La qualifica privatistica si individua nel rapporto di prestazione ad opera intellettuale che lega il difensore al cliente. La qualifica processualistica è quella di rappresentante tecnico di parte. 82 Le liste dei difensori d’ufficio sono predisposte ed aggiornate dal Consiglio nazionale forense e sono, altresì, tenute presso un apposito ufficio presso l’ordine forense di ciascun capoluogo di corte d’appello. Una volta che i difensori vengono iscritti nelle liste, essi possono essere nominati. La nomina avviene attraverso un sistema informatizzato che dovrebbe garantire la massima imparzialità nella scelta. Nel sistema precedente si operava con sistema di turnazione, quindi a turno si dava la propria disponibilità e si attingeva al nominativo di turno in quel momento. Ora vi è casualità, la quale si basa sul criterio della prossimità alla sede del procedimento e della reperibilità. A questo meccanismo, al giorno d’oggi, non si fa ricorso nei soli casi in cui la materia oggetto della notizia di reato riguardi competenze specifiche. Inoltre, nei casi d’urgenza, la designazione di un difensore, discrezionalmente individuato dall’organo procedente, immediatamente reperibile, è possibile, sempre che si specifichino le ragioni dell’urgenza. La difesa d’ufficio non ha una funzione di assistenza socale, bensì unicamente quella di attuare il contradditorio in un processo basato sul principio dialettico. Resta da sottolineare un ulteriore profilo, disciplinato solo recentemente con la dovuta attenzione dagli art. 32 e 32-bis disp.att. Pur se abrogati – fatta eccezione per l’art 32 comma 1 disp att. – dall’art 299 (t.u. delle disposizioni in materia di spese di giustizia), il loro contenuto è stato recuperato dagli art. 116 e 117 del medesimo t.u. Gli art. 116 e 117 si occupano della retribuzione del difensore d’ufficio: profilo di fondamentale importanza per garantire l’effettività del diritto di difesa. Prima di esaminare le disposizioni appena richiamate, va altesì ricordato che, grazie all’avviso previsto dall’art 369-bis, la persona sottoposta alle indagini viene tempestivamente informata del fatto che non le è consentito fare a meno del difensore, nonché del suo obbligo di retribuire il difensore d’ufficio (se non può essere ammessa al gratuito patrocinio). In tema di retribuzione la normativa base è dettata dall’art 116 t.u. delle disposizioni in materia di spese di giustizia, dalla cui normativa si possono desumere tre regole generali: 1) il difensore d’ufficio si deve far carico della procedura esecutiva per il recupero del credito professionale nei confronti dell’assistito inadempiente, fermo restando che in questa sua iniziativa giudiziaria usufruisce dell’esenzione da bolli, imposte e spese; 2) qualora sia in grado di dimostrare che la procedura di cui sopra è risultata infruttuosa, il difensore viene retribuito dallo Stato nella misura e secondo le modalità stabilite dal dpr che lo regolamenta; 3) a meno che l’assistito non chieda ed ottenga l’ammissione al patrocinio gratuito, quest’ultimo surroga il difensore nel suo credito verso il soggetto assistito. Si è inoltre dettata una norma ad hoc, l’art 117 t.u., per l’ipotesi in cui l’assistenza risulti prestata a favore di un soggetto irreperibile: in tal caso il difensore viene retribuito senza che sia necessaria una sua preventiva attivazione per il recupero del credito professionale. 85 36. Patrocinio di non abbienti e poteri del difensore. Alla proclamata inviolabilità del diritto di difesa, la nostra Carta Costituzionale fa coerentemente seguire, ai sensi dell’art 24 comma 3, l’affermazione dell’impegno dello Stato ad assicurare ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. Grazie al medesimo dettato normativo, il legislatore ha ritenuto di dover rafforzare la normativa costituzionale mediante la legge 30 luglio 1990 n.217 (sostituita dal t.u. delle spese di giustizia), la quale ha istituito il patrocinio a spese dello stato a favore delle persone che hanno un reddito anno non superiore a 11.493,82 euro. Il patrocinio è concesso su istanza di soggetti che sono, o possono diventare, parti private. Infatti, esso può essere concesso su istanza dell’imputato, dell’indagato, del condannato, dell’offeso, del danneggiato che intenda costituirsi parte civile. Il patrocinio a spese dello stato assicura la difesa tecnica nel procedimento penale per i reati non di tipo tributario; assicura altresì la difesa tecnica in relazione all’azione risarcitoria che eventualmente sia esercitata davanti al giudice civile per i danni derivanti dai medesimi delitti. Bisogna, inoltre, precisare che, in virtù dell’art 76 comma 4-ter t.u., la persona offesa dai reati (vittima di abusi sessuali) di cui agli art. 572, 583-bis, 609-bis, 609-quater, 609-octies e 612-bis c.p., nonché, qualora siano commessi in danno di minori, dai reati di cui agli art. 600, 600-bis, 600-ter, 600-qinquies, 601, 602, 609-quinquies e 609-unidicies c.p, può usufruire del patrocinio statale anche se il reddito è superiore alla soglia fissata dal legislatore. La stessa deroga è prevista a favore dei minorenni e maggiorenni non economicamente sufficienti, rimasti orfani di un genitore a seguito dell’omicidio commesso dal coniuge, dall’altra parte dell’unione civile o dalla persona legata da relazione affettiva e stabile convivenza, essendo irrilevante in tutte e tre le ipotesi che al momento del delitto la relazione con la vittima risultasse legalmente o di fatto interrotta. Con l’art 96 commi 2 e 3 d.P.R ci si è preoccupati del rischio che vengano ammessi al patrocinio soggetti i quali, contrariamente alle loro attestazioni, non versino in realtà nella situazione di “non abbienza”. Si è quindi previsto che l’istanza di ammissione al patrocinio vada respinta qualora il tenore della vita, le condizioni personali e familiari del richiedente, nonché le attività economiche da lui eventualmente svolte offrano al giudice fondati motivi per ritenere che il reddito da prendere in considerazione superi il tetto stabilito dalla legge. Inoltre, con specifico riferimento all’ipotesi in cui si procede per uno dei delitti previsti dall’art 51 comma 3-bis c.pp. o nei confronti di persona proposta o sottoposta a misura di prevenzione, è stata sottratta al giudice qualsiasi discrezionalità, essendo tenuto ex lege a chiedere preventivamente al questore, alla direzione investigativa antimafia e alla direzione nazionale antimafia e antiterrorismo le informazioni necessarie e utili ai fini di una decisione più occulta circa l’ammissione del richiedente al beneficio. L’art 76 comma 4-bis d.P.R ha infatti stabilito che, nel caso di un soggetto già condannato con sentenza definitiva, il livello del reddito richiesto ai fini dell’ammissione al patrocinio statale si ritiene superato. E’ il caso di precisare, da un lato, che i delitti considerati “ostativi” sono quelli di associazione a delinquere di stampo mafioso, di associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti oppure al contrabbando di tabacchi lavorati esteri; e dall’altro lato, che la presunzione in esame, da considerare non superabile neppure in presenza di una prova contraria, esercita la sua 86 efficacia preclusiva a prescindere da quanto sia remota nel tempo la condanna alla quale si ricollegava il divieto in esame. Pienamente condivisibile risulta pertanto la sentenza della Corte costituzionale, che, dichiarando parzialmente illegittima la disposizione introdotta dal legislatore del 2008, ha prodotto il risultato di rendere superabile la presunzione de qua, qualora l’interessata sia in grado di fornire un’idonea prova contraria. È stata altresì ampliata la copertura garantita al soggetto ammesso al patrocinio dei non abbienti: la nuova formulazione risulta in ultima analisi omnicomprensiva, per cui sembrerebbe lecito farvi rientrare anche l’assistenza relativa alle procedure che si svolgono davanti agli organi giurisdizionali internazionali, in particolare davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Un terzo ed importante profilo è quello concernenti gli effetti dell’ammissione al patrocinio, tra i quali non configurava la facoltà dell’interessato di potersi avvalere degli apporti di un investigatore privato autorizzato. Questa lacuna è stata oggi colmata, il quale stabilisce che il difensore del soggetto ammesso al patrocinio può nominare sia un sostituto, sia un investigatore privato autorizzato. Inoltre, si prevede che il soggetto ammesso al patrocinio possa nominare un consulente tecnico di parte. Sono nominabili anche al di fuori della circoscrizione distrettuale competente. 37. Il difensore delle parti eventuali, della persona offesa e degli enti rappresentativi. Ai sensi dell’art.100, le parti private diverse dall’imputato (ossia la parte civile, il responsabile civile e il civilmente obbligato) stanno in giudizio con il ministero di un difensore. Siamo dinanzi ad un’ipotesi di “rappresentanza tecnica” in senso stretto. La parte civile nomina il proprio difensore mediante il conferimento di una procura speciale (art 100 comma 1), ossia relativa al processo di incorso, da presumere conferita solo per un determinato grado a meno che nell’atto sia espressa volontà diversa (art 100 comma 3). Vi è una differenza rispetto all’imputato, il quale nomina il proprio difensore mediante una dichiarazione scritta la cui sottoscrizione non deve essere autenticata: la parte civile deve far autenticare la propria firma da una persona a ciò abilitata (es: notaio); oppure, la sottoscrizione della dichiarazione può essere autenticata dallo stesso difensore che sia stato nominato per quel processo (art 100 comma 2). L’atto mediante il quale la parte civile conferisce al difensore “la procura ad litem” è denominato “procura speciale”. Quando la procura speciale è apposta in calce o a margine dell’atto di costituzione di parte civile, la autografia della sottoscrizione può essere certificata soltanto dal difensore. Quando non è apposta in calce o a margine, la procura deve essere depositata in cancelleria o presentata in udienza unitamente alla dichiarazione di costituzione di parte civile. Disposizioni analoghe valgono per il responsabile civile e per il civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Il domicilio della parte civile e delle altre parti private diverse dall’imputato per ogni effetto processuale si intende eletto presso il difensore (art 100 comma 5). In forza di tale procura, il difensore della parte privata diversa dall’imputato può compiere e ricevere per conto e nell’interesse della parte rappresentata tutti gli atti del procedimento che dalla legge non sono ad essa espressamente riservati. 87  Il sequestro di carte o documenti relativi all’oggetto della difesa è vietato nell’ufficio del difensore e dei suoi ausiliari incaricati in relazione al procedimento. Il sequestro è ammesso soltanto in relazione ad oggetti che costituiscano corpo del reato (art 103 comma 2). Gli atti sopra ricordati, nei casi in cui sono ammessi, devono essere compiuti di regola da un giudice personalmente. Nel corso delle indagini possono essere compiuti personalmente dal pubblico ministero purchè autorizzato dal giudice con decreto motivato (art 103 comma 4). Il magistrato (giudice o pubblico ministero autorizzato) quando si accinge a compiere una perquisizione, una ispezione o un sequestro nell’ufficio del difensore deve preavvisare, a pena di nullità, il presidente del consiglio dell’ordine perché questi (o un consigliere da lui delegato) possa assistere alle operazioni (art 103 comma 3). Quella che è tutelata è la funzione difensiva, pertanto non è necessario il preavviso al consiglio dell’ordine quando il difensore è egli stesso imputato del reato per cui si procede. È anche previsto il divieto di intercettare le conversazioni o comunicazioni che intercorrono tra i difensori, investigatori privati, consulenti tecnici e loro ausiliari in rapporto al procedimento ed anche le conversazioni tra i predetti ed i loro assistiti (Art 103 comma 5). Il divieto opera in relazione a quel professionista che abbia assunto la difesa degli assistiti anche al di fuori del procedimento in cui la ricerca viene compiuta. Parimenti, è previsto il divieto di sequestrare la corrispondenza tra l’imputato e il proprio difensore in quanto riconoscibile dalle prescritte indicazioni, salvo che la corrispondenza stessa costituisca corpo del reato. Le predette modalità e divieti devono essere osservati a pena di inutilizzabilità dei risultati degli atti compiuti (art 103 comma 6 e 7). 40. Il Colloquio del difensore con l’imputato privato della libertà personale. Originariamente non era possibile interloquire con il difensore prima della conclusione degli interrogatori, ma oggi si può conferire immediatamente o comunque non oltre 7gg dal momento in cui è stato eseguito il provvedimento limitativo della libertà personale. Quindi il soggetto sottoposto a custodia cautelare, al pari della persona in stato di fermo o di arresto, ha diritto di conferire con il difensore subito dopo che è stato privato della libertà personale (art.104 cpp). E’ stato conseguentemente previsto che, avvenuto l’arresto o il fermo, il difensore deve essere immediatamente avvisato. Di recente, in ossequio alla direttiva 2010/64/UE del parlamento europeo e del consiglio, è stato inserito un comma 4-bis all’art.104 che prevede, per gli indagati che non conoscano la lingua italiana, il diritto all’assistenza gratuita di un interprete per essere posti in grado di conferire proficuamente con il proprio difensore. A prescindere dal tipo di reato addebitato al soggetto sottoposto alle indagini, consentiva, in presenza di specifiche ed eccezionali ragioni cautela, di dilazionare il colloquio stesso per un termine non superiore a 5gg. 90 Attualmente, tuttavia, dopo l’intervento operato dall’art.1 della l.n.103/2017, la regolamentazione è cambiata, essendosi stabilito che sia consentito rinviare il colloquio con l’indagato solo quando si proceda per i delitti rispetto ai quali la direzione delle indagini è affidata alla procura distrettuale (quindi i delitti ex art.51, commi 3-bis e 3-quater). La modifica apportata all’art.104 comma 3 è riconducibile all’intento del legislatore italiano di adeguarsi ad una direttiva europea che mira a garantire una tempestiva presa di contatto di chi è sottoposto ad un processo penale col difensore. Si tratta della direttiva europea 2014/48/UE, concernente, in primis, il diritto di avvalersi di un difensore nel procedimento penale e nel procedimento di esecuzione del mandato d’arresto europeo. La soluzione adottata dal legislatore del 2017 non si sottrae a critiche: ci si riferisce alla disposizione che della direttiva che, in circostanze eccezionali, ammette come unica giustificazione di un ritardato contatto col difensore la lontananza geografica tra quest’ultimo e il suo assistito. Per quanto concerne il funzionamento del meccanismo dilatorio bisogna distinguere l’ipotesi in cui la privazione della libertà sia l’effetto di un’ordinanza cautelare da quella in cui la consegna ad una misura pre-cautelare, come arresto in flagranza o fermo: nel primo caso la decisione circa l’eventuale differimento del colloquio spetta al gip che deve provvedere con decreto motivato, inoppugnabile, su richiesta del pm; nel secondo, non essendovi spazio per un immediato intervento del giudice, provvede direttamente il pm che può dilazionare il colloquio fino al momento in cui l’arrestato o il fermato è posto a disposizione del giudice. Dopo tale periodo, che può estendersi massimo per 48 ore, non ci sono più ostacoli per il colloquio, salvo che intervenga una eventuale proroga (fino al limite di 5gg) da parte del gip. 41. L’abbandono della difesa e il rifiuto d’ufficio. L’abbandono e il rifiuto della difesa sono disciplinati ai sensi dell’art 105. I primi tre commi dell’art.105 dispongono, con riferimento all’abbandono della difesa e al rifiuto dell’incarico difensivo da parte del difensore d’ufficio, che il relativo procedimento disciplinare sia di competenza esclusiva dell’ordine forense, e si esclude che il procedimento penale nel cui contesto è avvenuto l’abbandono o il rifiuto sia pregiudiziale rispetto al procedimento disciplinare. L’autonomia di quest’ultimo risulta ancora più chiaramente ribadita dalla previsione secondo cui, trattandosi di abbandono o rifiuto motivati dalla violazione dei diritti della difesa, il consiglio dell’ordine, qualora ritenga giustificato il comportamento del difensore, non applica la sanzione disciplinare neppure in presenza di una sentenza irrevocabile che escluda la violazione dei diritti della difesa. L’autorità giudiziaria si limita a svolgere compiti di informativa. Ai sensi del comma 4 essa è tenuta a comunicare al consiglio professionale sia i casi di abbandono e di rifiuto della difesa d’ufficio, sia i comportamenti integranti violazione da parte dei difensori dei doveri di lealtà e di probità, sia la violazione del disposto dell’art.106 comma 4-bis. A seguito dell’abbandono della difesa da parte del difensore di fiducia dell’imputato si determina una stasi processuale, finché non si procede alla nomina di un nuovo difensore d’ufficio. Quest’ultima deve essere, a sua volta, rinnovata ogniqualvolta ci si trovi in presenza di un rifiuto della difesa d’ufficio. Tutt’altro discorso vale nell’ipotesi di abbandono della difesa delle altre parti private, della persona offesa e degli enti o associazioni, in quanto non risulta ostacolata l’immediata prosecuzione del 91 procedimento. Non bisogna dimenticare che in seguito all’abbandono del difensore tali soggetti, ove non provvedano ad una nuova nomina, perdono la possibilità di essere attivi in sede processuale, potendo essi stare in giudizio solo col ministero di un difensore. 42. Incompatibilità, non accettazione, rinuncia e revoca del difensore. L’art 106 comma 1 prevede la possibilità che la difesa di più imputati sia assunta da un difensore comune, purché le diverse posizioni non siano tra loro incompatibili. L’incompatibilità non deriva dalla semplice diversità tra le affermazioni di diversi imputati o tra le loro posizioni processuali, bensì deve sussistere in concreto un nesso di interdipendenza in base al quale un imputato abbia effettivamente interesse a sostenere una tesi difensiva favorevole ad un altro imputato. Una situazione del genere rende impossibile una difesa comune. In caso contrario, uno dei due imputati verrebbe penalizzato. Quando l’autorità giudiziaria rileva la sussistenza di una situazione di incompatibilità, deve indicarla, esporne i motivi e fissare un termine per rimuoverla. L’incompatibilità può essere eliminata in 2 modi:  Mediante rinuncia del difensore a sostenere una o più difese (art 107 comma 1). Essa ha effetto dal momento in cui perviene la relativa comunicazione all’autorità procedente.  Mediante revoca della nomina da parte dell’imputato (art 107 comma 4). Essa è priva di effetto fino a che la parte non risulti assistita da un nuovo difensore. Nel caso in cui l’incompatibilità non venga rimossa entro il termine fissato, il giudice la dichiara e provvede a sostituire il difensore incompatibile con un difensore d’ufficio (art 106 commi 3 e 4) Con la legge n.45/2001, il parlamento ha introdotto nell’art 106 un nuovo comma: il 4-bis, in base al quale un difensore non può assistere più imputati che abbiano reso dichiarazioni concernenti la responsabilità di altro imputato nel medesimo procedimento o in un procedimento connesso o collegato. La norma è finalizzata ad evitare che il difensore si renda veicolo di uno scambio di informazioni tra imputati che hanno reso dichiarazioni sul fatto altrui e in tal modo possa indurli a conformare le rispettive affermazioni. La violazione di questa regola non ha conseguenze né di nullità né di inutilizzabilità di queste dichiarazioni rese, e questo l’hanno stabilito le sezioni unite di cassazione. 92 giudice che provvedono ai medesimi atti, il divieto di pubblicazione dovrebbe operare per tutta la durata delle indagini preliminari finché restano ignoti i potenziali autori del reto. Naturalmente il divieto di pubblicazione non investe le indagini difensive. L’area del divieto di pubblicazione subisce, poi, una modulata variazione per effetto dei decreti motivati dal p.m. relativi alla “disegretazione” o alla “segretazione” di singoli atti. La tutela della riservatezza della persona sottoposta alle stesse, per contro, non assumeva in materia alcuno specifico rilievo, stante la ratio del divieto assoluto di pubblicazione riconducibile all’esclusiva protezione dell’attività investigativa: significativo, al riguardo, il trattamento dell’informazione di garanzia, che, non è coperta da segreto e quindi, di regola, risulta estranea alla sfera del divieto di pubblicazione. La stessa conclusione valeva anche per gli atti investigativi quali le intercettazioni di comunicazioni e conversazione, una volta che la difesa ne potesse venire legittimamente a conoscenza. La questione si era profilata in tutta la sua imponenza per la pubblicazione dei c.d. “brogliacci” delle conversazioni o comunicazioni intercettate in costanza della fase delle indagini preliminari. Accadeva che i risultati dell’attività captativa fossero liberamente pubblicati nel loro contenuto, in quanto già resi conoscibili alla difesa, comportando, conseguentemente, che i mezzi di comunicazione ci sguizzassero al di sopra, mentre i giudici considerassero i medesimi irrilevanti. Pertanto, nacque e si fece sempre più pressante l’esigenza di individuare un equilibrio e un bilanciamento tra gli opposti interessi costituzionali. Al medesimo equilibrio si giunse solo dopo 20 anni di riforme, progettate e non realizzate, con la legge n.103/2017, la quale ai sensi dell’art 1 stabilisce che le intercettazioni, le comunicazioni e le conversazioni processualmente irrilevanti non possono confluire tra gli atti del procedimento e, conseguentemente, non possono transitare, in maniera formalmente legittima, sui mezzi di comunicazione di massa. Attraverso la medesima normativa si sono erette numerose barriere a protezione della privacy dei partecipanti al procedimento. In secondo luogo, si cerca di garantire e assicurare l’imparzialità del giudice dibattimentale (così come emerge nei commi 2 e 3 a cui si aggiunte una complicazione introdotta dal comma 7). Comma 2: “È vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare, fatta eccezione per l’ordinanza indicata dall’articolo 292.” Il secondo comma dell’art 114 prevede, dal punto di vista tipologico, che l’interdizione concerne la sola pubblicazione, anche parziale, dell’atto così come documentato. Sicché il legislatore per graduarne l’efficacia fa leva sulla durata dei divieti modulata con riguardo alla funzione dell’atto. Infatti, il legislatore stabilisce che se non si procede al dibattimento il divieto di pubblicazione viene meno con la conclusione delle indagini preliminari (ipotesi riferibile ad 95 esempio agli atti di un procedimento sfociato in un decreto di condanna) o con il termine dell’udienza preliminare (ipotesi riferibile, ad esempio agli atti del procedimento allorché il processo si chiusa con una senza di non luogo a procedere o con una sentenza pronunciata in giudizio abbreviato). Se invece si procede a dibattimento, l’art 114 comma 3 recita: “Se si procede al dibattimento, non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo per il dibattimento, se non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, e di quelli del fascicolo del pubblico ministero, se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello. È sempre consentita la pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni” Il comma 3 distingue tre categorie di atti:  Gli atti che all’epilogo del dibattimento risultavano inseriti nel relativo fascicolo, senza che ne fosse stata data lettura in udienza, erano oggetto di un divieto di pubblicazione destinato a cadere con la pronuncia della sentenza di primo grado. Una declaratoria di illegittimità ha accorciato la durata del divieto: ora gli atti inseriti nel fascicolo per il dibattimento sono pubblicati sin dalla relativa formazione.  Se però l’atto viene trasferito dal fascicolo per il dibattimento a quello del pubblico ministero, essendosi accolta la relativa questione preliminare sollevata ex art 491 o successivamente, il divieto di pubblicazione non può che ripristinarsi automaticamente, e lo stesso vale nel caso in cui l’atto sia poi letto in una porzione di dibattimento tenuto a porte chiuse.  Gli atti che, terminato il dibattimento, risultano, invece, collocati nel fascicolo del p.m. sono pubblicati solo dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado. In terzo luogo, si cerca di garantire e tutelare la riservatezza delle parti private (così come emerge dal comma 4, 6 e 6-bis). Comma 4: “È vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti del dibattimento celebrato a porte chiuse nei casi previsti dall'articolo 472 commi 1 e 2. In tali casi il giudice, sentite le parti, può disporre il divieto di pubblicazione anche degli atti o di parte degli atti utilizzati per le contestazioni. Il divieto di pubblicazione cessa comunque quando sono trascorsi i termini stabiliti dalla legge sugli archivi di Stato ovvero è trascorso il termine di dieci anni dalla sentenza irrevocabile e la pubblicazione è autorizzata dal ministro di grazia e giustizia”. Il comma 4 impone il divieto di pubblicazione di uno o più atti utilizzati per le contestazioni, allorché sia scattato il divieto di pubblicazione degli atti del dibattimento, essendosi quest’ultimo svolto a porte chiuse. 96 Tuttavia, accanto alla preoccupazione di evitare offese al buon costume, o la diffusione di notizie che per legge devono rimanere segrete nell’interesse dello stato, emerge l’esigenza di tutela per la privacy dei testimoni e delle parti private, interdicendo la pubblicazione di atti che potrebbe causare pregiudizio alla loro riservatezza. Nella più ampia prospettiva della tutela della dignità della persona si colloca il: Comma 6 bis: “È vietata la pubblicazione dell'immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all'uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta” Qui il divieto di pubblicazione investe l’immagine di chi si trovi sottoposto a restrizione della libertà personale – qualunque ne sia la causa – purché sia ripresa mentre si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi o altro mezzo di coercizione fisica. La latitudine della formula legislativa va apprezzata non solo perché copre anche la ripresa dell’immagine della persona in stato di arresti domiciliari o di colui il quale è tenuto saldamente “a braccetto” da due agenti di polizia penitenziaria mentre è condotto all’udienza di convalida dell’arresta, ma perché appare idonea a supportare l’evoluzione normativa: la mente corre all’impiego dei c.d. braccialetti elettronici di cui all’art 275-bis. Il divieto cade, poi, se è la stessa persona a pestare il consenso alla ripresa secondo una scelta assai opinabile. Infine, l’esigenza di impedire la pubblicazione di dati che potrebbero cagionare pregiudizio alla personalità del minore, perché ne consentirebbero l’identificazione, è soddisfatta dal: Comma 6: “E` vietata la pubblicazione delle generalità e dell'immagine dei minorenni testimoni, persone offese o danneggiati dal reato fino a quando non sono divenuti maggiorenni. Il tribunale per i minorenni, nell'interesse esclusivo del minorenne, o il minorenne che ha compiuto i sedici anni, può consentire la pubblicazione. È altresì vietata la pubblicazione di elementi che anche indirettamente possano comunque portare alla identificazione dei suddetti minorenni.” Il divieto si riferisce alla sola pubblicazione delle generalità o l’immagine del minore che assuma la qualità di testimone, persona offesa o danneggiato. Perfezionando opportunamente l’ambito di tutela, l’interdizione copre anche tutti quegli elementi che, anche in maniera indiretta, possano propiziare l’identificazione del minore. La recente riforma non ha introdotto sanzioni penali per violazione del divieto di pubblicazione (e del segreto), mantenendo ferma la scelta di non procedere ad un inasprimento delle blande pene stabilite dall’art 684 c.p., ossia di un reato contravvenzionale per di più suscettibile di oblazione discrezionale. 97
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