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Comunicazione e Analisi del discorso - Donatella Antelmi, Sintesi del corso di Semiotica della Pubblicità

Riassunto del libro "Comunicazione e analisi del discorso" di Dontella Antelmi; il riassunto può sostituire l'acquisto del libro in quanto esaustivo, e comprensivo di esempi.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 15/06/2019

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Scarica Comunicazione e Analisi del discorso - Donatella Antelmi e più Sintesi del corso in PDF di Semiotica della Pubblicità solo su Docsity! Pagina di 1 43 Comunicazione e Analisi del discorso. Foucalt definisce il discorso come pratica che forma sistematicamente gli oggetti di cui parla, così l’analisi del discorso indica un differente approccio alla comunicazione verbale. L’analisi del discorso non è una disciplina riconosciuta nelle partizioni accademico-istituzionali e deve fondare la sua legittimità su un’identità distintiva rispetto alle altre scienze che si occupano di linguaggio. Le sue nozioni più importanti sono usate anche in discipline come la semiotica, critica letteraria, linguistica. La specificità della AdD non può quindi trovarsi nel suo oggetto ma nel suo particolare punto di vista su quell’oggetto. Ciò che la distingue da altri ambiti disciplinari è che in essa il linguaggio è affrontato come forma di interazione regolata da norme, che ha a che fare tanto con la dimensione verbale quanto con quella istituzionale: è l’analisi dell’articolazione tra testi e ambiti sociali in cui sono prodotti. E’ una cerniera tra la dimensione testuale e quella sociale. Il discorso è allora una pratica che forma oggetti di conoscenza e determina precise configurazioni interpersonali e sociali. L’AdD mira anche ad un’analisi critica sull’uso, ideologico e politico, del linguaggio. Si distingue una scuola francese ed una anglosassone, noi seguiremo quella francese. E’ un campo di studi eterogeneo, in cui confluiscono approcci e metodologie di varia provenienza. CAPITOLO 1 — DAL TESTO AL DISCORSO Il discorso viene spesso confuso con altri concetti: enunciato, testo, contesto. In particolare, discorso e testo vengono spesso trattati come sinonimi, riferiti in particolare a produzioni orali (discorso) e scritte (testo): entrambi riguardano un livello di analisi superiore alla frase ed entrambi si riferiscono a usi reali della lingua e non al sistema di regole dettate dalla grammatica. Tuttavia la nozione di discorso è attraversata da rimandi che oltrepassano la dimensione del testo, accogliendo spunti di ispirazione sociologica e psicologica. Box - Livelli di analisi: si parla di livelli di analisi in riferimento allo studio di una lingua. L’analisi può concentrarsi sui suoni che caratterizzano il linguaggio (livello fonetico) o su quali di essi sono impiegati, in un determinato sistema linguistico, per differenziare il significato delle parole (livello fonologico). Altri livelli riguardano la forma delle parole (morfologia) , il significato e strutturazione del vocabolario (lessico) e la composizione delle frasi e della periodi (sintassi). Questa articolazione è frutto di una linea teorica che, da un lato considera la lingua come un sistema di elementi il cui valore dipende dai suoi rapporti con gli altri (Saussure); dall’altro su una concezione tassonomica delle unità linguistiche (linguistica americana). I livelli di analisi costituiscono ambiti di indagine linguistica che possono essere studiati in modo relativamente indipendente. Relativamente perché in molti casi i livelli si influenzano a vicenda, determinando dei fenomeni intermedi chiamati interfaccia. La divisione in livelli risponde a necessità descrittive, è conseguenza di decisioni teoriche e non di una reale autonomia delle categorie. Enunciato – enunciazione Parliamo di enunciato quando la nostra prospettiva si sposta, dall’osservazione della grammatica, ovvero della struttura e delle regole di una lingua, all’uso linguistico concreto (orale o scritto). Una frase (struttura sintattica provvista di un significato, costituita da un soggetto e un predicato) diviene un enunciato nel momento in cui viene proferita (per scritto o oralmente). L’enunciato è quindi l’unità minima della comunicazione verbale, vista nella prospettiva dell’uso e non delle regole. Una stessa frase realizza differenti enunciati in corrispondenza di differenti situazioni d’uso, ovvero differenti enunciazioni. L’enunciazione è l’atto con cui un locutore utilizza la lingua, e che costituisce il punto di riferimento essenziale (origo) per collocare ciò che viene detto nel tempo e nello spazio. Ciò è evidente quando in una frase sono inclusi elementi linguistici che non hanno un significato stabile, ma ne fissano uno proprio in riferimento al momento ed alla persona che produce l’enunciato. Gli enunciati portano le tracce della loro enunciazione, poiché rimandano, attraverso categorie precise (deittici) all’avvenimento enunciativo. Enunciazione ed enunciato si riferiscono all’atto di utilizzare la lingua in una situazione data, e al prodotto di tale atto. Testo La disciplina che si occupa del testo (linguistica testuale) è molto variegata e per questo il termine testo ha assunto diverse definizioni, ma in ogni caso rimane l’idea di unità. Può essere considerato come un insieme significativo di segni, il prodotto linguistico dell’attività Pagina di 2 43 comunicativa umana. Secondo una prospettiva più formale il testo è concepito come un messaggio complesso costituito da una concatenazione di più frasi, dunque un’entità caratterizzata da relazioni transfrastiche che dà luogo a una totalità coerente. In un’ottica più funzionale si ricorda la definizione di Coseriu: il livello dei testi è il livello degli atti linguistici o delle compagini di atti linguistici che vengono realizzati da un certo parlante in una certa situazione. Si sono così delicati 2 approcci al testo: 1. Il 1° considera il testo una superfrase: rientra nella prospettiva di studio della grammatica di una lingua, esaminando i fenomeni di strutturazione che eccedono la dimensione della frase. Si tratta di considerare fenomeni come ellissi, sostituzione, concatenazioni tra frasi. 2. Il 2° approccio coincide, nella formulazione di Coseriu, con un’ermeneutica del senso: non si tratta più di considerare relazioni formali tra le parti di un testo, ma di raggiungere, anche attraverso di esse, una comprensione del senso globale, un’interpretazione. La linguistica testuale ha spesso assunto come oggetti elettivi i testi scritti, lasciando ad altre specialità il compito di analizzare le produzioni orali, i ‘discorsi’. Ma l’interesse attuale per espressioni di ogni genere rende meno stringente questa delimitazione. Comprendendo testi di comunicazione di ogni tipo, l’analisi e l’interpretazione si discostano da questioni stilistiche e si rivolgono piuttosto a interrogare le condizioni di produzione/interpretazione del testo stesso, in tal caso l’impostazione ermeneutica non differisce molto da quella dell’analisi del discorso. Adam afferma che la linguistica testuale è un sottosettore del campo dell’analisi di pratiche discorsive. Da qui la vicinanza tra AdD e linguistica testuale. Le correnti pragmatiche hanno determinato un cambiamento nel modo di concepire il linguaggio, sottolineandone gli aspetti comunicativi e funzionali. Ciò ha portato a prendere in considerazione, più che l’assetto grammaticale delle frasi, il loro valore in quanto forme di azione o atti linguistici. Attraverso il linguaggio si esprimono ordini, promesse, affermazioni: il linguaggio è considerato una pratica. Il trait d’union tra discorso e testo è costituito dall’essere considerato, quest’ultimo, il risultato di pratiche discorsive istituzionalizzate ed inscritte nella società, e inserito in un interdiscorso. Box - Atti linguistici Una concezione diffusa tende a considerare le frasi come raffigurazioni di stati di cose nel mondo: il significato di una singola frase sarebbe derivabile dal significato delle singole parole e delle regole sintattiche che tengono assieme e costituirebbe una descrizione di qualcosa nella realtà. Si deve a Wittgenstein, Austin, Searle e Grice un mutamento di prospettiva, che consiste nel considerare la dimensione sociale del linguaggio: hanno sottolineato che usiamo il linguaggio per compiere azioni (tra le quali anche descrivere stati di cose); con le parole compiamo atti, come domandare, ordinare, promettere, ecc. Spesso l’azione effettivamente compiuta è segnalata dal verbo (ordinare, comunicare, chiedere scusa). Dicendo ‘prometto che’ si effettua la promessa. Si tratta di verbi performativi (compiere, effettuare) segnalano in modo evidente la loro natura di atto ed hanno la proprietà di “fare” solo quando sono usati alla prima persona ed al tempo presente. Tuttavia anche le frasi che non contengono forme esplicite costituiscono delle azioni ed hanno pertanto degli effetti che possono essere colti considerando il contesto dell’interazione. Ad es. “la cena è pronta”, può essere una semplice descrizione, o, a seconda del contesto, significare “vieni a tavola”, “vattene che stiamo per cenare”, “non posso uscire con te”. L’azione compiuta è deducibile dalla situazione dello scambio comunicativo. Si possono riconoscere negli enunciati prodotti 3 differenti livelli: 1. Livello locutivo: riguarda la costruzione dell’enunciato secondo le regole del sistema linguistico usato per esprimere determinati significati; lo stesso significato può essere espresso attraverso forme diverse, sempre orientati ad avere lo stesso effetto di divieto. 2. Livello illocutivo: esprime la qualità dell’azione compiuta secondo le intenzioni del parlante (forza illocutiva). Esprimere un’affermazione, richiesta, avvertimento, divieto. [puoi passarmi il sale?; chiuderesti la finestra?]. In molti casi la forma sintattica o l’intonazione sono un indice della forza illocutiva (es. circa ascendente che segnala una domanda, imperativo che segnala un ordine). Ma altre volte vi sono atti linguistici indiretti (una domanda può velare un ordine o una richiesta come in “Chiuderebbe la finestra?”). Sono enunciati in cui la forma è coerente con un certo tipo di atto, ma la funzione è altra. Permettono di piegare l’espressione linguistica ad esigenze di cortesia, pudore, tatto, e spesso richiedono dal ricevente un lavoro di interpretazione più raffinato, volto a cogliere l’implicito. Pagina di 5 43 enunciato purché su di essa cada l’accento principale della frase. Si avranno così informazioni diverse a parità di strutture sintattiche. La prominenza informativa può essere segnalata da differenti forme sintattiche: - forma passiva - dislocazione di costituenti della frase: consiste nello spostamento di un sintagma dalla posizione canonica che occuperebbe nella frase, dove il complemento oggetto è anticipato rispetto al verbo [il giornale, Gianni, lo ha comprato]. - scissione di una frase in due elementi: divisione della frase in due elementi X e Y. 
 Inoltre, la scelta di porre come tema un determinato contenuto, oltre che essere condizionata dallo sviluppo del discorso o per introdurre un argomento nuovo, ha anche l’effetto implicito di suggerire la verità o l’esistenza di quanto espresso. I giornali presentano nei titoli a sinistra il tema, a destra il rema (es. “Legge elettorale, si cambia”). Ciò ha come effetto implicito il suggerire la verità o l’esistenza di quanto espresso. Possono così inserirsi elementi di persuasione occulta. Cooperazione Può sembrare che la coerenza sia sempre segnalata da elementi testuali espliciti, ma in realtà tale coerenza è non data, ma ricostruita dal destinatario/interprete. Un enunciato apparentemente privo di senso può essere interpretato come coerente sulla base di conoscenze del contesto e di inferenze attivate dal destinatario. 
 La coerenza non è una proprietà immanente al testo (non necessariamente), ma una disponibilità del ricevente ad interpretare il testo. M.E. Conte distingue tra: - coerenza a parte obiecti (del testo) - coerenza a parte subiecti (del parlante) Esse andranno rapportate non solo a specifiche conoscenze contestuali, ma anche a conoscenze enciclopediche, alle routine comportamentali adeguate in circostanze sociali (script) o ancora al genere del testo. 
 Sia che si tratti di depositi memoriali (script, enciclopedie), sia che si faccia appello al genere del discorso, affinché le conoscenze necessarie all’interpretazione ed al riconoscimento di coerenza vengano attivate, occorre una disponibilità dell’interprete, una sua cooperazione alla buona riuscita dello scambio comunicativo, e la sua intenzione ad accettare l’ipotesi che il produttore dell’enunciato sia anch’esso cooperativo, cioè che l’enunciato sia stato prodotto con l’intenzione di comunicare qualcosa. Questi assunti sono stati precisati negli anni 60 da GRICE in forma di massime conversazionali, ovvero un insieme di norme alle quali i partecipanti di uno scambio comunicativo si presume si adeguino per la buona riuscita dello stesso, e che vengono fatte dipendere da un Principio di cooperazione che è alla base di ogni comportamento comunicativo razionale, e che prevede che ciascun interlocutore si conformi alle massime della conversazione e si aspetti un analogo comportamento dall’altro. 
 Le massime riguardano: - quantità: dai un contributo che non sia né più informativo né meno informativo di quanto richiesto. - qualità: non dire il falso o ciò che non conosci; cerca di fornire un contributo vero. - relazione: il contributo dev’essere pertinente al tema in discussione. Sii pertinente. - modo: bisogna evitare di essere oscuri, ambigui, caotici, dispersivi. Sii chiaro, breve, ordinato nell’esposizione. Sperber e Wilson hanno ricondotto interamente il significato di un testo all’attività interpretativa del ricevente, che agisce guidato dal presupposto che il messaggio ricevuto sia per lui pertinente nel contesto cognitivo in cui appare. E con contesto cognitivo si intende, oltre alla situazione comunicativa e al co-testo, anche l’insieme di conoscenze e credenze del soggetto. Secondo il principio di pertinenza di Sperber e Wilson, ogni atto di comunicazione che esibisce la sua intenzione di comunicare (detto ostensivo-inferenziale) comunica la presunzione della propria pertinenza ottimale, cioè di essere in grado di fornire al destinatario il massimo di informazione con il minimo sforzo di trattamento. Tale presunzione fa sì che il destinatario Pagina di 6 43 selezioni ed attinga dal contesto cognitivo le informazioni che rendono pertinente il messaggio ricevuto. Il processo cognitivo che si attiva per il principio di pertinenza spiega il meccanismo che porta all’interpretazione di messaggi pubblicitari oscuri o ambigui: in questi casi il destinatario non è impegnato in una semplice decodifica del messaggio, ma in una serie di inferenze. Il dispendio cognitivo alla ricerca di un senso è ricercato dal pubblicitario, che desidera ottenere l’attenzione del lettore. Es. pag. 22: Non compare alcun testo verbale (headline o body copy) ma solo un catch visual (immagine pubblicitaria): niente spiega quale sia il prodotto, viene solo rappresentato un panorama surreale, NY sommersa dalle acque e due giovani che bevono acqua sulla cima di un grattacielo. Il rif. è ai mutamenti climatici e al surriscaldamento globale. Riferire un discorso ecologista ad una marca di abbigliamento è un lavoro di interpretazione che lascia il lettore la facoltà di sperimentare la propria creatività, essendo possibili molti percorsi di senso. Ogni enunciazione implica la propria pertinenza e quando in un giornale viene messa una notizia o vengono accostate varie notizie in una stessa pagina, il lettore suppone che il fatto sia rilevante o che le notizie abbiano una relazione tra di loro. In alcuni casi, la gerarchia degli articoli, con la posizione nella pagina, l’ampiezza, la presenza di foto o meno, suggerisce una gerarchia di notizie relative. (es. pag. 24,25) La contrapposizione (es. articolo Berlusconi accanto a quello su un suo antagonista) non viene detta esplicitamente, ma mostrata nella pagina, attivando l’intervento cognitivo-interpretativo del ricevente. Questo fenomeno, noto come topicalizzazione, instaura, grazie alla semplice giustapposizione degli articoli, un legame di senso tra essi, suggerendo (implicitamente) dei rapporti tra i fatti narrati. La cooperazione è una presunzione che riguarda una comunicazione ottimale: se qualcuna delle massime non è rispettata, l’interprete dovrà cercare un’interpretazione che permetta di ottenere un messaggio coerente e significativo. Se il testo presenta mancanze letterarie o esplicite, il destinatario sarà indotto a inferire un significato implicito (implicatura), sulla base dell’assunto che il principio di cooperazione sia stato osservato, ovvero, nei termini di Sperber e Wilson, sarà indotto a fare appello alle proprie conoscenze per mantenere la pertinenza del messaggio. Le relazioni interpersonali sono disseminate di violazioni delle massime, spesso per precetti di cortesia, ma anche i messaggi pubblicitari spesso presentano informazioni che sollecitano l’attività dell’interprete. Nell’es. a pag. 26 sia nell’headline, che nel bodycopy, che nel Visual si violano le massime delle quantità e del modo: non dà sufficienti informazioni ed è oscuro, ma ciò è funzionale al messaggio. La violazione delle massime permette di ottenere effetti particolari, senza che ciò vada a detrimento della coerenza del testo. Box — Cooperazione, inferenze, implicature Le massime della conversazione di Grice sono una sorta di ‘comandamenti’ della conversazione razionale. Sono formulati per rendere più efficace e costruttivo uno scambio comunicativo, fatta salva la premessa principale che i partecipanti cooperino al buon andamento di tale scambio. Il principio cardine della comunicazione infatti è, per Grice, il Principio di Cooperazione. La prospettiva di Grice si pone dalla parte dell’intenzionalità, della volontà di farsi capire e capire, volontà condivisa dai partecipanti ad una interazione verbale, i quali si impegneranno per raggiungere tale obiettivo. Le massime hanno lo scopo di rendere maggiormente efficace una conversazione, poiché si assume come condiviso lo sfondo della ideale conversazione razionale. Sebbene siano espresse in forma di precetti, le massime non hanno statuto vincolante o etico, infatti nella conversazione reale sono spesso violate (es. rifiutare un invito con “non sto bene” e violare la massima di qualità; o con “stasera arriva mia sorella” violando la massima di relazione). Sta all’interlocutore poi interpretare la risposta. In altri casi invece il nostro comportamento si accorda alle massime in modo semplice, automatico, o inconsci; e applichiamo il comportamento razionale atteso, più probabile. Le massime agiscono non solo negli enunciati che diamo in risposta, ma anche nell’interpretazione di quelli che riceviamo, potenzialmente ambigui, fornendoci la chiave per integrare ciò che viene detto secondo un criterio razionale. Presupponiamo un comportamento ragionevole da parte dell’interlocutore. L’ipotesi che guida la nostra interpretazione è che il nostro interlocutore sia cooperativo e che, se non rispetta una massima, dev’esservi una spiegazione. A volte è la nostra conoscenza del mondo (Enciclopedia, frame e script) che ci permette di integrare Pagina di 7 43 o correggere in senso razionale la risposta, altre volte bisogna fare invece uno sforzo maggiore, fare cioè delle inferenze. Grice chiama implicature conversazionali quelle inferenze che l’ascoltatore è indotto a fare a partire dall’enunciato prodotto e dall’ipotesi di cooperazione nella conversazione. Si va da implicature che permettono di ricostruire legami di senso non detti, ma ricostruibili in base all’esperienza (es. “che ora è?” “è appena suonata la campanella”), fino all’interpretazione di atteggiamenti e giudizi che non si vogliono esprimere esplicitamente. Se si violano della massime si attiva un meccanismo, ovvero la ricerca di ciò che l’enunciatore può aver voluto dire con quelle parole. C’è un legame tra implicature e atti linguistici indiretti: l’interpretazione di atti linguistici indiretti (“puoi passarmi il sale?”) È ottenuta con un meccanismo inferenziale inconscio ed automatico. Le massime sono violate nelle forme indirette di ordini o richieste, alle espressioni evasive o oscure per ragioni politiche, forme ambigue della pubblicità, tautologie (“una donna è una donna”) che spingono a cercare sensi impliciti; espressioni ironiche (“bella giornata oggi!”) In cui la non pertinenza e falsità dell’enunciato rispetto alla realtà che fa pensare a un’interpretazione ironica. Box — Enciclopedia, “script” e “frames” Nella comprensione di ogni enunciato o testo sono coinvolti sì i significati delle parole, ma in molti casi questi significati “dizionariali” non sono sufficienti, e la comprensione avviene sulla base di conoscenze sedimentate, che sono associate ad una determinata parola sotto forma di dati dell’enciclopedia. Si tratta di sensi aggiuntivi, connotazioni, richiami culturali che arricchiscono il significato dato da una definizione, e che sono legati a una cultura di una data società (es. colomba). Tra le conoscenze enciclopediche si trovano: - frames: conoscenze relative alle caratteristiche ed alla collocazione degli oggetti (es. nel frame dell’automobile è compreso che questa abbia 4 gomme, un motore, che possa essere guidata, ecc. in modo da poter interpretare una frase come “non posso portarti perché ho una gomma bucata”). - script: sequenze organizzate di schemi stereotipati, che descrivono le situazioni della vita. Ogni script descrive le azioni tipiche che avvengono in uno scenario, e gli oggetti che si trovano o sono compatibili con tale contesto. (Es. script del ristorante, della visita dal dottore, ecc.) La conoscenza di questi schemi d’azione e degli oggetti che vi compaiono sono importanti nell’elaborazione del linguaggio, perché contengono gran parte delle conoscenze che sono usate per facilitare la comprensione di ciò che udiamo e leggiamo, e per ricostruire la coerenza di un testo. La comunicazione poggia, oltre che sulla condivisione di regole de linguaggio, su uno sfondo di informazioni condivise con l’interlocutore, su una conoscenza del mondo. Criteri di testualità: la coesione La coesione è il 2° principale criterio di testualità, ed ha a che fare con i meccanismi “superficiali” della coerenza, cioè con gli strumenti grammaticali che fungono da legami tra le varie parti del testo. Se consideriamo il testo come una successione di frasi, la coerenza ha a che fare con la maniera in cui tali frasi sono concatenate, dunque con i mezzi che permettono l’instaurarsi di relazioni semantiche e tematiche tra le parti. 
 Un 1° caso è costituito dagli elementi che rinviano ad un medesimo referente, attraverso i quali si instaura la continuità tematica e che possono consistere in ripetizioni vere e proprie, o in forme pronominali, anche vuote, cioè non realizzate fonicamente ma logicamente presenti. La continuità dei referenti è ottenuta attraverso vari procedimenti: 1. ripetizione pura e semplice 2. elementi forici (anafore e catafore), cioè elementi pronominali che rimandano ad altro elemento già nominato (anafore) o da nominare (catafore) Es. “prese un pezzo di vetro e lo sfregò”; “prendilo, l’ombrello”. 3. i sostituti lessicali (sinonimi, iperonimi, parafrasi. Es. “Mario salutò Luigi, l’amico rispose”. 4. le ellissi (“Camilla dorme fino all’una, Mario pure”). 5. concordanza 6. uso dell’articolo Altri meccanismi assicurano la coesione anche al di là dei confini di frase, come: 1. l’uso dei tempi verbali e degli avverbi temporali, che determinano la gerarchia e la successione temporale degli avvenimenti 2. i connettivi argomentativi (di conseguenza, quindi, perciò) 3. marcatori testuali (in primo luogo, per concludere) Pagina di 10 43 A. Il discorso implica un’organizzazione che oltrepassa il limite di frase, sia perché il senso si determina nel testo inteso come unità coerente, sia perché anche una frase minima costituisce un discorso a sé stante. B. Poiché si sviluppa nel tempo, il discorso è orientato, ha una direzione, ed è soggetto a interruzioni, precisazioni, cambi di prospettiva, riformulazioni. Nella prospettiva pragmatica: A. Il discorso è contestualizzato, ma il contesto non è una sorta di cornice che circonda e completa il quadro testuale: non esiste discorso se non contestualizzato; testo e contesto sono entità autonome solo arbitrariamente, a fini discorsivi. B. Il discorso è un processo interattivo. L’interattività agisce al di là della situazione specifica e mette in causa una pluralità di soggetti ai quali il discorso si rivolge. C. Sebbene interattivo, il discorso parte da una fonte (origo) che nel caso più semplice corrisponde al soggetto enunciatore, colui che parla (io) al presente (ora) in presenza (qui). D. Ogni discorso, ogni espressione linguistica, è una forma di azione. I parlanti si servono del linguaggio per compiere atti linguistici: affermare, descrivere stati di cose, promettere, proibire, ecc. In ogni enunciazione l’atto locutivo (proferire certi suoni) si accompagna ad uno illocutivo (compiere un’azione) e ad uno perlocutivo (creare un effetto sul ricevente). Austin, e poi Searle, hanno descritto questa caratteristica avviando la ricerca sugli atti linguistici, cioè ciò che un soggetto ‘fa’ quando ‘parla’. E’ un settore ampiamente studiato dalla pragmatica. A questi caratteri occorre aggiungere: A. Il discorso è il prodotto ma anche l’elemento unificante di una comunità discorsiva. Sebbene questa nozione possa avere un senso ampio sovrapponendosi a comunità linguistica (comunità i cui membri hanno tutti in comune almeno una varietà di lingua e le norme per il suo uso), essa è trattata in termini più ristretti da Maingueneau che vi vede un sottoinsieme della società caratterizzato dalla produzione di discorsi. Le comunità discorsive sono strutturate dai discorsi che producono e mettono in circolazione, dunque il legame tra tali gruppi e i testi è circolare: i testi sono i prodotti della comunità ma anche la condizione della sua esistenza. Esempi di tali comunità sono i giornalisti, gli economisti, gli scrittori. B. Il discorso in ogni momento entra in relazione con altri discorsi (coevi o anteriori, relativi o meno alla stessa sfera sociale, dello stesso genere o no, ecc.), cioè è sempre compreso in un interdiscorso, che è a sua volta, un concetto complesso che può avere un senso ampio e poco definito (insieme dei discorsi precedenti o contemporanei) o riferirsi all’insieme di discorsi che, in un determinato periodo, si confrontano in modo antagonista, o infine, alla memoria depositata nella lingua. L’interdiscorso in ogni caso appare come un fattore che sta a monte del discorso stesso. C. Tenendo conto dell’interdiscorso, è evidente che ogni discorso si costituisce come un posizionamento che mira, anche se non apertamente, a una persuasione del suo destinatario, o almeno a modificarne le conoscenze, e ha pertanto una componente argomentativa. D. Il discorso si sviluppa in un tempo ed in un luogo, che esso stesso contribuisce a creare. Il tipo di testualità di un’epoca non può essere disgiunta dal fattore sociale. Sono questi ultimi tratti che consentono di oltrepassare la soglia del testo o dell’uso per indagare il funzionamento di un discorso nella società. Per la prospettiva di Analisi del Discorso un discorso è una forma di azione; il prodotto di una comunità discorsiva; una porzione di interdiscorso. CAPITOLO 2 — GENERI DEL DISCORSO Ad uno sguardo superficiale la relazione tra testo e discorso appare semplice: i discorsi sono fatti di testi, dunque da oggetti osservabili che, opportunamente riuniti e analizzati, possono offrire uno spaccato di discorso; in realtà il passaggio dal livello del testo a quello del discorso implica un totale cambiamento di prospettiva. La ricerca sul discorso non può tuttavia prescindere dall’analisi di testi rappresentativi per gli scopi dell’indagine. Si pone così il problema di formulare criteri in base ai quali raccogliere e classificare dati empirici; e di formulare possibili classificazioni dei discorsi fondate su categorie discrete. Dal punto di vista pratico la necessità di criteri di classificazione è sentita da coloro che devono formare persone competenti in grado di produrre testi di vario genere. Dal punto di vista teorico la ricerca di parametri riguarda tutti i ricercatori Pagina di 11 43 impegnati nelle indagini di settori specifici. Rispetto ai livelli di testo e discorso la situazione è diversa. La messa a punto di categorie dei tipi testuali può contare sull’osservabilità di questi, mentre coi discorsi ci si scontra con un’eterogeneità disperante, che fa apparire vano ogni tentativo di generalizzazione. Il legame tra testo e discorso può essere mediato dalla antica nozione di genere: inteso come modello astratto e repertorio di forme istituzionalizzate, è lo strumento che permette di articolare la tensione tra testo e discorso, ovvero tra il “detto” e le condizioni di enunciazione, il “dire”, da cui dipende il senso. Il genere può essere considerato una rappresentazione socio-cognitiva interiorizzata di unità discorsive che emanano da ambiti di attività vari, in situazioni precise, da parte di comunità che condividono lingua e cultura, e che assume diverse forme. Il repertorio di generi è costantemente mutevole. Tipi testuali La linguistica testuale, oltre ad occuparsi di tratti grammaticali e strutturali che interessano le unità linguistiche più ampie della frase, ha anche cercato di stabilire tipologie di testi, e la più nota è quella di Werlich, il quale individua 5 forme testuali globali: 1. Narrazione: il tipo narrativo riferisce fatti che si collocano lungo l’asse temporale 2. Descrizione: il tipo descrittivo ha per oggetto realtà spaziali 3. Esposizione: il tipo espositivo presenta concetti e dati 4. Argomentazione: volto all’affermazione di una tesi 5. Istruzione: mira a regolare un comportamento (fare o non fare qualcosa) 
 Nell’architettura di un testo, i diversi tipi possono essere compresenti. Dunque tra oggetto-testo globale e le sue componenti minime, le parole, sussistono unità intermedie di vario grado di complessità frasi, periodi, paragrafi) che danno luogo a raggruppamenti semantici complessi. Adam chiama sequenze tali raggruppamenti e li classifica usando le denominazioni viste sopra. Una sequenza è una struttura, nel senso che è scomponibile in unità minori (periodi, frasi) legate tra loro, ed è autonoma rispetto al testo, poiché dotata di organizzazione interna. Questi 5 tipi di sequenze hanno carattere di modello, poiché fanno parte delle conoscenze testuali acquisite per immersione culturale. - Tra di essi, la descrizione ha carattere particolare, in quanto non è scomponibile in gruppi di periodi strutturati, ma ha un’organizzazione sequenziale e periodica, fatta a partire da una tematizzazione. Le descrizioni abbondano di nomi e aggettivi; possono avere andamento lungo e articolato o avere un enumerazione asindetica (senza verbi). Una descrizione non comprende solo passi letterari, ma anche forme di composizioni semplici con la giustapposizione di un tema e un rema (Es. “Sardegna, un mare di tradizioni”). - Una sequenza narrativa è composta da fasi che compongono la fabula (riprodotte secondo le esigenze dell’intreccio) e che dispiegano lo svolgersi degli avvenimenti da una situazione iniziale ad una finale. La tipologia può riguardare un intero testo ma anche un breve enunciato. - Il tipo argomentativo ha la struttura (minima) premessa – dati/argomenti – conclusione, che può essere variamente complicata. Anche in questo caso può essere costituita da un breve enunciato oppure da un testo ampio e articolato (molti annunci pubblicitari hanno questo tipo di struttura, ad esempio “Croazia, così bella e così vicina”). - La schematizzazione esplicativa o informativa mira a fornire spiegazioni di qualche fatto, mirano cioè a rispondere alla domanda “perché?”. Si usa spesso nei generi didattici come manuali o enciclopedie. I generi: un punto di partenza La nozione di genere è tornata al centro dell’interesse linguistico e letterario solo negli ultimi anni, anche se in Italia trova poca eco nel lavoro teorico e nelle discussioni. Ciò è dovuto all’eterogeneità della nozione, che è stata usata tanto nella retorica classica quanto nella critica letteraria, e pertanto è ancorata a diversi punti di vista. L’attuale ripresa è legata da un lato agli studi di analisi del discorso e alla propensione di questi verso testi di tipo non letterario; dall’altro alla problematica legata alla traduzione e all’interpretazione. Dall’antichità si diramano 2 diversi punti di vista che assumono il genere nel proprio apparato teorico: retorica e poetica. Pagina di 12 43 Retorica Nella Grecia classica, e successivamente a Roma, i generi si riferiscono ai discorsi pronunciati in occasioni fondamentali della vita pubblica. L’attività dei cittadini greci è stata alla base della formazione di discorsi e della messa a punto di tecniche per la produzione di essi, che ci vengono tramandati da un sistema retorico. Il sistema retorico aristotelico individuava 3 generi oratori, distinti in base alla finalità del discorso e all’uditorio al quale esso si rivolgeva, nonché caratterizzati da differenti posizioni rispetto al tempo, ai valori, al tipo di argomentazione. - Giudiziario: era volto ad accertare innocenza e colpevolezza di un imputato, doveva attingere al passato, orientandosi verso il periodo in cui si erano svolti i fatti da giudicare, e stabilire se questi erano stati giusti o ingiusti. - Deliberativo: era proiettato verso il futuro, riguardando l’opportunità di una scelta al posto di un’altra, si occupava dell’utile o del nocivo. - Epidittico: era volto a celebrare il presente, ed attingeva a valori come nobiltà, virtù, ecc. Quanto alle forme di argomentazione, si riteneva consono al genere giudiziario il sillogismo, al deliberativo l’esempio, mentre nel genere epidittico si amplificavano i fatti già noti al pubblico. Oggi questa tripartizione non è sufficiente a coprire tutti i generi del nostro universo discorsivo; ma si nota come la scelta del genere condizionasse contenuto e forma del discorso, instaurando un particolare contratto col destinatario del testo. Proprio sotto questo aspetto le concezioni moderne di genere si saldano alla retorica classica, individuando nel genere una sorta di canone che guida nella produzione e nella ricezione di testi in qualsiasi tipo di interazione. Poetica Ha origine sempre in Grecia l’altro grande ambito di riconoscimento e differenziazione dei generi, quello letterario, in base al quale è possibile stabilire classificazione dei testi secondo criteri formali e tematici. Ogni testo presenta marche o stilemi riconoscibili, tanto sul piano linguistico-formale quanto su quello dei contenuti trattati; in base alla regolarità e corrispondenza di questi due piani, il genere si definisce come un modello, stabilizzato ed elaborato in seguito allo sviluppo di opere, appunto, coerenti con esso, e che costituisce un punto di riferimento per le produzioni successive. Fino all’800 la letteratura è stata concepita come imitazione di modelli cui il poeta o scrittore non potevano non riferirsi, solo in epoca recente il genere perde questo carattere costrittivo. Dunque, le norme di genere rappresentano un punto di riferimento (da parte dell’autore) e un orientamento per l’interpretazione da parte del lettore. L’espressione "orizzonte di attesa” di Jauss esprime bene questa tensione di chiusura dello spazio in cui si colloca il testo e la sua costitutiva potenziale mobilità, poiché l’orizzonte dipende dal centro di osservazione, suscettibile di movimento. In questa prospettiva l’attenzione si sposta dai tratti costitutivi e vincolanti per l’autore, alla disposizione e competenza del fruitore, che diviene parte attiva nell’interpretazione; a partire dalle sue conoscenze enciclopediche e dai segnali del testo compie operazioni pragmatiche di individuazione del genere. Coopera alla costruzione del senso, inferendo con le sue competenze al mondo possibile in cui il testo va collocato. Con questa prospettiva ampia il genere di appartenenza diviene un campo di tensione, un sistema dinamico in cui intenzione comunicativa, interpretazione e vincoli normativi sono in continua interazione e soggetti a movimento. Il carattere storico e sociale del genere è assimilato da Santulli alla nozione di norma da Coseriu: il genere si pone in posizione intermedia tra l’universale e il particolare, come una norma assimilabile al concetto di norma linguistica, storicamente determinata e determinabile. La storia dei generi procede così per salti e spostamenti, che dipendono dallo scopo del testo in un determinato periodo storico, dall’ambito culturale, dai costumi e dai riti di una società. Tale percorso si può seguire solo nel suo svolgimento temporale. A questa eterogeneità legata al contesto storico, occorre aggiungere la diversità delle prospettive in base alle quali i vari generi vengono definiti, che per Corti si possono dividere in 2 grandi categorie: - Quelle di natura astratta, atemporale, deduttiva: vi appartengono le indagini che assumono come tratto caratterizzante qualche proprietà antropologica fondamentale che definirebbe il genere: lirico, fantastico, drammatico, che, in quanto categoria fondamentale, riguarderebbero non solo l’insieme di testi esistenti ma le caratteristiche di ogni testo a venire che volesse essere ascritto a tali generi. (carattere rigido) Pagina di 15 43 Lo scopo della comunicazione è considerato uno de tratti costitutivi del genere anche da Bathia, che afferma che il genere è un evento comunicativo riconoscibile caratterizzato da un insieme di scopi comunicativi identificati e compresi dai membri della comunità professionale e accademica. Quest’ultima concezione può essere estesa ad altri contesti, poiché basata sul riconoscimento di comunità discorsive, ma resta insufficiente nei confronti di quei discorsi dei quali è difficile individuare con precisione uno scopo, come il discorso letterario o religioso. Essi appartengono ai discorsi costituenti che secondo Maingueneau e Cossutta sono discorsi “fondatori” sui quali altri discorsi sono basati, che hanno una relazione con i fondamenti della società e col significato del destino dell’uomo. Attingono la loro autorità non da discorsi precedenti, ma dall’essere legati a una fonte legittimante. L’esistenza di tali discorsi è legata all’esistenza di comunità discorsive. I criteri per definire il genere sono molteplici: vanno dalla natura comunicativa al correlato socio- istituzionale, dalle caratteristiche formali alle regolarità compositore, dagli schemi agli scopi. Vediamo quindi i fattori da considerare per caratterizzare il genere. Fattori della comunicazione Contratto di comunicazione — Poiché ogni scambio comunicativo è un’attività sociale, è soggetto alle stesse norme che regolano le transazioni interpersonali. La pragmatica considera ogni occorrenza comunicativa come un atto linguistico, un’attività diretta a uno scopo e soggetta a vincoli che ne condizionano la riuscita. Ha allora senso chiedersi quali siano i requisiti da soddisfare affinché tale azione sia conclusa in modo efficace. Per indicare un atto linguistico ben riuscito è stato utilizzato il termine “felice”: le condizioni di felicità dipendono da vari fattori, riconducibili a situazioni, ruoli, sincerità dei soggetti.“Vi dichiaro marito e moglie” non ha alcun effetto se pronunciata da un individuo non autorizzato, o se i coniugi non sono nello stato civile di nubile o celibe. Occorre che i partecipanti allo scambio comunicativo riconoscano ed accettino i ruoli che sono chiamati a rivestire, ed i vincoli cognitivi che consentono un giudizio. Se ciò è più evidente nel matrimonio, non è meno stringenti in contesti apparentemente meno rigidi, come i talk show: al suo carattere conversazione si affiancano tratti di una situazione istituzionale (definizione dei temi da trattare, tempi da rispettare, vanno rispettati i turni di parola). Chardeau nomina contratto questo tacito accordo che lega i partecipanti ad una enunciazione, i quali accettano le norme che regolano gli scambi linguistici all’interno di una pratica sociale, riconoscono o negoziano le rispettive identità, si comprendono, e condividono la pertinenza di una situazione. La nozione è adattabile a qualsiasi contenuto e genere di discorso (orale o scritto). Il contratto comunicativo presuppone una certa competenza dei parlanti, come la lingua usata; competenze sul mondo (enciclopedia), dipendenti dalla società in cui viviamo; e la competenza che riguarda i generi del discorso, sebbene non posseduta in egual misura da tutti i membri di una società (generi più sofisticati come sentenza giudiziaria, bilancio societario, trattato scient.). La comprensione e interpretazione dei testi si appoggia su questo insieme di competenze di genere, ed il contratto che lega i coenunciatori presume la condivisione delle conoscenze necessarie. Questa presunzione, nei testi scritti, si condensa nella figura del lettore modello, costruzione astratta di un destinatario ideale che condivide le conoscenze necessarie alla comunicazione. Ogni testo scritto elabora un proprio destinatario ideale, modellato su quei lettori reali che leggeranno quel determinato prodotto, competenti del campo e in grado di comprendere il testo. I giornali fidelizzano così il lettore. Statuto e ruolo dei partecipanti — Possiamo distinguere tra: - ruoli discorsivi: intercambiabili nel corso della conversazione (chi pone domande, chi risponde, consiglia, prega, ecc) - ruoli istituzionali: legati alla situazione e al genere di discorso. Al ruolo è connessa l’immagine di sé che l’enunciatore cerca di costruire e mantenere, spesso negoziandola con il co-enunciatore. Goffman introduce il concetto di faccia, definendolo come il valore sociale positivo che una persona rivendica per sé stessa mediante la linea che gli altri riterranno che egli abbia assunto durante un contatto. Il soggetto che sceglie una determinata faccia deve mantenere la sua condotta coerente con la faccia scelta. Un corretto comportamento prevede che il soggetto agisca in modo da salvaguardare anche la faccia di coloro che interagiscono con lui. Su questi temi si innesta il modello pragmatico della cortesia. Pagina di 16 43 La situazione: luogo e momento adatti — Ogni genere di discorso ha luogo e momento adatto per la propria riuscita, che, se non rispettato, può compromettere il risultato della comunicazione o dare luogo ad effetti particolari (es. poesie sui muri). Ci sono casi in cui luogo e momento sono condizioni stringenti: ad es. una norma diviene legge dello Stato ed entra in vigore dopo che è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale. La scelta del luogo condiziona anche la forma del testo in molti generi simili: la pubblicità di un prodotto sarà diversa se destinata all’affissione esterna o alle pagine di una rivista. La comunicazione mediale offre esempi interessanti della dimensione spazio-temporale, e degli effetti che ne derivano dal violarne i requisiti. Quanto all’osservanza dei limiti si ricorda Carosello. Una delle caratteristiche degli attuali prodotti mediali è invece la mescolanza di generi. Ad es. un tratto che riguarda il giornalismo televisivo italiano recente è l’ibridazione di questo genere, tipicamente informativo, con elementi di fiction. Si va da quella che Loporcaro chiama “poetica verista”, un anomalo utilizzo dell’intervista o della presa diretta di parola da parte del personaggio, che nasconde la voce narrante (giornalista) e teatralizza l’evento sottraendolo al distanziamento che un atteggiamento critico e informativo richiederebbe; fino all’anticipazione, tra le notizie giornalistiche, di programmi di intrattenimento. Al di là della commistione dei generi, in ogni caso la dimensione spazio-temporale è uno dei criteri in base al quale possiamo individuare un genere. Il medium — Non è possibile analizzare un testo al di fuori del suo mezzo di espressione. Non esiste un messaggio che viene codificato su un qualsiasi supporto rimanendo uguale a se stesso. Eredità della concezione “postale” del linguaggio, che semplificava la relazione comunicativa come un trasferimento di idee tramite la codifica, il canale di trasmissione, ed infine la decodifica da parte del ricevente, questa concezione è oggi rifiutata da: - Linguisti: Le scienze cognitive hanno proposto un altro approccio alle funzioni della lingua, di cui si sottolinea, più che la possibilità di codificare il pensiero, la capacità di permettere la comunicazione; ha anche modificato la concezione del significato, la cui natura viene indagata a partire da ciò che i parlanti comprendono effettivamente. - Mediologi: è a partire dalla definizione del medium come dispositivo per la trasmissione che viene abbandonata l’idea che esso sia un semplice mezzo o canale, in effetti il testo può presentarsi attraverso vari supporti: oralmente, manoscritto, stampato, ecc. La diversità del supporto modifica l’insieme di un genere di discorso. Grazie alla diffusione dei mass media e new media l’influenza del medium è stata notata e studiata dalla mediologia. Il supporto non è un semplice accessorio della comunicazione, bensì impone precisi vincoli ai contenuti del discorso. La stessa nozione di ‘testo’ è cambiata nel passaggio dalla stampa al mondo digitale. Ciò che ha maggior rilievo per un mediologo è il significato e la trasformazione dei territori mentali, abitudini ad opera dei mezzi di trasmissione delle idee e della cultura. Ad esempio il discorso politico, al di là dei contenuti, viene ridefinito dalla pratica discorsiva stessa. Osservando il panorama attuale dei dispositivi di comunicazione, si possono individuare alcuni aspetti macro che li caratterizzano rispetto ai mezzi del passato: 1. L’oralizzazione di qualsiasi forma testuale, anche scritta. Sms, chat, mail, pur usando la scrittura, sono organizzati come produzioni orali, con espedienti grafici che iconizzano aspetti del parlato: maiuscolo, emoticon, sovrabbondanza di segni ortografici. Inoltre si nota anche il carattere effimero del parlato (non si salvano mail, sms…). 2. Indipendenza della comunicazione da un contesto condiviso e spesso distanza spaziale dei coenunciatori, cui si aggiunge l’indeterminatezza dei destinatari e della loro identità. I soggetti che comunicano non sono compresenti. 3. Modalità attraverso cui si costruisce l’identità del parlante, il suo ethos. Ad esempio le figure dei bloggers. Prima dei blog l’identità era fluida e di esse non si conservava traccia (forum); oggi viene conservata nei blog. 4. Accesso alle informazioni: nella rete si generano gerarchie determinate dal contatto ripetuto con i siti da parte di un pubblico più che ampio. Ciò determina una sorta di agenda setting , la messa in risalto di temi più dibattuti. Blogosfera= piramide in cui i blog sono degli hub cognitivi, quelli che svolgono il ruolo più attivo nella funzione di comunicazione con l’esterno e di opinion leadership della blogosfera. 
 Pagina di 17 43 Forme linguistiche: codici e registri — Il codice linguistico (es. la lingua italiana) può essere considerato come un sistema di varietà, che sono a loro volta caratterizzate in base a parametri quali provenienza geografica del parlante, lo status socioculturale, la situazione comunicativa. È in base a questo ultimo fattore che si parla di registri: secondo Halliday questi dipendono dall’uso della lingua in una determinata situazione, differenziandosi dalle variazioni che riguardano il parlante. Un es. sono le diverse denominazioni per “padre”, “babbo”, “papà”, ciascuna legata ad un ambiente e contesto d’uso. Il registro è relativo al rapporto comunicativo e sociale tra enunciatore e coenunciatore, e segnala la preferenza di certi elementi del codice su altri, soprattutto per quanto riguarda la formalità (registro aulico, formale, ecc.), varietà molto sfruttate nella commedia, dove servono a caratterizzare i personaggi o a sottolineare ironicamente qualche passaggio. Ad es. nel testo dei Promessi sposi, i personaggi semplici usano un registro popolare, mentre quelli più istruiti o potenti hanno un registro più elevato. Emblematico è il caso del doppio registro usato per riflettere l’opposizione tra realtà e finzione. Box — Varietà dell’italiano Varietà di lingua: insieme di variazioni all’interno di un medesimo codice, espresse a qualsiasi livello (fonetico, lessicale, grammaticale), dipendenti da fattori sociali e/o contestuali. L’italiano non è una struttura rigida e monolitica, ma presenta forme diverse relative tanto alla declinazione geografica quanto al livello di istruzione del parlante, all’argomento trattato, alla forma orale o scritta. Si parla di asse di variazione in relazione a queste coordinate extralinguistiche, e in particolare di: 1. Asse diatopico: relativo alla variabilità determinata dalla distribuzione geografica (comprese le forme di “italiano regionale”, come la gorgia toscana, o termini diversificati geograficamente come cacio/formaggio) 2. Asse diafasico: relativo al grado di maggiore o minore formalità in cui avviene lo scambio comunicativo ed al tipo di argomento trattato, più o meno specifico o tecnico; anche qui sono interessati a tutti i livelli di lingua, ma i fenomeni più evidenti riguardano il lessico. 3. Asse diastratico: relativo alla situazione sociale del parlante (età, sesso, istruzione) 4. Asse diamesico: relativo al mezzo impiegato (parlato o scritto) Tipologie di discorso. Spesso si confondono le tipologie di discorsi coi generi. Un criterio diffuso consiste nell’associare le tipologie discorsive ai settori dell’attività sociale. Si distingueranno così discorso mediatico, politico, amministrativo, ecc. e all’interno di queste ripartizioni si collocheranno generi diversi. Ad es. nel discorso politico si riconoscono programma elettorale, discorso parlamentare, intervista. Esistono altre categorie trasversali, individuate in base a scelte dell’analista che possono prendere in esame corpora di testi ascrivibili a tipi e generi diversi. Possono emergere formule che hanno ricevuto diffusione e sono diventate dei cliché, come “pulizia etnica”. In tali casi la giustificazione della scelta dei testi è legata al fatto che, in un dato momento storico, questi testi sono rappresentativi della formazione di un sistema di idee e credenze: rappresentano i fenomeni di una formazione discorsiva. I generi nel tempo: una prospettiva diacronica. Dato che i generi sono connessi al contesto sociale ed istituzionale, rappresentano un fenomeno legato alla storia, perciò soggetto a mutamento ed evoluzione. L’osservazione sotto il profilo diacronico non è in contrasto con la sua caratteristica di modello, ma deriva dalla sua natura storica. Come la lingua evolve nel tempo restando tuttavia la ‘stessa’ lingua, anche nel genere si modificano i canoni stabiliti in un prototipo, dando luogo a spostamenti nella norma, ibridazioni e nuovi generi. Come cambia un genere? In linea di massima, come avviene per la lingua, il motore del mutamento è da ricercare al di fuori dei generi stessi. I fattori in gioco sono: 1. Diversi (o nuovi) Scopi della comunicazione, i quali spesso assecondano 2. Mutate aspettative del pubblico 3. Le diverse condizioni di produzione ( o disponibilità di nuove tecniche per la produzione, consumo, trasmissione e conservazione dei testi). Il 3° punto è ben rappresentato dalla diffusione della stampa, che ha mutato la forma di opere letterarie e alla nascita di nuovi generi; per gli altri 2 punti si può pensare alla nascita e alla trasformazione del genere ‘guida turistica’. E’ l’esempio di evoluzione interna di un genere, spiega Pagina di 20 43 quello), sia alcuni avverbi di luogo (qui, qua, lì, così), oltre a preposizioni usate come avverbi (sopra, su, sotto) ed elementi lessicali come i verbi andare e venire. 3. Deittici temporali: si realizzano attraverso parole o gruppi di parole come ieri, domani, tra un anno, ecc. che stabiliscono il valore temporale a partire dal momento dell’evento comunicativo. Le determinazioni di tempo inscritte nella morfologia verbale sono una marca deittica meno evidente ma fondamentale, rimandando alla contemporaneità, al passato o futuro rispetto al momento dell’enunciazione. L’associazione tra tempo cui il discorso si riferisce (passato-presente-futuro) e tempo verbale (passato prossimo, imperfetto, ecc.) non è biunivoca, ma obbedisce ad altri aspetti dell’enunciazione. Ogni allontanamento da io-qui-ora provoca effetti pragmatici. Ad es. l’allontanamento da io può segnalare oggettività e distanziamento, dissociazione dalla posizione di critica; l’allontanamento da ora può essere una forma di cortesia, o segnalare incertezza come in “saranno le 3”. Deissi e anafora — Nel contesto reale le coordinate di persona e spazio-temporali si costituiscono a partire da un centro deittico, che è il io-qui-ora; nel contesto narrato questo centro deittico viene stabilito nel testo stesso, ed è a questo che vengono riferite le determinazioni viste. Nel testo narrato i deittici possono riferirsi a un presente fittizio; oppure possono esservi riferimenti temporali precisi (“14 ottobre 2001… quel giorno Carlo…”). Nell’es. vi è un dato temporale preciso e un aggancio che è specificato in base al cotesto. Quando un’espressione identifica il proprio referente in modo indiretto, agganciandosi a un altro elemento del cotesto, si parla di ANAFORA (es. quel giorno). Vi sono quindi 2 classi di elementi, a seconda che il loro riferimento sia recuperabile in base all’enunciazione o al cotesto. Mentre le situazioni dal vivo prediligono le forme deittiche; nel testo si possono trovare riferimenti deittici, anaforici, assoluti (date, nomi di luogo); fermo restando che il punto d’aggancio nei testi non è la situazione io-qui-ora ma la situazione di enunciazione creata dal testo stesso. Deissi testuale: quando una marca linguistica si riferisce non a tempi o a luoghi ma a porzioni di testi che precedono o seguono (nel prossimo capitolo, come abbiamo detto sopra…). Embrayage e debrayage In molti testi scritti è opportuno o preferibile cancellare le tracce dell’enunciazione, rendendo il testo più neutrale e distaccato dall’istanza che lo ha prodotto (stile oggettivante e autorevole, sentenze, ecc.). Ma nella maggioranza dei casi gli enunciati presentano qualche tipo di aggancio alla situazione di enunciazione, attraverso i deittici ed i tempi verbali. L’embrayage è il processo di ‘attacco’ alla situazione di enunciazione (pur se simulato, come nei romanzi) e il debrayage è il processo inverso, che tende a nascondere la situazione di enunciazione. Questi 2 processi possono alternarsi o essere affidati a mezzi semiotici vari. In pittura, nei dipinti classici il quadro raffigura una scena che si svolge sotto i nostri occhi, oggettiva qualcosa che noi guardiamo come esterno (es. Predica di San Pietro di Masolino e Panicale). Ma in esempi più moderni la posizione dello spettatore viene interpellata nel quadro stesso, ad es. con la direzione dello sguardo del soggetto (nei ritratti), o indicata come in Déjeuner sul l’serbe. La pubblicità di Breil ha un doppio effetto: nell’headline lo slogan “Chi ha peccato indossi la prima pietra” presenta un chi indeterminato (la citazione evangelica è una marca di polifonia) e non sembra chiamare in causa i coenunciatori; ma nel visual si definisce l’enunciazione, vi è una donna che guarda il lettore. La pubblicità sfrutta meccanismi di embrayage per coinvolgere il coenunciatore, rivolgendoglisi in 2° persona o parlando in 1° persona, anche se non mancano headline in cui l’assenza di embrayage rende l’enunciato simile a una verità assoluta (Dash più bianco non si può). Tempi verbali — Non bisogna confondere temporalità (in senso lato) e sistema dei tempi in una determinata lingua. Come per i pronomi, gli studi pionieristici su questo aspetto della grammatica e i suoi effetti sul discorso sono stati fatti da Benveniste, a partire da un’analisi delle relazioni di tempo nel verbo francese. A un’osservazione superficiale sembra che certe forme verbali siano sinonime (es. passato prossimo e passato remoto). In realtà, dice Benveniste, vi è una differenza di piani di enunciazione, che egli chiama storia e discorso. Pagina di 21 43 La storia è l’enunciazione che si riferisce ad eventi passati ed è distaccata dalla situazione di enunciazione. Non utilizza gli strumenti formali del discorso, come le relazioni di persona io, tu, ma solo forme di ‘terza persona’. L’enunciazione storica è rappresentata, nel sistema dei tempi verbali, da passato remoto, imperfetto, trapassato prossimo, futuro anteriore. L’enunciatore non è presente come persona, né compare con atteggiamenti modali (valutazioni, affermazioni non generali). Passato remoto e imperfetto sono il tempo di riferimento; uno indica gli eventi e l’altro lo sfondo di tali eventi. Rispetto a questo, ciò che precede è indicato col trapassato prossimo, ciò che segue col condizionale passato. Anche se più raramente, anche il presente è usato come tempo storico; in tal caso è staccato dall’enunciazione e perde il suo carattere deittico. Si possono trovare enunciazioni in cui il presente non ha carattere di embrayeur anche in testi di carattere giornalistico (titoli, recensioni). Nel discorso si trovano non solo enunciazioni orali, ma anche e testi scritti che implicano la presenza di un enunciatore, che imitano la comunicazione orale (opere teatrali) o che implicano una presa in carico dell’enunciato da parte dell’enunciatore (diario, cronaca giornalista). Il presente è il tempo base, passato prossimo e imperfetto si collegano al passato e futuro semplice al futuro. L’imperfetto è presente quindi in entrambe le dimensioni: più che marcare un tratto temporale, ha funzione aspettare, relativa al modo di svolgimento di un processo (perfettivo o imperfettivo). Schema pag. 98 Modalizzazioni - hedges - mitigazioni — Con i meccanismi di embrayage l’enunciato si àncora alla situazione di enunciazione ed esprime la soggettività; tuttavia vi sono altri elementi che, anche in un testo debrayato (appartenente al sistema della storia), manifestano la soggettività enunciativa e la relazione che il parlante assume nei confronti di ciò che dice. Si tratta di forme di valutazione o di moralizzazione che fanno apparire un atteggiamento non oggettivo sul discorso, come avverbi (probabilmente, sicuramente, forse), aggettivi valutativi (bello, importante, scadente), modalità epidemica del verbo (condizionale, congiuntivo dubitativo), strutture con evidenziali (è certo che, è ovvio, è noto). Nei testi in 1° persona sono particolarmente presenti marcatori di modalità; ma anche in trattazioni storiche compaiono elementi di valutazione, in cui è avvertibile la presenza dell’autore e dei suoi giudizi sugli eventi che sta raccontando. Anche nei testi scientifici, che si pretendono oggettivi, si sono osservate formule di attenuazione (hedges) che modulano alcune affermazioni (forse, naturalmente). La presenza dell’enunciatore traspare dagli elementi di incertezza o attenuazione inseriti nel testo. La presenza di moralizzatore reintroduce, almeno parzialmente. la soggettività enunciativa. Questi elementi in generale hanno funzioni pragmatiche (deresponsabilizzazione, attenuazione della forza illocutiva, ecc.). Diversi elementi linguistici contribuiscono a differenziare i testi per quanto riguarda il piano enunciativo. Non basta un’analisi in termini di parti del discorso per stabilire l’embrayage o il debrayage di un testo. E’ utile allora articolare la distinzione tra embrayage e debrayage considerando anche l’attitudine più o meno soggettivante, che dipende dalla presenza di modalizzatori. Maingueneau propone lo schema: Al di là della distinzione tra storia e narrazione, bisogna considerare che la scelta dei tempi si accompagna a una precisa modalità di rappresentazione dei fatti, all’atteggiamento comunicativo che l’enunciatore vuole adottare e che intende suscitare. Ciò è più evidente nei testi letterari. Ed è a partire dai testi letterari che Weinrich (1964) distingue tra tempi della narrazione e tempi del commento. I tempi verbali si distribuiscono nelle 2 categorie come nella bipartizione di Benveniste ma qui si mette più in risalto la prospettiva comunicativa e il rapporto col testo. Il passato remoto contribuisce a costruire un mondo fittizio, chiuso, con una catena di eventi legati casualmente, in cui il narratore è un demiurgo; il passaggio al passato prossimo colloca gli eventi non in una catena causa-effetto ma li tratta come conclusi e isolati, senza che se ne possa ricostruire una trama narrativa, e il narratore è una sorta di testimone. Anche il presente, oltre al caso in cui ha valore deittico, può avere diversi effetti stilistici; abbiamo visto il presente storico, c’è poi quello dei proverbi e delle massime. Il presente è sfruttato in pubblicità, sostenendo affermazioni che si Pagina di 22 43 vogliono vere in ogni contesto. Nella letteratura recente presente, passato prossimo, imperfetto sono usati con libertà e con vari effetti stilistici. Vedi tabella pag. 102 Box - Strategie di enunciazione. Negli anni 80 Fisher e Veron hanno applicato il modello dell’enunciazione alla stampa periodica femminile. Volevano stabilire una tipologia delle riviste in base ai diversi contratti di lettura instaurati da queste con il pubblico, individuati grazie all’analisi tra enunciatore ed enunciatario. Le strategie di enunciazione variano lungo un continuum con 2 estremi: complicità e distanza, in base al maggiore o minore coinvolgimento dei 2 soggetti. Secondo una classificazione più recente si possono distinguere 5 strategie: - Strategia oggettivante (distanza non-pedagogica): instaura una distanza con l’enunciatario usando la III persona, dunque un meccanismo di debrayage, che si coniuga con elementi informativi, non patemici. “Grana Padano. Formaggio d’autore”. - Strategia della distanza istituzionale: vi è una presa in carico da parte dell’enunciatore (quindi un embrayage, ottenuto con forme di prima persona singolare o un noi esclusivo). L’enunciatore resta tuttavia implicito o non specificato. “Crediamo nell’Italia e nel futuro”. - Strategia dell’ammiccamento: si basa su un’interpellazione dell’enunciatario, attraverso forme pronominali di II persona singolare o plurale, l’enunciatore rimane implicito. “E tu di che Lumberjack sei?”. - Strategia della prossimità (distanza pedagogica): è ottenuta con forme di embrayage: sia IO/ NOI (esclusivo), sia TU/VOI; viene messo in scena un dialogo tra coenunciatori, o almeno un appello all’enunciatario, rispetto cui l’enunciatore si tiene comunque a distanza, depositario di un sapere maggiore in base al quale egli spiega, consiglia, guida. “Con il nostro mobile banking hai più tempo per fare jogging”. - Strategia della complicità: consiste nel costruire il destinatario come una sorta di coenunciatore, presente nel testo o come un soggetto che prende la parola, rappresentando l’enunciatario (“Il nome. L’unica cosa che so di lei”), oppure come puro destinatario, a cui ci si rivolge con forma imperativa (“Fai vedere chi sei!). Infine l’uso di un noi che include enunciatore ed enunciatario. Discorso politico: al pari della pubblicità, ha un forte intento persuasivo: i candidati cercano stabilire un accordo con l’elettorato e di costruirsi un immagine credibile e gradevole di loro stessi. La distribuzione del sistema dei tempi ha effetti cognitivi; mentre il discorso attiva una possibilità di replica, ciò che viene presentato con i caratteri della storia ha scarsa possibilità di venire messo in discussione. I tempi storici danno una rappresentazione immutabile dei fatti, difficilmente contestabile, anche se i fatti sono inesistenti o non veri. La narrazione può essere un modo per rendere oggettivi determinati fatti, sui quali richiamare l’accordo dell’uditorio. Nel discorso di Berlusconi a pag. 105, il tratto saliente è l’alternanza dei tempi verbali e di embrayage e debrayage. L’inizio al passato prossimo si riferisce alla presenza del candidato in quella sede e apre la dimensione discorsiva, in contrasto con l’autoriferimento in III persona. La III persona è un artificio di attenuazione che permette di mettere sullo stesso piano l’oratore e i tanti italiani. La personalità dell’oratore emerge poi con l’assunzione della I persona per ricordare vicende e successi della propria storia. Santulli osserva che nell’intreccio tra passato remoto e prima persona si conclude “una forma di patto autobiografico”, sicché il narratore coincide col locutore e il personaggio. Alternanze nell’uso dei pronomi: a. noi esclusivo: riferito alla parte politica rappresentata ed alla sua storia recente, b. noi inclusivo: per coinvolgere tutta la cittadinanza, c. Ricompare poi la I persona quando il discorso si sposta sulla parte programmatica. Si passa da una fase di contatto ad una di contratto in qui non si richiede più l’adesione a un’appartenenza partitica (I Repubblica) ma una fiducia basata sulla credibilità personale. Le forme pronominali si combinano con le forme dei tempi verbali. L’alternanza dei tempi accompagna una strategia che potremmo chiamare storicizzazione degli eventi: il passaggio dall’imperfetto/passato remoto al passato remoto permette di ricostruire dei fatti come parte di un passato concluso, non modificabile, indiscutibile. Santulli parla di ‘mito’. Enunciazioni brevi e pillole — Nella stampa odierna troviamo spesso enunciati attribuiti a una fonte (personaggio pubblico, politico) che vengono riprodotti al di fuori del loro contesto. Si tratta dei casi che Maingueneau tratta come “frasi senza testo”, dove troviamo altre forme brevi, come proverbi, massime, motti, che insieme costituiscono delle enunciazioni che il linguista Pagina di 25 43 fissi che non contengono nomi propri possono funzionare allo stesso modo, diventando indicatori di una classe di fatti; Krieg-Planque li chiama formule, facilmente comprensibili, e utilizzate nei contesti più vari. Box Prototipo — La nozione di prototipo, permette di risolvere le situazioni problematiche della concezione aristotelica delle categorie. Secondo questa, un oggetto appartiene a una categoria, o non vi appartiene; tutti gli oggetti compresi in una categoria vi appartengono con pari ragione. Ma nella categoria dei fiori, vi sono ‘fiori più fiori di altri’, che più si avvicinano al centro della categoria, al prototipo; mentre l’appartenenza alla categoria degli elementi più lontani dal prototipo è più incerta. L’assenza di confini definiti tra le categorie è accompagnata dalla presenza di un prototipo, che è il miglior rappresentante di una categoria. Ciò che fa di un oggetto un prototipo dipende da fattori percettivi, ma anche culturali. Il prototipo può variare nel tempo in ragione delle conoscenze ed esperienze acquisite dall’individuo o dalla società. Il prototipo è stato applicato ad ambiti diversi. Nomi di marca e di prodotto — Una categoria particolare di nomi propri è data dai nomi di marca e di prodotto. La marca si riferisce ad un agente collettivo, un’impresa che funziona, nella comunicazione, come responsabile del prodotto, della sua creazione e qualità, e allo stesso tempo si presenta come il soggetto del discorso pubblicitario, ovvero dell’enunciazione che collega, nel testo pubblicitario, le parole promozionali ed il prodotto. A differenza della firma su un’opera artistica, la marca si distacca dall’atto di produzione, per diventare un agente di discorso sul prodotto, divenuto portatore di valori costruiti attraverso il discorso stesso. Le differenze e l’appeal della singola marca stanno nell’immagine. L’immagine di marca, costruita attraverso la pubblicità, dipende da un discorso, attraverso il quale si modella un’identità coerente. Il discorso di marca costruisce un ethos della marca stessa, attraverso la modalità di presentazione dei propri prodotti. La marca deve incarnare i valori che intende veicolare, mantenendo o innovando nel corso del tempo un’immagine che è affidata esclusivamente al discorso. Esempio Cirio: per i 150 anni dall’unità d’Italia propone l’immagine di un pomodoro a forma di cuore nei 2 colori della bandiera italiana; mostra così come crea la sua identità. Questa campagna è volta ad affermare la marca come simbolo di italianità, non a promuovere acquisti. Vista l’importanza che la marca riveste nella comunicazione pubblicitaria, anche le destinazioni turistiche tendono a costruirsi una marca, dato che, oltre alla descrizione del luogo, promuovono anche l’accoglienza in generale, valori della località. Affiancano così la costruzione di un’immagine ad un simbolo riconoscibile, il marchio, proprio come fanno le imprese. Il marchio può essere nominativo, figurativo o un insieme iconico-verbale; è un elemento portante dell’identità di un’organizzazione. Permette di riconoscere un’impresa, un’istituzione o un’associazione e sottolinea graficamente le componenti peculiari che si vogliono esaltare. I vari simboli comprendono generalmente un logotipo (parte verbale del marchio) e un segno grafico, ma spesso è il logotipo stesso che viene trasformato graficamente per incorporare le caratteristiche che si vogliono associare al luogo. Negli esempi a pag. 125 il colore sostiene rimandi alle caratteristiche della località, così come la scritta (es. punte che rimandano a montagne). Se marchio/logo e nome di marca sono unici, i prodotti possono essere diversificati e sono costruiti in grandi quantità. La necessità di individuare in modo univoco il prodotto implica che anche le merci siano identificate con un nome proprio (Toyota, Opel). Vi è una tensione tra l’essere riconoscibile come membro di una categoria (es. automobile) e il possedere qualità che lo rendano diverso e preferibile. La relazione marca-prodotto può essere pensata come la relazione cognome-nome. In alcuni casi la tensione tra unicità del prodotto e riconoscibilità della categoria si risolve nella creazione di una nuova categoria (es. Metàmetà di Prealpi). In altri casi un prodotto serve a riposizionare la marca, cercando per essa, con un nome innovativo, nuovi spazi sul mercato (es. marca datata Proraso, che propone prodotti per la rasatura dell’uomo, e passa dal rappresentare la figura dell’uomo forte a quello che tiene alla cura della pelle; con la nuova linea “sul filo del rasoio”). Nomi di marca che rimandano a un individuo possono riferire solo il cognome; più raramente si affidano al solo nome di battesimo (Pompea, Annabella), riservato a prodotti femminili in quanto instaura un clima di intimità; ma più spesso si tratta di nomi coniati per il loro potere evocatore. Pagina di 26 43 Nomi comuni — I nomi comuni appaiono nel testo generalmente preceduti da un determinante (articolo, dimostrativo, quantificatore) anche se, in alcuni casi, possono essere impiegati da soli. Vedremo solo nomi determinati, cioè sintagmi nominali, attraverso cui un concetto generale viene specificato per indicare un referente particolare. Determinanti diversi suscitano differenti effetti di senso. Un referente testuale costituito da un nome comune può essere preceduto da un articolo indeterminativo o determinativo (in quest’ultimo caso si parla di descrizione definita). L’alternanza tra determinativo o indeterminativo è legata generalmente alla “novità” o meno del referente all’interno del testo. L’articolo a pag. 129 si apre con alcuni predicati riferiti a un referente non ancora identificato, che mostrano un tipico procedimento giornalistico detto ellissi cataforica del tema (posticipare di l’esplicitazione del soggetto). Quando il soggetto viene introdotto per la prima volta, trattandosi di un referente nuovo, sconosciuto al lettore, viene determinato da un articolo indeterminativo. Questo serve a individuare una classe di individui o oggetti, o anche un singolo individuo di quella classe, che ancora non è noto al lettore. Successivamente si utilizza l’articolo determinativo poiché il referente è già stato introdotto nel discorso. Possono esserci casi in cui un oggetto nuovo viene presentato con un articolo determinativo (conoscenza enciclopedica condivisa dal lettore; riprese anaforiche di quanto espresso precedentemente -> anafora infedele). - Descrizioni definite (articolo determinativo)— In molti casi la descrizione definita funziona come un nome proprio, individuando in modo univoco un referente: Dante e l’autore della Divina commedia sono la stessa persona, anche se nel 2° caso sono necessarie determinate conoscenze per l’interpretazione; inoltre il senso dell’espressione è diverso. Tuttavia altre descrizioni definite (es. il giardino, i ragazzi) si riferiscono piuttosto ad una classe (senso generico nelle forme del singolare) o ad un gruppo (senso generalizzante nelle forme del plurale). In un’affermazione come “l’uomo è un cacciatore”, il sintagma nominale si riferisce ad un rappresentante ideale di una classe di individui, mettendone in luce una caratteristica del genere che si ritiene universale. È dunque l’uomo “prototipico” che viene indicato. L’articolo definito può infatti essere usato con la funzione di rendere il referente unico, caratteristico, l’esempio più rappresentativo della categoria. Ad esempio nelle headline pubblicitarie: “Zuegg. La frutta alleata del benessere”, “Scavolini. La cucina più amata dagli italiani”. Il referente può venire rappresentato come definito nei titoli di opere letterarie, come “La bella e la bestia” e nei titoli degli articoli di giornale. Nelle forme al plurale prevale la funzione generalizzante, che considera un insieme senza che esso sia necessariamente esaustivo (“Gli uomini sono cacciatori, ma non tutti”). Le descrizioni definite al singolare riguardano il prototipo, quelle al plurale sono più adatte a creare lo stereotipo (es. gli svizzeri sono puntuali). - Articolo indefinito — Indica semplicemente un elemento di una classe, senza identificarlo ulteriormente. Anche in questo caso, l’interpretazione può essere duplice: - specifica: se il referente è unico (un diamante è per sempre, un Ramazzotti fa bene, ho comprato un cd -> elemento della classe) - generica: riferita a un prototipo, quando il sintagma si riferisce ad una classe (un amico non 
 tradisce, un uomo non piange -> si riferisce ad una classe) - Dimostrativi — Analoghi agli articoli nel determinare un referente nominale, hanno caratteristiche peculiari, che possono essere condensate nella formula “rendere prossimo all’atto di enunciazione” il referente: l’uso del dimostrativo implica la presenza dell’enunciatore, istituendo una distanza spaziale relativa a partire da costui: questo indica vicinanza, quello distanza, ma sempre riferite ad un centro deittico che il lettore è costretto a ricostruire. Apposizioni e incisi — L’ apposizione è un sostantivo che si aggiunge a un altro per determinarlo e per attribuirgli una proprietà particolare, o per spiegarne il significato. Molti headline usano questa forma per attribuire un prodotto, identificato con un nome proprio, alla categoria di appartenenza (Scavolini. La cucina più amata dagli italiani). L’apposizione di un nome facilita la comunicazione, ed indica in genere la disponibilità di chi scrive a fornire informazioni utili al suo lettore per individuare un referente poco noto (es. testi Pagina di 27 43 scientifici). Diverso è il caso in cui, grazie alla supposta competenza del lettore, il testo non si cura di spiegare termini che potrebbero essere oscuri. Tale strumento linguistico, attraverso la scelta delle parole, può tuttavia non essere un mezzo ingenuo e didattico a beneficio del lettore. Con l’apposizione un termine può essere ridefinito in modo arbitrario o ideologico (OGM a volte viene presentato come organismi geneticamente migliorati). In generale la scelta del nome (sia come identificativo primario che come apposizione) ha sempre conseguenze; risponde, oltre alle intenzioni più o meno persuasive o manipolative, anche al diverso contratto comunicativo col lettore. 
 Anafore e incapsulatori — La coesione del testo si avvale di procedimenti di ripetizione o sostituzione lessicale, pronominalizzazione e forici: anafore e catafore. La ripresa nel testo di referenti testuali è una necessità che deriva dalla progressione del discorso e richiede che tale ripresa avvenga con variazioni per evitare le “ripetizioni” nel testo. Oltre a questa necessità costitutiva, le diverse forme di ripresa di un referente offrono mezzi stilistici che permettono di rendere il discorso più vivace, o introdurre elementi valutativi o ideologici. Per quanto riguarda il 1° aspetto, abbiamo visto l’ellissi cataforica del tema, in cui un elemento nullo (ellissi) anticipa il tema che sarà espresso dopo (es. pag. 135). Il procedimento di sostituzione cataforica è comune nel parlato, dove l’anticipazione funziona come avvertimento o commento metadiscorsivo sugli enunciati successivi. [state attenti a quanto sto per dirvi e cioè…]. Vediamo ora casi in cui la sostituzione comporta effetti cognitivi o valutativi, e viene attuata con elementi che apportano nuova informazione. Le anafore infedeli si presentano quando la diversa unità lessicale può essere collegata alla precedente da rapporti semantici (es. iperonimia: Giulio ha comprato delle rose, ha poi deposto i fiori sul tavolo), oppure da rapporti istituiti dal testo stesso, che riflettono anche una presa di posizione dello scrivente. Nel passare dal generico violenze a brucare assalto sessuale, la catena anaforica si basa su una relazione di iponimia (dal generale al particolare). Si tratta di riprendere un referente già presente nel testo, con una parola diversa. In alcuni casi l’elemento anaforico si riferisce non a un solo termine, ma ad un insieme di parole o ad una frase: incapsulatore anaforico. Rispetto alla parte di testo che questi elementi condensano si può avere una perdita di informazione, un’aggiunta o una valutazione. L'anafora è una delle più importanti funzioni di coesione linguistica dei testi. Serve a mettere in opera dei legami tra porzioni di un testo più o meno vaste e più o meno distanti tra loro. Es. «Ho incontrato un vagabondo vicino alla spazzatura e l'ho portato a casa.» La catafora consiste nella relazione tra una espressione anaforica e un'altra espressione (successiva) che determina il riferimento. Si tratta, dunque, dell'opposto dell’anafora. Es. «Te lo dico per l'ultima volta: no!». Il pronome lo, pur costituendo una "ripresa anaforica" di fatto precede il determinante no. Se la ripresa è invece successiva all'espressione che determina il riferimento (caso assai più consueto), si parla di "anafora", come nella frase: «No! Ed è l'ultima volta che te lo dico.» Concetti relazionali: gli aggettivi — Finora abbiamo visto nomi, descrizioni definite, sintagmi, che servono a denominare persone, cose, oggetti: sono concetti classificatori. Parlando di aggettivi ci riferiamo invece a concetti relazionali. 1. Concetti classificatori: definiscono o denominano gli oggetti dell’esperienza 2. Concetti relazionali: riguardano qualità o processi nei quali i vari oggetti/esseri possono essere coinvolti L’aggettivazione è un processo relazionale: non risponde alla domanda “che cos’è”, ma aggiunge a questa definizione dell’oggetto informazioni ulteriori (che cos’ha, che cosa fa). Pagina di 30 43 “Sebbene il ristorante sia lontano, andrò lì”, si ammette che il locale è distante, e a tale punto di vista è associato un comportamento, che però è rifiutato dal locutore. Le forme concessive possono anche non essere segnalate da marcatori specifici; hanno grande forza argomentativa. - Presupposizione: un contenuto semantico non esplicitamente affermato ma inscritto; l’enunciatore messo in scena da una presupposizione è assimilato ad un’istanza collettiva alla cui il locutore si associa. Esempi sono i sintagmi nominali definiti (il re di Francia è calvo presuppone che esiste), forme interrogative, ecc. Sono strumenti argomentativi e manipolativi. 
 Dialogismo — Sebbene il concetto si attribuisca agli scritti del Circolo di Bachtin, Bachtin non ne propone una definizione ma inscrive il termine nel campo semantico di rapporto, contatto, relazione. Per Bachtin ogni discorso entra in relazione con altri, in un determinato contesto sociale e culturale. Ogni parlante è un rispondente; non è il 1° parlante e presuppone la presenza di enunciazioni anteriori con cui la sua enunciazione entra in rapporto (polemizza con esse, vi si appoggia, le presuppone semplicemente come già note). L’oggetto di cui parla una qualsiasi enunciazione è già parlato, discusso in vario modo. Ogni discorso implica quindi un dialogo, anche quando è prodotto da un solo parlante. Per quanto fonologica, per quanto centrata sul proprio oggetto, ogni enunciazione è anche una risposta a ciò che è stato detto su quell’oggetto; un’enunciazione è piena di armoniche dialogiche. L’enunciazione è un fenomeno stratificato e complesso. Il dialogismo è quindi un principio che governa ogni pratica linguistica, è un fattore costitutivo dell’attività verbale umana. La soggettività dell’uomo è fittizia, si determina solo nell’incontro con l’altro; il discorso precede la costituzione dell’io, ed il soggetto non parla, ma è parlato dal discorso che lo anticipa e lo fonda. La difficoltà di cogliere e descrivere tale dialogismo ha reso rari gli studi: ogni elemento della lingua può essere preso a testimonianza del carico semantico che lo accompagna. L’interdiscorso è lo spazio in cui emergono formazioni diverse e legittimano la propria esistenza differenziandosi l’una dall’altra. A fianco di questo carattere costitutivo della dialogicità, altri tipi di dialogismo sono stati studiati: - Dialogismo interdiscorsivo: lega il discorso a quanto è stato già detto anteriormente sull’oggetto affrontato. L’enunciatore entra in relazione con discorsi già tenuti da altri. - Dialogismo interlocutivo: riguarda il riferimento alle posizioni dell’interlocutore; l’enunciatore si rivolge ad un destinatario, cercando di anticiparne domande, risposte. - Dialogismo intralocutivo: l’enunciatore valuta e commenta il suo stesso discorso. Considerando queste 3 dimensioni, le manifestazioni linguistiche del dialogismo interessano tanto il livello macrotestuale (il dialogismo riguarda una formazione discorsiva all’interno dell’interdiscorso, ed è analizzabile come ripresa dei temi, quindi d. costitutivo o risposta ad altre posizioni, quindi d. interdiscorsivo e interlocutivo) quanto il livello del testo e dell’enunciato (marche di dialogismo individuabili in strutture grammaticali e lessicali come negazione, concessione, frasi scisse, ecc). Dialogismo interdiscorsivo — Si tratta della relazione che lega tra loro testi e discorsi relativi ad un oggetto o ad un ambito cognitivo determinato (filosofia, scienza, religione) in modo più o meno esplicito. Vi rientrano tutte le forme di intersessualità e le citazioni. Riguarda la ripresa di temi, parole chiave, contaminazione e riuso. Sono forme di dialogismo anche trasformazioni ludiche di frasi celebri nel campo della pubblicità, come “Jesus. Non avrai altro jeans”: una pubblicità che riprende la formula di un testo sacro, è un riuso. Si riprendono testi già prodotti, citazioni, formule; spesso che non hanno una paternità ma che sono entrate nella memoria collettiva. Gli studiosi di prammatica indicano che il dialogismo, a livello di enunciato ha la forma di un incassamento di un enunciato e in un enunciato E, espresso a livello linguistico, oppure attualizzato alla coscienza. Ha a che fare con l’uso di discorsi che arrivano dal passato. Dialogismo interlocutivo — diversamente dal precedente, è proiettato in avanti. Ogni discorso, anche in isolamento, è orientato verso qualcuno (al limite è un parlare a se stessi), e punta ad ottenere un ‘adesione o un riconoscimento. L’aspetto interloquivo prende in considerazione l’uditorio, anticipandone obiezioni, adattandosi alle sue aspettative, modulando gli argomenti in base a quello che si crede sia il pensiero dell’interlocutore. Si simula ad esempio una domanda che potrebbe porsi il destinatario. Tali strategie sono usate soprattutto nel discorso persuasivo. Dialogale/monologale: un caso particolare di dialogismo interlocutivo è il dialogo in presenza dei locutori, in tal caso i riferimenti all’altro si confondono con i riferimenti alle parole pronunciate dall’interlocutore nel turno precedente: si parla di relazione dialogale (monologale se vi è un solo Pagina di 31 43 parlante). Dialogico si riferisce a un principio sovraordinato e onnipresente; dialogale a uno scambio effettivo tra 2 o più persone. Anche un testo monologale dunque, malgrado l’assenza di più interlocutori, non perde la sua natura dialogica. Anche se i tratti che costituiscono il dialogo sono autoevidenti vi sono alcune situazioni di discorso intermedie (es. corrispondenza). Dialogismo intralocutivo (autodialogismo): si tratta di prese di posizione del locutore stesso verso le proprie parole. E’ una forma di moralizzazione (modalizzazione autonimica). E’ un dialogismo che si stabilisce all’interno del parlante rispetto alle sue stesse espressioni. Con “si potrebbe dire” “in un certo modo”, o “tra virgolette”: sto commentando le mie stesse espressioni. “Come ho detto poco fa”… Mi sdoppio tra un io che sta parlando e un io che ha già parlato, o che parlerà. E’ una forma di metadiscorso. Prendo il mio discorso e ne faccio oggetto di osservazione. Discorso riportato — Dialogismo e polifonia presentano zone di sovrapposizione; la polifonia fa riferimento alla presenza di più voci; il dialogismo al riferimento ad un già detto. Riserveremo la nozione di polifonia all’ambito letterario e il dialogismo ai testi di comunicazione. I casi di discorso riportato rientrano nel dialogismo. La menzione di parole di altri e le citazioni sono forme esplicite di dialogismo, e tale eterogeneità di voci è spesso dichiarata: nel discorso scritto con indizi grafico-testuali (virgolette, verbi), nelle produzioni orali col tono della voce, gesto di fare virgolette, ecc. Nel discorso riportato si tratta di integrare in un’enunciazione (discorso citante) un’altra enunciazione (citazione/discorso citato), nella quale marche di soggettività e deittici sono riferiti a un diverso atto di enunciazione. Ciò avviene con modalità ed effetti particolari nei 2 tipi di discorso riportato: diretto, indiretto e indiretto libero. Discorso diretto — La sua caratteristica principale è che crea l’illusione di una riproduzione fedele del discorso di una 3° persona assente. Viene utilizzato sia nei testi scritti che orali ed è ampiamente riconoscibile grazie a introduttori grafici (o intonazione) ed all’organizzazione degli elementi deittici: vengono mantenute le marche di enunciazione delle 2 situazioni (citante e citata), per cui si hanno 2 sistemi di deittici autonomi. Es. “Io non ho fatto niente di male” mi dirà Piero quando io gli chiederò del danno. Vi sono due io che si riferiscono a referenti diversi; vi sono 2 locutori. Questo raddoppiamento è alla base dell’impressione di oggettività del discorso riportato, che appare come una riproduzione precisa della formulazione iniziale. A parte la discutibilità di questa fedeltà nella citazione, va osservato che le parole riportate sono in ogni caso incassate in un discorso diverso, in cui il locutore ha un potere di ‘regia’ e di anticipazione: presenta parole altrui scegliendo determinati introduttori che indicano il suo atteggiamento verso di esse e suggeriscono al lettore come recepirle. Oltre all’introduttore neutro ‘dire’, vi sono verba dicendi che implicano giudizi sui modi di dire (mormorare, gridare), o sul detto (sostenere, suggerire, ipotizzare). Le forme linguistiche che introducono un discorso diretto non sono necessariamente verbi del dire, ma possono essere sostituite da vari elementi che segnalano un atteggiamento, o anticipano un’interpretazione (“Fukushima, l’allarme degli Usa: “…””). Il giornalismo italiano fa un uso spropositato delle forme di virgolettato, esibizione di una pretesa oggettività e neutralità del citante (il giornalista) nei confronti del discorso riportato, e della supposta ‘corrispondenza letterale’. In realtà non si riportano mai le testuali parole pronunciate, basta confrontare diversi giornali. Tuttavia sembra che tra lettore e giornale si stipuli una convenzione tacita che autorizza la finzione di attribuire al virgolettato uno status di autenticità. In alcuni testi il discorso diretto non è segnalato da forme grafiche rendendo così difficile l’individuazione del locutore: si ha così un discorso diretto libero. In altri, in assenza di indici contestuali, si può attribuire il discorso ad un enunciatore generico, rappresentante una classe di individui o il senso comune. Discorso indiretto — Ha la caratteristica essenziale di rappresentare una sola situazione di enunciazione, quella del discorso principale, in cui il discorso riportato rappresenta un elemento sintatticamente subordinato (una frase completiva). Non è quindi possibile impiegare un discorso indiretto senza verbi di dire introduttori (o altre forme), e la scelta di tali verbi è significativa nell’indurre un’interpretazione, sia che si riferisca all’atteggiamento del parlante di cui si riportano le parole (criticare, deplorare, protestare), sia che rappresenti un giudizio del locutore che riporta le parole altrui (sostenere, ipotizzare, pretendere). L’effetto del discorso indiretto non sta quindi sulla rappresentazione (fedele) del discorso altrui, ma sulla sua traduzione, con un Pagina di 32 43 ampliamento della funzione del soggetto rapportante. Questo INTERVENTO traduttivo è più evidente nel discorso narrativizzato, in cui non sono riproposti i contenuti del discorso ma solo segnalato che vi è stata un’enunciazione, di cui, a volte, si riassumono gli elementi (Gianni ha affermato la sua innocenza). E’ un processo di economia nel racconto, impiegato in testi che si vogliono brevi. Discorso indiretto libero — Un ibrido che unisce alcune caratteristiche del discorso diretto (assenza di subordinazione, presenza di marche pragmatiche dell’enunciazione come esclamazioni) e del discorso indiretto (assenza di segnali grafici, adattamento dei riferimenti deittici all’unico centro enunciativo). ‘Libero’ rimanda all’assenza di legami sintattici con una frase principale che implicherebbero un verbo di dire o simile. Es. pag. 163: vi sono forme esclamative, ma si mantiene la forma narrata con la 3° persona. Si ha la percezione di 2 istanze enunciative, pur in presenza di un solo locutore: la voce del narratore si confonde con quella del personaggio, senza che vi siano elementi che segnalino tale passaggio. L’individuazione di tale forma è difficile e si basa più che altro sulla percezione di due voci mescolate. Permette, soprattutto nella letteratura verista o naturalista, di esprimere sentimenti ed emozioni dei personaggi senza interrompere la narrazione, e di utilizzare parole che riproducono il linguaggio dei personaggi. Si ottiene un effetto mimetico. Per Pasolini la natura del DIL è ravvisabile, più che in una poetica, in una COSCIENZA SOCIOLOGICA dell’Autore: capacità di adattare allo status sociale del personaggio il linguaggio con cui questo si esprime. Si sgancia così il DIL da forme grammaticali. Dante stesso offre un esempio di DIL, piegando il lessico all’estrazione socio culturale del personaggio. Si tratta di un uso mimetico, non solo grammaticale ma anche lessicale. Le forme grammaticali di DIL sarebbero una sottocategoria di questo procedimento mimetico, necessario per rappresentare il mondo di un personaggio e ‘nascondere’ il narratore. La focalizzazione diventa così interna. Polifonia, focalizzazione e testi giornalistici. Loporcaro individua nel linguaggio giornalistico forme di focalizzazione interna (anche se non espresse attraverso il DIL grammaticale). Ciò avviene quando il linguaggio del giornalista ripropone lessemi e stilemi del soggetto di cui si occupa il testo, con una mimesis dell’ambiente descritto (es. sbirro, finire). Si restituisce così il punto di vista degli individui di cui si parla; tale riproduzione dello stile delle persone al centro di vicende favorisce un processo di avvicinamento ematico da parte del lettore. Un effetto è quello di sollecitare l’adesione emotiva anziché la valutazione critica del lettore. E’ uno dei caratteri più criticati del giornalismo (sembra ‘accettare’, ‘giustificare’ il mondo descritto). Modalizzazione ed operazioni metadiscorsive. Ci sono vari modi per ‘marcare’ in un enunciato una presa di posizione dell’enunciatore verso le proprie parole, in alcuni casi si segnala che esso non è responsabile del pov espresso, e si introduce un enunciatore distinto, che può essere indicato esplicitamente o lasciato nel vago. Si utilizzeranno così citazioni, forme di discorso riportato; in altri casi la presa di distanza si potrà segnalare tramite modalizzatori di vario tipo (virgolette, modo verbale, uso di avverbi o locuzioni) che attenuano la forza di un enunciato o la rafforzano. - CITAZIONE. Nonostante l’affinità con il discorso riportato, la citazione se ne distanzia per la funzione che svolge nel discorso ‘citante’: il riporto di enunciati attribuiti a una persona è qui effettuato con scopi precisi (argomentativi), più che come un semplice resoconto o racconto. E’ oggetto di citazione in genere un locutore legittimo sull’argomento (esperto, autorità). Per questo è quasi sempre accompagnata dalla sua fonte. I suoi valori semantici sono: 
 a) citazione come esempio (esemplificazione sull’uso di una parola, come nei dizionari). 
 b) citazione come prova, si trova nei testi scientifici, accademici e in generale in quelli argomentativi. Serve qui ad avvalorare o provare quanto viene detto dal locutore. Non necessariamente il locutore condivide la posizione della persona citata, in tal caso se ne distanzia tramite meccanismi di modalizzazione. 
 c) citazione come doxa, sempre una sorta di prova, che si appoggia sull’autorità del senso comune e delle credenze condivise da una collettività, che si esprimono con luoghi comuni, proverbi, slogan. - MODALIZZATORI. Elementi che indicano una presa di posizione del parlante verso le proprie parole; una sorta di messa a distanza della sua posizione di enunciatore. Il discorso è ‘raddoppiato’ dalla presenza di un commento su se stesso (dialogismo intralocutivo). 
 Pagina di 35 43 nascondere e far passare per ovvie premesse tutt’altro che condivise. Il ragionamento è sempre corretto logicamente, ma nella retorica tali ragionamenti sono riempiti di contenuti verosimili. La “nuova retorica”. La componente relativa al logos di un discorso persuasivo poggia sulle stesse procedure relazionali che caratterizzano la dialettica e la dimostrazione, ma è stata a lungo ignorata. E’ sul riconoscimento di tale componente che si basa la ‘rinascita’ della retorica a metà 900, con il testo di Perelman e Olbrechts-Tyteca “Trattato dell’Argomentazione. La Nuova Retorica”. Si richiamano ad Aristotele e fondano la loro teoria dell’argomentazione su un’assimilazione di retorica e dialettica. Sebbene il termine ‘dialettica’ venga scartato la nozione è ben presente ai 2 autori, i quali, accogliendo i meccanismi razionali del ragionamento, intendono comunque verificarli in tutto il ‘regno del verosimile’. L’oratore deve sapersi adattare al suo uditorio: deve tenere in considerazione opinioni, credenze e valori delle persone che desidera guadagnare alla propria causa. Nel TA vi è anche la distinzione tra dimostrazione e argomentazione: la 1° è valida per qualsiasi uditore dotato di ragione, la 2° può solo basarsi su un ‘accordo preliminare’ con l’interlocutore. UDITORIO. E’ l’istanza a cui si rivolge il discorso, e ne determina stile, argomenti, organizzazione. E’ “l’insieme di coloro che l’oratore vuole influenzare con la sua argomentazione”. Una definizione così ampia permette di comprendere in tale categoria un interlocutore singolo, un gruppo vasto; non distingue tra scritto e orale; comprende anche il caso limite del discorso interiore. Innanzitutto il parlante deve conoscere il pubblico a cui si rivolge, compito tutt’altro che semplice. Nei casi di dialogo faccia-a-faccia la situazione stessa (risposte, espressioni corporee, obiezioni) permette di modulare o rettificare il discorso; mentre quando il pubblico non è presente esso dev’essere ‘ricreato’ nella mente dell’oratore. In realtà anche quando la comunicazione avviene dal vivo il parlante ha una propria immagine dell’interlocutore. Ciò che influenza l’interazione non è tanto la presenza fisica dei parlanti, quanto l’immagine che si fanno l’uno dell’altro. L’uditorio è quindi un’ISTANZA che l’oratore si immagina e alla quale adatta le proprie parole per essere convincente. Se vi è troppa distanza tra immagine e realtà lo scambio è votato all’insuccesso. L’AdD fornisce strumenti utili per rilevare, nel discorso, tracce dell’immagine dell’uditorio. Nell’articolo a pag. 187 ad es. il giornalista deve contare su un ‘contratto’ col suo pubblico (ha un pubblico modello), conterà su un uditorio informato dei fatti, con competenze linguistiche sufficienti, viene usata una tautologia che rimanda a conoscenze storiche, usa valutazioni che possono essere accettate solo da chi condivide determinati valori. L’uditorio è presente nelle parole del giornalista, anche se non vi fa riferimento. 
 Oltre all’immagine dell’uditorio che l’oratore costruisce per sé, per sviluppare efficacemente il suo discorso, vi è un’immagine che l’oratore costruisce PER il proprio uditorio, in cui questo può trovare gratificante identificarsi, e che costituisce una strategia discorsiva. Ciò mira a sollecitare valori etici, identità nobili, desiderabili, in modo che l’identificazione col modello susciti maggiore reattività verso il messaggio. In pubblicità tale identificazione è favorita dalla presenza di testimonial. Es. pag. 189: l’immedesimazione del lettore col testimonial è favorita dall’alternanza dei pronomi io, tu; si costruisce un’immagine di destinatario ideale (soggetto che merita riposo, attivo, con responsabilità). Nei messaggi verbali sono gli indici di allocuzione (nomi, pronomi, proposizioni) che convogliano la descrizione del destinatario (es. discorso Berlusconi pag. 190, viene descritto l’uditorio: numeroso, lavora, non piega la schiena, è operoso, speranzoso, ecc.). ACCORDO. Affinché vi sia adesione ad un’immagine proposta dall’oratore come strategia retorica per ottenere il consenso, occorre che gli attributi, le qualità, gli stereotipi impiegati siano condivisi dal pubblico, serve cioè un ‘accordo’, affinché le prove o gli argomenti siano accettati. L’accordo può essere esplicito, ma il più delle volte si ha a che fare con opinioni e credenze collettive che non occorre esplicitare. Nella maggior parte dei discorsi l’accordo preliminare si fonda su opinioni dominanti, che costituiscono il senso comune/doxa. L’accordo può fondarsi poi su ‘fatti’ o ‘verità’ con una pretesa di maggiore oggettività e certezza; spesso si presentano dati quantitativi e statistici per condurre un’argomentazione, il cui sviluppo può però portare a conclusioni opposte; inoltre gli stessi fatti possono essere presentati in modi diversi. P. & T. distinguono 4 tipi di premesse alla base dell’accordo: - fatti, si presume vi sia un consenso universale; ma in realtà anche i fatti possono essere messi in discussione e dipendono dal credito dato alle prove che li sostengono (cambio paradigmi). - verità, designano sistemi più complessi, relativi a legami tra i fatti. Pagina di 36 43 - presunzioni, riguardano ciò che si è concordi nel giudicare normale: ad es. che un’azione abbia motivo razionale o che un’affermazione comporti il credere quanto è affermato. In questo caso ha più importanza il gruppo di riferimento (ciò che è razionale per qualcuno può non esserlo per altri). - valori, chiaramente riferiti a un gruppo. Alcuni valori ci appaiono talmente giusti da valere come fatti, ma si prestano anche ad interpretazioni diverse, inoltre sono legati ad un ambiente culturale e sociale mutevole. Interdiscorso, doxa, luoghi comuni, stereotipi. Nel sistema retorico antico la doxa era l’opinione comune, accettata dalla maggioranza e, pur opponendosi all’episteme/conoscenza autentica, aveva legittimità garantita dall’autorità dei suoi sostenitori. Oggi ha un’accezione negativa in quanto fare o pensare ciò che tutti pensano è segno di conformismo. L’originalità è invece premiata; ma anche quando vantano un’originalità, le pubblicità si basano sempre su un modello, che per qualcuno diventa doxa. Bisogna ora vedere come gli elementi doxici sono usati nel discorso come basi di accordo. DOXA — Si può fare una distinzione in base all’origine dell’elemento doxico: può essere fatto risalire ad una dottrina o teoria, ad una tradizione, o circolare in modo poco sistematico nell’interdiscorso, in cui emerge come rappresentazione collettiva semplificata di un oggetto o persona. Molti esempi si ritrovano in letteratura: personaggi tipici, descritti attraverso elementi diversificati sparsi nel testo che attivano stereotipi. L’efficacia degli stereotipi si ritrova anche in testi più seri (espressione giuridica “buon padre di famiglia”). Uno stereotipo può essere racchiuso anche in una semplice denominazione (svizzero, portoghese) o nelle estensioni relative (gli italiani sono…). Ma al di là degli stereotipi, altri elementi dell’interdiscorso servono come veicoli di conoscenze condivise: Paveau parla di ‘prediscorso’, ovvero l’insieme di conoscenze tramandate attraverso il linguaggio in cui determinati sensi si depositano stabilmente (es. una caporetto). Si possono poi distinguere quegli elementi che riguardano le strutture formali del discorso, anziché i contenuti. Nel TA si parla di ‘luoghi’: modelli logico-discorsivi che possono essere riempiti con elementi diversi, e che costituiscono le premesse di un ragionamento. I ‘luoghi’ più noti e sfruttati sono quelli di qualità e quantità. Il luogo della quantità afferma che una cosa vale più di un’altra in ragione di motivi quantitativi (es. una scelta è preferibile se accontenta più persone, un valore ha più peso se condiviso da molti). E’ un modo per sostenere il senso comune. “Scavolini: la cucina più amata dagli italiani”; “1000.000 automobilisti hanno già cambiato idea”. Il luogo della qualità esalta invece l’unicità dell’oggetto. “Coltivo un grano unico. Solo per la pasta Barilla”. (Vedi altri luoghi sulle slide, es. luogo dell’ordine). Da un lato vi è l’apprezzamento per la durata, la tradizione, il sentimento della maggioranza; dall’altro l’esaltazione dell’unico contrapposto alla staticità, al ripetitivo, alla massa. Vengono utilizzati anche in politica; i conservatori poggiano sul luogo della quantità, i progressisti su quello della qualità. Infine va ricordato un altro tipo di topos: quelle conoscenze comuni attaccate al significato delle parole e che, nella formulazione del discorso, orientano nella concatenazione di enunciati. Ad esempio connesso al senso di caldo vi è un universo semantico che consente di accettare enunciati come “Fa caldo. Facciamo il bagno”. Malgrado il senso doxico associato a determinati concetti sia radicato nella lingua, la sua attivazione è comunque subordinata all’accordo tra i parlanti e alla situazione pragmatica di discorso. Per questo potrebbe avere senso un enunciato come “Fa caldo. Non andiamo a fare il bagno”. 
 Le scelte lessicali hanno sempre un valore argomentativo; coinvolgono spesso un ragionamento implicito (campagna/crociata, migrante/immigrato/extracomunitario/rifugiato politico). Le conoscenze doxiche, infine, sono attivate anche dall’uso di ‘operatori argomentativi’: parole che, pur non avendo una funzione sintattico/semantico di collegamento tra argomenti e conclusione, orientano l’interpretazione e trasformano le potenzialità argomentativi di un’affermazione. Esempi sono già, solo, quasi, appena, poco, un poco, anche, ecc. E’ diverso dire “Sono le 8” e “Sono quasi le 8” e “sono già le 8”. Connettori argomentativi. Lo sviluppo di una sequenza argomentativa è permesso da elementi linguistici che articolano uno o più enunciati in una strategia discorsiva. I connettori sono congiunzioni, avverbi, locuzioni, interiezioni che correlano atti linguistici e assicurano la coerenza discorsiva del testo. Non modificano il contenuto semantico degli enunciati ma Pagina di 37 43 mettono in relazione l’enunciato col sistema di credenze che esso esprime. Ad esempio in ‘Poveri ma belli’ il ‘ma’ indica che il primo termine implica (secondo il senso comune) un corollario (brutti) che il parlante invece esclude, aderendo al suo opposto (belli). I connettori possono operare tra porzioni linguistiche di varia ampiezza (lessemi, frasi, tra un’enunciazione precedente e un enunciato). Le relazioni argomentative tra frasi possono anche essere realizzate senza connettori espliciti; in alcuni ambiti discorsivi questi sono usati con maggiore regolarità (es. discorso legale). Concessive e concessione. Si distingue tra costrutto sintattico (frase subordinata concessiva, introdotta da una congiunzione subordinante esplicita come sebbene, anche se, benché e frase principale) ed relazione argomentativa, non necessariamente realizzata nella forma sintattica canonica: in entrambi i casi il movimento argomentativo consiste nell’accettare inizialmente un’asserzione, per poi rifiutarne le conseguenze attese. Si esprime una proposizione P, che implica una conseguenza attesa Q, ma si afferma non-Q. “Paolo ha studiato, ma sarà bocciato”; “Malgrado la piena abbia superato i limiti, il ponte non è crollato”; “Anche se è svizzero, non arriva puntuale”. Vi è un collegamento tra concessione e doxa: la conseguenza attesa (Q) è tale in virtù di assunzioni condivise, conoscenze considerate prevedibili, o stereotipi. Poiché la concessione apre a posizioni alternative, la si può considerare una spia di dialogicità, un modo per accogliere idee altrui. In realtà l’effetto argomentativo della concessione è anche quello di imporre la relazione implicita tra gli enunciati collegati; è uno strumento di creazione di accordo, non solo per il carattere doxico tra l’affermazione concessa e la conseguenza attesa, ma anche perché tale relazione viene suggerita in modo implicito e data per scontata. Es. “Benché Mario sia ingegnere ama la musica” presuppone che un ingegnere non ami la musica. La concessione è usata anche in pubblicità dove il senso comune viene contraddetto per affermare qualità ulteriori del prodotto (“E pensare che qualcuno ci viene solo per il mare”). Dissociazione. Viene catalogata tra Perelman e Tyteca tra le tecniche argomentative che fondano la loro efficacia sulla dissoluzione di un legame (tra oggetti, argomenti, valori) o sulla divisione di un concetto unitario in più parti, delle quali solo una viene ritenuta dal locutore. Il caso prototipico è quello che distingue l’apparenza dalla realtà, in cui il primo termine ha valore negativo. Questo procedimento rigetta uno dei due termini nel mondo del falso. La dissociazione si presta a innumerevoli usi. Si parla di “guerre umanitarie”, “bombe intelligenti”: si dissocia il lessema originario. La tecnica è più efficace su concetti noti, come i valori universali (es. giustizia giusta, democrazia vera, democrazia commissariata). In pubblicità: “Non chiedete un vermouth, chiedete un Martini”; “una cosa è parlare di genuinità, un’altra è metterla al centro”: si isola il proprio prodotto dissociandolo dalla categoria cui appartiene, rendendolo unico. Dire e non dire. Un discorso che poggia su valori impliciti ha grande forza persuasiva, non solo perché si avvale di un consenso già dato, ma anche perché ciò che è implicito è difficilmente contestabile o falsificabile. Tutto ciò che è detto, infatti, è suscettibile di critica e obiezione, mentre è più difficile intervenire sul ‘non detto0. Inoltre si aggiunge il vantaggio per l’oratore di poter sempre negare di aver voluto intendere ciò che l’altro crede di aver inferito dal discorso, può così sfuggire alle proprie responsabilità. Grice aveva formalizzato in un principio e 4 massime il modello di una comunicazione razionale e corretta. Ma contravvenire alle massime non è un’eccezione, anzi con la loro violazione si sottintende qualche significato nascosto, che non si vuol dire esplicitamente. Oltre a questi effetti di implicito, sempre legati alla situazione di enunciazione e soggetti a un’interpretazione da parte dell’interlocutore, vi sono forme che trovano un’espressione concreta nell’enunciato. Ducrot distingue negli enunciati un contenuto ‘posto’ (ciò su cui verte l’affermazione) ed uno, non sempre presente, ‘presupposto’. In “Mario ha divorziato”, ciò che è posto è il fatto che il matrimonio di Mario sia finito, ciò che è presupposto è che egli fosse sposato. Per distinguere posto e presupposto si può usare la negazione: nega il posto ma non il presupposto. Le strutture sintattiche o le forme lessicali che convogliano PRESUPPOSTI sono molteplici: - Sintagmi nominali definiti. La presupposizione indotta da sintagmi nominali definiti (gruppi di parole aventi come testa un nome e introdotti da un articolo determinativo) è che esista un referente per il sintagma nominale specificato. Si parla di presupposizioni esistenziali. 
 Es. “Il re di Francia è calvo”, si può obiettare sulla verità del predicato (essere calvo) ma non si può prescindere da ciò che l’enunciato presuppone. Pagina di 40 43 conoscenza da parte del pubblico condizionino la ricezione del messaggio, rendendo l’oratore degno o meno di essere ascoltato. Tuttavia Aristotele mette in rilievo un altro tipo di ethos, svincolato dalla realtà concreta della persona dell’oratore, e che si determina all’interno del discorso stesso. La persona in carne ed ossa è esclusa da questa concezione; ciò che conta è l’enunciatore, l’essere di discorso, l’immagine della persona che si realizza attraverso le parole di questa. L’ethos è definito come ‘carattere che l’oratore deve dar conto di possedere”. Ciò non esclude che la credibilità dell’oratore possa risultare anche dalla sua biografia, dalla sua posizione nella società. Spesso i 2 aspetti si presentano insieme. L’oratoria romana associava all’ethos caratteri morali della persona reale dell’oratore; anche Aristotele menziona 3 caratteri etici che sembrano qualità personali (competenza, sincerità, benevolenza) senza tuttavia eclissare l’idea che queste debbano manifestarsi nel discorso. Momenti storici e teorie diverse hanno attribuito all’ethos un carattere diverso; la distinzione tra carattere reale dell’oratore-persona e carattere che emerge nel discorso è precisata nella distinzione tra ethos prediscorsivo ed ethos discorsivo; e nella distinzione tra dire e mostrare di Barthes. Per questo la retorica è stata accusata di artificiosità: se l’ethos è solo un modo di mostrarsi, è sufficiente un mascheramento per ingannare il pubblico e convincerlo alle proprie tesi. 
 Se ci si allontana da una visione del linguaggio come mezzo per persuadere, e lo si intende come mezzo per stabilire relazioni compaiono aspetti accettabili e necessari. L’AdD e l’argomentazione hanno rinnovato il concetto di ethos, legandolo all’esercizio della parola in modo indipendente dalle particolari situazioni enunciative in cui era nato. L’ethos si può rintracciare in testi di ogni tipo, non solo a scopo persuasivo. Si ritrova in tutte le situazioni quotidiane in cui è richiesta una buona impressione. Si parla di ‘presentazione di sé’. Questa concezione comprende oltre ad azioni intenzionali, a scopo persuasivo o di descrizione del mondo, qualsiasi evento comunicativo. In ogni azione appare l’ethos del soggetto implicato, e questo dipende fortemente dai quadri sociali e istituzionali. Ethos ed enunciazione — La presentazione di sé interagisce con le forme di enunciazione: il parlante che si assume la responsabilità del discorso, dicendo ‘io’, offre al pubblico un’immagine discorsiva di sé. Ma l’assunzione della responsabilità del discorso può manifestarsi in modi diversi dall’enunciazione in 1° persona, e non sempre l’uso di ‘io’ garantisce l’identità tra soggetto di enunciazione e responsabilità enunciativa. Seguiremo la teoria di Benveniste sugli atti linguistici. - Conversazione e atti linguistici — Nello scambio conversazionale le immagini di sé dei partecipanti sono sottoposte ad una negoziazione continua, che può svolgersi in modo collaborativo (accettando rispettivamente l’immagine che l’altro cerca di mostrare), o in modo antagonista. Poiché l’efficacia di un atto dipende (anche) dallo status e dal ruolo dei partecipanti allo scambio comunicativo; obbedire ai vincoli che un determinato ruolo impone significa affermare la propria legittimità in tale ruolo. La mancata esecuzione di un atto atteso indebolisce la propria immagine. La conversazione tra la Capitaneria di Porto e il comandante Schettino è un esempio di ethos mostrato attraverso i numerosi atti direttivi del comandante D.F. Il suo stile e tono manifestano il genere di persona e la sua identità sociale; dà ordini, ha uno stile marziale; non prevede manovre per salvaguardare la faccia dell’altro. Il suo ethos è integrato in un ethos militare, con toni e pratiche stereotipate. L’esecuzione di atti linguistici attesi, o l’omissione in caso di S., sostengono la legittimità di un ruolo contribuendo a delineare un’immagine della persona. - Io/noi: L’enunciazione in 1° persona è la forma linguistica che più di ogni altra rimanda direttamente all’ethos di una persona. Non consideriamo i casi di auto-definizione che anziché mostrare un carattere morale, lo dichiarano esplicitamente, con effetti spesso opposti. Ci occupiamo dell’uso della 1° persona per delineare un quadro in cui il soggetto emerge come detentore di una competenza etica. Nel discorso di Berlusconi emergono dichiarazioni esplicite sulla propria persona che sottolineano una capacità di ‘fare’, si descrive come una persona che ha avuto una visione, idee lungimiranti; utilizza un tono profetico con frasi subordinate temporali e ripetizione anaforica iniziale (quando…). Non sono solo i temi toccati, ma anche il modo di presentarli che sostengono un ethos di persona capace di fare il mondo, con una visione preveggente. Temi, parole, stile sostengono un ethos visionario e salvifico. Passando dal tu al noi, non ci si riferisce ad una moltiplicazione di io, ma ad un gruppo di io più voi, o più loro. La dilatazione dei referenti chiama in causa più di un ethos individuale, oppure un Pagina di 41 43 ethos plurale. L’uso del noi può comunque illuminare l’ethos individuale di chi utilizza tale pronome per riferirsi al gruppo cui appartiene: una raffigurazione collettiva non esclude l’immagine individuale, ma anzi ne rafforza alcuni aspetti. Esempi discorsi di Monti, pag. 224; nel 1° usa il ‘noi’ per riferirsi al governo, che si presenta come già attivo, sensibile a questioni etiche, si connota con il tema della trasparenza, della capacità di agire rapidamente. Nel 2° l’ethos individuale si costituisce con l’oscillazione tra un’istanza competente (io spero), quella solidale con gli italiani (che siamo tranquilli) e l’istituzione. 
 - L’io che non c’è — Come riconoscere l’ethos nei testi in cui l’enunciatore scompare, riporta le parole di altri o si esprime solo in 3° persona, rinunciando (apparentemente) ad assumere la responsabilità del proprio dire? Anche un io nascosto è sempre presente. Nel giornale ad esempio si distingue tra articolo di commento e articolo di cronaca, che si pretende essere un resoconto fedele dei fatti. In realtà scelte, lessicali, denominazioni, forme attive o passive dei verbi e così via danno una rappresentazione dei fatti non priva di giudizio. Per quanto riguarda invece il tema affrontato, è dettato dall’agenda del giornale, dunque chiama in causa un ethos collettivo; inoltre anche il voler mantenere la propria soggettività nell’ombra e il voler essere giudicati come imparziali sono indici di ethos. Anche il discorso scientifico si vuole oggettivo, ma la cancellazione del soggetto è comunque attenuata dalla presenza di modalizzatori (probabilmente, certamente). Forme non personali del discorso e presenza di elementi di attenuazione concorrono a creare l’ethos scientifico. Il comunicato stampa è poi un genere standardizzato che impone la cancellazione del soggetto enunciante; diramato dalle aziende, viene poi direttamente usato dal giornalista nel suo articolo, senza dover essere modificato. Il testo finale sarà interpretato come proveniente da un enunciatore neutro (il giornalista) mentre è stato invece così predisposto dall’enunciatore-azienda. Usa la 3° persona, verbi al passato, discorso diretto. L’azienda si presenta con elementi promozionali che, espressi in 3° persona, vengono recepiti come “giudizi obiettivi” e informazioni fornite dal giornalista. Dimmi con chi parli e ti dirò chi sei — Consideriamo ora l’uditorio. Abbiamo prima considerato la scelta di argomenti più adatti e persuasivi; vediamo ora come la raffigurazione del ‘tu’ (o ‘voi’) a cui si rivolge la comunicazione entra nella costruzione dell’ethos. Le formule di allocuzione (tu-lei-voi) scelte in funzione della situazione comunicativa e dei ruoli dei coenunciatori non sono un semplice segnale di educazione e rispetto, o di confidenza e intimità. La scelta di forme di vicinanza o di allontanamento dice anche qualcosa su colui che la usa. Il destinatario prefigurato nel discorso è significativo perché nel creare questo ‘tu’, l’enunciatore crea nello stesso tempo un ‘io’ adeguato. Il destinatario immaginato influenza la costruzione della propria immagina (immagino che tu sia così, dunque mi presento così), ma allo stesso tempo costruisco così l’enunciatore potenziale perché è quello che posso raggiungere con la mia immagine. 
 Esempio elezioni del sindaco di Pavia, pag. 229-30-31. Dei 3 candidati solo uno (Ferloni), il meno conosciuto, ha inserito i simboli delle liste che lo sostenevano nel foglio di propaganda; Albergati ha usato solo il suo nome in quanto già conosciuto; Cattaneo i colori della bandiera italiana, che evocavano il partito di Berlusconi. Già questo dice molto dell’ethos: c’è chi si appoggia sull’immagine di sé costruita negli anni precedenti (ethos prediscorsivo), chi cavalca la popolarità del partito della maggioranza, sfruttando un’immagine collettiva della formazione politica da cui proviene, chi si appoggia ai propri simboli. Albergati, propone un ethos che fa leva sulle persone della lista e sul programma, propone un’immagine costruita sul già noto. Di fronte a un candidato già noto, Cattaneo punta sulla novità, espressa a parole sostenuta dalle foto dei candidati; il suo ethos ha a che fare con la giovinezza, deve trasformare questo tratto da debolezza a forza; per attirare i giovani, ma rassicurare la maggioranza dei suoi elettori, anziani (richiami al nuovo+richiamo a Berlusconi). Ferloni, propone una lettera in cui si presenta; con modi amichevoli e antiquati; allocuzione in 3° persona, foto a mezzo busto. Tiene conto di un destinatario non giovanissimo. L’ethos discorsivo è effetto di una negoziazione, della costruzione di un’immagine di sé in relazione ad un ‘tu/voi’ cui ci si rivolge. Una prospettiva sociologica: ethos, faccia, cortesia. L’immagine di sé viene trattata anche in ambito sociologico, da cui le scienze del linguaggio hanno sviluppato un campo di ricerca pragmatica che prende il nome di CORTESIA. Prende spunto dalle nozioni di Goffman di territorio e faccia, e si riferisce alle modalità messe in opera dai parlanti per mantenere un’interazione linguistica soddisfacente, non minacciante dell’identità positiva, propria o altrui. Nelle interazioni i parlanti si preoccupano di offrire una buona immagine di loro stessi e di non intaccare Pagina di 42 43 la buona immagine dell’interlocutore: cercano di preservare la faccia. La faccia è un’immagine pubblica, non immediatamente collegata all’ethos, in quanto è proiettata e negoziata nel corso dell’interazione. Dipende da 2 esigenze dei parlanti: - quella di essere riconosciuti e approvati —> faccia positiva - Quella di non subire ‘invasioni’ o di non essere ostacolati —> faccia negativa Esistono anche situazioni in cui questi fattori hanno poco peso (es. chiedere l’ora); Goffman parla di queste azioni come di ‘merce franca’. Mentre altre richieste (chiedere un prestito o una sigaretta) hanno effetti potenzialmente più dannosi, si mettono in opera strategie discorsive che cercano di ‘salvare la faccia’ (giustificarsi, scusarsi). Il modello della cortesia è basato sul riconoscimento che, parlando, seguiamo regole del vivere civile (chiedere scusa, per favore, usare forme indirette, essere non pertinenti invece che brutali). Si tratta di violazioni delle massime di cooperazione, giustificate però dall’obbedienza a un precetto di cortesia che ha precedenza sulle massime di cooperazione. Finora abbiamo visto casi quotidiani: bisogna però distinguere tra questa nozione ‘ingenua’ di cortesia e quella che è stata teorizzata in vari modelli (es. Brown e Levinson): nozione teorica. In entrambe le prospettive il termine si riferisce non a forme linguistiche (tu, lei) ma ad atti comunicativi che si collocano in un preciso contesto. Ad es. la frase “Grazie di avermi rovinato la vita” è formalmente cortese ma polemico. L’uso del lei con chi abbiamo confidenza è una messa a distanza. Il modello teorico della cortesia copre uno spettro di fenomeni più ampio di ciò che noi intendiamo per cortesia; mira a fornire un quadro universale, valido per ogni lingua e cultura. Tale universalità è stata criticata: l’idea di faccia manca di corrispondenza da una cultura ad un’altra ed è anche variabile nel tempo. La teoria è stata da un lato accusata di etnocentrismo, dall’altra di avere poca considerazione per l’evoluzione storica dei sistemi di cortesia. La cortesia riflette le condizioni sociali e gerarchiche di una data epoca e società, ed è connessa con l’immagine di sé che il parlante vuole dare in una determinata situazione socio-storica. E’ sulla funzione della parola nella costruzione dell’immagine del locutore e del suo destinatario che le strategie linguistico- pragmatiche della cortesia si incrociano con la nozione di ethos discorsivo. In ogni scambio comunicativo gli interlocutori, adottando strategie di cortesia, precisano un’immagine di sé valorizzante, coerente con un quadro sociale. Ethos e cortesia in nuove forme di interazione. La costruzione dell’ethos, essendo un’esigenza del parlante in qualsiasi interazione, si mantiene quando, al variare delle forme di comunicazione, mutano anche linguaggi, codici, criteri sociali di giudizio sulla faccia. Nei nuovi contesti di comunicazione digitale: anche se in ogni tipo di formato digitale chi si esprime cerca sempre di fornire un’immagine positiva di sé, la gestione della faccia e le regole di cortesia sono diverse a seconda del tipo di piattaforma usata. Nelle chat ad esempio è previsto che chi entra in una conversazione selezioni il destinatario, è permesso introdursi in conversazioni senza invito. L’ethos domina nei social network: su Facebook ci si crea un’identità (o più) frutto di un attento dosaggio di quanto si ritiene valorizzante per la propria immagine. Anche se le interazioni avvengono in modo asincrono e si sviluppano tra identità virtuali, sembra che la questione dell’immagine di sé e il gioco di faccia abbia nei SN un peso superiore a quello che ha nelle interazioni dal vivo. Un’interessante commistione di ethos prediscorsivo ed ethos discorsivo si ha nei siti di dating (vi sono dati di fatto, e commenti liberi). La novità è che è più facile mentire. Scenografia ed ‘ethos’. La scenografia contribuisce, insieme al genere, a convalidare un’enunciazione, determinando un ‘modo’ di dire che legittima il detto. Vediamo la relazione tra scenografia ed ethos. Negli esempi precedenti scenografie diverse (pieghevole scherzoso, lettera tradizionale) avvaloravano il contenuto dei messaggi, dimostrando come dev’essere il politico preferibile (giovane e moderno o anziano e tradizionale). La scenografia è il quadro adatto alla rappresentazione che vi si svolge. Se la rappresentazione è l’immagine di sé, la scelta del modo in cui viene prodotta è importante perché avvalora ciò che viene detto. Ad esempio i ragionamenti di Grillo sono sostenuti da una scenografia che mostra l’ira; non avrebbe lo stesso effetto in un Parlamento. Stile verbale e immagine sostengono le parole. 
 Es. manifesto politico di Bersani pag. 237: è stato criticato per assenza di sorriso, bianco e nero, atmosfera lugubre. In realtà il suo sorriso appena accennato e le maniche rimboccate incarnano un cauto ottimismo, e l’atto di un fare pratico. 
 Per quanto riguarda le persone, scenografia ed ethos coincidono: l’immagine legittimata dal quadro discorsivo lo legittima a sua volta. Ma esistono anche scenografie collettive, rituali (raduni a Pontida). Nella pubblicità la scenografia esprime un tono, spesso servendosi di un
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