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Con biglietto di andata, Sintesi del corso di Critica Letteraria

Sintesi dei primi due capitoli del libro con biglietto di andata

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022
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Caricato il 20/01/2022

LolaSpagnolo98
LolaSpagnolo98 🇮🇹

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Scarica Con biglietto di andata e più Sintesi del corso in PDF di Critica Letteraria solo su Docsity! Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar Tra i tanti paesi che hanno conosciuto flussi migratori di grande portata, l’esempio italiano è quasi unico per intensità, durata e varietà dei luoghi di destinazione, soprattutto nel periodo compreso tra gli ultimi quattro decenni dell’Ottocento e gli anni Settanta del Novecento, quando il fenomeno ha toccato il suo apice. I testi scolastici di Storia degli anni Cinquanta e Sessanta non menzionano quasi mai l’emigrazione. Un interesse del dibattito accademico è stato riservato, viceversa, sul piano storico-politico, alla mobilità dei protagonisti dell’esilio risorgimentale (a cominciare da Garibaldi rifugiatosi prima in Brasile e poi negli Stati Uniti; ma lo stesso si potrebbe dire per Foscolo, per Mazzini o per molti altri patrioti liberali rifugiatisi in Francia e in Inghilterra). A partire dal fallimento dei moti del 1831, non pochi furono coloro che si diressero, oltre che in Francia, Svizzera, Inghilterra, Grecia e Germania, verso il Nordafrica e le Americhe, benché queste ultime fossero mete meno ambite perché le distanze impedivano il mantenimento delle comunicazioni utili a garantire le interrelazioni politiche. Gli Stati Uniti, tuttavia offrivano un esempio di federalismo funzionante; un modello che suscitò l’interesse di molti dei nostri militanti alla causa risorgimentale e a cui avevano guardato. Fra i fuoriusciti politici dell’Ottocento si ricordi Eleuterio Felice Foresti massone e carbonaro,raggiunge il continente americano nel 1836. Negli Stati Uniti Foresti aderì al mazzinianesimo diventando un esempio per i fuoriusciti italiani. Fondatori di giornali, scuole e società di mutuo soccorso, organizzatori di adunate e raccolte di fondi, gli esuli, nonostante le continue controversie che opponevano i monarchici ai mazziniano-repubblicani, contribuirono a mantenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica nei confronti di chi stava combattendo in Europa e per la comunità immigrata, probabilmente più di quanto erano riusciti a farlo in Italia. Persino gli storici hanno sottovalutato l’importanza del fenomeno emigratorio di massa. Giusto sarebbe annoverare l’emigrazione italiana tra gli avvenimenti che più hanno inciso sul successivo andamento sociale, politico ed economico del nostro paese e sulla evoluzione della nostra identità, destituendo il fenomeno della sua innegabile rilevanza. L’incessante mobilità umana che ha coinvolto, tra la prima metà dell’Ottocento e la seconda metà del Novecento, circa trenta milioni di italiani e intere famiglie sulle quali è stata a lungo dimenticata dalla coscienza nazionale. A proposito di tale silenzio, Gian Antonio Stella in L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, ripercorre in modo inedito la storia italiana di emigrazione di massa per far conoscere quella storia di umiliazioni, soprusi, tragedie, pregiudizi, stereotipi in un confronto col presente in cui purtroppo il cancro sociale del razzismo e della xenofobia verso gli immigrati sembrano disdicevolmente espandersi. Egli ricorda quanto sia stata importante nei secoli scorsi la presenza degli emigrati italiani nei paesi del mondo in cui sono approdati, per avervi apportato ricchezza economica e culturale. Nel sottolineare come le nostre esperienze migratorie siano state complessivamente anche positive, si sofferma, in particolare, sul grande esodo otto-novecentesco affermando che di coloro che hanno fatto fortuna all’estero, quali, tra gli altri, Amedeo Obici, Giovanni Giol o Geremia Lunardelli si è, in qualche modo, parlato in termini di ‘orgoglio italiano’; mentre tutti gli altri, quelli che all’estero arrancavano cercando di sopravvivere, sperando in un futuro migliore, sono stati dimenticati. Abbimo perso 27 milioni di padri e di fratelli eppure quasi non ne trovi traccia nei libri di scuola. Erano la testimonianza di una storica sconfitta soprattutto nell’Italia della retorica risorgimentale, savoiarda e fascista. L’emigrazione italiana verso Stati Uniti ed Argentina, in particolare, ha attraversato due secoli ed ha coinvolto circa trenta milioni di persone. Si è trattato di una storia sociale e culturale per le forti influenze che gli italiani hanno esercitato, oltreatlantico, sull’architettura, sul cinema, sulla gastronomia, sulla letteratura e sulla musica. La storia del nostro paese ha ereditato dal fenomeno dell’emigrazione alcuni caratteri essenziali che ne hanno influenzato l’economia – si pensi all’accumulazione di risorse rappresentata dalle rimesse degli emigranti che furono di vitale importanza per il sostentamento di intere famiglie e persino per la riattivazione economica di molte aree di emigrazione di massa, specialmente del Sud. È tra il XIX e il XX secolo, dunque, che l’Italia si distingue, fra i Paesi industrializzati, quale incontestata protagonista dell’emigrazione di massa di lunga durata che ha ‘disperso’ un impressionante numero di cittadini in quasi ogni continente: un fenomeno che può essere considerato come una vera e propria diaspora. certi aspetti che hanno caratterizzato unicamente i nostri esodi, ovvero innanzitutto: la dispersione numericamente molto elevata nei più svariati paesi del mondo e un altrettanto elevato tasso di rientri che riflettono un attaccamento viscerale alla regione d’origine che nessun altro popolo migrante ha dimostrato di provare con tale intensità. Negli ultimi decenni dell’Ottocento l’Italia si trovava ancora nella prima fase del processo di transizione demografica: alla diminuzione della mortalità non aveva ancora fatto seguito una contrazione della natalità, con un conseguente elevato incremento della popolazione. L’avvio dell’industrializzazione con le prime trasformazioni delle strutture produttive che investirono in primo luogo le regioni del Nord, determinò la scomparsa di vecchie professioni e un’eccedenza di manodopera, provocando profondi squilibri fra settori produttivi, classi sociali ed aree territoriali. Gli anni in cui si verificò la massima espansione dei flussi migratori furono quelli compresi fra gli ultimi decenni della fine del secolo XIX e la Prima guerra mondiale (quasi 14 milioni di espatri). Da una parte, bisogna tenere presente il difficile momento di ristagno in cui versava l’Italia subito dopo l’unificazione, la cui economia ancora essenzialmente agricola non riusciva a sorreggere il paese, specialmente in seguito alla prima depressione mondiale del 1873-79 in cui si assistette al crollo dei prezzi delle derrate alimentari e alla controproducente adozione da parte dello Stato di una politica protezionistica, avvenimenti entrambi che misero in ginocchio proprio gli agricoltori i quali così si videro costretti a cercare all’estero le risorse di cui sostentarsi. In aggiunta alla crisi economica, si consideri anche che a rendere in quel periodo l’emigrazione irrefrenabile e del tutto spontanea, fomentando così oltretutto la clandestinità, fu l’attuazione di una politica migratoria estremamente liberale: “dove c’è lavoro ivi è la patria”. La consistenza del fenomeno rese necessaria agli inizi del Novecento l’istituzione del “Commissariato Generale dell’Emigrazione” (1901), con lo scopo precipuo di disciplinare gli espatri ma anche con quello di tutelare gli emigranti dall’azione speculatoria di intermediari e agenti delle compagnie di navigazione che si arricchivano sfruttando la ‘fame’ dei propri concittadini senza, per altro, risolvere gli enormi problemi igienici che insorgevano sia a causa della concentrazione di emigranti nei porti di imbarco (Genova, e poi Napoli, Palermo, Messina, Castellammare del Golfo, etc.) che nelle terze classi delle transoceaniche ‘carrette del mare’.  il carattere, speso traumatico e doloroso,  l’attaccamento al paese di provenienza che porta alla creazione di un micro-habitat originario nei luoghi d’arrivo;  le reazioni delle società di accoglienza, con il sistematico ripresentarsi di aspetti comuni come le discriminazioni, i pregiudizi, la formazione degli stereotipi e il timore dell’altro. L’analisi dell’esperienza degli italiani emigranti e pulsioni xenofobe spesso incoraggiati dai media e da certe politiche di Paesi che sentono minacciate le loro identità. Di notevole importanza si rivela lo studio delle letterature sull’emigrazione, infatti l’emigrazione italiana fu accompagnata da una fitta produzione letteraria. A questa iniziativa si è affiancata nel 2008 “Oltreoceano”, una rivista sul tema delle migrazioni organo ufficiale del CILM (Centro Internazionale Letterature migranti), primo centro studi italiano il cui obiettivo è lo studio delle produzioni culturali delle comunità italiane transoceaniche. In questo panorama guadagnano spazio d’interesse anche le voci femminili. I temi predominanti dei testi della nostra letteratura della e sulla migrazione riguardano:  il viaggio di andata e anche, in alcuni casi, di ritorno alle origini;  il mito di “fare l’America”,  il ricordo del passato,  la convivenza con gli autoctoni,  i conflitti identitari,  lo scarto fra presente e passato, fra realtà originaria e realtà nuova, fra storia individuale e storia collettiva. Questa letteratura bipartisce lo sguardo degli autori tra la struggente frattura di chi resta, lo straniamento nel Paese di accoglienza e lo smarrimento per la distanza dagli elementi costitutivi della cultura di origine che prescindono dalla tradizione odeporica per intrecciarsi piuttosto con il canto degli esuli; e, per altro verso, con le letterature postcoloniali delle quali condivide relazioni, contaminazioni e compresenze culturali, nonché ibridazioni linguistiche con la o le lingue con le quali gli emigrati si sono trovati a dover interagire, smantellare stereotipi, diffondere e rafforzare una prospettiva di tipo, appunto, interculturale. II L’esodo verso le Americhe raccontato dalla letteratura italiana Se da un lato la nostra letteratura si è occupata infatti solo in modo sporadico del generale fenomeno sociale, dall’altro ha comunque lasciato trasparire come proprio quel “sogno americano” avesse permeato l’intera popolazione dello Stivale. L’America incarnava, nel momento della giovanissima Italia liberale, la modernità compiuta e realizzata che faceva da contraltare ad un’Europa ancorata alla storia, alle tradizioni e ai valori culturali i testi della Letteratura italiana che hanno contribuito a raccontare questo spaccato della nostra Storia hanno certamente in comune la dimensione quasi sempre localistica del punto di vista. l’esodo degli italiani oltreoceano si fa trauma per chi parte e per chi resta . Un trauma che nel corso del XX secolo si è trasformato in un complesso tabù socio-culturale. Del resto, la letteratura di fine Ottocento/inizio Novecento, d’ispirazione risorgimentale-patriottica, aveva teso ad esaltare l’Unità come processo di riscatto della Nazione e di promessa di uno sviluppo futuro, cercando in tutti i modi di serbare un certo pudore sulla condizione di insuccesso e di difficoltà socioeconomica alla base dell’emigrazione. Le società non sfociano nella consapevolezza di essere state implicate in qualcosa di orrendo, sembra consequenziale che sia impossibile far maturare una compiuta memoria collettiva a causa della frammentazione temporale, geografica e socio-culturale alla base della nostra emigrazione. la maggior parte degli autori della nostra letteratura ha scelto di affrontare questo tema da una prospettiva eminentemente regionalistica e, il più delle volte, ponendosi dalla parte di chi è rimasto. Antonio Caccia che nel 1850 con Europa d’America offre un resoconto romanzato della vicenda emigratoria dei due protagonisti, Arturo e Alfredo, costretti ad emigrare rispettivamente a New York e a New Orleans in seguito al fallimento della ditta paterna. Nel 1876, Paolo Mantegazza consegna ai lettori il suo Il dio ignoto, un romanzo epistolare in cui si racconta di Attilio, un giovane dottore in giurisprudenza affascinato dall’idea di ricominciare la vita in Argentina. Anton Giulio Barilli ne La Sirena mette in scena, a sua volta, il personaggio di Jean Bart che abbandona il seminario per cercar fortuna in America e, soprattutto, per affrancarsi dalla tentazione di un amore impossibile. In questi primi testi l’emigrazione è rappresentata da un punto di vista eminentemente individualistico che si intreccia con le motivazioni ideologiche, che restano spesso in filigrana, degli esuli mazziniani in cerca di riparo soprattutto negli Stati Uniti. nel 1869 da Giuseppe Guerzoni ne La tratta dei fanciulli. Pagine del problema sociale in Italia, denuncia l’emigrazione forzata dei giovani fanciulli calabresi e lucani sottratti alle famiglie per essere condotti, stipati all’interno di navi fatiscenti, alla volta delle America dove sarebbero stati costretti a chiedere l’elemosina per le strade. Sulla stessa tragica realtà insiste anche l’abate Giacomo Zanella che, ne Il piccolo calabrese. Racconto, denuncia il traffico illegale di bambini suonatori d’arpa e di violino originari della provincia di Potenza. Nello stesso anno vede la luce Portafoglio di un operaio di Cesare Cantù in cui l’autore mette in scena il personaggio di Savino Savini emigrato dal Sud della penisola al Nord in cerca di lavoro che decide, poi, di imbarcarsi alla volta dell’Argentina prima di venire dissuaso dal timore di incontrare la morte per mare. A guardare all’emigrazione come problema economico e sociale in larga scala è il liberale Antonio Marazzi che, nel 1880, di ritorno dalla sua permanenza in Argentina, pubblica Emigrati, studio e racconto, che ebbe un immediato successo di pubblico e che resta una preziosa analisi sociologica sulle vicende umane di tanti nostri connazionali. Edmondo De Amicis che dopo aver offerto nel 1881 un omaggio ai connazionali costretti a espatriare con i versi di Gli emigranti, continuerà a dar prova della sua sensibilità rispetto alla “fuga” verso il Nuovo Mondo, anche con la sua produzione narrativa. Fin dai versi de Gli emigranti, l’attenzione dello scrittore è rivolta, in particolare, verso la traversata transatlantica, benché non manchino gli accenti di denuncia rivolti innanzitutto alla classe dirigente borghese che egli vuole invitare a prendere coscienza del fenomeno. De Amicis conosce le cause della partenza, sa della truffa affaristica che si alimenta a spese dei poveri emigranti, fiuta i sentimenti che si dibattono nel cuore di coloro che son costretti a partire. l’11 Marzo 1884 De Amicis – si imbarca dal porto di Genova, insieme a 1.600 emigranti italiani, sul piroscafo Nord America diretto in Argentina. Le impressioni della traversata saranno oggetto, qualche anno più tardi di Sull’Oceano, un testo commissionato da Emilio Treves. Rientrato in Italia, però, lo scrittore decide di accantonare momentaneamente il progetto per dedicarsi alla stesura di Cuore. All’interno del testo, l’episodio intitolato Dagli Appennini alle Ande narra del viaggio tormentato intrapreso da Marco, un ragazzo di tredici anni che, da Genova, si imbarca alla volta di Buenos Aires in cerca della madre, emigrata per lavoro, che il giovane protagonista ritroverà dopo molte traversie. A bordo della nave che lo porta in Argentina, Marco alterna momenti di sofferenza e di paura, per il mare agitato, a giornate di caldo insopportabile e di noia infinita: Le cose non erano poi sempre così semplici, è evidente ne In America una raccolta di riflessioni sull’emigrazione nella quale figurano, tra gli altri, il testo della conferenza tenuta a Trieste e poi ripetuta a Venezia dal titolo I nostri contadini in America. Nel 1889 vede poi finalmente la luce sull’Oceano, in cui l’autore esplora risentimento di quegli individui costretti a lasciare il Paese, che pur avendo trovato ampia trattazione negli studi filosofici e sociologici, era stato fino a quel momento poco esplorato nei testi letterari focalizzati sull’emigrazione. Sia nelle situazioni che nella scelta lessicale, lo scrittore ligure utilizza l’immagine classica dell’inferno dantesco per descrivere la condizione di estrema sofferenza dei miseri emigranti. Per rendere più realistica la narrazione l’autore fa ricorso alla varietà dei registri linguistici e dialettali che dividevano gli stati sociali. Ottenne uno straordinario successo e divenne un modello obbligato per coloro che si accingevano a scrivere della traversata transoceanica. Anche per De Amicis, insomma, le cause dell’emigrazione si limitano, quasi esclusivamente, «al cosiddetto meccanismo di espulsione e vertono in sostanza sulla questione sociale vista dall’Italia e per l’Italia»: un punto di vista che riduce l’interpretazione del fenomeno a uno solo dei suoi molti aspetti. Già qualche anno prima, nel 1875, Giovanni Verga aveva accennato al problema dell’emigrazione in Tigre reale, dove, in una scena, Carlo deve raggiungere il porto di Genova per imbarcarsi alla volta di un’America definita «un brutto paese dove si ammazzano come cani arrabbiati». Nel 1881 Verga affronterà ancora, seppur in modo indiretto, il tema ne I Malavoglia. A far da sfondo alle vicende che si intrecciano intorno alla famiglia Toscano sono proprio le trasformazioni socio-economiche che avrebbero portato, nel giro di pochissimi anni, all’emigrazione di massa dal Meridione d’Italia. ‘Ntoni, irretito da due giovani compaesani – che partiti qualche anno prima, tornano millantando ricchezza e raccontando mirabilie del Nuovo Mondo – parte con il fagotto sulle spalle e le scarpe in mano. Costretto, nel giro di breve tempo, a tornare lacero e pezzente, decide di assumere il compito di disincentivare quei giovani che come lui sognano di avventurarsi oltreoceano. Eppure, la critica del tempo non si accorse del forte messaggio di allarme affidato dall’autore al suo giovane personaggio. Storia di un burattino di Carlo Collodi: nel capitolo XII Mangiafuoco regala cinque monete d’oro a Pinocchio che, invogliato dal Gatto e dalla Volpe, decide di investirli nel paese dei Barbagianni dove si trova il Campo dei miracoli. Nel capitolo XIII, intitolato L’osteria del Gambero rosso, l’autore informa i suoi lettori che gli agenti d’emigrazione non praticavano soltanto l’usura ma erano spesso in combutta con i gestori delle osterie dei porti per un ulteriore sfruttamento degli emigranti costretti ad affidarsi a questi ultimi per il mancato rispetto delle date di imbarco da parte delle compagnie di navigazione. A Pinocchio toccherà di versare un quinto del suo capitale per sanare il debito contratto con il proprietario dell’osteria da parte del Gatto, della Volpe e da lui stesso. L’opera, nella sua versione originale, si chiude con l’impiccagione di Pinocchio. Cedendo alle insistenze dell’editore, l’autore, farà di lì a poco, risuscitare il burattino dando all’opera il titolo di Le avventure di Pinocchio. Nella ripresa Pinocchio rincontrerà il Gatto e la Volpe, pianterà con loro Ne Gli Americani di Ràbbato, un testo indirizzato principalmente a lettori adolescenti, Capuana, ripercorrendo i più ‘navigati’ luoghi comuni sulla vita degli emigrati negli Stati Uniti, presenta l’emigrazione da più di un punto di vista: è il sogno dell’Eldorado rinfocolato da Coda pelata che, rientrato in vacanza a Ràbbato, irretisce i giovani compaesani con i racconti delle meraviglie del nuovo mondo, ma è anche la dura vita alla quale va incontro Santi; e la malavita nelle cui maglie si farà imprigionare Stefano che lo condurranno in carcere. E, ancora, è anche l’usura che soggioga intere famiglie arricchendone altre. L’emigrazione è anche la curiosità del giovane Menu che deciderà di raggiungere oltreoceano i fratelli; è il dolore della mamma e del nonno che restano a Ràbbato; ed è, infine, occasione di promozione sociale e culturale – contrariamente a quanto Verga consente di fare al suo ‘Ntoni a cui è negata la piena attuazione del riscatto sociale anelato – nel ritorno possibile che vedrà Santi e Menu rientrare a Ràbbato per riscattare quel pezzo di terra, che la famiglia era stata costretta a vendere, per far rinascere le proprie radici. Achille Salzano Verso l’ignoto, romanzo dell’emigrante, mette in scena la vicenda migratoria di due giovani sposi campani costellata di sofferenze e disgrazie. Facendo ruotare la fabula intorno al porto di Napoli. L’emigrazione è presentata come una “vergogna sociale”. Nel corso della narrazione, che si conclude con il lieto fine del ricongiungimento in patria dei due protagonisti e con il loro abbandono definitivo dell’idea di cercar fortuna in America, non sono risparmiate pesanti critiche all’inefficienza degli apparati diplomatici italiani. Giovanni Pascoli, nel giudicare l’emigrazione come una nuova forma di schiavitù, vera e propria piaga sociale, insiste sul primato di un’identità culturale italiana. Animato dal suo giovanile socialismo umanitario, il poeta denuncia l’ingiustizia che affligge un popolo che, messo in ginocchio dalle magre risorse economiche offerte dal Paese, è costretto a lasciare il suolo natìo. In Italy, poemetto in due canti, Pascoli narra la vicenda di una coppia toscana emigrata in Ohio che torna nelle campagne della provincia di Lucca per curare la figlia Molly/Maria malata di tubercolosi. Ad accogliere la famiglia è la nonna con cui la bambina non riesce, in un primo momento ad instaurare alcun dialogo né linguistico né culturale. Il poeta si fa qui interprete del conflitto tra le immobili tradizioni contadine e la moderna realtà della società industriale a cui fa eco, sulla scorta di una strada già percorsa dal Verismo, la coraggiosa scelta di uno sperimentalismo linguistico su cui è imbastito l’intreccio della fabula che, alternando la lingua italiana a quella inglese e ibridandole dei registri dialettali del toscano e dell’italo-americano, rinvia a quella perdita di identità di cui proprio la lingua è veicolo. Nel 1911 a Barga, a sostegno di quel movimento di intellettuali che spronavano Giolitti ad imbarcarsi nella conquista della Libia, tiene un discorso, La grande Proletaria si è mossa, all’interno del quale quella umiliazione e vergogna nazionale avrebbe potuto essere sanata proprio con le nuove conquiste coloniali. La piaga sociale dell’emigrazione è dunque vista da Pascoli «nella prospettiva che trasforma le vittime/protagoniste in “figli” maltrattati di una madre impotente e bisognosa che li reclama a sé». Proprio per questo, nel suo celebre discorso del 1911, egli vede nell’avventura libica la possibilità per l’Italia di avviare un processo di auto-emancipazione che avrebbe assicurato a tutti un pezzo di terra a garanzia di una degna sopravvivenza. Ancora nei primi anni del XX secolo si ricordino: Dino Campana che, rientrato nel 1909 da un lungo viaggio in Argentina e in Uruguay, lascia trasparire nella scena descritta nei versi di Buenos Aires il proprio fastidio per quella folla di miseri per i quali non prova alcuna compassione: Carolina Invernizio, e il suo romanzo I drammi degli emigrati sono messe in evidenza le vessazioni subite da coloro che, arrivando nel nuovo mondo, rimanevano impigliati nelle maglie delle reti degli «incettatori di operai>> Ne La patria lontana Enrico Corradini condanna l’emigrazione come un male da cancellare. Nel risvolto rosa che presenta la storia d’amore che si anima tra Buondelmonti e Giovanna già a bordo del transatlantico che li conduce in America, l’autore affida ai due personaggi quella scoperta dell’italianità tipica di molti dei nostri connazionali emigrati. La traversata è ancora al centro del suo successivo Le vie dell’Oceano. Qui Corradini presenta il personaggio di Giuseppe Carraro emigrato calabrese da cinquant’anni in Argentina che allo scoppio della guerra in Libia si lascia convincere dal nazionalista Pietro Cento a rimpatriare. Uno dei figli, però, si rifiuta di seguirlo ed egli lo uccide prima di imbarcarsi in compagnia dello stesso Cento e del figlio minore. Riconoscendo l’errore di quel suo giovanile allontanamento dal suolo natìo, l’omicidio assume simbolicamente nel testo la valenza di un gesto sacrificale attraverso il quale egli può adesso risanare il tradimento verso la sua Italia. Il tema della pazzia femminile come effetto dell’emigrazione è centrale – come già nel pirandelliano L’altro figlio – in alcuni racconti di Maria Messina. Attiva nell’ambito del Verismo, sebbene in maniera tardiva e da una posizione di isolamento rispetto al gruppo degli intellettuali catanesi, è un’autrice ancora considerata marginale, la cui riscoperta postuma è dovuta al lavoro di ripubblicazione voluto da Leonardo Sciascia, allora consulente delle edizioni Sellerio di Palermo. Le donne assumono una nuova dignità proprio grazie a questa centralità, anche quando restano intrappolate in un sistema che le condanna ad una condizione di doppia subalternità, come donne e come soggetti di scarsissime risorse economiche. La Mèrica, la più nota delle storie incluse nella raccolta Piccoli gorghi, segue le vicende delle donne legate a Mariano, il protagonista maschile che lascia il paese d’origine per tentare la fortuna all’estero, per quanto, come figlio unico, avrebbe avuto le risorse per sopravvivere decentemente in Sicilia. Vittima del richiamo dell’emigrazione verso quel nuovo mondo, che la madre Vita antropomorfizza con l’etichetta di «mala femmina», Mariano lascia dietro di sé la moglie Catena il cui nome, benché molto diffuso nella Sicilia orientale, rivela senza ambiguità la posizione di imprigionamento fisico e mentale della donna. Catena non può imbarcarsi con il marito a causa del tracoma, una malattia degli occhi di natura batterica che porta alla cecità: diffusissima tra gli emigranti provenienti da ambienti miseri e malsani, veniva considerata ragione di non autorizzazione all’imbarco. Ancora un presunto tracoma viene diagnosticato alla piccola Santina, la protagonista del breve romanzo Cenerella che, lasciato il piccolo comune di Alcara, per seguire la madre e le sorelle in America ma costretta a non imbarcarsi, viene ospitata a Napoli da un lontano zio in casa del quale viene maltrattata e costretta a svolgere i lavori domestici. La fanciulla, tuttavia, sopporta con pazienza le umiliazioni nella speranza che un giorno torni dalla guerra il fratello Domenico. Il nucleo familiare si ricomporrà alla fine del testo quando una volta rientrato dalla prigionia, il fratello mutilato ricondurrà la fanciulla nella loro casa avìta in cui Santina si troverà a fargli da infermiera e a prendersi cura della mamma rientrata dagli Stati Uniti dove le due sorelle si erano, nel frattempo, costruite una vita autonoma. Negli scritti di Maria Messina prevale un tono funereo che riduce gli abitanti dei paesi sempre più svuotati ad una condizione di apatia, mentre aspettano le rimesse che non arriveranno mai o il ritorno impossibile di un uomo o a volte semplicemente una lettera. Una descrizione positiva dell’emigrante, rara nella letteratura italiana, viene fatta da Piero Jahier, in Con me o con gli alpini, racconto di un contadino veneto emigrato in America e richiamato in guerra. Negli anni Venti la politica anti-emigratoria fascista insieme alla chiusura degli sbocchi emigratori argentini e statunitensi, fanno smorzare i riflettori dei nostri letterati che, anche per sfuggire all’azione censoria, solo di rado sfioreranno il tema come avviene, ad esempio ne La coscienza di Zeno, di Italo Svevo dove Ada, rimasta vedova, parte per Buenos Aires per raggiungere la famiglia del marito che lì aveva fatto fortuna. Nel corso degli anni Trenta la rappresentazione letteraria dell’emigrazione deve fare ancora i conti con le direttive politico-ideologiche fasciste ripiegando, soprattutto per quel che concerne gli Stati Uniti, sul genere odeporico che esalta, benché come vedremo non sempre fin in fondo convintamente, il mito di un efficiente modello sociale ed economico con cui, in quel momento, occorreva confrontarsi. All’esodo per necessità economiche si aggiunge quello di un’altra categoria di individui, decisamente più colti dei primi, che sentono il bisogno di evadere alla ricerca di qualcosa di nuovo. Per esempio molti giovani intellettuali italiani, sofferenti e incapaci di sopravvivere in questo clima asfissiante partirono per ritrovare la propria dignità umana e la libertà intellettuale. Dall’altra parte alcuni intellettuali inverarsi strumenti funzionali al regime nel proposito di esaltazione dell’italianità presso i connazionali emigrati messa già in piedi dal fascismo. Di certo, in vero in quegli anni, leggere gli autori americani non era cosa semplice a causa della censura fascista Mario Soldati decide, nel 1929, di cambiare vita. Soldati si trova a rivivere l’esperienza di un soggiorno negli Stati Uniti nel periodo della crisi economica e della grande depressione, ma sarà testimone anche dei primi anni del New Deal e della ripresa. L’entusiasmo che lo aveva sostenuto nella sua scelta è destinato però a scemare nel corso della sua esperienza finendo per scoprire presto l’illusorietà dell’agognato sogno: l’America era di certo molto diversa da quella terra mitica che aveva immaginato. Rientrato in Italia nel 1931, racconterà della sua giovanile esperienza in America primo amore, un testo che raccoglie una serie di articoli scritti per il quotidiano livornese “Il Lavoro”, nel quale l’autore non rinuncia a criticare impietosamente gli usi e i costumi degli italiani trapiantati negli States. All’amore per l’America si aggiunge quello per una giovane donna del luogo: i due amori si intrecciano fino a rivelarsi entrambi il frutto della medesima delusione. Il racconto di Soldati è quello di un viaggio appassionato, ma è anche un’acuta osservazione del Nuovo Mondo; un’analisi a volte spietata e, ancora, un’indagine introspettiva non soltanto dei luoghi, ma anche dei suoi abitanti L’ultima sezione del testo corrisponde al momento della decisione definitiva di rientrare in Italia. Nonostante l’amarezza e la perdita delle illusioni adolescenziali derivate dalla conoscenza diretta di quella realtà, l’esperienza americana lascerà comunque una traccia indelebile nell’animo dello scrittore, come il ricordo di un primo amore dal quale si rimane folgorati, e infine inevitabilmente delusi. Eppure, tale esperienza segnerà fortemente la sua formazione, specialmente al suo ritorno in Italia, influenzando gran parte della sua produzione letteraria. Il ricordo del suo primo viaggio tornerà, infatti, seppur indirettamente, anche in La sposa americana. Qui la vicenda amorosa del protagonista Edoardo rievoca l’esperienza giovanile dello scrittore. Edoardo è, infatti, un docente universitario italiano che conoscerà Edith proprio quando si trasferirà negli Stati Uniti. Il romanzo è ambientato negli anni Sessanta a New York, ma lo spirito di avventura e il sogno di libertà sono gli stessi che avevano infiammato l’animo di Soldati negli anni Trenta. L’occasione per ripartire verso l’America si ripresenterà quarant’anni dopo, quando Soldati vi tornerà, stavolta, insieme alla moglie. Le emozioni suscitate in lui da questo secondo soggiorno statunitense sono trasposte dallo scrittore in Addio diletta Amelia, opera dalla quale emerge la rievocazione, mista a fascino e rimpianto, dei luoghi della sua giovinezza, in un gioco di assonanze tra America e Amelia, come a voler identificare quella terra con la donna che lo aveva fatto innamorare. Un amore irrimediabilmente finito, il cui ricordo non potrà mai essere cancellato. Nel testo, la personalità della voce narrante sembra sdoppiarsi in un continuo andirivieni tra incontro e scontro, rivelando reciprocamente pregi e difetti dell’io e del suo doppio. Nonostante la delusione di quella prima infatuazione giovanile, la lettura che deriva dai testi di delle regioni più arretrate, nel 1915 si votò al più agguerrito interventismo. Se è vero che nel 1935 sottoscrisse la tessera dei fasci all’estero, altrettanto vero è che negò poi tale circostanza con il supporto dell’affermazione di essere andato via dall’Italia proprio non appena il fascismo era salito al governo; e se è vero che tra il 35 e il 40 egli pubblica molti articoli che «erano manifestazione di aperto sostegno, di fiducia e di ammirazione nei confronti di Mussolini e del fascismo», è vero anche che proprio dal 1940 egli sceglie di abiurare la cittadinanza italiana e di abbracciare quella statunitense e, quando Mussolini dichiarò guerra agli Stati Uniti, rifiutò la proposta di rientrare in Italia fino al 1962. Se dunque non del tutto chiaro fu il ruolo che egli esercitò sul suolo statunitense in favore dell’ideologia fascista, di certo non condannò né gli interventi legislativi del 1938 né tantomeno l’attacco nazista alla Francia del 1940. Ricostruzioni utili del suo rapporto con l’America sono rintracciabili in America in pantofole, ne Dal mio terrazzo e in Diario. Uno sguardo attento alla vita dei nostri emigranti è offerto ne I trapiantati. Il testo nato con la volontà di offrire un’analisi storica dell’emigrazione italiana, insiste sulle dolorose condizioni che hanno afflitto successive generazioni di italiani, trapiantati, appunto, negli Stati Uniti per i quali egli auspicava un’assimilazione culturale alla società statunitense. A far esperienza diretta degli Stati Uniti, in quegli anni è anche Emilio Cecchi. Critico letterario e d’arte di raffinata e profonda cultura, Emilio Cecchi non nascose mai la sua vicinanza ideologica al fascismo né la propria amicizia personale con il Duce pur essendo tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali italiani antifascisti promosso da Giorgio Amendola in risposta all’assassinio di Matteotti del 1924 che segnava la fine dello Stato liberale. Traghettatore in Italia della letteratura statunitense che però considerava come una mera costola della più nobile tradizione letteraria dell’Inghilterra, fu uno dei primi ad interessarsi di Melville e di Faulkner. Del 1935 è poi la prima edizione Scrittori inglesi e americani nel presentare gli scrittori statunitensi, il critico riservava loro, sempre, notazioni aspre e pungenti. Per Cecchi lo studio della letteratura statunitense funge da strumento per affermare la superiorità della civiltà europea. La sua avversione per il mito a stelle e strisce è evidente anche nella prefazione alla nota antologia Americana pubblicata a cura di Elio Vittorini. Il disprezzo provato da Cecchi nei confronti della cultura americana è basato su un’esperienza diretta: a differenza di altri americanisti, quali Vittorini e Pavese, che la avevano conosciuta solo sulle pagine dei romanzi letti e tradotti. Egli si era recato negli Stati Uniti tra il 1930 e il 1931 – dove insegnò cultura italiana presso la University of California di Berkeley – e in Messico tra il 1937 e il 1938. Da queste esperienze nacquero Messico e America amara, testi in cui l’autore raccoglie memorie ed impressioni dei suoi due soggiorni. Si tratta di una carrellata di ritratti e quadri pittorici che restituiscono scene di vita quotidiana, fenomeni culturali e politici. Il suo terrore per ogni forma di meticciato umano viene fuori evidente soprattutto nelle scene che ritraggono i negri di Harlem, o gli ebrei del ghetto. Anche Eugenio Montale fu colto dal suo American dreem. Nel 1938, infatti, ormai certo di essere sollevato dalla carica di direttore del “Viesseux” per il suo rifiuto di sottoscrivere la tessera del Pnf e, prima di essere assunto dal “Corriere della Sera”, aveva accarezzato l’idea di trasferirsi negli Stati Uniti dove sperava di poter intraprendere la carriera universitaria. Ad attrarlo verso gli Stati Uniti è anche la sua musa Irma Bradeis. La donna, nell’immaginario dell’autore, incarna l’America e rappresenta per lui uno spazio di libertà sia sul piano privato che su quello politico, ma il suo cuore non è libero. In Italia, infatti, convive con Drusilla Tanzi che lo trattiene presso di sé accecata di gelosia. L’arrivo della guerra farà tramontare il sogno di attraversare l’Oceano. Montale riuscirà a mettere piede sul suolo americano solo nel 1950 quando vi si reca in qualità di inviato del “Corriere della Sera” per documentare il volo inaugurale della linea Roma-New York. Per Eugenio Montale, come per altri intellettuali italiani che mai vi misero piede, l’America rappresentava un “mito positivo”, quella fucina di democrazia e di vitalità che consentiva a chiunque di esprimersi liberamente nelle descrizioni che l’autore ne restituisce, essa è ora più prosaica; non è più la via salvifica, l’ancora di salvezza, ma solo una società che ha precorso i tempi, la meta a cui tutte le società arriveranno. Carlo Levi subito dopo la Grande guerra per tramite dello zio Claudio Treves, esponente di spicco del Partito Socialista Italiano, conosce Pietro Gobetti che lo invita a collaborare con alcune testate da lui fondate quali “La Rivoluzione Liberale” e “Il Baretti”. Levi si avvicina al gruppo “Giustizia e Libertà” in cui milita attivamente. Questa sua presa di posizione lo porterà all’arresto nel 1934, ed al confino a Grassano l’anno successivo e poco dopo in un altro paesino della Lucania, Aliano, dove rimarrà fino al 1936 quando un’amnistia, promulgata sulla scia dell’entusiasmo provocato dalla conquista dell’Etiopia, gli concede la libertà. Nel 1939, a seguito delle leggi razziali è costretto a riparare a Parigi, rientrerà in Italia da clandestino nel 1941. Nel 1963 è senatore nelle liste indipendenti del PCI riconfermandosi nella carica nel 1968. Nel 1967 intanto, aveva fondato la “FILEF – Federazione Italiana Emigrati e Famiglie”. Attraverso quest’organo Levi promuove azioni sociali e politiche e incentiva la nascita di associazioni in grado di difendere i diritti degli emigrati in molti paesi del mondo nel 1945 vede la luce Cristo si è fermato ad Eboli. L’eco degli orrori della Seconda guerra è ancora fortissima, ma siamo anche all’indomani dal ventennio caratterizzato dal regime fascista, e benché il romanzo sia stato composto tra il 1943 e il 1944 quando cioè il regime mussoliniano era ormai caduto, i partigiani continuavano una dura guerra contro l’esercito tedesco e contro i fascisti. Nel testo, l’America è celebrata non solo a livello letterario, ma anche civile e politico, come luogo della libertà, opposto all’immobilismo della dittatura. Il mito americano assume un valore letterario, esistenziale e politico, dinnanzi al provincialismo della cultura italiana autarchica di quegli anni, che propugna i valori eroici, ma vuoti e superficiali, della nazione e dell’italianità. Questo stesso mito americano Levi lo ritrova fra la gente di Lucania, con la quale egli entra in contatto proprio in pieni anni Trenta. Il che la dice lunga sul rapporto dei contadini alianesi con la giovane Italia unita, ancor più in quegli anni di privazioni. Se Roma li ignorava, New York rappresentava la promessa; ma il sogno ha due facce: una per coloro che restano e ricevono le rimesse e gli utensili dal Nuovo Mondo e una per coloro che partono che faticano, che vivono comunque a margine di quella società che li sfrutta e non li integra, i cui figli nati americani non tornano, mentre loro rientrano con l’idea di riabbracciare i parenti e i compaesani e di ripartire, oppure perché irretiti dalla propaganda dei politici italiani che prometteva lavoro e ricchezza per tutti in patria. Nel 1947 Levi parte per New York in compagnia dell’ex Presidente del Consiglio dei Ministri italiano Ferruccio Parri, per partecipare alla Friendship with Italy Week, come rappresentante dell’Italia con lo scopo di ottenere finanziamenti per la ripresa economica e sociale. In quell’occasione Levi partecipa ad una campagna promozionale per l’edizione newyorkese di Cristo si è fermato a Eboli accolta da un enorme successo di pubblico e di critica. L’ottima ricezione dell’opera apre per lui fruttuose collaborazioni con importanti periodici statunitensi, tra i quali “Life”, “New York Times” e “The Reporter”. Il 7 luglio 1947 su “Life” Levi pubblica il suo primo articolo ‘statunitense’: Italy’s myth of America. Il saggio, che recupera alcuni motivi portanti del Cristo si è fermato ad Eboli, presenta Oltreoceano l’Italia degli ultimi, quella dei contadini che aveva conosciuto da vicino e che, per molti aspetti, aveva imparato ad amare, ma introduce subito anche il tema dell’emigrazione dal Sud Italia verso gli Stati Uniti, riassumendone la storia dalle origini al secondo dopoguerra. Nelle menti dei contadini lucani il mito dell’America è un elemento di speranza, è il sogno dell’Eldorado. Insistendo sui simboli ‘magico-religiosi’ già presentati nel Cristo si è fermato ad Eboli, Levi argomenta le ragioni di familiarità dei contadini lucani con il dollaro o con l’ex presidente Roosevelt, le cui immagini, presenti in tutte le case di Aliano, si affiancano a quella della Madonna di Viggiano. I richiami al mito americano, in quella periferica realtà sono persino entrati nel lessico quotidiano di quella gente nell’italianizzazione di termini quali ticchetto o Broccolino, ma anche nelle memorie, nelle abitudini e negli oggetti di chi è tornato. Esiste insomma un’affinità profonda e inaspettata tra la società remota dei contadini lucani e il modernismo esasperato della cultura statunitense, che gli stessi emigrati italiani hanno contribuito a fondare. Se nel romanzo la Madonna di Viggiano è descritta nel ruolo della divinità sotterranea, qui ad essa si sovrappone la Statua della Libertà descritta come la «bianca madonna che porta luce». Qualche anno dopo, però, il fiasco della versione in lingua inglese di Paura della libertà, e la non unanime ricezione de L’orologio, opere attraverso le quali l’autore offre una puntuale riflessione sulla società e sulla politica italiane negli anni del totalitarismo e del dopoguerra, segnano invece un progressivo calo di interesse da parte del pubblico americano e, in contraltare, cambia anche il giudizio che Levi ha di quella società. In alcuni articoli stesi per “La Stampa”, Levi denuncia la folle corsa capitalistica di una società fortemente automatizzata, come argomentato in Le parole sono pietre – andrebbe affrontata, al contrario, non con la fuga, ma con la lotta al sistema feudale e alla ingerenza della Chiesa. Se Cristo si è fermato ad Eboli presenta il mondo contadino lucano come immobile, Le parole sono pietre sprona ad una rivoluzione per la rivendicazione dei diritti dell’uomo. Nel corso degli anni Trenta, numerosi scrittori statunitensi quali, in particolar modo, Melville, Faulkner e Dos Passos, erano stati assunti a modello da alcuni giovani intellettuali italiani, quali Pavese e Vittorini che videro negli autori d’oltreoceano un esempio di vivacità culturale contrapposto al piatto panorama letterario europeo. Partendo da basi squisitamente letterarie, i nostri giovani americanisti che vedevano nella democrazia statunitense un modello politico in grado di contrastare i totalitarismi del vecchio continente, animarono un dibattito ideologico-politico che, accesosi negli anni Trenta, si protrarrà fino alla conclusione del secondo conflitto mondiale. La città di Torino è cornice entro cui si muove Cesare Pavese. Il “sogno americano”, prima ancora che in campo letterario, conquista il giovanissimo Pavese con la musica ed il cinema. Anche l’incontro con la letteratura d’oltre atlantico arriva per Cesare Pavese molto presto, e ancora in età scolare, grazie al suo docente di Italiano e Latino Augusto Monti. Pur fra i promotori della diffusione della letteratura statunitense in Italia di cui tradusse numerosi testi e che traghettò anche attraverso numerosi interventi critici, Pavese non riuscì mai ad attraversare l’Oceano. A differenza di Vittorini, però, per Pavese l’America non rappresentava soltanto l’elemento di rottura tra vecchio e nuovo, ma un pozzo a cui attingere per colmare il vuoto artistico lasciato dal fascismo. Il romanzo americano, come Of mice and men di Steinbeck – per citarne uno tra i tanti – per Pavese mostra un superamento del romanzo verista e al contempo della pomposità dannunziana: una rivoluzione stilistica che non vedeva più il contadino parlare la stessa lingua dell’individuo colto e che per questo conferiva ai testi linfa vitale rendendoli realistici. Il tema dell’emigrazione è affrontato, in prima istanza, dal giovane Pavese agli esordi della carriera letteraria ne I mari del Sud (1930). Il protagonista di questo componimento è ispirato alla figura del cugino Silvio, emigrato all’inizio del Novecento per lavorare come marinaio e ritornato, vent’anni dopo finita la guerra, al proprio paese natio. Quasi vent’anni dopo, all’apice della propria carriera, Pavese ripropone un personaggio simile in una delle opere più significative della sua produzione letteraria, nonché l’ultimo suo romanzo: La luna e i falò, scritto in pochi mesi ed uscito nel 1950. Il protagonista e narratore Anguilla, emigrato in America, con il sogno dell’arricchimento racconta, una volta rientrato nelle sue Langhe di essere stato inizialmente colpito dalla civiltà del democratico paese ospitante. Ben presto, però, Anguilla comprende la vacuità di un mondo effimero fatto di sfolgorante apparenza, al quale sente e sa di non appartenere. Così, al termine del paese, dal nome immaginario, ma che ricorda tanto la sua Racalmuto, il testo offre fedelmente uno spaccato assai realistico della vita dell’entroterra siciliano. Un paese in cui si vive di stenti, un paese di vecchi perché i giovani sono stati costretti ad emigrare. Nel 1958 Sciascia torna su emigrazione e America nel racconto La zia d’America. Siamo nel 1943 e nel piccolo paesino siciliano tutti aspettano lo sbarco dei liberatori e si affrettano a smantellare le insegne fasciste. Dall’America arrivano doni da parte della zia emigrata nel primo dopoguerra mentre lo zio fascista del giovane narratore si rintana in casa impaurito dalla nuova ventata di democratizzazione del paese. Una volta ristabilitasi la situazione politica la zia decide, nel 1948, di rientrare in Sicilia ma capisce ben presto che quella terra non è cambiata e l’abisso che ormai la separa dalla vita della sua fanciullezza non è più colmabile. L’unica persona con la quale riesce ad istaurare un rapporto d’intesa è proprio lo zio fascista al quale propone di seguirla in America e di concedergli la mano della figlia. Ne Il lungo viaggio l’attenzione dell’autore si focalizza sulle truffe organizzate dagli agenti marittimi – rappresentati nella finzione narrativa dal signor Melfa – ai danni di poveri contadini dell’entroterra siculo che, sicuri di poter dare una svolta al proprio misero destino nel Nuovo Mondo dove li attendono parenti e congiunti partiti prima di loro, investono tutti i loro averi o si indebitano con gli usurai per pagare la cifra iperbolica richiesta loro per la traversata. La traversata, a bordo di un’imbarcazione fatiscente, tra puzza di nafta e di vomito, dura undici lunghe notti. Nel corso dell’ultima notte lo “scafista” dopo aver fatto ammirare loro le “mirabolanti” luci della costa del New Jersey, li sbarca, in realtà, sulle rive della Sicilia meridionale. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta Saverio Strati scrittore calabro neutralista. In Mani vuote, scritto tra il settembre del ’58 e il settembre del ’59, presenta la storia, tragica e epica al contempo, di Emilio che conosciamo a partire dagli anni dell’infanzia negata da una realtà fatta di duro lavoro, di miseria e di sopraffazione. Il mondo dei contadini e dei pastori calabresi non è idilliaco, non è la campagna salvifica pascoliana ma piuttosto una realtà fatta di brigantaggio e malavita. Emilio, vuole fuggire da questa terra dura e crudele. Per lui, come per molti altri della sua generazione, il riscatto ha il nome dell’America, di quella terra lontana che promette lavoro e stabilità. Ancora nella raccolta di racconti Gente in viaggio, il tema centrale è l’emigrazione di cui Saverio Strati approfondisce la disumana realtà di chi subisce umiliazioni e la violenza della lontananza e della solitudine. E l’emigrazione sarà ancora il pivot attorno al quale ruotano le trame di Il codardo, di Noi lazzaroni e di Terra di emigranti in cui i protagonisti calabresi sono stati costretti, dalla miseria e dalla mancanza di lavoro, ad abbandonare la casa e il paese natale per recarsi all’estero. Giose Rimanelli, molisano, che decide nel 1943 di allontanarsi dalla misera realtà del suo paese di origine finendo poi per arruolarsi tra le fila dei repubblichini. Dopo la Guerra e dopo aver scelto un lungo vagabondaggio intellettuale in diverse città italiane ed europee, dopo essersi avvicinato agli ambienti antifascisti, insofferente di fronte al sorgere del nuovo pensiero unico, ora di sinistra, a cui si piega la maggior parte degli intellettuali, nel 1960 non trova altra via se non quella di allontanarsi di nuovo dalla sua terra di origine e di emigrare prima in Canada per due anni e poi negli Stati Uniti. Queste sue esperienze sono narrate in Tiro a piccione un’opera che divenne presto un best seller in America. L’emigrazione quasi sempre legata al Canada, è il filo conduttore di gran parte della sua produzione letteraria. Il tema dell’emigrazione è al centro della narrazione del successivo Peccato Originale, romanzo scritto fra il 1945 e il 1946 che narra le vicende di una famiglia di emigranti molisani e delle difficoltà del vivere quotidiano che costringono molti italiani ad allontanarsi per sempre dalla propria casa in cerca di un futuro più solido. Si tratta del ritratto di una realtà sociale mortificata e immobile nei confronti della quale l’autore sembra provare un senso di rivolta. La fabula è incentrata sulla famiglia Vietri, composta dal padre Nicola, dalla madre Ada e dalle due figlie, Michela e una bimba muta di otto anni di nome Sira. La famiglia è in attesa di ottenere il permesso per poter espatriare. Michela viene chiesta in moglie da Ramorra, guardiano delle terre del cavaliere Scipioni, ma il padre, prendendo a pretesto la troppo giovane età della figlia, nega il consenso. Durante la notte di San Francesco, in occasione di un ballo in casa Scipioni, Ramorra si vendicherà del rifiuto e, con l’aiuto di due amici, progetta di rapire e violentare la ragazza. Lo stupro, in realtà non avrà luogo a causa di un litigio fra i tre uomini. Michela, benché inviolata, è considerata disonorata. Nicola Vietri, avendo già deciso di trasferirsi in America rinuncia alla vendetta che sarà tuttavia consumata poi da due donne che evireranno Ramorra in un vicolo. In Peccato originale, la famiglia è un segmento narrativo fondamentale, esercita un campo magnetico atavico, che lega tutti i membri in un rapporto di interdipendenza per cui l’assenza di uno crea uno scompenso letale. Che si tratti di quella di origine o di una sorta di clan allargato, l’importante è che ci sia un gruppo di appartenenza, un riferimento, un nodo profondo che colloca l’io narrante al di sopra di qualsiasi altro personaggio, che lo stabilizza come identità al di sopra dei dubbi e delle messe in discussione. La famiglia è sinonimo di radici, è un punto fisso imprescindibile. Biglietto di terza ripercorre l’esperienza del viaggio in Canada dell’autore. Egli si imbarca in un piroscafo da Napoli alla volta del Canada. Anche in questo testo la famiglia costituisce il punto di arrivo e di partenza di un viaggio. C’è la discrepanza tra i fratelli che in Canada abbracciano le fazioni linguisticamente contrapposte tra francese e inglese, fino a giungere all’interlingua della madre che ritorna in patria da emigrante dopo tutti gli anni trascorsi in Italia. Poi vi è il ricongiungimento con la famiglia di origine della madre che, solo nominalmente, è composta da consanguinei, ma a cui si è legati. Tra le pieghe della trama Rimanelli non rinuncia a palesare il proprio stupore davanti all’efficienza del paese di accoglienza ammirando in particolare la capacità di fronteggiare ogni evenienza meteorologica, grazie ad attrezzature d’avanguardia e alla disponibilità economica del governo canadese. Negli Stati Uniti degli anni Sessanta è, invece, ambientato il testo di Tragica America. L’opera ripercorre i primi anni trascorsi dall’autore negli Stati Uniti. Per Rimanelli l’America è una terra di libertà alla quale sarà sempre grato; un terra che lo ha accolto e che ha riconosciuto le sue doti di letterato e di intellettuale più di quanto non avesse fatto l’Italia. Ancora negli Stati Uniti è ambientato anche Benedetta in Guysterland scritto a New York nel 1970 ma pubblicato solo ventitré anni dopo a Montréal, città natale della madre dell’autore. Qui Rimanelli narra la storia di una donna ossessivamente affascinata dalla mafia, dal sesso e dalla violenza. Il testo ripercorre i più classici stereotipi sulle relazioni tra la mafia italiana e quella statunitense esemplificate nel testo nella storia amorosa che lega la protagonista al mafioso Joe Adonis. In anni più recenti Rimanelli torna a riflettere ancora sul problema dell’emigrazione in Familia: memoria dell’emigrazione, vero e proprio viaggio nella memoria in cui il discorso sulle emigrazioni, da personale si fa corale per esprimere quel sentimento che accomuna tutti coloro che sono stati costretti a lasciare il proprio paese. Toccherà invece a Pier Paolo Pasolini di mettere in luce i rapporti tra resistenza ed emigrazione ne Il sogno di una cosa. Qui l’autore evidenzia un nuovo “modello” di emigrazione: quella esplosa a seguito del boom economico. Il nocciolo della questione però non muta; il miracolo economico non risolve i conflitti sociali né attenua ferite e sofferenze che, seppur in condizioni diverse, restano alla base di ogni emigrazione. 1981 Salvatore Mignano scrive Il tempo di Peter. La vicenda è ambientata nel 1944. Peter, il giovane figlio di uomo emigrato negli Stati Uniti, conoscerà il padre solo quando questi sbarcherà in Italia con l’esercito americano. Affascinato dalla figura paterna, il ragazzo vorrebbe seguirlo e partire con lui. Il padre, però, in una lingua mista tra dialetto, italiano e inglese, lo convince a rimanere e a rinviare la partenza a quando avrà completato gli studi. Il definitivo rientro del padre, nel 1948, farà tramontare per Peter il sogno di raggiungere quel lontano mondo. 1991 Rodolfo Di Biasio con I quattro camminanti e Il pacco dall’America2, in questo romanzo mette in scena la storia di emigrazione di quattro fratelli, Peppino, Geremia, Repossi e Adolfo, partiti per il nuovo mondo, in tempi diversi, tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, e per altrettanto diverse destinazioni. Se Peppino e Geremia sono costretti a partire in seguito al tracollo della situazione finanziaria del padre e si troveranno ad affrontare il disastro di Wall Street del 1929, Repossi e Adolfo saranno spinti verso il nuovo Mondo dal sogno dell’Eldorado Andrea Camilleri in Being her. La storia ruota intorno ad un anziano signore che si presenta nell’ufficio del commissario Montalbano per lamentarsi di non riuscire ad ottenere un appuntamento dal sindaco di Vigàta. Per quanto l’uomo parli un italiano grammaticalmente perfetto, il commissario si accorge che è straniero: cogliendo la perplessità di Montalbano, l’uomo spiega di essere cittadino americano, ma nato a Vigàta e, aggiunge, vi è anche morto! La natura paradossale della sua affermazione fa scattare un andamento narrativo pirandelliano, chiaramente ispirato a Il fu Mattia Pascal. L’uomo, Carlo Zuccotti, è un siciliano nato da genitori del Nord, ma cresciuto in Sicilia. Durante il secondo conflitto mondiale viene fatto prigioniero in Africa e deportato in Texas. Avvia una fortunata carriera accademica e forma una famiglia. Adesso, dopo la morte della moglie e del figlio, ha deciso di ritornare a Vigàta. Tuttavia, tutti i suoi amici di un tempo sono ormai scomparsi, ed egli stesso risulta ufficialmente defunto. A causa di un errore, la stele commemorativa dei caduti in combattimento lì al centro della piazza di Vigàta, porta anche il suo nome. Di qui, il desiderio di incontrare il sindaco e di chiedergli la cancellazione del nome dalla lista del monumento. Di fronte ad una vita ormai svuotata, il Signor Zuck, malgrado la telefonata con cui Montalbano gli comunica che il sindaco è adesso disposto a vederlo decide di spararsi: il commissario, intuendo le intenzioni dell’anziano vigatese, cerca di fermarlo correndo all’hotel, ma scopre che «il sindaco non avrebbe dovuto affrontare la spesa di rifare la lapide». Malgrado il suo status sociale di privilegio, il Signor Zuck è protagonista di una storia di emigrazione fallita tragicamente. La rimozione pubblica dalla storia, un fatto reso con ironia dall’inclusione tra i caduti in guerra, e l’emblematica morte per suicidio mostrano in sostanza la fragilità della condizione dell’emigrato e la sua non-appartenenza proponendo una lettura letteralmente invertita dell’emigrazione. Maruzza Musumeci, pubblicato come romanzo breve nel 2007, segue l’avventura americana di Gnazio Manisco, bracciante abbandonato dal padre che, stanco di sentirsi chiamare pidocchio dal padrone, s’imbarca per gli Stati Uniti, malgrado la sua fobia per l’acqua. A New York farà il muratore e il giardiniere e, dopo venticinque anni di lavoro, ritornerà al paese natio. Sullo sfondo si susseguono i grandi eventi della storia dal Fascismo alla Seconda guerra mondiale. All’inevitabilità dell’andata si sostituisce un ritorno per certi versi necessario – la vita a New York si era fatta pericolosa per Gnazio – ma anche scelto, per il desiderio di farsi seppellire accanto ad un ulivo saraceno. Il re-inserimento è carico di stranezze e al tempo stesso foriero di gioie: la condizione di liminalità dell’emigrato non costituisce ostacolo al rientro, ma diventa un’occasione di esplorazione delle novità proposte dalla vita, di accettazione della diversità (figli che parlano altre lingue, amano le stelle, studiano). Il suo ritorno, nel farsi materia narrativa, s’intreccia al mito di Ulisse per poi prendere nuove forme con la figura del figlio Cola, mezzo uomo e mezzo pesce (come Colapesce, il protagonista dell’antica leggenda siciliana), che inabissandosi nel mare segue le orme letterarie dell’ellenista Rosario La Ciura del racconto di Tomasi di Lampedusa (La sirena), così come dell’avvocato Motta di Mario Soldati (La verità sul caso Motta). Nella chiusa del testo, Camilleri introduce un altro ritorno: quello di un giovane soldato statunitense, Steven, che giunge in terra siciliana nel 1943 per
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